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10. L’IJCIC ha cominciato i suoi lavori nel 1970 e già l’anno successivo è stata organizzata a Parigi la prima conferenza congiunta. Le varie conferenze che hanno avuto luogo da allora rientrano nelle competenze di quell’organismo chiamato International Catholic-Jewish Liaison Committee (ILC) e danno forma alla collaborazione tra l’IJCIC e la Commissione della Santa Sede. Nel febbraio 2011, di nuovo a Parigi, l’ILC ha potuto guardare con gratitudine a 40 anni di dialogo istituzionale. In questo arco di tempo, molto è stato realizzato; dalla contrapposizione di una volta si è passati ad una proficua collaborazione, dal potenziale di conflitto ad un’efficiente gestione dei conflitti, da una coesistenza contrassegnata dalle tensioni ad una convivenza solida e fruttuosa. I legami di amicizia sviluppatisi negli anni hanno dimostrato la loro robustezza ed hanno permesso così di affrontare insieme persino temi controversi senza il rischio di arrecare al dialogo un danno permanente. Questo è stato tanto più necessario quanto, negli ultimi decenni, il dialogo non è stato sempre privo di attriti. In generale, possiamo comunque costatare con soddisfazione che nel dialogo ebraico-cattolico, soprattutto a partire dal nuovo millennio, sono stati compiuti intensi sforzi per affrontare, in modo aperto e positivo, le divergenze di opinione ed i conflitti che si sono di volta in volta presentati, così che le mutue relazioni hanno potuto rafforzarsi.

11. Oltre al dialogo con l’IJCIC, vanno menzionate le conversazioni istituzionali con il Gran Rabbinato d’Israele, che possono essere indubbiamente considerate come frutto dell’incontro che il Santo Papa Giovanni Paolo II ha avuto a Gerusalemme con i due Rabbini Capo durante la sua breve visita in Israele nel marzo 2000. La prima conversazione è stata organizzata a Gerusalemme nel giugno 2002; da allora, ogni anno ha luogo un incontro, che si tiene in alternanza a Roma e a Gerusalemme. Essendo le due delegazioni relativamente piccole, è possibile condurre una discussione personale ed intensa su vari temi, tra i quali la santità della vita, la condizione della famiglia, il significato delle Sacre Scritture per la vita nella società, la libertà religiosa, i principi etici dell’agire umano, la sfida ecologica, il rapporto tra autorità secolare ed autorità religiosa ed i requisiti essenziali di una leadership religiosa nella società secolare. Il fatto che i rappresentanti cattolici che partecipano agli incontri siano vescovi e sacerdoti e che i rappresentanti ebraici siano quasi esclusivamente rabbini presenta il vantaggio di poter affrontare i singoli argomenti anche da una prospettiva religiosa. In tal senso, il dialogo con il Gran Rabbinato d’Israele ha permesso di allacciare relazioni più aperte tra l’ebraismo ortodosso e la Chiesa cattolica a livello mondiale. A conclusione di ogni incontro, viene pubblicata una dichiarazione congiunta, che testimonia quanto ricco è il patrimonio comune dell’ebraismo e del cristianesimo e quali tesori preziosi rimangono ancora da dissotterrare. Guardando ad oltre dieci anni di dialogo, possiamo affermare con gratitudine che si è sviluppata una forte amicizia, che costituisce una solida base su cui costruire il futuro.

12. Il lavoro della Commissione per i rapporti religiosi con l’ebraismo della Santa Sede non si limita naturalmente a questi due dialoghi istituzionali. La Commissione, infatti, ha come intento quello di rimanere aperta a tutte le correnti dell’ebraismo e quello di curare i contatti con tutti i gruppi e le organizzazioni ebraici che desiderano allacciare relazioni con la Santa Sede. Da parte ebraica, è stato mostrato un particolare interesse per le udienze papali, nella cui preparazione è coinvolta la Commissione. Oltre ai contatti diretti con l’ebraismo, la Commissione della Santa Sede si sforza di fornire, all’interno della Chiesa cattolica, opportunità di dialogo con l’ebraismo e di collaborare con singole conferenze episcopali, sostenendole nella promozione del dialogo ebraico-cattolico a livello locale. Un buon esempio di ciò è l’introduzione di una "Giornata dell’Ebraismo" in alcuni paesi europei.

