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  Questi richiami non sono solo di carattere disciplinare o spirituale: essi si radicano nella più attenta considerazione di fede, quindi dogmatica, del mistero della remissione dei peccati. Il perdono delle colpe degli uomini, infatti, si colloca al centro della dottrina soteriologica rivelata dalla Scrittura e dalla Tradizione Apostolica, in particolare per quanto attiene al tema dell’espiazione e del merito di Cristo. La Lettera agli Ebrei (cf. capp. 9–10) raccorda la ritualità cultuale del Tempio di Gerusalemme con il sacrificio della croce di Gesù, notando diversi aspetti paralleli, ma anche e soprattutto facendo risaltare le differenze, dovute al rapporto tipologico tra i due Testamenti, che implica continuità ma anche superamento di ciò che è incompleto e provvisorio, in favore di quanto è perfetto e definitivo. La liturgia dello Yom Kippur, del grande Giorno dell’Espiazione previsto dal calendario ebraico e celebrato ritualmente nel Tempio gerosolimitano, presenta – secondo l’autore di Ebrei – notevoli affinità con la morte di croce di Cristo. In particolare l’affinità è teologica, più che rituale, perché in entrambi i casi il fulcro dell’azione consiste nei concetti teologici di sacrificio e di espiazione, ossia di purificazione dal peccato.

La liturgia del Tempio intendeva garantire, una volta l’anno e in modo solenne, il lavacro rituale dei peccati commessi dal popolo. Allo scopo, all’immolazione della vittima e all’allontanamento nel deserto del capro espiatorio o emissario, come previsto dal Libro del Levitico (cf. cap. 16), faceva seguito l’ingresso del sommo sacerdote davanti alla Presenza divina, nel Sancta Sanctorum – unica occasione in cui al sommo sacerdote era consentito pronunciare il Nome divino, costituito dal tetragramma rivelato a Mosè e usualmente reso con «Io sono Colui che sono» (Es 3,14-15). Entrando nel santuario, come si ricorda, il sommo sacerdote recava con sé il sangue della vittima e ne aspergeva il kapporet, ossia il propiziatorio, come veniva chiamato il coperchio dell’arca. La radice ebraica delle parole kippùr (espiazione) e kapporèt(propiziatorio) raccoglie i significati di “perdonare” e anche di “coprire”. La connessione è piuttosto evidente. Come la parte superiore dell’arca fungeva anche da coperchio di essa, per il fatto che venisse aspersa dal sangue purificatore della vittima poteva a buon titolo essere chiamata anche propiziatorio, dato che il sangue versato in sacrificio rendeva di nuovo Dio propizio al popolo – finalità, questa, che appartiene ai significati anche puramente antropologici dei riti sacrificali di qualunque religione.

Dio, dunque, attraverso quel rito, copriva i peccati compiuti dagli israeliti nell’arco dell’intero anno, il che vuol dire che purificava il popolo dal peccato, rendendolo di nuovo puro. Tale rito, però, doveva essere ripetuto di anno in anno. La Lettera agli Ebrei nota, al riguardo, che il sacrificio di Cristo in croce è avvenuto, al contrario, una sola volta. Esso è infatti sovrabbondantemente efficace per purificare i peccati non solo di un anno, né solo di un popolo particolare quale era Israele. Il vero sacrificio di Cristo possiede l’efficacia di purificare gli uomini di tutti i luoghi e di tutti i tempi. Questo innanzitutto perché Cristo – come avvisa il Prologo della medesima Lettera – non è solo uomo, ma è la divina irradiazione della gloria del Padre e la divina impronta della sua sostanza (cf. Eb 1,3). Ciò che avviene nella carne di Cristo, dunque, non è opera solo umana, ma opera del Dio-uomo. In secondo luogo, continua Ebrei, Gesù non è entrato in un santuario terreno, fatto da mani d’uomo, che è solo figura di quello vero. Cristo, morto e risorto, è entrato nel santuario celeste, recando con Sé i meriti della sua Passione e assidendosi alla destra della Maestà del Padre. Che le cose stiano esattamente in questi termini lo insegna, infine, ancora una volta la stessa Lettera, precisando che Cristo è penetrato nel santuario celeste non portando il sangue altrui, ma il proprio: questo vuol dire che Cristo è asceso al Cielo dove offre perpetuamente al Padre il frutto del suo sacrificio redentore.

