00 12/09/2015 21:05


DIALOGO CON MONSIGNORE

A 30 ANNI DENTRO IL CONCILIO. INCONTRI CON I PERITI RAGAZZINI: RATZINGER E KUNG

Monsignore in una trasmissione radiofonica a parlare di Sheen, con l’arcivescovo di NY Dolan

Monsignore, vorrei innanzitutto chiederle alcuni accenni alla sua storia personale per far capire ai nostri lettori chi è Hilary Franco.

La mia origine è italiana, perché papà e mamma erano italiani. Mamma era innamorata della cultura italiana. Insegnò italiano per 41 anni e ci proibiva di parlare inglese a casa, per cui ad un certo punto mi sono trovato ad avere un’altra lingua, appunto quella italiana, senza che me ne accorgessi. Mia madre campò fino a 98 anni e fino a tre mesi prima di morire era sempre il boss della famiglia. Non voleva che parlassimo in dialetto calabrese, di cui io ero innamorato. Per impararlo, nel periodo in cui fui ordinato sacerdote quando avevo 22 anni (credo uno dei più giovani sacerdoti ordinati), andavo dal Bronx, dove vivevamo, a Stanford nel Connecticut, dove c’erano degli immigrati calabresi.

Questo mi aiutò tantissimo, perché poi la vita mi portò a viaggiare in Australia diverse volte e lì ebbi modo di parlare le tre lingue: inglese, italiano e il dialetto. Pochi lo sanno, ma il 26% della popolazione australiana è di origine italiana, per cui era un privilegio potermi esprimere in tre idiomi una volta là. Ho studiato qui negli Stati Uniti, poi dopo dovevo andare al Collegio Americano del Nord a Roma, al tempo ancora in via di ricostruzione dopo la guerra. Più che ricostruito, fu rimodellato e il cardinale Spellman ritenne che il seminario romano fosse la scelta migliore dicendomi: <<Devi andare dove ci sono dei miei grandi amici>>. I suoi grandi amici erano non solo il papa Pio XII, ma anche il cardinale Borgongini Duca e soprattutto il cardinal Ottaviani, con cui erano molto legati. E così, finita la mia preparazione seminaristica lì, fui ordinato e l’anno dopo, a 23 anni, discussi la mia tesi di laurea in Teologia Biblica sui primi tre capitoli della Genesi in ebraico, un’esperienza bellissima.
Dopo, il mio sogno era quello di stare con il popolo di Dio in parrocchia e all’inizio rimasi nel Bronx e successivamente fui mandato a Staten Island. E poi venne fuori questa incredibile cosa al tempo della preparazione del Concilio Vaticano II, quando fui nominato assistente del famoso vescovo della televisione americana Fulton J. Sheen, e così andai a vivere nel cuore di Manhattan al 109 East sulla 38ma strada e Park Avenue. Lì si aprì naturalmente un nuovo mondo: sai, conoscere tutto l’ambiente dei mass media fu un’esperienza che non si può calcolare. Fui con lui dal 1962 al ’67 quando andò a Rochester.

Mons.Franco, il primo a sinistra con una oleografia di Sheen: è attivamente impegnato per la sua beatificazione. Che ci annuncia in anteprima avverrà nel 2012

Devo poi dire che intanto, durante i miei giorni liberi, studiavo per la seconda laurea in sociologia alla Fordham University e lavoravo con Fulton Sheen che era membro di tre commissioni anti preparatorie del Concilio. Ovviamente era tutto in latino e le sue idee erano magnifiche, tanto è vero che poi si sono realizzate nel Concilio.

Il Concilio è stata un’esperienza straordinaria. C’erano degli esperti, come un certo Joseph Ratzinger, che era l’esperto del cardinal Frings. A quel tempo c’era ancora tanto da maturare in lui e in tutti noi. C’era Hans Küng… Una volta mi ricordo che lui non era venuto alla sessione prima dell’ultima nel ’65 e gli dissi: <<Ho visto che hai scritto un libro, Il Concilio giorno per giorno. Ma come hai fatto a scrivere un libro se non sei mai venuto? Non t’ho visto mai>>.
E lui mi sorrise e disse: <<Senti, ma tu lo sai come facciamo a scrivere questi libri? Ci sediamo al tavolo della colazione (mima il suo interlocutore spaparanzato sulla sedia mentre, con un sorriso sardonico, legge le pagine spalancate di un quotidiano, n.d.a.), mettiamo assieme tutti i giornali della mattinata e si scrive un libro>>. Vabbè, tanto per dare un’istantanea del Concilio, che dovrebbe essere visto nella sua interezza, ma purtroppo è stato mal capito tantissime volte.