13. Nel corso degli ultimi decenni, sia il "dialogo ad extra" che il "dialogo ad intra" hanno portato con crescente chiarezza alla consapevolezza che cristiani ed ebrei sono irreversibilmente interdipendenti gli uni dagli altri e che il loro dialogo, dal punto di vista teologico, non è un’opzione arbitraria, ma un dovere. Ebrei e cristiani possono arricchirsi vicendevolmente nella loro amicizia. Senza le sue radici ebraiche, la Chiesa rischierebbe di perdere il suo ancoraggio nella storia della salvezza, scivolando infine in una gnosi astorica. Papa Francesco osserva che "sebbene alcune convinzioni cristiane siano inaccettabili per l’ebraismo, e la Chiesa non possa rinunciare ad annunciare Gesù come Signore e Messia, esiste una ricca complementarietà che ci permette di leggere insieme i testi della Bibbia ebraica e aiutarci vicendevolmente a sviscerare le ricchezze della Parola, come pure di condividere molte convinzioni etiche e la comune preoccupazione per la giustizia e lo sviluppo dei popoli" ("Evangelii gaudium", n. 249).


2. Lo statuto teologico speciale del dialogo ebraico-cattolico

14. Il dialogo con l’ebraismo è qualcosa di assolutamente speciale per i cristiani, poiché il cristianesimo ha radici ebraiche che determinano l’unicità delle relazioni tra le due tradizioni (cfr. "Evangelii gaudium", n. 247). Nonostante la rottura storica ed i dolorosi conflitti che ne sono derivati, la Chiesa rimane consapevole della sua permanente continuità con Israele. L’ebraismo non può essere semplicemente considerato come un’altra religione; gli ebrei sono i nostri "fratelli maggiori" (Santo Papa Giovanni Paolo II), i nostri "padri nella fede" (Benedetto XVI). Gesù era un ebreo, vissuto nella tradizione ebraica del suo tempo e formato in maniera determinante da quell’ambiente religioso (cfr. "Ecclesia in Medio Oriente", n. 20). I primi discepoli radunati intorno a lui avevano lo stesso retaggio e la loro vita quotidiana era segnata dalla stessa tradizione ebraica. Nella sua relazione unica con il Padre celeste, Gesù si concentrò soprattutto sull’annuncio della venuta del Regno di Dio: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo" (Mc 1,15). All’interno dell’ebraismo esistevano all’epoca concetti molto diversi sul modo in cui il Regno di Dio si sarebbe realizzato; tuttavia, il messaggio centrale di Gesù sulla venuta del Regno di Dio è in accordo con alcune delle idee ebraiche del tempo. Non si può comprendere l’insegnamento di Gesù e dei suoi discepoli se non lo si situa all’interno dell’orizzonte ebraico e nel contesto della tradizione vivente di Israele; ancora meno lo si può capire se lo si percepisce come contrapposto a tale tradizione. In Gesù, non pochi ebrei del suo tempo hanno visto l’arrivo di un "nuovo Mosè", il Cristo promesso (il Messia). Eppure, la sua venuta ha provocato un dramma le cui conseguenze si fanno sentire ancora oggi. Pienamente e completamente uomo, ebreo del suo tempo, discendente di Abramo, figlio di David, formato dall’intera tradizione di Israele, erede dei profeti, Gesù si pone in continuità con il suo popolo e con la storia del suo popolo. Dall’altro lato, alla luce della fede cristiana, egli stesso è Dio –il Figlio- e trascende il tempo, la storia e ogni realtà terrena. La comunità di coloro che credono in lui confessa la sua divinità (cfr. Fil 2,6-11). In questo senso, egli è percepito in discontinuità con la storia che ha preparato la sua venuta. Dal punto di vista della fede cristiana, egli porta pienamente a compimento la missione e le attese di Israele, ma, al contempo, le supera e le trascende in maniera escatologica. La differenza di fondo tra ebraismo e cristianesimo consiste nel modo in cui si ritiene di dover valutare la figura di Gesù. Gli ebrei possono vedere Gesù come un appartenente al loro popolo, un maestro ebraico che ha sentito di essere chiamato in modo particolare ad annunciare il Regno di Dio. Il fatto però che il Regno di Dio sia venuto con lui quale rappresentante di Dio è al di fuori dell’orizzonte ebraico di attese messianiche. Il conflitto tra Gesù e le autorità ebraiche del tempo non dipendeva in fondo da una trasgressione individuale della legge, ma dalla rivendicazione avanzata da Gesù di agire con autorità divina. Per questo, la figura di Gesù è stata e rimane per gli ebrei una "pietra di scandalo", il punto centrale e nevralgico del dialogo ebraico-cattolico. Da una prospettiva teologica, per la propria auto-comprensione, i cristiani devono far riferimento all’ebraismo dei tempi di Gesù ed in certa misura anche all’ebraismo sviluppatosi da esso nel corso della storia. Date le origini ebraiche di Gesù, è sempre indispensabile per i cristiani il confronto con l’ebraismo. Ma la storia delle relazioni tra ebraismo e cristianesimo è stata caratterizzata anche da una reciproca influenza.