È da notare che la Lettera agli Ebrei, nel parlare del sacrificio compiuto da Gesù, riconosce in Lui il vero sommo sacerdote della nostra fede e attesta che Cristo diventò Sommo Sacerdote per espiare (verbo greco hilàskestai) i peccati del popolo (Eb 2,17). Per comprendere appieno la portata di questo termine greco, converrà richiamare altri brani del Nuovo Testamento, provenienti dal Corpus Johanneum e da quello Paulinum. San Giovanni, nella sua Prima Lettera, utilizza il termine greco hilasmòs, per indicare Cristo in quanto Egli è vittima di espiazione. Scrive l’Apostolo:

[Cristo] è vittima di espiazione [hilasmòs] per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo. (1Gv 2,2)

Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione [hilasmòs] per i nostri peccati. (1Gv 4,10)

Dal canto suo, san Paolo dice di Gesù: «È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione [hilastèrion], per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati» (Rm 3,25). È da notare che i termini greci usati dai due Apostoli (hilasmòs hilastèrion) fanno riferimento alla radice ebraica da cui provengono le voci kippùr kapporèt. In particolare, il greco hilastèrion traduce l’ebraicokapporèt, che – come si è detto – indica il propiziatorio, ossia il coperchio dell’arca. Paolo e Giovanni, in conclusione, si trovano perfettamente concordi con la Lettera agli Ebrei, vedendo in Cristo l’unico vero strumento di espiazione per i peccati di tutto il mondo.

A questo riguardo, non sarà fuori luogo sottolineare ancora il carattere universale della redenzione di Cristo, unico Salvatore del genere umano, che comporta, tra l’altro, il fatto che anche la remissione dei peccati può essere universale, ossia totale, come pure implica che Cristo è capace di redimerci da ogni colpa, sia dal peccato originale, sia da quelli attuali. Ciò viene espresso da sant’Agostino in questi termini:

 

Da Adamo, nel quale tutti peccammo, non abbiamo tratto tutti i nostri peccati, ma solo quello originale; viceversa da Cristo, nel quale veniamo tutti giustificati, non riceviamo solo la remissione del peccato originale, bensì anche di tutti gli altri che abbiamo aggiunti a quello. Perciò non è accaduto per il dono di grazia come per il peccato di uno solo [Rm 5,16]Il giudizio infatti può condurre alla condanna anche per un solo peccato se non viene rimesso, cioè per il peccato originale; la grazia al contrario conduce alla giustificazione rimettendo molti peccati, cioè non solo quello originale, ma anche tutti gli altri (De peccatorum meritis et remissione et de baptismo parvulorum, 13, 16).

 

Attraverso questi brevi richiami biblici e patristici, ho voluto fare cenno alla radice teologica profonda di quanto professiamo quando diciamo “Credo la remissione dei peccati”: tale remissione, perdono o purificazione si fonda innanzitutto e principalmente sul merito redentore di Cristo e non in una qualsivoglia – per quanto lodevole – iniziativa umana.

Il sacramento della Penitenza, come da sempre insegna la Madre Chiesa, non consiste principalmente in un colloquio tra sacerdote e fedele (anche se c’è un ampio spazio di paternità da poter e da dover esercitare in confessionale).
La Confessione sacramentale è, però, innanzitutto rinnovamento dell’efficacia del sacrificio di Cristo
per un’anima che, pentita, invoca il perdono divino.

Nel sollevare la mano benedicente e nel pronunciare la prescritta formula di assoluzione, il sacerdote non fa altro che prestare il suo corpo e la sua voce al Signore stesso, il quale irrora l’anima del penitente con i meriti del suo preziosissimo Sangue espiatorio: quel Sangue che – assieme all’acqua, simbolo battesimale – sgorgò dal suo sacro costato in croce. È in quest’ottica profondamente teologica, oserei dire misterica, che va soprattutto compresa la Penitenza sacramentale: essa non è lavoro di routine, né tantomeno consulenza psicologica. La Confessione è mistero della fede, è segno sacramentale in cui lo Spirito Santo rende sempre di nuovo attuali le parole di Cristo: «a chi rimetterete i peccati saranno rimessi», e quindi ratifica nel profondo la nostra professione di fede: “Credo la remissione dei peccati”.

