00 21/08/2015 22:06
  Se non ci sono più preti non piange quasi più nessuno. È questa la triste constatazione che ci tocca fare.
Assistiamo alla più grande crisi sacerdotale della storia della Chiesa, intere terre in Europa sono ormai senza sacerdote e tutto tace. Non sentirete nemmeno un vescovo gridare all'allarme, piangere con i suoi fedeli, domandare a tutti una grande preghiera per le vocazioni sacerdotali; intimare un digiuno e una grande supplica perché il Signore abbia pietà del suo popolo.

Sentirete, questo sì, vescovi e responsabili di curia descrivere i numeri di questo calo vertiginoso di presenza dei preti nella Chiesa, li sentirete elencare i dati pacatamente, troppo pacatamente, in modo distaccato, come se fosse una situazione da accettare così com'è, anzi la chance per una nuova Chiesa più di popolo.
Nella nostra terra italiana, terra di antica cristianità, assisteremo in questi prossimi anni alla scomparsa delle parrocchie, allo stravolgimento, impensabile fino a qualche anno fa, della struttura più semplice del Cattolicesimo, di quella trama di comunità parrocchiali dove la vita cristiana era naturale per tutti... ma l'assoluta maggioranza dei cattolici impegnati farà finta di niente, perché i pastori hanno già fatto così.
È un “cataclisma”, un “terremoto”... ma nessuno piange, si fa finta di niente.

Si fa finta di niente, perché bisogna che la favola della primavera del Concilio continui. Ci si sottrae a qualsiasi verifica storica, si nega l'evidenza di una crisi senza precedenti.
E si prepara un futuro che ci sembra poco cattolico.

Sì, perché si parla di “ristrutturare” l'assetto delle comunità cristiane, di fare spazio ai laici (come se in questi anni non ne avessero avuto a sufficienza), si inventa un nuovo genere di fedeli cristiani che diventeranno gli addetti delle parrocchie, che di fatto sostituiranno i preti. Fedeli laici “clericalizzati”, un nuovo genere di preti che terranno le chiese... e nell'attesa di una qualche messa predicheranno loro, come cristiani adulti, il Verbo di verità...
...ma nessuno piange, nessuno prega gridando a Dio.
Forse non gridano perché da anni qualcuno ha preparato questo terremoto nella Chiesa.
Hanno svilito il sacerdozio cattolico, trasformando i preti da uomini di Dio ad operatori sociali delle comunità. Hanno ridotto loro il breviario e la preghiera, gli hanno imposto un abito secolare per essere come tutti, gli hanno detto di aggiornarsi perché il mondo andava avanti... e gli hanno detto di non esagerare la propria importanza, ma di condividere il proprio compito con i fedeli, con tutti.

E come colpo di grazia gli hanno dato una messa che è diventata la prova generale del cataclisma nella Chiesa: non più preghiera profonda, non più adorazione di Dio presente, non più unione intima al sacrificio propiziatorio di Cristo in Croce, ma cena santa della comunità. Tutta incentrata sull'uomo e non su Dio, tutta un parlare estenuante per fare catechesi e comunità.

Una messa che è tutto un andirivieni di laici sull'altare, prova generale di quell'andirivieni di signori e signore che saranno le nostre ex parrocchie senza prete.

E con la messa “mondana”, hanno inculcato la dottrina del sacerdozio universale dei fedeli... stravolgendone il significato. I battezzati sono un popolo sacerdotale in quanto devono offrire se stessi in sacrificio, in unione con Cristo crocifisso, offrire tutta la loro vita con Gesù. I fedeli devono santificarsi: questo è il sacerdozio universale dei battezzati. Ma i fedeli non partecipano al sacerdozio ordinato che è di altra natura, che conforma a Cristo sacerdote.
E’ attraverso il sacramento dell’Ordine che Cristo si rende presente nella grazia dei sacramenti. Se non ci fossero più preti sarebbero finite sia la Chiesa che la grazia dei sacramenti.

