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Nel 1555 tutti i professori dell’università di Barcellona scrissero a Ignazio di Loyola - già celebre fondatore della Compagnia di Gesù ‑ la seguente lettera:

          «Reverendo Padre, quando consideriamo le tue opere e le confrontiamo con quelle dell’antichità, tu ci appari davvero beatissimo, perché Cristo ti ha eletto (...) per sostenere con vigore i vecchi edifici ecclesiastici che minacciano di rovinare per vecchiezza e per incuria dei loro architetti, e per costruirne di nuovi. È quanto han fatto in altri tempi Antonio e Basilio, Benedetto, Bernardo, Francesco e Domenico e molti altri illustri personaggi che veneriamo come santi e nominiamo con onore. Verrà un tempo - lo speriamo e lo desideriamo ‑ nel quale tu sarai invocato nello stesso modo per le tue grandi opere, e la tua memoria sarà sacrosanta in tutto il mondo». 

 

Ignazio aveva allora sessantaquattro anni; sarebbe morto l’anno dopo.

          Proprio nello Studium Generale di Barcellona egli, a trentatré anni, era tornato sui banchi di scuola, lasciati ai tempi dell’adolescenza. La difficoltà più grande nel riprendere in mano la grammatica latina non era l’età piuttosto avanzata, ma il fatto che aveva la mente tutta assorbita dal pensiero di Dio.

          A una scelta così difficile e ostinata, l’aveva spinto un solo motivo che Ignazio, nella sua Autobiografia, spiega semplicemente con queste parole: «Il pellegrino pensava tra sé che cosa avrebbe fatto. Finì per risolversi a studiare per un certo tempo, per poter aiutare le anime».«Pellegrino» era il nome che egli s’era dato da quando il Signore l’aveva attratto a Sé.

          da quel coraggio - di riprendere a studiare come un ragazzo, a trentatré anni ‑ dipendeva (tale è il mistero della storia cristiana) l’avvenire stesso del cattolicesimo: tutta quella immensa rete «missionaria» di collegi, scuole, università, attività culturale, umanistica scientifica e teologica, con cuíi gesuiti avrebbero risollevato le sorti della Chiesa dopola crisi protestante e avrebbero predicato il Vangelo “fino agli estremi confini della terra», quei confini che allora apparivano per la prima volta in tutta la loro impensata vastità

          Fino a trent’anni Ignazio era stato un tipico gentiluomo spagnolo. Era nato a Loyola, in terra basca, nel 1491. A sedici anni era stato mandato a vivere dalle parti di Avila, presso un nobile parente che aveva una posizione di prestigio alla corte dei Re Cattolici. Divenne così «un giovane brillante e raffinato, molto amante degli abiti sfarzosi. Ignazio stesso - raccontando la sua vita - inizia con queste parole: «Fino a ventisei anni, fu un uomo dedito alle vanità del mondo. Suo diletto preferito era il maneggio delle armi, con un grande e vano desiderio di procacciarsi fama» (Autobiografia, 1). 

 

          A venticinque anni era passato al servizio del Vicerè di Navarra, proprio quando Francesco I di Francia si preparava ad attaccare quel regno. Venne posto l’assedio a Pamplona. La città era divisa e pronta a cedere, tanto che i rinforzi rinunciarono a entrare nella città che avrebbero dovuto difendere. Inigo (questo era il suo vero nome), invece, si rifiutò di tornare indietro, reputandola cosa disonorevole.

          Alla testa di pochi uomini, riuscì ad entrare in città e ad asserragliarsi nella fortezza. Ma i francesi ebbero presto il sopravvento e diedero l’attacco al castello. Fu Inigo a imporre la resistenza e tutti «furono trascinati dal suo coraggio e dalla Intrepidezza».