In quelli che venivano dagli Stati Uniti c’era una certa mancanza di preparazione. Prima di tutto, erano pochi quelli che comprendevano la lingua. Non c’era la traduzione simultanea per cui era un lavoro enorme per noi che eravamo lì nella Segreteria Generale con l’allora arcivescovo Pericle Felici, visto che dovevamo presentare i documenti ai 2500 prelati, soprattutto per me che dovevo farlo per i vescovi americani. Fu un lavoro improbo, ma bellissimo, una grande esperienza. Poi, dopo il Concilio, ritornato qui rimasi nella diocesi di New York e fui inviato a Mount Vernon, e mi auguravo finalmente di realizzare il mio sogno di stare con il popolo di Dio, che è stato sempre il mio desiderio dall’inizio della mia ordinazione. E invece, dopo appena sei mesi, fui chiamato alla Nunziatura a Washington e successivamente da lì venni chiamato a Roma. Mi dissero “per due anni”.

A quel tempo noi sacerdoti credevamo nell’obbedienza. Gli anni passavano, il lavoro era enorme, avevo la responsabilità nel dicastero per il mondo di lingua inglese. Era un lavoro importante perché era l’immediato dopo-Concilio, una situazione eccezionale. Tu pensa che il mio predecessore era un ungherese e mi ricordo quando andai lì e gli dissi: <<Monsignore, ma lei conosce bene la lingua?>>. <<No -dice- io non conosco la lingua>>. <<Come? Lei non conosce l’inglese… è responsabile per i paesi di quella lingua. E’ mai stato nei paesi dove si parla?>>. <<No, io a parte la mia origine ungherese, da qui a Frascati ti posso parlare di tutto!>>. Era un altro mondo, capisci, che veniva fuori dopo il Concilio ed era molto importante avere persone che potessero unire i vari versanti del mondo cattolico. Fino al Concilio, c’erano ancora quei formulari in latino, ricordo di averli visti, dove si metteva il nome della diocesi in latino, il rescritto e poi finiva lì, non c’era nient’altro.
E poi, figurati, un americano a capo della Congregazione per il Clero, che era la più potente congregazione al tempo, il cardinale John Joseph Wright… fu una vera rivoluzione, nel senso buono della parola. Intanto scorrevano gli anni, allora mia mamma, con la sua arguzia, mi disse: <<Senti, io non ti vedo mai – papà era morto relativamente giovane a 69 anni-, vorrei stare un po’ con te. Adesso capisco che volevano dire i tuoi superiori quando ti hanno detto ‘due anni’. Volevano dire ‘anni romani’, cioè ‘anni eterni’>>. E difatti quei due anni diventarono 26. Poi, finalmente, dopo aver insistito per ritornare in mezzo al popolo, tornai e grazie a Dio sono qui oggi.

IL PRIMO “TELEVANGELISTA”: FULTON SHEEN. “CI FOSSE LUI SI ARRESTEREBBE LA PLETORA DEI DENIGRATORI DELLA CHIESA”

Sheen al Concilio

Perfetto, un quadro decisamente esauriente. Partiamo allora da Fulton J. Sheen, vescovo ausiliare di New York negli anni ’50-’60, una figura straordinaria molto poco nota al pubblico italiano che, al massimo, può avere in mente don Mazzi quando pensa al cattolicesimo televisivo (qui mi trattengo dallo sparare facili proiettili sulla Croce Rossa evitando di nominare anche Ravasi, mentre il Monsignore esclama a bassa voce un serafico “Beh, insomma, con tutto il rispetto…”, n.d.a.), in cui l’Italia non ha grosse tradizioni (a parte forse Padre Mariano), mentre Fulton Sheen fu addirittura un pioniere della telepredicazione già ai primordi della tv, definito da Time “il primo televangelista”, nonché vincitore di un Emmy nel 1952. In questo senso un personaggio unico e anche molto americano.
Specie sotto questo aspetto di star della comunicazione, Fulton Sheen ci permette di fare alcune considerazioni strettamente legate alla contemporaneità, dove media e internet rappresentano un elemento di mutazione dell’umanità e del linguaggio umano. Vedendo alcune delle sue trasmissioni sono rimasto rapito dal 
carisma e dal portamento nobile da antico principe della Chiesa (il mantello, la teatralità di certi gesti, la conoscenza dei tempi retorici, ecc.), tratti che, a mio avviso, mostrano unaspetto sintomatico della santità: la chiarezza con cui si esprime incanta (ad esempio inquesto link) i suoi ascoltatori facendo sembrare la fede qualcosa di epico, un’epopea senza eguali, guidandoli così al cuore della Verità. 
Oggi sembrano mancare questi grandi santi (penso a un altro oratore poderoso come san Vincenzo Ferrer) che nell’era della comunicazione potrebbero convertire masse immense. A suo parere, c’è speranza che il Signore ci doni figure di tale statura di cui, diciamocelo, abbiamo un disperato bisogno?