Martin Lutero e il Protestantesimo fecero proprio così: distrussero il sacerdozio cattolico dicendo che tutti sono sacerdoti: sottolineando appunto il sacerdozio universale, il laicato.

Nella pratica della ristrutturazione delle parrocchie forse si finirà così: diverso sarebbe stato affrontare questa crisi con nel cuore e nella mente un'alta stima del sacramento dell'ordine, sapendo che il prete è uno dei doni più grandi per la Chiesa e per il popolo tutto; ma così non è: si affronterà questa crisi dopo anni di protestantizzazione e di relativizzazione del compito dei preti. Si affronterà questa crisi dopo anni di confusione totale nella vita del clero; dopo anni di disabitudine alla messa quotidiana e alla dottrina cattolica: così i fedeli faranno senza il prete, anzi già fanno senza. E quando un prete arriverà, non sapranno più che farsene, abituati a credere che il Signore li salva senza di loro e i loro sacramenti.

A noi sembra ingiusto far finta di niente.

Per questo chiediamo ai nostri fedeli di pregare con forza perché il Signore torni a concedere, come un tempo, tanti sacerdoti alla sua Chiesa. Cari fedeli abbiamo il coraggio di chiedere, anche con le lacrime, questa grazia al Sacro Cuore di Gesù e al Cuore Immacolato di Maria.
E teniamo come dono preziosissimo la Messa di sempre, la Messa della tradizione, che sola saprà dare nuovi preti alla Chiesa di Dio.

(Don Alberto Secci - radicatinellafede.blogspot.it)

  LA MESSA DELL'ASSEMBLEA CULLA L'AGNOSTICISMO
Editoriale "Radicati nella fede" - Anno VIII n° 8 - Settembre 2015

Ciò che non c'è più nella Messa, scompare inevitabilmente anche dalla vita cristiana. È solo questione di tempo, e nemmeno molto.

Così è stato con l'ultima riforma liturgica: i “vuoti” del rito sono diventati “vuoti” del nuovo cristianesimo.
Ne vorremmo sottolineare uno tra tutti: la scomparsa del submissa voce per il prete, che corrisponde all’assenza del silenzio per i fedeli. Ci sembra questo uno dei punti che più evidentemente indicano un cambiamento radicale nel rito cattolico. D'altronde è questo che soprattutto appare come scandaloso, per i fedeli che oggi si imbattono nella Messa tradizionale: le lunghe parti in cui il sacerdote, specialmente nel canone, pronunciando le parole sottovoce, non fa sentire alcunché ai fedeli, obbligandoli al silenzio.
Più volte abbiamo constatato che è questo a far problema, più dell'uso del latino.

Eppure questo è un aspetto determinante, che se eliminato, cambia tutto non solo nella messa, ma nel cristianesimo stesso.

Il submissa voce, il sottovoce per il prete e il corrispondente lungo silenzio per i fedeli, “incastra” prete e fedeli alla fede, senza appoggi umani. Il sacerdote all'altare deve stare di fronte a Dio, ripetendo sottovoce le parole di Nostro Signore, rinnovando il Sacrificio del Calvario. È un rapporto diretto, personale, intimo con Dio; certo mediato dalla consegna della Chiesa, che custodisce e trasmette le parole che costituiscono la forma del sacramento, ma che in quell'istante non si posa sull'umano della Chiesa, ma sul miracolo della grazia. Così facendo il prete, nel rito tradizionale, immediatamente insegna ai fedeli che ciò che conta è Dio stesso, la sua azione, la sua salvezza, e che queste ci raggiungono personalmente.

La nuova messa non è così, è tutta comunitaria. Il prete in essa, oltre ad essere tutto rivolto ai fedeli, opera come colui che narra ai fedeli ciò che il Signore ha fatto nell'ultima cena: racconta ai fedeli le parole e i gesti del Signore, così che l'azione sacramentale che ne scaturisce appare tutta mediata dall'attenzione che questi ultimi vi devono mettere. Scompare così per il prete il rapporto personalissimo con Dio nel cuore della messa cattolica, il canone, sostituito da questo estenuante rapporto con chi è di fronte all'altare. La nuova forma della messa comunitaria ha così trasformato il sacerdote, gettato in pasto all'attivismo più sfiancante, che è quello di farsi mediare la fede e il rapporto con Dio sempre dai fedeli. La nuova messa ha prodotto un nuovo clero non più aiutato a stare con Dio, non più ancorato all'atto di fede.

