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1.3/ Il significato della riforma cattolica come di ogni vera riforma della Chiesa

dall’Editoriale de “La Civiltà Cattolica”, n. 3562, 21/11/1998
Nel Cinquecento la Chiesa ha visto il trionfo del paganesimo rinascimentale, il dilagare della corruzione, giunta con Alessandro VI fino al soglio pontificio, un’incredibile ignoranza del clero, l’abbandono delle sedi vescovili, le pratiche simoniache, la scissione della cristianità occidentale a causa delle riforme luterana e calvinista, il sacco di Roma, la minaccia dell’invasione turca. Sembrava che sotto tanti colpi la Chiesa dovesse crollare, tanto più che Carlo V, il difensore ufficiale del cattolicesimo, si alleava con i principi protestanti, i quali si impadronivano della maggior parte delle regioni settentrionali dell’Europa, e Francesco I, re di Francia, si alleava con Solimano, il nemico della cristianità. 

Eppure, forse in nessun secolo della sua storia come nel Cinquecento la Chiesa diede segni più forti di vitalità. È straordinario il numero dei santi canonizzati vissuti nel Cinquecento. Eccone alcuni: Girolamo Emiliani, Antonio Maria Zaccaria, Ignazio di Loyola, Carlo Borromeo, Gaetano da Thiene, Giuseppe Calasanzio, Filippo Neri, Francesco Saverio, Pietro Canisio, Francesco Borgia, Giovanni di Dio, Francesco Caracciolo, Giovanni Leonardi, Andrea Avellino, Pietro di Alcantara, Tommaso da Villanova, Tommaso Moro, Giovanni Fisher, Pio V, Stanislao Kostka, Luigi Gonzaga, Pasquale Baylon, Camillo de Lellis, Lorenzo da Brindisi, Turibio di Mongrovejo, Giovanni della Croce, Francesco Solano, Roberto Bellarmino, Angela Merici, Teresa di Gesù, Maria Maddalena de’ Pazzi, ecc. È un elenco impressionante, anche se incompleto: si tratta, nella maggior parte dei casi, di giganti della santità cristiana, della carità, della mistica e dell’apostolato cattolico. 

Non è tutto. Nel Cinquecento fu celebrato il Concilio di Trento il quale, da una parte, mise in chiaro la dottrina cattolica e, dall’altro, pose le basi per la riforma della vita cristiana;furono fondati molti ordini religiosi (teatini, scolopi, barnabiti, cappuccini, gesuiti, fatebenefratelli, camilliani, carmelitani scalzi, ecc.), che costituirono una delle forze ecclesiali più vive e attive; vennero aperte al Vangelo l’Asia, l’Africa e l’America Latina; fu definitivamente respinta la minaccia turca con la vittoria di Lepanto; si riuscì a fermare la diffusione del protestantesimo nel sud dell’Europa e a riconquistare in parte il terreno perduto con la riforma luterana. 

Lo storico che si pone di fronte a questi fatti non può non essere sorpreso dalla capacità della Chiesa di riprendersi da pesanti sconfitte e di rinnovarsi continuamente; ma la sua sorpresa crescerà, se rifletterà che non soltanto essa è stata ed è combattuta da forze esterne ad essa assai superiori, ma è debole interiormente. Certo, se la Chiesa fosse stata e fosse forte e vigorosa e potesse quindi combattere con i suoi avversari ad armi pari, la sua sopravvivenza potrebbe spiegarsi; ma sfortunatamente la Chiesa è debole e divisa; ci sono in essa mediocrità, debolezze, peccati; c’è spesso mancanza di intelligenza dei problemi, di strategie adeguate, di iniziativa e di coraggio. 