          I bombardamenti francesi durarono sei ore. Poi si giunse all’assalto di spada. Fu allora che un proiettile colpì Inigo ferendolo a una gamba. Finita la battaglia, fu riportato a casa, ma la ferita era così grave e le prime cure furono così disastrose che l’eroe si trovò in fin di vita, tanto che gli fu amministrata l’estrema Unzione. Lo stesso Ignazio racconta che le sue ossa «o perché mal ricomposte la prima volta, o perché mosse durante il viaggio, impedivano la cicatrizzazione. Si ricominciò allora quella carneficina. Ma il malato come durante gli strazi subiti precedentemente e che avrebbe dovuto subire in seguito, non disse parola né diede altro segno di dolore, se non stringendo forte i pugni» (Autobiografia, 2).

          Contro l’aspettativa di tutti, guarì ma gli era rimasto un osso sporgente e zoppicava nel camminare. Ignazio, voleva poter cavalcare, voleva poter indossare ancora «i suoi stivali molto attillati ed eleganti.

          Benché le ossa si fossero ormai saldate, decise di farsi operare nuovamente. Leggiamo ancora il racconto: «Non si dava pace, perché voleva continuare la vita mondana e pensava che ciò lo rendeva deforme. Chiese ai medici se si potesse nuovamente tagliare. Essi risposero che certamente si poteva tagliare, ma che i dolori sarebbero stati più atroci di quelli già sofferti perché l’osso era già sano e l’operazione era lunga. Ciò nonostante egli decise di sottoporsi a quel martirio per il proprio capriccio. Suo fratello maggiore era assai preoccupato e diceva che egli non avrebbe potuto sopportare un simile dolore. Il ferito invece lo sopportò con la solita forza d’animo. Si incise la carne, si segò l’osso sporgente, poi si usarono vari rimedi perché la gamba non restasse così corta: si applicarono unguenti e apparecchi che la tenessero in trazione. Un vero martirio.Ma Nostro Signore gli ridiede salute a poco a poco» (Autobiografia, 4‑5). 

          Abbiamo insistito ‑ come fece lo stesso Ignazio ‑ su questo racconto perché esso delinea le qualità dell’uomo e la sua tempra: una forza d’animo incredibile posta al servizio di valori così fragili!

          A dire il vero, non era solo vanità: nel cuore di Inigo c’era un segreto che spiegava tutto, anche se ancora oggi non è stato pienamente svelato.

          Lui stesso racconta che, durante la convalescenza, c’era un pensiero che «talmente gli aveva rapito il cuore da tenerlo occupato sognando per tre o quattro ore di seguito, senza nemmeno accorgersene. Immaginava le imprese che avrebbe voluto compiere in onore di una signora, i mezzi che avrebbe usato per raggiungere il paese dove abitava, le parole che avrebbe detto, i fatti d’arme che avrebbe compiuto in suo onore. Era talmente perduto in simili progetti che non s’accorgeva quanto fosse impossibile realizzarli; perché quella dama non era di nobiltà ordinaria: non era né contessa né duchessa, ma di rango assai più elevato» (Autobiografia, 6).  

 

          Sembra che si trattasse della infelice principessina Catalina, sorella di Carlo V, che sarebbe poi andata sposa a Giovanni III Re del Portogallo. Fu durante la forzata immobilità della convalescenza che il Signore Gesù decise di impadronirsi del cuore di Ignazio e di finalizzare al bene della sua Chiesa tanta energia e capacità di dedizione.

          Fin dalla giovinezza Inigo s’era appassionato ai romanzi di cavalleria: chiese che gliene portassero alcuni, per aiutarsi a passare il tempo, ma nel Castello di Loyola non si riuscì a trovarne: gli portarono la Vita di Cristo di Ludolfo di Sassonia e l’incantevole Legenda aurea di Jacopo da Varagine.

          La prima cosa che il malato scoprì era che esisteva un altro mondo (quello di san Francesco, san Domenico e di molti altri Santi) dove ugual­mente si amava, si combatteva, si soffriva e si acquistava gloria: ma per un altro Signore, e per un altro Amore.