Il continuo dialogo nella messa, tra sacerdote e assemblea, ha anche modificato la concezione di Chiesa: oggi pensiamo la Chiesa come nascente dal basso, dal battesimo e quindi dal popolo cristiano; non la pensiamo più come realmente è, nascente dall'alto, da Dio, dal sacramento dell'Ordine. Chi pensa che la Chiesa sorga dal battesimo, non sopporta più quel prete all'altare, che sottovoce pronuncia le parole che costituiscono il miracolo del sacramento.

Anche i fedeli sono direttamente rovinati dal nuovo rito perché, continuamente intrattenuti dal parlare del prete, hanno disimparato anch'essi a stare di fronte a Dio. Così Dio stesso si trova sostituito dall'assemblea celebrante, che diventa ingombrante ostacolo nell’educazione al personale atto di fede.

In questi ultimi tempi si è tentato nella messa moderna di correre ai ripari, cercando invano di reintrodurvi un po' di silenzio, collocato dopo la lettura del Vangelo, ma anche questo espediente rivela la gravità della nuova posizione. Questo silenzio reintrodotto, solitamente brevissimo, è un silenzio di riposo umano, di meditazione: esso è di tutt'altra natura rispetto a quello prodotto dal submissa voce. Il submissa voce produce un silenzio che avvolge il rapporto intimo del sacerdote con Dio, che dà la sua persona affinché accada l'azione divina che salva. Il silenzio del submissa voce è incentrato sull’azione di Dio e non sulla meditazione dell’uomo, ed è uno dei più grandi richiami al primato della vita soprannaturale, al primato della grazia.

Non c'è nulla da fare, occorre tornare alla Messa di sempre, per tornare alla centralità dell’atto di fede, personale risposta all'azione di Dio.

Sacerdoti e fedeli non possono resistere di fronte al mondo, se non sono costituiti in forza da questo rapporto personalissimo, che nessuna assemblea può sostituire.

L'alternativa? Un agnosticismo pratico, un dubbio di fede pratico, un sospeso dell'anima, riempito dalle parole di un'assemblea che intrattiene per non far pensare.

Osiamo dirlo: la nuova messa, tutta ad alta voce, tutta narrazione e predica, ha cullato i vari agnosticismi, dei preti e dei fedeli, non fermando il dramma dell'apostasia, cioè dell'abbandono pratico della vita cristiana. Ha illuso, dando, nel migliore dei casi, un po' di calore umano a buon mercato, diseducando a una posizione di fede vera, assolutamente necessaria per attraversare la battaglia di questa vita.

Torniamo alla Messa tradizionale, prima palestra del cristianesimo, quello vero.





Una pastorale senza dottrina? No, grazie

da “Studi Cattolici” marzo 2014 - di mons. L. Negri

05/03/2014

Credo che sia innegabile, almeno per le persone dotate di buon senso, ancor prima e più profondamente che di un’autentica coscienza ecclesiale, che la Chiesa e la società vivono un periodo di estrema confusione. Epoca in cui posizioni diverse, il più delle volte senza adeguate motivazioni, vengono affermate come posizioni oggettivamente valide e pertanto indiscutibili. In questo intreccio di banalità, di veri e propri tradimenti nei confronti della tradizione teologica e magisteriale, di irruzione dei mass media in cui, come metteva in guardia tanti anni fa il Papa Paolo VI, la mentalità laicista tenta di dettare le linee interpretative
della fede e dei suoi contenuti fondamentali, si rende necessario e doveroso indicare alcune linee di riflessione e di approfondimento. 

- Prima osservazione.