In realtà, i colpi più duri si sono abbattuti sulla Chiesa non dal di fuori, ma dall’interno, per opera dei suoi stessi figli: per causa loro essa ha versato le lacrime più amare e ha corso i più gravi pericoli per la stessa esistenza. La storia è piena di debolezze e di tradimenti perpetrati dai suoi figli ai suoi danni. Eppure, sottoposta ad attacchi combinati esterni ed interni, la Chiesa non è finita, ma ogni volta si è ripresa vigorosamente, mentre i suoi avversari, tanto più forti di essa, sono scomparsi.

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Dalla lettera di Romano Guardini a mons. G.B. Montini, del 29 marzo 1952

Il riconoscimento della Chiesa è stato la convinzione determinante della mia vita. Quando ero ancora studente di scienze politiche ho capito che la vera e propria scelta cristiana non ha luogo davanti al concetto di Dio e neppure di fronte alla figura di Cristo, ma davanti alla Chiesa. Ciò mi ha fatto capire che una vera efficacia è possibile solo nell'unità con essa.

Da Romano Guardini, Il senso della Chiesa, Morcelliana, Brescia, 2007, pp.106-107

Il discorso si volge alla Chiesa reale, non alla sua idea, non a una Chiesa spirituale, bensì a quella storica, attuale. La Chiesa non è affatto un’idea che possa essere progettata a priori, e su cui ci si possa ritirare, quando la realtà fallisca. In fondo non vi è alcuna filosofia della Chiesa: essa si presenta piuttosto come una realtà unica. La sua condizione è analoga a quella d’un uomo: se qualcuno dicesse che il suo assenso, l’approvazione, non vale affatto per l’essere concreto dell’amico, bensì per la sua idea, gli farebbe ingiustizia.
Sì, sarebbe sleale verso di lui; poiché è la personalità dell’amico che esige si consenta alla sua realtà esistenziale, ovvero la si rinneghi. Il sì o il no, la lotta o la fedeltà – non però nell’intendimento d’astrarre dalla realtà, per amore dell’idea: sarebbe metafisicamente falso, in quanto costituirebbe un disconoscimento dell’importanza decisiva della personalità, la quale impedisce di farne semplicemente un caso individuo dell’universale.

E sarebbe eticamente illecito, poiché equivarrebbe a porre al posto di quell’atteggiamento, che si richiede dalla persona, quello ben diverso che è adatto di fronte ad una cosa. Appunto tale è l’assurdità di una distinzione tra realtà ed idea della Chiesa. Vi e è però a questo proposito tanto più stringente la necessità di un’altra distinzione. Ci si deve chiedere: riesce ad apparire la forma essenziale, la perfezione interiore della Chiesa nella sua manifestazione esteriore nel tempo? Sono operanti le energie essenziali della Chiesa attraverso le sue espressioni di vita visibile? L’interiorità del suo essere si inserisce percepibilmente negli uomini che formano la Chiesa?

Qui nessuno si può sentire esentato dal dare risposta, perché essa lo riguarda personalmente. Quando si sia riconosciuto che la Chiesa nella sua reale essenza è rivestita di valore e rimane ognora una via e una forza atta a farci pervenire al compimento del nostro destino, ciò ci riempirà innanzitutto di un profondo senso di gratitudine, non ci concederà tuttavia per nulla il diritto di collocarci in essa a nostro agio, bensì si muterà in una istanza: poiché la parabola dei talenti [cfr. Mt 26,15; Lc 19,13] vale anche per i nostri rapporti con la Chiesa. Noi siamo gravati di una responsabilità in rapporto ad essa, ciascuno a suo modo, il sacerdote in virtù dell’Ordine, il laico attraverso la Cresima. Dipende da ciascuno di noi con quanta larghezza e profondità contribuiamo a determinarla nel suo essere e nel suo manifestarsi, nel suo interno e nel suo esterno.