 

Ritorniamo ora di nuovo sull’insegnamento del Catechismo della Chiesa Cattolica con cui abbiamo iniziato queste riflessioni. Il brano prima citato ricorda che l’espressione “Credo la remissione dei peccati” «lega la fede nel perdono dei peccati alla fede nello Spirito Santo, ma anche alla fede nella Chiesa e nella Comunione dei Santi» (CCC 976).
Sul legame tra la remissione dei peccati e lo Spirito Santo (il Quale attualizza in ogni tempo l’opera di Cristo), nonché sulla relazione con il tema della fede, si è detto sin qui. Ora è bene fare qualche accenno al terzo aspetto menzionato dalCatechismo: la dimensione ecclesiale della remissione dei peccati. Riflessioni di particolare profondità sono state offerte in proposito dal Dottore Comune, san Tommaso d’Aquino, in una breve opera che l’Angelico ha dedicato espressamente al Simbolo degli Apostoli. Nell’articolo 10 della Expositio in Symbolum Apostolorum, san Tommaso commenta la nostra proposizione: “Credo la remissione dei peccati”, offrendo le seguenti considerazioni:

Come in un organismo vivente l’attività di un membro torna a vantaggio dell’insieme, qualcosa di simile accade nel Corpo Mistico che è la Chiesa. Il bene compiuto da uno, si comunica agli altri fedeli; infatti «pur essendo molti, siamo un solo corpo in Cristo e ciascuno per la sua parte siamo membra gli uni degli altri» (Rm 12,5). Sicché, tra le altre verità di fede, gli apostoli ci hanno tramandato questa, della «comunione dei santi», ossia la comunanza nei beni spirituali. Cristo è il Capo; la Chiesa ne costituisce il Mistico Organismo, secondo l’espressione paolina: «[Egli] è il Capo di tutta la Chiesa, la quale è il suo Corpo» (Ef 1,22-23) e quanto di bene c’è in Lui, si diffonde nei cristiani mediante i sacramenti. Agisce in essi l’efficacia del sacrificio di Gesù, la grazia in remissione dei peccati.

Come si noterà, in questo brano emerge un collegamento importante, tra quanto abbiamo prima annotato riferendoci alla Lettera agli Ebrei, e l’aspetto ecclesiologico della Comunione dei Santi nel Corpo Mistico, richiamato dalCatechismo. San Tommaso, in altre parole, offre una chiara fondazione dogmatica del rapporto tra la remissione dei peccati ad opera di Cristo e la funzione svolta dalla Chiesa, Corpo Mistico del Signore, in questa azione risanante di Gesù.

Continua l’Angelico:

I cristiani partecipano non solo all’efficacia del sacrificio di Cristo, ma ai suoi meriti, e addirittura partecipano dei meriti dei santi; tali meriti si propagano in tutti coloro che vivono nella grazia, dal momento che formiamo assieme il Corpo Mistico di Cristo. Ne deriva che, vivendo nella carità, ciascuno di noi partecipa della sia pur minima opera virtuosa che si compia nel mondo. [...] In forza della comunione tra i santi, i meriti di Gesù sono distribuiti a ciascun fedele, e così i nostri meriti personali (Expositio in Symbolum Apostolorum, art. 10).

In base a queste osservazioni, comprendiamo che il carattere ecclesiale della remissione dei peccati ha anche un ulteriore risvolto positivo: quello di inserire l’uomo perdonato in una comunità vastissima e mirabile, nella quale vige una misteriosa comunione di beni spirituali (Communio Sanctorum). Non solo si riceve il perdono dei peccati per via ecclesiale, ma anche dal perdono dei peccati si è confermati in tale via e se ne colgono i frutti spirituali. Leggendo questo commento di Tommaso, viene alla mente anche l’affermazione di Paul Claudel, citata in un volume del cardinale Henri de Lubac, che esprime in termini vivi gli effetti positivi per noi dell’essere in grazia di Dio, e di conseguenza in vera comunione con la Chiesa. Scriveva Claudel:

Noi non disponiamo solamente delle nostre forze per amare, comprendere e servire Dio […]. Tutta la creazione visibile e invisibile, tutta la storia, tutto il passato, tutto il presente e l’avvenire, tutta la natura, tutto il tesoro dei Santi moltiplicati dalla grazia, tutto è a nostra disposizione, tutto questo è il nostro prodigioso bagaglio. Tutti i Santi, tutti gli Angeli sono con noi. Noi possiamo servirci dell’intelligenza di San Tommaso, del braccio di San Michele e del cuore di Giovanna d’Arco e di Caterina di Siena e di tutte quelle risorse nascoste che noi dobbiamo semplicemente toccare perché esse entrino in azione» (Paul Claudel interroge le Cantique des cantiques, cit. da H. de Lubac, Méditations sur l’Église, Oeuvres complètes, tome VIII, Cerf, Paris 2003, p. 207).