Riguarda la contrapposizione fra dottrina e pastorale, con una scelta che si porrebbe come esclusiva della pastorale nei confronti della dottrina. Questa distinzione, e divisione, non ha alcun fondamento di carattere magisteriale e neppure teologico. L’evento cristiano è un evento di vita, e quindi di dottrina, perché è la presentazione della verità di Dio e quindi della verità dell’uomo che, fin dai primi tempi, ha assunto una precisa modalità d’essere affermata e comunicata.
Basterebbe ricordare il peso enorme che, nei primi secoli del cristianesimo, ha avuto la forte interrelazione tra dottrina e pastorale nelle professioni di fede delle varie Chiese locali e il loro influsso sulle grandi prese di posizione conciliari nei primi sette secoli della Chiesa, poi sviluppatesi nel magistero ordinario del Papa e dei Vescovi.
Il problema è che il cristianesimo non è una verità, ma vive e propone la verità, che non è soltanto recepita intellettualmente ma, in quanto accolta esistenzialmente, diventa un movimento di vita. 

La pastorale sta alla dottrina come l’accoglimento della verità, la sua custodia, la sua maturazione critica; è il tentativo di rendere vitale la verità che la dottrina proclama nella dimensione personale, famigliare e sociale. Mi piacerebbe chiedere a qualcuno dei fautori di questa distinzione e separazione netta fra dottrina e pastorale: su che cosa si fonderebbe la pastorale se non si fonda più sulla dottrina? Perché sembra non debba più fondarsi, pena il consegnarsi a una posizione ideologica e quindi superata della Chiesa.
Su che cosa si fonderebbe questa pastorale? Che è come chiedersi, in perfetta analogia, su che cosa si fonda l’etica se non sulla verità? Se non si fonda sulla verità, la pastorale si fonderà allora su ciò che l’ideologia mondana suggerisce o propone come indiscutibile.

In alcune di queste posizioni «teologiche» (e scriviamo teologiche 
con un misto di sgomento e di tendenza alla comicità) chi legge ciò che sta dietro questi suggerimenti, che devono essere innovativi perché di rottura con tutto quello che si è praticato finora, si accorge che il retroterra è il massmediaticamente corretto, ovvero ciò che è sentito giusto statisticamente dalla maggioranza, anche quando è una maggioranza costruita falsamente attraverso le pressioni invasive dei mass media. Questo è ciò su cui la pastorale, e ogni attività di carattere pratico, deve misurarsi. È chiaro dunque che il fondamento dell’azione che dovrebbe nascere dalla fede, nasce invece dall’ideologia mondana. Tutt’altra è stata per secoli l’esperienza della Chiesa: la verità si protendeva nella pastorale. 

San Carlo Borromeo definiva il vescovo, il pastore della Chiesa, colui che doveva vivere e proporre la carità
pastorale verso il gregge; che cura il popolo, la sua maturazione culturale, morale, la sua educazione
piena e integrale, in cui la personalità cristiana e quella umana si sintetizzano adeguatamente.
Questo credo sia un dato della tradizione che certamente non deve essere ripetuto pedissequamente, ma non deve essere né distrutto e né superato in modo insensato.

- Seconda osservazione. 

Certamente la Chiesa nello svolgere la sua attività, che è insieme dunque dottrinale e pastorale, deve misurarsi con la realtà obiettiva non tanto del mondo – termine su cui occorrerebbero distinzioni che purtroppo non si fanno più e che quindi rendono del tutto convenzionale e quasi equivoco farvi riferimento – ma, come ci ha ricordato bene il Concilio Vaticano II rinnovando un insegnamento permanente, con i problemi reali degli uomini che vivono in una determinata situazione e che sono coinvolti, consapevolmente o meno, in opzioni di carattere culturale e soggetti a forti pressioni ideologiche.