          E questo «nuovo mondo» si imponeva in tutta la sua urgenza e serietà con questa domanda che gli martellava dentro: «E se io facessi ciò che ha fatto san Francesco, o quello che ha fatto san Domenico?» (n. 7).

          Nota l’Autobiografia: «Tutto il suo ragionamento si riduceva a questo: san Domenico ha fatto questo, ebbene devo farlo anch’io; san Francesco ha fatto quest’altro, ebbene devo farlo anch’io».  

 

Ma poi veniva ripreso dalle antiche immaginazioni e dagli antichi amori.

          Tuttavia Ignazio ebbe la fortuna di sapersi guardare dentro, e osservò una sorta di «legge» che regola la vita dello spirito. Osservò che, quando pensava a Dio e ai santi, dapprima faceva fatica, ma poi restava pieno di gioia. Viceversa, quando pensava agli eroismi mondani e alle passioni cavalleresche, dapprima provava immediato piacere e soddisfazione, ma alla fine restava triste e inquieto. Senza ancora saperlo Inigo s’era inoltrato negli spazi dell’anima, in quella avventura interiore nella quale sarebbe poi diventato maestro.

          Decise dunque di attuare la sua nuova vocazione: appena guarì, divenne «il pellegrino», deciso a giungere fino alla culla dell’avvenimento cristiano, in Terra Santa.

La prima tappa fu il Santuario di Monserrat dove preparò per iscritto la sua confessione generale: ci impiegò tre giorni. Alla sera del 24 marzo 1522, vigilia dell’Annunciazione «in tutta segre­tezza se ne andò da un povero, si spogliò dei suoi vestiti, di cui gli fece dono, indossò una tunica di sacco mal tessuto e assai ruvido» (n. 18 e 16); poi iniziò, davanti all’altare della Madonna, la sua «veglia d’armi»: una intera notte di preghiera, sempre in piedi o in ginocchio, per diventare cavaliere di Dio e della Vergine Santa.

          Si recò quindi a Manresa, una città che Ignazio definì poi «la mia chiesa primitiva». Qui gli accaddero le cinque visioni che lo plasmarono dal punto di vista cristiano.

          Prima della conversione Inigo si riteneva, tutto sommato, un buon cristiano ‑ nonostante le sue debolezze - ed era fiero della sua fede. Ma, dopo la conversione, egli diventa cristiano: la luce della rivelazione lo afferra e dilaga nel suo cuore e nella sua intelligenza; la pretesa e la novità dell’avvenimento cristiano lo afferrano e lo dominano.

          Parliamo di «visioni», ma Ignazio insisterà sempre che non si trattò di immagini o di forme distinte (nemmeno quando vide Cristo o Maria), ma piuttosto di illuminazioni interiori. La sua formula è questa: «Vide con gli occhi interiori».

          La prima «visione» riguardò la Trinità: il mistero vivo, caldo, delle tre Persone divine, lo penetrò con una tale forza e un tale struggimento di cuore che egli pianse a lungo, e ciò gli capiterà poi spesso nella vita (cfr. n. 28).

          La seconda «visione» riguardò la Creazione: «Gli si rappresentò nell’in­telletto, accompagnato da grande allegria spirituale, il modo con cui Dio aveva creato il mondo» (n. 29).

La terza «visione» riguardò «come nostro Signore stava nel Sacramento dell’altare» (n. 29).

La quarta «visione» riguardò «l’umanità di Cristo e la figura di Maria» (n. 29).

