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 sabato 4 aprile 2015

Lettera aperta ai sacerdoti

 Tristis est anima mea usque ad mortem: sustinete hic, et vigilate mecum (Mt 26, 38).

Carissimi confratelli nell’unico sacerdozio di Cristo,questo misero scritto, pubblicato in occasione della santa Pasqua, è dettato da un profondo affetto nei confronti di tutti voi, che rendete presente nel mondo il nostro amato Salvatore parlando e agendo nella sua Persona per il bene del Popolo riscattato dal suo Sangue e per la salvezza eterna dell’intera umanità. È con molto rispetto che mi rivolgo a voi, mosso da un ardente amore alla Chiesa, che ci ha generati nel Battesimo e ci ha conferito il sacro ministero, e al contempo da un sentimento di profonda perplessità, se non di smarrimento, riguardo a certi orientamenti di recente assunti dalle sue guide, a livello nazionale e oltre.

Le intemperanze cui mi lascio talvolta andare nel valutare situazioni correnti sono espressione di una sofferenza che mi fa spesso piangere e gridare a Dio, quando prego o celebro da solo. E se Gesù, nel Getsèmani, avesse previsto, da parte della sua stessa Sposa, un futuro tradimento che avrebbe di fatto vanificato, per molti, la sua Passione redentrice?

In riferimento al programma del prossimo convegno ecclesiale di Firenze, illustrato nell’ultima riunione del clero della mia diocesi, non posso nascondere il grave turbamento di apprendere, dopo vent’anni di ministero, di non essere stato costituito presbitero per donare Dio e la sua grazia alle anime redente dal Sangue di Cristo, ma semplicemente per fornire a quanti mi incontrano un di più di umanità. Sarebbe certamente interessante che qualcuno ci spiegasse meglio che cosa si intenda esattamente con tale locuzione; ma in ogni caso, per quanto si fosse abili, mi sembra quanto meno arduo arrivare ad evincere – e convincere gli altri – che quell’espressione possa designare la vita soprannaturale, conquistata per noi dalla Croce gloriosa, che ci abilita a godere della vita futura.

La trasmissione di questo dono incommensurabile ci impone il dovere ineludibile di suscitare la fede con una predicazione integra e franca della Parola divina, in modo che chi la accoglie possa riceverlo con frutto mediante i Sacramenti da noi amministrati.

Tolta – o dimenticata – la necessità assoluta di vivere e morire in stato di grazia per poter evitare la dannazione eterna (cui molti oggi si espongono, purtroppo, a causa della propria grave ignoranza in materia di fede e di morale), diventa poi quasi inevitabile convincersi in perfetta buona fede – come suggerito in quell’occasione da un confratello più anziano di me – che chi vive in stato di peccato mortale pubblico e conclamato sia in fin dei conti una vittima dell’ottuso clericalismo di chi lo esclude dalla vita ecclesiale per una questione di stupide regole canoniche… La vera misericordia – di cui ultimamente si fa un gran parlare – vorrebbe piuttosto che lo si avvertisse dell’enorme rischio che corre permanendo in quello stato; poi sarà libero di scegliere se persistere nell’errore o, con l’aiuto della grazia, convertirsi e cambiare vita: ma, se nessuno lo riprende con carità e delicatezza, non avrà mai questa libertà di scelta.

Qualcuno invocherà qui l’ignoranza invincibile come scusante, anche del peccato grave; ma il nostro compito è appunto quello di istruire le persone nelle verità della salvezza e di rimediare, nel caso, alla loro carente conoscenza, forse dovuta talvolta anche a nostre inadempienze…
In ogni caso, non vedo come si possa far progredire nella fede e nella santità il Popolo di Dio (che in buona parte, ormai, ignora finanche le verità fondamentali del Credo e, non ricevendo mai i Sacramenti, ha di principio perso lo stato di grazia) con sproloqui inconsistenti su un preteso nuovo umanesimo i cui contenuti si evita rigorosamente di definire in modo chiaro; tanto meno si vede come annunciare efficacemente il Vangelo salutare, in una “società liquida” che, privata di riferimenti certi, affoga nell’impurità e nella violenza, con fervorini melensi sulle ferite da curare o sul “buono” che si potrebbe rinvenire anche in situazioni oggettivamente cattive. Non si comprende affatto, poi, per quale mistero della fede il peccato mortale di concubinaggio possa nascondere in sé – come asserito da importanti personaggi – un’incipiente sacramentalità…

Certi discorsi mi spingono ad immaginare il caso assurdo di un medico che, di fronte a un paziente malato di cancro, gli dicesse: «Vedi, tu hai un tumore, ma per il resto stai bene. Perciò non ti prescrivo alcuna cura; al massimo, se proprio vuoi, fatti una tisana»… o quello di un medico che, per non turbare il medesimo paziente, con misericordia e tenerezza non gli dicesse nulla e lo lasciasse andare con una pacca sulla spalla e qualche parola rassicurante del tipo: «Ti voglio bene» oppure «Dio ti ama così come sei». Ovviamente, ci sarebbe di che denunciarlo. Noi non corriamo questo genere di rischi, nella vita presente; ma quando ci presenteremo al giudizio… come renderemo conto dei talenti affidatici? La prima forma di carità e misericordia – soleva ripetere un santo Papa venuto da un Paese lontano, ma ancora in Europa – è dire la verità agli uomini, specie se erranti.