 

È davvero importante, da parte nostra, considerare questi aspetti profondi di fede, che esprimono la vera essenza della riconciliazione dell’uomo con Dio e del sacramento della Penitenza che la sancisce oggettivamente. Solo se manteniamo simile sguardo di fede la nostra “arte del confessare” sarà all’altezza di quanto il Signore, la Chiesa e le anime si attendono dal sacramento del perdono, e da noi che, indegnamente e umilmente, lo amministriamo dietro mandato di Cristo. Questa visione “dall’alto” è l’unica che garantisce alla nostra pastorale del confessionale di non scadere in annoiata routine, ma di rimanere sempre giovane e viva, spinta dall’amore per l’onore di Dio e dallo zelo per la salvezza delle anime. È in quest’ottica che appare opportuno qui offrire anche alcune riflessioni concrete sulla pratica del confessare.

In primo luogo, va ricordata la necessità di conoscere bene, anzi persino di studiare i praenotanda dei libri liturgici: in questo caso, del Rito della Penitenza. Vi si trovano non solo le indicazioni per la corretta e valida celebrazione del sacramento, ma anche numerosi spunti biblici e teologici, che possono sostenere il nostro sguardo di fede nell’amministrare il sacramento. Se è concesso ricorrere ad un paragone, diremmo che sarebbe poco ragionevole affidarsi, nel dover affrontare una causa, ad un avvocato che non conoscesse bene il codice delle leggi; allo stesso modo, sembra inammissibile che noi, ministri di Dio e della Chiesa, possiamo celebrare i sacramenti senza conoscere bene le leggi liturgiche che li regolano e la teologia che ne spiega senso e dinamiche.

In secondo luogo, ancora con riferimento privilegiato all’appena concluso Anno della Fede, è necessario ricordare che il confessionale non è il luogo per esperimenti in campo dottrinale. Sebbene l’esperienza insegni che esistono casi particolari in cui è necessaria una vera “arte del confessare” da parte del sacerdote, per coniugare la verità rivelata con le situazioni concrete, resta fermo che di coniugazione deve trattarsi, non di obliterazione della dottrina in favore delle problematiche esistenziali. Il sacerdote, anche in confessionale come in altri ambiti del suo ministero, non parla a nome proprio, ma a nome di Cristo e della Chiesa, di cui egli è umile ministro. Come sappiamo, la parola ministro, dal latino minister, indica il servo, colui che è a servizio.

Se comprendiamo di essere servitori di Cristo e della Chiesa, se abbiamo coscienza di essere umili lavoratori nella vigna del Signore, capiremo ugualmente che non siamo chiamati a reinventare la dottrina e la morale, ma al contrario siamo onerati dal dovere di orientare le coscienze alla luce di esse. Non possiamo nascondere che, ai nostri giorni, questo punto va molto enfatizzato. Sono purtroppo innumerevoli i casi di fedeli che lamentano divergenze di vedute e di consiglio, e non su aspetti marginali o discrezionali della vita morale, da parte di diversi sacerdoti presso i quali si sono recati per confessarsi. Alcuni fedeli, con la vivacità tipica del parlare schietto, attestano di aver ricevuto quattro pareri diversi da quattro confessori interrogati sul medesimo caso morale.

Altri fedeli avvertono in qualche caso persino scandalo per essere stati incoraggiati a continuare in una certa condotta di vita, nonostante essa fosse palesemente contraria alla verità del Vangelo.
Non è il caso, in questo contesto, di riferire esempi concreti di tutto ciò, i quali però non mancano, anzi sono piuttosto numerosi.
Se va lodato lo zelo di tantissimi sacerdoti che, anche a costo di sacrificio personale, spendono molte ore in confessionale, alla luce del primato della fede non possiamo neppure chiudere gli occhi sul danno spirituale che arrecano quei sacerdoti che si arrogano il diritto di sostituirsi al Magistero nella determinazione della dottrina e della morale, particolarmente nel momento della Confessione, in cui chiaramente gli animi dei fedeli sono esposti a maggiore sensibilità, tanto spirituale quanto psicologica.


In caso di dubbio da parte del sacerdote, su quale sia la dottrina ecclesiale riguardante un particolare caso morale, o sul modo corretto di applicare tale dottrina in situazioni speciali, appare meglio rimandare il penitente ad un futuro colloquio, in vista del quale il sacerdote potrà prendere le informazioni necessarie a ben indirizzare la persona, piuttosto che rispondere secondo un’opinione personale, anche se sul momento apparisse ragionevole o secondo il buon senso. Non dobbiamo, infatti, guidare le anime col semplice buon senso umano – che pure serve e serve assai – ma alla luce delle esigenze superiori del Vangelo di Cristo. Non possiamo tradire i penitenti che hanno il diritto di essere guidati, indirizzati secondo il Cuore del Buon Pastore.