          La quinta «visione» riguardò il significato di tutta l’esistenza, e fu così importante che «in tutto il corso della sua vita, fino a sessantadue anni suonati, sommando tutti gli aiuti di Dio e tutto ciò che ha imparato, anche riunito tutto assieme, non gli pare di aver appreso tanto come in quella sola volta». Essa accadde lungo le rive del fiume Cardoner. Ascoltiamone il racconto, sempre dall’Autobiografia: «Camminando cosi assorto nelle sue devozioni, egli si sedette un momento, rivolto verso l’acqua che scorreva in basso, e stando lì seduto, cominciarono ad aprirglisi gli occhi dell’intelletto. Non già che avesse una visione, macapì e conobbe molte cose della vita spirituale, della fede, e delle Scritture, con una tale luce che tutte le cose gli parevano nuove» (n. 30). Un confidente di Ignazio lo udì dire che gli sembrò allora «d’essere un altro uomo e che l’intelletto fosse diverso da quello di prima».

          Trinità, Creazione, Eucaristia, Umanità di Cristo e di Maria, il significato unitario di tutto (oggi diremmo: «una cultura nuova»): furono le basi dogmatiche e spirituali su cui Ignazio potè iniziare la sua costruzione.

          Notiamo di passaggio un tema che meriterebbe di essere lungamente approfondito: sono esattamente i punti cardinali su cui è entrato invece in crisi il pensiero teologico di Lutero. Il Riformatore protestante fu così preoccupato del problema della «sua salvezza» (della salvezza individuale del credente) che ridusse tutto il cri­stianesimo a un esclusivo faccia a faccia tra l'uomo e Dio: faccia a faccia che accade‑per così dire‑in Cristo (e perciò Lutero parlava di sola fede), ma con una tale angosciosa preoccupazione di sé che aLutero sfuggì la «interezza» del dono di Dio.

          Amò Cristo, ma non «tutto ciò che è di Cristo»: il mondo vivo, caldo, amoroso di Dio (la vita trínitaría del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo) quasi gli sfuggi; il mondo vivo caldo, amoroso di Cristo (la sua Chiesa, ricca di grazie e di doni, nonostante le sue debolezze) ugualmente gli sfuggì.

          Ignazio invece si lascerà assorbire dal «mondo di Dio» e diverrà il Santo della Trinità (nel suo Diario egli ha addirittura segnato quante lacrime ac­compagnassero ogni giorno la sua preghiera, i suoi colloqui con le tre divine Persone ‑ tanto da temere di perdere la vista).

          Allo stesso modo Ignazio si lascerà assorbire dal mondo di Cristo, fino a diventare il «Santo della Chiesa», il Santo della costruzione ecclesiale bella, ben organizzata e attiva, nella quale ognuno deve saper versare il sangue vivo della sua totale disponibilità a servire.

Ma torniamo a quei primi passi.

          Il suo immediato progetto restava comunque quello di recarsi in Terra Santa e di restarvi per sempre. Vi si recò infatti, ma pur cogliendo l’essenziale del viaggio, la decisione di restare si rivelò irrealizzabile (venne addirittura minacciato di scomunica, se non ripartiva). Ci era andato per respirare la stessa aria che aveva respirato Cristo, vedere gli stessi luoghi, le stesse città, percorrere gli stessi sentieri.

          Meditava e ricostruiva nel suo intimo paesaggi, suoni, immagini, odori: tutto ciò che serviva a tener desto il realismo dell’Incarnazione. Addirittura, quando tornò aveva imparato a esprimersi come pensava che avesse fatto Gesù (ad esempio: usando il «voi» nel rivolgersi alle persone!).

          Su questa esperienza di «immersione» nell’ambiente vivo di Cristo incarnato, egli fondò la sua pedagogia: il mistero di Cristo va accostato «come se fossimo presenti e partecipando alla totalità del suo mistero».

          Il nostro Papini giustamente ha commentato, «Ignazio ha ricondotto i cristiani alla familiarità visiva, uditiva, quasi tattile e spirante, di Cristo figlio del Dio vero; il suo metodo sopprime l’illusione dei secoli e fa di tutti i cristiani obbedienti i contemporanei di Pilato e di san Giovanni». Poiché egli non poteva più fermarsi nella terra di Gesù, gli restava una sola conclusione: obbedire alla Parola con cui Cristo ha inviato i suoi discepoli nel mondo.