Quanto all’uscire, annunciare… trasfigurare che ci è stato indicato come linea pastorale (?) da seguire nei prossimi anni, posso senz’altro concordare sul fatto che sia effettivamente urgente distogliersi, nella Chiesa attuale, dal morboso ripiegamento su se stesso di chi si bea contemplando il proprio ombelico e si meraviglia che altri non si sentano attirati a fare altrettanto. Non mi è però ben chiaro come questo fine sia perseguibile mediante una suprema tensione verso l’uomo piuttosto che – come di norma in qualsiasi religione – verso Dio… a meno che, i fianchi cinti da un grembiulino, non si sia scambiato l’uno con l’altro. Parafrasando il grande commediografo inglese, potrei così concludere: «God or man? This is the problem». Sarò forse un presuntuoso ma, dal canto mio, non ho di questi dubbi amletici e non ne ho mai avuti: per grazia di Dio, ho fatto la mia scelta e non me ne pento.

P.S.: un vecchio canto popolare della Via crucis, noto in varie regioni d’Italia, si rivolge al Redentore paziente con queste parole: «Gesù mio, con dure funi, come reo, chi ti legò? Sono stati i miei peccati: Gesù mio, perdón, pietà».
I meno devoti, un tempo, si prendevano una magra rivincita sostituendo al testo della risposta la seguente parafrasi: «Sono stati i preti e i frati…». Per quanto irriverente, questa triste bravata potrebbe farci riflettere sulle nostre attuali responsabilità di pastori: vogliamo anche noi, ancora una volta, crocifiggere Gesù per rifiuto della sua vera identità di divino Salvatore universale e per connivenza con i poteri di questo mondo, come già le autorità giudaiche?

Vi scongiuro: rimaniamo con Cristo e vegliamo con lui per la sua Chiesa, perfino a costo di rimetterci personalmente. Buona Pasqua.









Nuovo popolo cercasi

 Questo si scriva per la generazione futura: e un popolo nuovo darà lode al Signore (Sal 102 [101], 19).

Lo so bene: le geremiadi non piacciono a nessuno. Il fatto è che il povero Geremia aveva ragione; ma la sua singolare vocazione fu di parlare per non essere ascoltato – nemmeno dopo la catastrofe. Ciononostante, egli rimase fedelmente con il rimasuglio di Israele disfatto ed errabondo, pur di non abbandonarlo al suo destino, e con il suo popolo cocciuto, nonostante il contrario responso divino, emigrò in Egitto, dove si persero le sue tracce (ma non le sue parole, rimaste monito prezioso per il futuro, sempre che si voglia intenderle). Come egli stesso aveva profetizzato, alcuni anni dopo Nabucodonosor arrivò fin là: la spontanea sottomissione predicata da Geremia e ostinatamente rifiutata dai suoi compatrioti, alla fine, fu imposta con la forza. Probabilmente sarebbe convenuto a tutti dargli retta fin da principio…

Quale interesse possono avere per noi queste antiche storie bibliche? Quello che ha tutta la storia sacra: la nostra salvezza eterna. Più di chiunque altri, un ministro della Chiesa deve interrogarsi su ciò che tale storia gli insegna per prendere le proprie decisioni.
Che ne sarà del popolo errante e ribelle, se i ministri di Dio decisi a fare la Sua volontà lo abbandonano? Se così avessero fatto Mosè, Elia o Geremia, come sarebbe sopravvissuto il popolo eletto?… e dove si sarebbe incarnato il Figlio di Dio?… e da dove sarebbe germogliata la Chiesa?

Di contro, però, la Parola divina ci invita pure ad uscire dall’accampamento portando, dietro Gesù, il suo obbrobrio (cf. Eb 13, 13). Come egli ha consumato il Suo sacrificio redentore fuori della Città santa, che lo aveva respinto quale Messia, così anche chi lo segue fedelmente dovrebbe dissociarsi espressamente da quel mondo ecclesiale che lo rinnega a fatti e a parole. Ma come continuare, poi, a guidare e sostenere i cattolici fedeli e quelli che, oggi pur così refrattari, cercheranno aiuto quando arriverà il castigo?