da J. Ratzinger, Una compagnia sempre riformanda, Conferenza a conclusione dell’XI edizione del Meeting per l’amicizia dei popoli, Rimini, 25- agosto-1 settembre 1990, pubblicata in J. Ratzinger, La bellezza. La chiesa, LEV-ITACA, Roma-Castel Bolognese, 2005, pp. 30-33
Una Chiesa che riposi sulle decisioni di una maggioranza diventa una Chiesa puramente umana. Essa è ridotta al livello di ciò che è plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie intuizioni ed opinioni. L’opinione sostituisce la fede. Ed effettivamente, nelle formule di fede coniate da sé che io conosco, il significato dell’espressione “credo” non va mai al di là del significato “noi pensiamo”. La Chiesa fatta da sé ha alla fine il sapore del “se stessi”, che agli altri “se stessi” non è mai gradito e ben presto rivela la propria piccolezza. Essa si è ritirata nell’ambito dell’empirico, e così si è dissolta anche come ideale sognato.

L’attivista, colui che vuole costruire tutto da sé, è il contrario di colui che ammira (l’“ammiratore”). Egli restringe l’ambito della propria ragione e perde così di vista il Mistero. Quanto più nella Chiesa si estende l’ambito delle cose decise da sé e fatte da sé, tanto più angusta essa diventa per noi tutti. In essa la dimensione grande, liberante, non è costituita da ciò che noi stessi facciamo, ma da quello che a noi tutti è donato. Quello che non proviene dal nostro volere e inventare; bensì è un precederci, un venire a noi di ciò che è inimmaginabile, di ciò che “è più grande del nostro cuore”. 

La reformatio, quella che è necessaria in ogni tempo, non consiste nel fatto che noi possiamo rimodellarci sempre di nuovo la “nostra” Chiesa come più ci piace, che noi possiamo inventarla, bensì nel fatto che noi spazziamo via sempre nuovamente le nostre proprie costruzioni di sostegno, in favore della luce purissima che viene dall’alto e che è nello stesso tempo l’irruzione della pura libertà.

Lasciatemi dire con un’immagine ciò che io intendo, un’immagine che ho trovato in Michelangelo, il quale riprende in questo da parte sua antiche concezioni della mistica e della filosofia cristiane. Con lo sguardo dell’artista, Michelangelo vedeva già nella pietra che gli stava davanti l’immagine-guida che nascostamente attendeva di venir liberata e messa in luce. Il compito dell’artista – secondo lui – era solo quello di toglier via ciò che ancora ricopriva l’immagine. Michelangelo concepiva l’autentica azione artistica come un riportare alla luce, un rimettere in libertà, non come un fare. [...]

Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana. E per questo tutto ciò che è fatto dall’uomo, all’interno della Chiesa, deve riconoscersi nel suo puro carattere di servizio e ritrarsi davanti a ciò che più conta e che è l’essenziale. 
La libertà, che noi ci aspettiamo con ragione dalla Chiesa e nella Chiesa, non si realizza per il fatto che noi introduciamo in essa il principio della maggioranza. Essa non dipende dal fatto che la maggioranza più ampia possibile prevalga sulla minoranza più esigua possibile. Essa dipende invece dal fatto che nessuno può imporre il suo proprio volere agli altri, bensì tutti si riconoscono legati alla parola e alla volontà dell’Unico, che è il nostro Signore e la nostra libertà. 

Nella Chiesa l’atmosfera diventa angusta e soffocante se i portatori del ministero dimenticano che il Sacramento non è una spartizione di potere, ma è invece espropriazione di me stesso in favore di Colui, nella persona del quale io devo parlare ed agire. Dove alla sempre maggiore responsabilità corrisponde la sempre maggiore auto espropriazione, lì nessuno è schiavo dell’altro; lì domina il Signore e perciò vale il principio che: «Il Signore è lo Spirito. Dove però c’è lo Spirito del Signore ivi c’è la libertà» (2Cor 3,17).
Quanti più apparati noi costruiamo, siano anche i più moderni, tanto meno c’è spazio per lo Spirito, tanto meno c’è spazio per il Signore, e tanto meno c’è libertà. Io penso che noi dovremmo, sotto questo punto di vista, iniziare nella Chiesa a tutti i livelli un esame di coscienza senza riserve. A tutti i livelli questo esame di coscienza dovrebbe avere conseguenze assai concrete, e recare con sé un’ablatio che lasci di nuovo trasparire il volto autentico della Chiesa. Esso potrebbe ridare a noi tutti il senso della libertà e del trovarsi a casa propria in maniera completamente nuova.