          Ignazio volle restare sempre con Cristo «lasciandosi inviare missionariarnente», secondo la promessa evangelica: «andate in tutto il mondo... io sarò con voi». Tornò dunque indietro e decise di prepararsi per la «missione», pagando tutto il prezzo necessario.

          Si iscrisse ‑ nonostante l’età ‑ all’università di Alcalà, poi a Salamanca, poi a Parigi, e dovunque radunava attorno a sé dei compagni e li educava al suo metodo: capacità di «esercitarsi» a guardare dentro il proprio spirito, poi di offrirsi totalmente a Cristo, poi di acquisire una disponibilità assoluta a qualunque missione.

          Portava con sé un libretto, da lui stesso composto, che ampliava e sistemava man mano che passavano gli anni e cresceva la sua esperienza: gli Esercizi Spi­rituali, «Esercizi perché l’uomo vinca se stesso ed ordini la sua vita ... ». Un mese di meditazioni e di lavoro interiore: quattro settimane per imparare‑sotto la guida di un maestro ‑ ad orientarsi verso un fine degno dell’uomo, per decidere il proprio «arruolamento» come soldati di Cristo, il grande e vivo Re Ignazio non rinnega la sua origine e la sua funzione!) per conformarsi al Signore Gesù, ai misteri della sua vita, ai suoi sentimenti.

          Ignazio guidava egli stesso i suoi amici, uno per uno, in questo duro ed esaltante lavoro degli Esercizi da cui uscivano rinnovati.

          Subì alcuni processi da parte dell’Inquisizione, dato che pretendeva insegnare cose spirituali senza aver studiato e senza essere prete. Ma non trovarono nulla da rimproverargli.

          A Salamanca, a una signora che lo commiserava per esser finito nelle celle dell’Inquisizione, rispose con umile certezza e fierezza: «Salamanca non ha tanti ceppi e catene quante io ne desidero per amore di Dio». 

 

          D’altra parte Ignazio insisteva sul suo buon diritto: «Noi non predichiamo, ma con alcuni parliamo familiarmente delle cose di Dio, come facciamo dopo mangiato con alcuni che ci invitano».  

 

          A Parigi riuscì a radunare un gruppetto stabile di «amici del Signore», tutti giovani di particolare valore: il più difficile da conquistare fu Francesco Saverio che Ignazio perseguitò a lungo, ripetendogli le parole del Vangelo: «Che giova all’uomo guadagnare tutto il mondo se poi perde se stesso?».

L’accusa che gli rivolsero nell’ambiente dell’Università fu la seguente: «Seduttore degli studenti» (n. 78).

          Nel 1537 Ignazio e i primi compagni poterono finalmente essere ordinati sacerdoti e poco dopo assunsero il nome di«compagni di Gesù». Il senso ultimo di questo appellativo risultò però dalla visione che Ignazio ebbe mentre viaggiava verso Roma.

          Aveva deciso che, per un anno intero dopo l’ordinazione sacerdotale, non avrebbe celebrato la Messa in modo da potervisi preparare degnamente. E la preparazione consisteva in una preghiera ripetuta ininterrottamente nella quale chiedeva alla Santa Vergine «di volerlo mettere col Suo Figliolo».

          Ed ecco che, giunto a una cappella in località detta «La Storta», vicino a Isola Farnese, «facendo orazione, ha sentito tale mutazione nell’anima sua e ha visto tanto chiaramente che Iddio Padre lo metteva con Christo Suo Figliolo, che non gli basterebbe l’anímo di dubitare di questo: che Dio Padre lo metteva col suo Figliolo». 

 

          Dobbiamo comprendere bene questa particolare «mistica ignaziana». In un’altra versione di questo stesso episodio, Ignazio precisò che Dio Padre «lo metteva con Cristo» e poi gli diceva «Voglio che tu ci serva».