Dunque, qui c’è da dire che è un po’ difficile ripetere il successo di Fulton Sheen, che era una sorta di erede naturale di questa tradizione di cui parlavi. Prima di tutto lui aveva già un programma radiofonico, che poi nel ’52 l’ha visto spostarsi anche in televisione, una “zona mediatica” che, con lui, veniva conquistata per la prima volta da un cattolico. Se noi pensiamo seriamente alla storia degli Stati Uniti e del cattolicesimo americano, dobbiamo inquadrare questo rapporto – e questa è una cosa che forse dico per la prima volta- proprio nell’attività di Fulton Sheen. Con questa sua attività mediatica, in radio e poi in tv per tanti anni, ha presentato il cattolicesimo come non era mai stato fatto in precedenza. Anzi, fino a quel tempo, c’erano stati non solo quelli che avevano perseguitato il cattolicesimo in questo paese, ma anche tutta la pletora di movimenti anticattolici che abbiamo avuto nella storia. Tutti costoro si sono fermati davanti a quest’uomo. Arriverei a dire anche un’altra cosa: se nel 2002, ai tempi dello scandalo che si è scatenato qui sulla pedofilia, ci fosse stato un Fulton Sheen in televisione, la questione sarebbe stata trattata differentemente. I mass media hanno massacrato la Chiesa: non puoi condannare una categoria di persone solo perché lo 0,97% (manco l’uno, in alcuni posti siamo arrivati al tre) sono stati coinvolti negli abusi, quando questi sono avvenuti anche in tante altre categorie (pastori protestanti, boy scouts, ‘Big Brothers organizations’, dottori, infermieri), com’è possibile? Se avessimo avuto qualcuno come Fulton Sheen, la cosa sarebbe stata affrontata in maniera molto diversa, tanto per dare un’idea della grande influenza che ha avuto quest’uomo non solo sui cattolici, ma sul mondo americano.
Per farti un altro esempio: in una trasmissione in tv in fascia di ‘prime time’ il tema era “Cosa ci aspettiamo dai giovani americani del domani?” oppure in un’altra parlò delle tre parole che i Greci avevano per indicare l’amore. La sera i giovani, invece di scappare a casa per la partita di football, andavano a casa per vedere Fulton Sheen. Non so se rendo l’idea. Proprio ieri, su una barca che faceva il giro di Manhattan, ho incontrato un giovane sacerdote sudafricano, credo sui quarant’anni, che lavora nel corpo diplomatico. Quando ha saputo della mia esperienza con l’arcivescovo Sheen, è venuto da me e si è presentato dicendomi che la sua vocazione sacerdotale è dovuta a Fulton J.Sheen. Una delle prime cose che aveva letto da giovane prima di diventare sacerdote quando era ancora un avvocato fu The priest is not his own (‘Il sacerdote non appartiene a se stesso’, n.d.a.).
E io gli ho risposto: “Ah, interessante, perché tutta la ricerca scritturale di quel libro è stata fatta da chi le parla”. Ma a parte ciò, lui era stato chiamato dal Signore attraverso prima quel libro e poi anche The life of Christ, un capolavoro che ancora oggi fa testo. Insomma, queste sono cose che volevo dire perché inquadrano l’importanza di Fulton Sheen nel mondo non solo americano e non solo in quello cattolico. Avere una audience che era al 40% cattolica, 30% ebrea e 30% protestante è indicativo dell’influenza che quest’uomo ha avuto nei mass media. Mi viene da citare un altro episodio.
Uno di quelli che furono da lui convertiti fu Thomas Watson Sr., il fondatore dell’IBM, che veniva spesso ad ascoltare la nostra Messa in cappella sulla 38ma strada e scendeva in sala da pranzo con noi per la prima colazione. Un giorno, questo ‘cosetto’ di grande intelligenza mi disse: <<Padre, oggi alle 10 vi manderò il mio autista per portarla con l’arcivescovo a vedere il mio computer>>. Allora, eravamo agli inizi degli anni ’60, il quartier generale dell’IBM era a Manhattan e così andammo là a vedere questo enorme auditorium tutto pieno di scaffali metallici e di tecnici vestiti di bianco. A un certo punto, Watson si voltò verso di me, che ero il più giovane del gruppo, e mi disse: <<Padre, un giorno tutto quello che vede qui e anche di più sarà contenuto nella sua tasca>>.
Ed ora nella mia tasca ho proprio un I-phone, ecco! Anche questo aneddoto, insomma, è per ricordare l’influenza che Fulton Sheen ha avuto anche su grandi personaggi del tempo. Ma chiedo scusa se mi sono dilungato e sono stato prolisso…





  continua..............

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)