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da A. Sicari, Il terzo libro dei ritratti dei santi, Jaca, Milano, 1993, p. 27 (lettera dei professori dell’università di Barcellona a Ignazio del 1555)

«Reverendo Padre, quando consideriamo le tue opere e le confrontiamo con quelle dell' antichità, tu ci appari davvero beatissimo, perché Cristo ti ha eletto (... ) per sostenere con vigore i vecchi edifici ecclesiastici che minacciano di rovinare per vecchiezza e per incuria dei loro architetti, e per costruirne di nuovi. È quanto han fatto in altri tempi Antonio e Basilio, Benedetto, Bernardo, Francesco e Domenico e molti altri illustri personaggi che veneriamo come santi. E nominiamo con onore. Verrà un tempo - lo speriamo e lo desideriamo - nel quale tu sarai invocato nello stesso modo per le tue grandi opere, e la tua memoria sarà sacrosanta in tutto il mondo». 

da A. Sicari, Il terzo libro dei ritratti dei santi, Jaca, Milano, 1993, p. 38
«Lodare più che criticare. Costruire più che demolire»: questo era il suo [di Ignazio] motto, rivelatore della sua particolare sensibilità ecclesiale.




2/ Ignazio di Loyola

2.1/ La serietà di una vita anche precedentemente alla conversione: il concetto di onore

Autobiografia, 1 (cfr. assedio di Pamplona)
Fino a ventisei anni, fu un uomo dedito alla vanità del mondo. Suo diletto preferito era il maneggio delle armi, con un grande e vano desiderio di procacciarsi fama.

da A. Sicari, Il terzo libro dei ritratti dei santi, Jaca, Milano, 1993, p. 29
«Non si dava pace, perché voleva continuare la vita mondana e pensava che ciò lo rendeva deforme [dopo la ferita alla gamba in guerra]. Chiese ai medici se si potesse nuovamente tagliare. Essi risposero che certamente si poteva tagliare, ma che i dolori sarebbero stati più atroci di quelli già sofferti perché l'osso era già sano e l'operazione era lunga. Ciò nonostante egli decise di sottoporsi a quel martirio per il proprio capriccio. Suo fratello maggiore era assai preoccupato e diceva che egli non avrebbe potuto sopportare un simile dolore. Il ferito invece lo sopportò con la solita forza d'animo. Si incise la carne, si segò l'osso sporgente, poi si usarono vari rimedi perché la gamba non restasse così corta: si applicarono unguenti e apparecchi che la tenessero in trazione. Un vero martirio. Ma Nostro Signore gli ridiede salute a poco a poco» (Autobiografia, 4-5).

da A. Sicari, Il terzo libro dei ritratti dei santi, Jaca, Milano, 1993, p. 29
«Immaginava le imprese che avrebbe voluto compiere in onore di una signora, i mezzi che avrebbe usato per raggiungere il paese dove abitava, le parole che avrebbe detto, i fatti d'arme che avrebbe compiuto in suo onore. Era talmente perduto in simili progetti che non s'accorgeva quanto fosse impossibile realizzarli; perché quella dama non era di nobiltà ordinaria: non era né contessa né duchessa, ma di rango assai più elevato» (Autobiografia, 6).
Sembra che si trattasse della infelice principessina Catalina, sorella di Carlo v, che sarebbe poi andata sposa a Giovanni III Re del Portogallo.