Queste osservazioni sulla rigorosa fedeltà all’essenza stessa del sacramento si applicano anche alla ritualità celebrativa del medesimo. Il già citato Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, al n. 71 ricorda:

Ogni sacerdote si atterrà alla normativa ecclesiale che difende e promuove il valore della confessione individuale, integra accusa dei peccati nel colloquio diretto con il confessore. «La confessione individuale e integra e l’assoluzione costituiscono l’unico modo ordinario con cui il fedele, consapevole di peccato grave, è riconciliato con Dio e con la Chiesa», e perciò, «tutti coloro cui è demandata in forza dell’ufficio la cura delle anime, sono tenuti all’obbligo di provvedere che siano ascoltate le confessioni dei fedeli a loro affidati» (Giovanni Paolo II, Misericordia Dei, n. 3). Senz’altro, le assoluzioni sacramentali impartite in forma collettiva, senza che siano osservate le norme stabilite, sono da considerare come gravi abusi.

Da queste indicazioni conseguirà anche l’esortazione a rendersi disponibili al massimo per ascoltare le singole confessioni dei fedeli. È altamente auspicabile che ogni giorno vi sia un sacerdote che segga in confessionale, possibilmente anche ad orari stabiliti, in modo che i fedeli possano vederlo lì, in attesa delle anime da riconciliare con Dio. L’esperienza insegna che i fedeli «si recano volentieri a ricevere questo sacramento laddove sanno e vedono che vi sono sacerdoti disponibili. Inoltre, non si trascuri la possibilità di facilitare ai singoli fedeli il ricorso al sacramento della Riconciliazione e Penitenza anche durante la celebrazione della Santa Messa» (Direttorio, n. 71), come indicato espressamente dal Papa Giovanni Paolo II, al n. 2 della Lettera Apostolica Misericordia Dei.

Concludendo queste osservazioni e riflessioni sull’articolo del Simbolo Apostolico “Credo la remissione dei peccati”, possiamo riaccogliere e ripetere la preghiera di affidamento che il beato Giovanni Paolo II volle redigere a conclusione dell’Esortazione Apostolica Reconciliatio et Poenitentia. In quella preghiera, il canonizzando Pontefice si esprimeva in prima persona, invocando il Dio che è ricco di misericordia. Riascoltiamo le sue accorate parole, mantenendo la loro forma espressiva originaria: ci sembrerà, così, di sentire di nuovo la voce di quel Santo Pontefice, che ancora oggi invita la Chiesa alla penitenza ed alla riconciliazione, frutto della remissione dei peccati operata da Cristo:

 

Affido al Padre, 
ricco di misericordia, 
affido al Figlio di Dio, 
fatto uomo come nostro redentore 
e riconciliatore, 
affido allo Spirito Santo, 
sorgente di unità e di pace, 
questo mio appello di padre e di pastore 
alla penitenza e alla riconciliazione. 
Voglia la Trinità santissima e adorabile 
far germinare nella Chiesa e nel mondo 
il piccolo seme, che in quest’ora 
consegno alla terra generosa 
di tanti cuori umani.

Perché ne provengano 
in un giorno non lontano copiosi frutti, 
vi invito tutti a rivolgervi con me 
al cuore di Cristo, 
segno eloquente 
della divina misericordia, 
«propiziazione per i nostri peccati», 
«nostra pace e riconciliazione», 
per attingervi la spinta interiore 
verso la detestazione del peccato 
e la conversione a Dio, 
e trovarvi la benignità divina 
che risponde amorosamente 
al pentimento umano.

Vi invito pure a rivolgervi con me 
al cuore immacolato di Maria, 
Madre di Gesù, 
nella quale «si è operata 
la riconciliazione di Dio 
con l’umanità [...], 
si è compiuta l'opera della riconciliazione, 
perché ella ha ricevuto da Dio 
la pienezza della grazia 
in virtù del sacrificio redentore di Cristo». 
In verità, Maria è diventata 
«l’alleata di Dio», 
in virtù della sua maternità divina, 
nell’opera della riconciliazione.

Alle mani di questa Madre, 
il cui «fiat» segnò l'inizio 
di quella «pienezza dei tempi», 
nella quale fu attuata da Cristo 
la riconciliazione dell’uomo con Dio, 
e al suo cuore immacolato 
 – al quale abbiamo ripetutamente affidato 
l'intera umanità, 
turbata dal peccato 
e straziata da tante tensioni e conflitti 
– affido ora in special modo questa intenzione: 
che, per la sua intercessione, 
l'umanità stessa scopra e percorra 
la via della penitenza, l’unica che 
potrà condurla alla piena riconciliazione.





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)