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Il ministro del Sacramento

È importante anche considerare il ruolo del ministro del sacramento che, secondo la Bolla Misericordiae vultus, dovrebbe essere «vero segno della misericordia del Padre» (MV 17). Anch’egli, essendo peccatore, non dimentica di farsi penitente sperimentando nel sacramento la gioia del perdono. La tradizione cattolica ha individuato quattro figure per esprimere il compito proprio del sacerdote confessore. Egli è dottore e giudice – per indicare la oggettività della legge –, ma è anche padre e medico – per richiamare la carità pastorale verso il penitente. Diverse epoche storiche e diverse tendenze teologiche hanno sottolineato ora l’una ora l’altra di queste figure. Il concilio di Trento afferma che i sacerdoti esercitano la funzione di rimettere i peccati «come ministri di Cristo», compiendo questo loro compito «a guisa di un atto giudiziario» (ad instar actus iudicialis)[6]. Anche il Rito della Penitenza parla del confessore come giudice e medico, quando dice: «Per svolgere bene e fedelmente il suo ministero, il confessore deve saper distinguere le malattie dell’anima per apportarvi i rimedi adatti, ed esercitare con saggezza il suo compito di giudice» (RP 10). Più avanti si sottolinea poi che il «confessore svolge un compito paterno, perché rivela agli uomini il cuore del Padre, e impersona l’immagine di Cristo, buon Pastore» (RP 10). Il confessore è testimone della misericordia di Dio verso il peccatore pentito[7]. Nell’Antico Testamento, la misericordia è il sentimento compassionevole e anche materno di Dio per le sue creature nonostante le loro infedeltà (cf. Es 34,6; Sal 51,3; Sal 131; Ger 12,15; 30,18). Nel Nuovo Testamento, Gesù è presentato come il «sommo sacerdote misericordioso e degno di fede nelle cose che riguardano Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo» (Eb 2,17).

Il Catechismo della Chiesa Cattolica riassume molto bene tutti questi compiti del confessore quando afferma: «Celebrando il sacramento della Penitenza, il sacerdote compie il ministero del Buon Pastore che cerca la pecora perduta, quello del Buon Samaritano che medica le ferite, del Padre che attende il figlio prodigo e lo accoglie al suo ritorno, del giusto Giudice che non fa distinzione di persona e il cui giudizio è ad un tempo giusto e misericordioso. Insomma, il sacerdote è il segno e lo strumento dell’amore misericordioso di Dio verso il peccatore» (n. 1465). Le formule e i gesti rituali della celebrazione del sacramento fanno trasparire la presenza misericordiosa del Padre, il dono oblativo del Figlio, l’amore purificante e risanante dello Spirito Santo. Il confessore deve diventare l’espressione e il mezzo umano di questo amore, che attraverso di lui si effonde sul penitente e lo conduce nuovamente alla vita, alla speranza, alla gioia.

Le riflessioni fin qui esposte trovano la loro concreta attuazione nella celebrazione stessa del sacramento, che per ritus et preces conduce per mano penitenti e ministri nell’esperienza della misericordia di Dio. Infatti, ogni celebrazione del sacramento è un “Giubileo della Misericordia”.

Vi sono altri ambiti di carattere spirituale, disciplinare, pastorale connessi alla celebrazione del sacramento, non considerati in queste riflessioni ma meritevoli di attenzione. Si pensi ad es. alla cura da prestare alla formazione permanente del clero, come a quella iniziale nei seminari e negli istituti di formazione. Come altresì all’osservanza della disciplina circa le assoluzioni collettive (cf. CIC can. 961-963), e al porre attenzione ai rischi riguardo alla discrezione e al riserbo, alla protezione dell’anonimato e della segretezza, minacciati oggi dalla facile e sacrilega intercettazione, registrazione e diffusione del contenuto della confessione (cf. CIC can 983).

2. Per una mistagogia dell’Ordo Paenitentiae

Nel fermare la nostra attenzione sulla lettura mistagogica del «Rito per la riconciliazione dei singoli penitenti» (cap. I) si deve tener presente la dimensione ecclesiale del sacramento, messa maggiormente in luce nel capitolo II: «Rito per la riconciliazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione individuale». La natura profondamente personale del sacramento della Penitenza si associa strettamente a quella ecclesiale, essendo un atto che riconcilia con Dio e con la Chiesa (cf. CCC 1468-1469). In questa prospettiva i Praenotanda affermano che «la celebrazione comune manifesta più chiaramente la natura ecclesiale della penitenza» (RP 22). Secondo il dettato conciliare, infatti, «le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazione della Chiesa […]. Perciò appartengono all’intero Corpo della Chiesa, lo manifestano e lo implicano» (SC 26).

L’Anno giubilare della Misericordia rappresenta una significativa opportunità, per le comunità diocesane e parrocchiali, di riscoprire il «Rito per la riconciliazione di più penitenti con la confessione e l’assoluzione individuale»[8]. Le sequenze rituali che troviamo in questo secondo capitolo del Rito della Penitenza aiutano a mettere in luce due importanti aspetti della natura ecclesiale della sua celebrazione. Innanzitutto l’ascolto della parola di Dio, che assume la struttura di una Liturgia della Parola, quindi di un vero e proprio atto di culto (cf. SC 56). Qui l’annuncio evangelico della misericordia e il richiamo alla conversione risuonano in una assemblea nella quale «i fedeli ascoltano tutti insieme la parola di Dio, che proclama la sua misericordia e li invita alla conversione, confrontando la loro vita con la parola stessa, e si aiutano a vicenda con la preghiera» (RP 22). L’apostolo Giacomo infatti invita: «Confessate perciò i vostri peccati gli uni gli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti» (Gc 5,16).

Se sono importanti l’ascolto della Parola che “folgora il cuore” e il reciproco sostegno nella preghiera, non lo sono meno la lode e il rendimento di grazie con i quali si conclude il rito (cf. RP 29). Infatti «dopo che ognuno ha confessato i suoi peccati e ha ricevuto l’assoluzione, tutti insieme lodano Dio per le meraviglie da lui compiute a favore del popolo, che egli si è acquistato con il sangue del Figlio suo» (RP 22).

Questi sintetici accenni al capitolo II del Rito della Penitenza mettono  in luce la dinamica sociale nonché personale del peccato come della conversione. La dimensione ecclesiale e personale si fondono, in modo molto particolare, in questo sacramento, evidenziando che «la penitenza non può essere intesa come puramente interiore e privata. Per il fatto di essere (e non: benché sia) un atto personale, essa assume pure una dimensione sociale. Si tratta d’un punto di vista che ha la sua importanza per la giustificazione dell’aspetto tanto ecclesiale quanto sacramentale della Penitenza»[9].

Percorriamo ora le sequenze rituali del capitolo I: «Rito per la riconciliazione dei singoli penitenti» al fine di favorire non solo una rinnovata comprensione del sacramento, ma soprattutto una sua più autentica celebrazione, consapevoli che negli atti del penitente e del sacerdote, nei gesti e nelle parole, viene comunicata la grazia del perdono. Proprio perché mens concordet voci è necessaria una degna celebrazione, nella convinzione dell’importanza della forma rituale, perché nella liturgia la parola precede l’ascolto, l’azione plasma la vita[10].





Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)