Il grosso della Chiesa terrena si è reciso dalle radici e, come accadrebbe a qualsiasi albero, è seccato. Attanagliato dal senso di vuoto e dalla nostalgia lacerante di qualcosa – e di Qualcuno – che i più giovani non hanno mai conosciuto, questo popolo disorientato e confuso si sforza in tutti i modi di convincersi da sé di quel che non sa più e di animarsi autonomamente di una vita che gli manca… perché, in realtà, ha perduto la sorgente della grazia.
Non serve a nulla, a questo punto, insistere ottusamente a irrigare l’albero secco e privo di radici con acque derivate in modo autarchico e velleitario.
All’organismo vivente che ci era stato trasmesso hanno sostituito un sistema artificiale che ha spento la fede e con il quale è impossibile suscitarla di nuovo, come mi ha fatto intuire, la notte di Pasqua, un episodio tanto fortuito quanto simbolico: non riuscendo in alcun modo ad accendere il nuovo cero pasquale in pura paraffina (che avrebbe bruciato con sgradevole odore e abbondante fumo nero), dopo aver recitato mentalmente un’Ave Maria mi è venuto in mente di mandare a prendere il vecchio cero del fonte battesimale (in pura cera d’api), che si è acceso immediatamente e ha poi brillato nella buia navata spandendo il buon profumo di Cristo.

Senza di esso, non so proprio come avrei potuto iniziare la Veglia pasquale… Senza un recupero della Tradizione, non vedo come possa rinascere la Chiesa, uccisa da un rito che non è più percepito come il Santo Sacrificio della nostra redenzione, ma come mero intrattenimento di natura socio-religiosa, di cui esistono oltretutto, in pratica, tante varianti quanti sono i ministri che lo celebrano. Una liturgia adattabile a tutti i gusti e a tutte le circostanze ha ingenerato la convinzione che l’uomo non debba conformarsi a Dio, ma piuttosto piegare l’idea di Dio ai propri capricci; così ora ci si pone in ascolto della Parola – come amano tanto dire – non per conoscere ciò che Egli vuole e obbedire a Lui nella propria condotta con l’aiuto della Sua grazia, ma per disquisire se quanto udito corrisponde o meno al codice morale personale (che è gioco-forza del tutto relativo).

Il fedele si è trasformato in severo censore della verità rivelata, giudicata in modo insindacabile sulla base delle massime mondane del momento… C’è poi da meravigliarsi che nessuno si confessi più – o, se lo fa, sia convinto di non avere alcun peccato e ne approfitti, eventualmente, per denunciare i peccati di altri: marito, suocera, figli, parenti, colleghi e via dicendo?

Ma che importa? Se è assente la vita di grazia (locuzione ormai indecifrabile) e dilaga il peccato mortale, la piaga infetta e non curata è dissimulata con fiumi di parole; se la vera fede è morta, ci si dimena in attività aggregative che non la richiedono affatto; se non si prega più, si corre da un santuario all’altro – basta che in albergo si mangi bene. Se la Chiesa ha tradito il suo Signore, si può sempre osannare il líder máximo, che sta fondando una nuova religione in cui, finalmente, saremo tutti uguali, cattolici e non, cristiani e non, credenti e non… Era ora che finisse quell’odioso mondo di discriminazioni che faceva distinzione addirittura tra maschi e femmine, giovani e vecchi, onesti e disonesti…! Questo mondo di oggi, effettivamente, tra poco finirà, implodendo sul proprio vuoto spinto. Bisogna quindi preparare fin d’ora la generazione futura che sopravvivrà alla catastrofe, quel popolo nuovo che darà lode al Signore con la verità del proprio essere e operare.

Ecco dunque la risposta alla domanda formulata all’inizio: bisogna rimanere dentro, ma in modo diverso; sarà la qualità della presenza ad attirare chi cerca Dio. Ciò da cui bisogna uscire è la struttura mortifera, gestita da vescovi increduli, in cui la Chiesa si è rinchiusa e soffocata, per creare in alternativa ambienti vitali – non necessariamente riconosciuti, ma nemmeno in stato di rottura – in cui si possa realmente respirare lo Spirito Santo e crescere nella vita soprannaturale. Quale sia la soluzione concreta per attuare questo programma, non mi è stato ancora indicato dall’alto; ho un’idea sulla possibile guida. Invito perciò i lettori ad offrire preghiere e sacrifici per questa intenzione e a rimanere in contatto. Credo che vi abbiamo tutti interesse – un interesse supremo.

Al popolo che nascerà diranno: «Ecco l’opera del Signore!» (Sal 22 [21], 32).









Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)