          «Servire» fu la grande parola di Ignazio: Cristo è un Re venuto nel nostro misero mondo per conquistarlo e arricchirlo, per ricondurlo al Suo Dio e Creatore; ma la sua opera non è ancora compiuta: Egli ha bisogno di amici fidati e di cooperatori generosi.

          Per questo Ignazio inventò un modo nuovo di consacrarsi a Dio: pur stimandoli moltissimo, non volle per i suoi né le lunghe preghiere corali, né le penitenze e gli usi monastici, ma una sola cosa, una obbedienza assoluta come disponibilità a lasciarsi inviare e utilizzare dovunque la Gloria di Cristo lo esigesse. Perinde ac cadaver, come un cadavere nelle mani di chi ti rappresenta Cristo e ti indica la sua volontà. Formula dura e urtante se non si capisce che essa indica l’abbandono totale, a corpo morto, nel più ardente, generoso e attivo amore.

          A Roma i nuovi «compagni di Gesù» cominciarono contestando un celebre predicatore quaresimalista, dell’ordine agostiniano, che insegnava dal pulpito dottrine luterane. In cambio furono essi stessi accusati di essere eretici, e processati: ne uscirono con fama di santità.

          Solo quando tutto fu finito si presentarono al Papa, mettendosi a sua totale disposizione, secondo il voto che avevano fatto. Anche questa fu una scelta di ferrea consequenzialità: se Ignazio non poteva stare là dove Cristo era vissuto in terra, doveva stare là dove c’era il suo Vicario: con la stessa dedizione, con la stessa obbedienza, con la stessa disponibile energia, con lo stesso amore.

          La prima messa Ignazio la celebrò la notte di Natale del 1538 a Santa Maria Maggiore, all’altare del presepío: cosi si ricongiungeva, misticamente ma realmente, a quella «origine» presso la quale voleva sempre restare.

          Da allora la storia di Ignazio diventa la storia della «Compagnia di Gesù». Egli non si muoverà più da Roma, e da lì ‑ dal cuore della cristianità e dalla prossimità fisica e spirituale al Vicario di Cristo ‑ i suoi figli muoveranno alla conquista del mondo, mentre il Santo li seguirà con la sua autorità forte e dolce.

          Ignazio era un organizzatore nato: l’apostolato veniva organizzato col sistema delle «opere» e delle «confraternite», secondo i diversi bisogni in cui egli decideva di impegnare i suoi figli e fratelli. La loro selezione era severa, sulla base del principio che «chi non era buono per il mondo non era buono nemmeno per la Compagnia», e che «per la Compagnia era buono soltanto chi sapeva vivere e farsi valere anche nel mondo». Dovevano essere in prima linea, dovevano riconquistare le posizioni perdute (nell’Europa protestantizzata) e quelle non ancora conquistate, nei vasti spazi delle missioni in India, Congo, Etiopia, Giappone.

          Ritorna qui prepotente il nome e il ricordo di san Francesco Saverio che, in Ignazio, aveva trovato «il suo vero e unico padre, nel cuore di Cristo». In quel 1540 Ignazio era a letto malato quando chiamò Francesco per dirgli che il Re del Portogallo chiedeva quattro «compagni» per i suoi domini nelle Indie. Egli ne aveva promessi due, e uno di quelli designati era venuto meno per malattia.

          «Benissimo, eccomi pronto! », aveva risposto Francesco: era così iniziato quel suo leggendario viaggio in terra di missione, che sarebbe durato undici anni.

          Non possiamo raccontare ora la sua straordinaria avventura (si dice che quando la flotta d’Oriente sbarcava a Lisbona, si dava al re questo resoconto della lontana situazione: «L’India è in pace, perché là c’è Padre Francesco»), ma possiamo percepire – come riflesso – un aspetto essenziale dell’opera di Ignazio. Si tratta della passione con cui Francesco Saverio visse la sua appartenenza alla compagnia.