A questo proposito che la famiglia sia stata sottoposta negli ultimi decenni a un tipo di pressione di carattere ideologico, che di fatto ha teso a snaturare la sua identità, la sua immagine nella Chiesa e nel mondo, è certamente un dato da tenere in considerazione. Non si può pertanto riproporre la dottrina come se non fossero avvenute tali trasformazioni. La riproposizione dell’immagine della famiglia nella sua integralità, comporta un necessario dialogo vivo e capace di assumere le attuali problematiche della vita sociale. Quale che sia la situazione non è mai un valore ma è una sfida ai valori, e i valori – in questo caso per esempio l’immagine cristiana cattolica di famiglia, in cui si realizza pienamente la famiglia naturale – devono essere in grado di ricevere tutte le sfide del nostro tempo, e dunque riproporre oggi il permanente insegnamento di Cristo e della Chiesa sulla famiglia in un modo che riesca il più possibile a rispondere alle problematiche nuove, e talora devastanti, che gli uomini incontrano in tale àmbito.

Percorrere un’altra strada, come viene proposto di fare, avrebbe semplicemente il carattere di un tradimento del cristianesimo. Il cristianesimo non dipende dalla situazione ma investe, dialoga, qualche volta si oppone alla situazione ma solo per rendere possibile l’annunzio di Cristo e la comunicazione della vita cristiana. Se invece si tentasse in qualsiasi modo di sottoporre la dottrina cristiana al gradimento della situazione, o delle forze ideologiche che manipolano la situazione, si opererebbe ancora una volta un tradimento del cristianesimo a vantaggio della mentalità mondana anticattolica.

Il grande filosofo Jean Guitton in uno straordinario libro Il Cristo dilacerato. Crisi e concili nella Chiesa, scritto nelle more della prima sessione del Concilio Vaticano II, a cui partecipava come invitato, afferma che ogni generazione cristiana si è trovata di fronte alla grande sfida: è la fede che giudica il mondo o il mondo che giudica la fede? Tutta la confusione di oggi nasce dal fatto che in spazi sempre più vasti e talora inaspettati della ecclesiasticità sembra si stia dando nuova forma alla grande tentazione ariana e gnostica.
«La gnosi è la madre di tutte le eresie» dice sempre Guitton, ossia la tentazione di sottoporre la fede al mondo anziché investire il mondo della luce pacificante che trasforma la realtà, secondo l’insegnamento della prima enciclica di Papa Francesco Lumen Fidei.

- Infine una velocissima precisazione. 

Il mondo, inteso evangelicamente e secondo la tradizione magisteriale autentica della Chiesa, è una realtà che ha una sua complessità e che contiene germi di contraddittorietà. C’è il mondo che è aperto al mistero, al trascendente e non esclude nessuna possibilità, esercita la ragione come domanda del vero, del bene, del bello e del giusto non in opposizione o eliminando il mistero. Sul filo di questo mondo, che cerca anche senza saperlo o senza esserne cosciente fino in fondo, aleggia la grande idea che la rivelazione è una possibilità che la ragione non può legittimamente escludere.

Il mio grande maestro di metafisica, Gustavo Bontadini, diceva che il pensiero è vero quando realizza l’escludenza delle escludenze, ossia quando non esclude nessuna possibilità.
Ma c’è anche un mondo che ha preso una decisione, consapevole o meno, contro Cristo e contro la Chiesa e vive quindi per eliminare la presenza di Cristo e della Chiesa dal mondo stesso. Il mondo non può essere trattato, nel nostro impegno pastorale, come se fosse il mondo che aspetta Cristo e neanche come se fosse esclusivamente il mondo che rifiuta Cristo.

Fare una scelta esclusiva in questo senso è assolutamente banale e rende la presenza cristiana culturalmente insignificante, perché o la chiude al mondo, e la isola fuori della vita concreta e storica dell’umanità, o la dissolve nella realtà mondana, come se la presenza della Chiesa dovesse consistere nella sua auto-dissoluzione. Io rinnovo nel mio cuore la gratitudine per i grandi maestri di teologia che ho avuto negli anni indimenticabili del mio seminario a Venegono, a contatto con una delle più grandi scuole teologiche della Chiesa del XIX e XX secolo.










[Modificato da Caterina63 07/09/2015 14:14]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)