15. Il dialogo tra ebrei e cristiani può essere definito solo per analogia "dialogo interreligioso", ovvero dialogo tra due religioni intrinsecamente separate e differenti. Non si tratta infatti di due religioni aventi natura fondamentalmente diversa, che si sono sviluppate l’una indipendentemente dall’altra senza reciproca influenza. L’humus di ebrei e cristiani è l’ebraismo del tempo di Gesù, che ha dato origine non solo al cristianesimo, ma anche all’ebraismo rabbinico postbiblico successivo alla distruzione del Tempio nel 70 d.C., ebraismo che aveva dovuto fare a meno del culto sacrificale e che si era incentrato esclusivamente, nel suo ulteriore sviluppo, sulla preghiera e sull’interpretazione della rivelazione divina sia scritta che orale. Ebrei e cristiani hanno dunque la stessa origine e possono essere considerati come fratelli che hanno preso, come avviene di solito tra fratelli, strade diverse. Le Scritture dell’antico Israele sono parte integrante delle Scritture sia dell’ebraismo che del cristianesimo, considerate da entrambi come Parola di Dio, Rivelazione, storia della salvezza. I primi cristiani erano ebrei che naturalmente si riunivano, come membri della comunità, nella sinagoga, rispettavano le prescrizioni religiose alimentari, lo Shabbat ed il comandamento della circoncisione, ma al contempo confessavano Gesù come il Cristo, il Messia inviato da Dio per la salvezza di Israele e di tutta l’umanità. Con Paolo, il "movimento ebraico per Gesù" si aprì in maniera definitiva a nuovi orizzonti, travalicando così le sue radici ebraiche. Gradualmente, il suo pensiero si impose, ovvero l’idea che non fosse necessario ad un non-ebreo diventare prima ebreo per confessare Cristo. Nei primi tempi della Chiesa, vi erano dunque i cosiddetti giudeo-cristiani ed i cristiani gentili, la "ecclesia ex circumcisionee la "ecclesia ex genti bus", una Chiesa di origine giudaica, l’altra di origine pagana, ma che, insieme, costituivano l’una ed unica Chiesa di Gesù Cristo.

16. La separazione della Chiesa dalla Sinagoga non avvenne però bruscamente, ma, sulla base di recenti conoscenze, sembra che si sia protratta fino al terzo o quarto secolo. Ciò significa che molti giudeo-cristiani dei primi tempi non percepivano come contraddittorio vivere conformemente ad alcuni aspetti della tradizione ebraica e confessare Gesù come il Cristo. Soltanto quando i gentili iniziarono a rappresentare la maggioranza e, all’interno della comunità ebraica, la polemica sulla figura di Cristo acquisì contorni più marcati, una separazione definitiva sembrò ormai inevitabile. Col passare del tempo, i due fratelli – ebraismo e cristianesimo – si allontanarono sempre più, crebbe l’inimicizia tra loro e si ricorse anche alla reciproca diffamazione. I cristiani si figuravano spesso gli ebrei come dannati da Dio e ciechi, perché incapaci di riconoscere Gesù quale Messia e Salvatore. Gli ebrei percepivano non di rado i cristiani come eretici che seguivano non il cammino originario indicato da Dio, ma la loro strada. Non senza motivo, negli Atti degli Apostoli, il cristianesimo è chiamato la "dottrina" (cfr. At 9,2; 19,9.23; 24,14.22), in contrasto con laHalachà ebraica che regola l’interpretazione normativa ai fini di una condotta pratica. Con il tempo, ebraismo e cristianesimo si sono estraniati sempre più, arrivando persino ad acerrimi conflitti ed all’accusa reciproca di aver abbandonato il cammino prescritto da Dio.

17. Molti padri della Chiesa favorirono sempre più la cosiddetta teoria della sostituzione (o "supersessionismo") tanto che, nel Medioevo, essa divenne il fondamento teologico generale per le relazioni con l’ebraismo: poiché Israele non aveva riconosciuto Gesù come il Messia e il Figlio di Dio, le promesse e l’impegno di Dio non valevano più per Israele, ma si rivolgevano alla Chiesa di Gesù Cristo che era ora il vero "nuovo Israele", il nuovo popolo eletto da Dio. Nati dallo stesso humus, ebraismo e cristianesimo erano giunti nel corso dei secoli dopo la loro separazione ad un antagonismo teologico che soltanto con il Concilio Vaticano Secondo si sarebbe stemperato. Con la sua Dichiarazione "Nostra aetate" (n. 4), la Chiesa professa inequivocabilmente, all’interno di un nuovo quadro teologico, le radici ebraiche del cristianesimo. Mentre mantiene salda l’idea della salvezza attraverso una fede esplicita o anche implicita in Cristo, essa non rimette in discussione l’amore costante di Dio per Israele, suo popolo eletto. Viene così delegittimata la teologia della sostituzione che vede contrapposte due entità separate, una Chiesa dei gentili ed una Sinagoga respinta e sostituita da tale Chiesa. Da un rapporto originariamente stretto tra ebraismo e cristianesimo si era sviluppata una lunga relazione di tensioni che, dopo il Concilio Vaticano Secondo, è stata gradualmente trasformata in dialogo costruttivo.