          Anche se solitario nelle lande più sperdute, egli si sentiva legato ai suoi fratelli, più che a una famiglia di sangue: «Noi, stando qui ‑ scriveva nelle sue lettere ‑ siamo opera di voi tutti». E, della Compagnia, voleva conoscere tutto: chiedeva che gli inviassero dall’Europa «lettere si lunghe che bisognassero otto giorni per leggerle» e anch’egli non avrebbe mai smesso di scrivere: «Quando incomincio a parlare della Compagnia non so più come uscire dall’argomento, non so più come finire la mia lettera._ ma bisogna terminare, mio malgrado, perché i vascelli devono partire. Non trovo migliore conclusione che giurare a tutti della Compagnia che se io dovessi dimenticarla, che si dissecchi prima la mia mano destra».  

 

          «Compagnia di Gesù compagnia d’Amore», questa era la bega definizione che ne dava, e non temeva di apparire sentimentale, quando narrava: «Vi faccio sapere, fratelli carissimi, che dalle lettere che mi avete scritto ho ritagliato í vostri nomi, scritti dalla vostra stessa mano e, assieme alla formula della mia professione, li pOrto sempre con me, per la consolazione che ne ricevo»: infatti teneva tutto in una piccola custodia che portava sul petto.  

 

Come è ovvio, egli sentiva soprattutto, con indicibile fede e passione, la «compagnia» di Ignazio.

          Conclude così una lettera che gli invia: «Termino pregando la santa carità vostra, venerando Padre dell’anima mia, mentre vi scrivo, inginocchio per terra, come se foste davanti a me, di raccomandarmi motto a Dio Nostro Signore... perché mi doni la grazia di conoscere in questa vita la Sua santissima volontà, e la forza di compierla fedelmente. Amen. La stessa preghiera faccio a tutti quelli della Compagnia. Vostro minimo e inutile figlio, Francesco». 

 

La tenerezza del «Padre» non era minore: «Tutto tuo, senza poterti mai dimenticare. Ignazio», così gli scriveva...

          E Francesco: «Con le lacrime ho letto queste parole e con le lacrime le trascrivo ricordandomi del tempo passato e del molto amore che sempre avete avuto e avete per di quale grande desiderio abbiate di vedermi, prima di terminare questa vita Dio sa quale emozione hanno suscitato nell’anima mia parole…».

 

          Non sono espressioni estenuate di un nostalgico sentimentale: sono l’attaccamento forte e invincibile di un credente che si inoltrava, per Cristo, là dove nessuno era ancora giunto, rischiando continuamente torture e morte.

          Forse l’espressione che meglio unisce il Maestro al Discepolo, nella stessa passione per la stessa obbedienza, è in queste parole di Francesco: «È peggio della morte il vivere lasciando Cristo, dopo averlo conosciuto per seguire le proprie opinioni o inclinazioni... Non vi è al mondo una pena simile a questa». 

 

          Ma torniamo a Ignazio, che sarà canonizzato lo stesso giorno di questo suo figlio prediletto. Alla passione missionaria egli legava, in forma ugualmente stringente, quella educativa. Perciò volle che i suoi figli diventassero gli educatori delle nuove generazioni cristiane: nelle corti dei re e dei nobili, come nelle più prestigiose università, come nei più piccoli villaggi.

          Uno dei loro più celebri educatori ‑ Juan Bonifacio ‑ quand’era ancora giovanissimo insegnava lettere umanistiche a Medina del Campo, verso la metà del sec. XVI. Usava dire che «formare ì bambini significa rinnovare il mondo». E non sapeva quanta ragione avesse: tra quei ragazzi della sua scuola c’era il piccolo Juan de Yepes, il futuro Dottore mistico, san Giovanni della Croce.

          I primi collegi gesuiti in Italia furono fondati a Padova nel 1542, a Bologna nel 1546, a Messina nel 1548. In particolare ‑ per l’enorme prestigio e influenza che acquisterà in brevissimo tempo ricordiamo quel «Collegio Romano» aperto nel 1551: «Schola de grammatica, d’humanità e dottrina cristiana gratis», si leggeva simpaticamente sul cartello posto sulla prima casa affittata allo scopo.

Cinque anni dopo questo collegio sarà già riconosciuto come Università (è l’attuale «Gregoriana»).

          Prima che Ignazio muoia, e dunque in poco più di un decennio ‑ oltre alle normali case per la formazione e la vita dei suoi membri - la Compagnia avrà aperto ventuno collegi in Italia, diciotto in Spagna, quattro in Portogallo, due in Francia, cinque in Germania, cinque in India, tre in Brasile, uno in Giappone.

E l’intero Istituto conterà già undici Province religiose, con un migliaio di membri.

          Quando le preoccupazioni, soprattutto quelle economiche, si facevano assillanti, Ignazio esclamava: «In confronto al tesoro di speranze che possediamo, tutto è poca cosa. Dio che ce le dà, non le deluderà».

          Intanto il Fondatore viveva a Roma, nel centro della cristianità, desideroso che tale città diventasse «l’esempio e non lo scandalo del mondo». Guidava la vita della sua «Compagnia» con una sola parola d’ordine nella quale compendiava tutta la sua spiritualità: «Ad maiorem Dei Gloriam»: cercava sempre e in ogni modo di accrescere la Gloria di Dio.

          «Servire Cristo, servire la Chiesa: e raggiungere in questa assoluta dedizione le più alte vette della contemplazione».«Assomigliare ai più grandi mistici ma dentro la più obbediente dedizione a Cristo nella concretezza della sua Chiesa».Coniarono per lui una nuova formula: «In actione contemplativus»: contemplativo nell’azione.

          Celebri sono rimaste le sue Regole per sentire con la Chiesa, che scandalizzano tutti i ben pensanti perché le può capire solo chi è preda di un grande amore e di una grande fede.

          Annotava dunque Ignazio: «Per non sbagliare, dobbiamo sempre ritenere che quello che vediamo bianco sia nero, se lo dice la Chiesa gerarchica. Perché crediamo che quello Spirito che ci governa e ci sorregge, per la salvezza delle nostre anime, sia lo stesso in Cristo Nostro Signore, che è lo Sposo, e nella Chiesa, che è la sua sposa. Infatti la nostra Santa Madre Chiesa è retta e governata dallo stesso Spirito e Signore Nostro il quale dettò i dieci Comandamenti» (Per il vero criterio che dobbiamo avere nella Chiesa militante ‑ XIII Regola). 

 

«Lodare più che criticare. Costruire più che demolire questo era il suo motto, rivelatore della sua particolare sensibilità ecclesiale».

          Era l’alba del 31 luglio 1556 quando a Roma si sparse velocemente la voce: «é morto il Santo!». Era accaduto quello che Ignazio attendeva ormai da cinque anni, da quando s’era ammalato gravemente.

          «Allora ‑ scrisse egli nell’Autobiografia ‑ pensando alla morte egli provava una tale allegria e una consolazione spirituale così grande, perché stava per morire, che si scioglieva in lacrime. Questo stato gli divenne talmente continuo che molte volte lasciava di pensare alla morte per non provare tanta consolazione» (n. 33).

          Una delle descrizioni più simpatiche che ci restano di lui è quella di un padovano che lo conobbe e lo descrisse così: «Un espannoleto, picolo, un poco zopo, che ha l’ochi alegri». I santi ‑ anche quando sono grandi e geniali ‑ attraversano il nostro mondo con semplicità e familiarità. Ma seguendoli, incontriamo Dio.

 autore: Antonio Sicari


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)