18. Si è tentato spesso di individuare il fondamento della teoria della sostituzione nella Lettera agli Ebrei. Tuttavia, questa epistola non si rivolge agli ebrei, ma ai cristiani di origine ebraica, che iniziavano a sentirsi stanchi ed insicuri. Il suo intento è di rafforzare la loro fede e di incoraggiarli nella loro perseveranza, indicando Gesù Cristo come il vero e definitivo sommo sacerdote, il mediatore della Nuova Alleanza. È questo il contesto che occorre tenere a mente per comprendere il contrasto, nella Lettera, tra una prima Alleanza, puramente terrena, ed una seconda Alleanza, nuova (cfr. Eb 9,15; 12,24) e migliore (cfr. 8,7). La prima Alleanza è definita antiquata, già invecchiata e prossima a sparire (cfr. 8,13), mentre la nuova Alleanza è detta eterna (cfr. 13,20). Per giustificare questo contrasto, l’epistola si riferisce alla promessa di una nuova alleanza nel Libro del profeta Geremia 31,31-34 (cfr. Eb 8,8-12). Ciò mostra che la Lettera agli Ebrei non intende provare la falsità delle promesse dell’Antica Alleanza, ma, al contrario, la loro fondatezza. Il riferimento alle promesse veterotestamentarie vuole essere d’aiuto ai cristiani, rendendoli sicuri della salvezza in Cristo. Il punto cruciale della Lettera agli Ebrei non è dunque la contrapposizione tra Antica e Nuova Alleanza così come la intendiamo oggi, e neanche il contrasto tra Chiesa ed ebraismo. Piuttosto, la contrapposizione è tra il sacerdozio eterno celeste di Cristo ed il sacerdozio provvisorio terreno. Il tema centrale nella Lettera agli Ebrei, davanti alla nuova situazione creatasi, è l’interpretazione cristologica della Nuova Alleanza. E questo è precisamente il motivo per cui "Nostra aetate" (n. 4) non ha fatto riferimento alla Lettera agli Ebrei, ma alle riflessioni di San Paolo nella Lettera ai Romani 9-11.

19. Ad un osservatore esterno, la Dichiarazione conciliare "Nostra aetate" potrebbe dare l’impressione che il testo si occupi delle relazioni tra la Chiesa cattolica e tutte le religioni mondiali in modo paritario. Ma la storia di come è nata la Dichiarazione ed il testo stesso mostrano che non è così. Originariamente, il Santo Papa Giovanni XXIII aveva suggerito che il Concilio promulgasse un Tractatus de Iudaeis, ma alla fine prevalse la decisione di prendere in considerazione, in "Nostra aetate", tutte le religioni mondiali. Il fulcro della Dichiarazione conciliare, che fa spazio appunto anche alla relazione tra la Chiesa cattolica e le altre religioni, è comunque il suo quarto articolo, che s’incentra sulla nuova relazione teologica con l’ebraismo. In tal senso, la relazione con l’ebraismo può essere considerata come il catalizzatore per definire il rapporto della Chiesa cattolica con le altre religioni mondiali.

20. Tuttavia, rispetto alle altre religioni mondiali, il dialogo con l’ebraismo, da un punto di vista teologico, ha un carattere completamente diverso e si situa ad un altro livello. La fede degli ebrei testimoniata nella Bibbia, fede che si ritrova nell’Antico Testamento, non è per i cristiani un’altra religione, ma è il fondamento della loro stessa fede, sebbene la figura di Gesù sia chiaramente l’unica chiave di interpretazione cristiana delle Scritture dell’Antico Testamento. La pietra d’angolo della fede cristiana è Gesù (cfr. At 4,11; 1 Pt 2,4-8). Il dialogo con l’ebraismo occupa per i cristiani un posto unico; il cristianesimo, date le sue radici, è unito all’ebraismo più di quanto non lo sia a qualsiasi altra religione. Pertanto, solo con le dovute riserve, il dialogo ebraico-cristiano può essere definito "dialogo interreligioso" in senso stretto; si dovrebbe piuttosto parlare di un tipo di "dialogo intra-religioso" o "intra-familiare" sui generis. Nel discorso pronunciato presso la Sinagoga di Roma il 13 aprile 1986, il Santo Papa Giovanni Paolo II ha difatti descritto questa situazione con le seguenti parole: "La religione ebraica non ci è ‘estrinseca’, ma in un certo qual modo, è ‘intrinseca’ alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun’altra religione. Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori."







   continua 


[Modificato da Caterina63 11/12/2015 18:53]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)