2.2/ Discernere cosa si vuole veramente: quali segni per orientarsi nei desideri? La gioia del bene che dura una vita intera e l’eternità

dagli "Atti" raccolti da Ludovico Consalvo dalla bocca di sant'Ignazio (Cap. 1, 5-9; Acta SS. Iulii, 7, 1868, 647)
Essendo stato appassionato divoratore di romanzi e d'altri libri fantasiosi sulle imprese mirabolanti di celebri personaggi, quando cominciò a sentirsi in via di guarigione, Ignazio domandò che gliene fossero dati alcuni tanto per ingannare il tempo. Ma nella casa, dove era ricoverato, non si trovò alcun libro di quel genere, per cui gliene furono dati due intitolati "Vita di Cristo" e "Florilegio di santi", ambedue nella lingua materna. Si mise a leggerli e rileggerli, e man mano che assimilava il loro contenuto, sentiva nascere in sé un certo interesse ai temi ivi trattati. Ma spesso la sua mente ritornava a tutto quel mondo immaginoso descritto dalle letture precedenti. In questo complesso gioco di sollecitazioni si inserì l'azione di Dio misericordioso. Infatti, mentre leggeva la vita di Cristo nostro Signore e dei santi, pensava dentro di sé e così si interrogava: "E se facessi anch'io quello che ha fatto san Francesco; e se imitassi l'esempio di san Domenico?". Queste considerazioni duravano anche abbastanza a lungo avvicendandosi con quelle di carattere mondano. Un tale susseguirsi di stati d'animo lo occupò per molto tempo. 

Ma tra le prime e le seconde vi era una differenza. Quando pensava alle cose del mondo era preso da grande piacere; poi subito dopo quando, stanco, le abbandonava, si ritrovava triste e inaridito. Invece quando immaginava di dover condividere le austerità che aveva visto mettere in pratica dai santi, allora non solo provava piacere mentre vi pensava, ma la gioia continuava anche dopo. Tuttavia egli non avvertiva né dava peso a questa differenze fino a che, aperti un giorno gli occhi della mente, incominciò a riflettere attentamente sulle esperienze interiori che gli causavano tristezza e sulle altre che gli portavano gioia. Fu la prima meditazione intorno alle cose spirituali. In seguito, addentratosi ormai negli esercizi spirituali, costatò che proprio da qui aveva cominciato a comprendere quello che insegnò ai suoi sulla diversità degli spiriti.

dagli Esercizi spirituali
[1] Prima annotazione. Con il termine di esercizi spirituali si intende ogni forma di esame di coscienza, di meditazione, di contemplazione, di preghiera vocale e mentale, e di altre attività  spirituali, come si dirà  più avanti. Infatti, come il passeggiare, il camminare e il correre sono esercizi corporali, così si chiamano esercizi spirituali i diversi modi dipreparare e disporre l'anima a liberarsi da tutte le affezioni disordinate e, dopo averle eliminate, a cercare e trovare la volontà  di Dio nell'organizzazione della propria vita in ordine alla salvezza dell'anima.

-si tratta di purificare, di ordinare (perché spesso l’uomo non sa cosa vuole, al di là delle apparenze in cui sembra di saperlo!)

appunti da p. Daniele
Gc 1,14-15 ciascuno è tentato dalle proprie passioni che lo attraggono, poi il peccato, poi la morte!
Ma anche:
Sal 83 l'anima mia anela e desidera...
Sal 42 l'anima mia anela
Is 26,7-9 al tuo nome si volge tutto il nostro desiderio.
Nella Scrittura il desiderio è molto presente.
Il desiderio ha una forza straordinaria nella vita, ma se non siamo padroni di noi stessi, i nostri desideri possono portarci molto in alto o molto in basso!
Possiamo essere vittima dei nostri desideri. Desiderare rimanda al “mestiere” degli àuguri... guardare le stelle, guardare in alto per trarne degli auspici, come uno stato di affezione dell'io verso qualcosa di cui si desidera la contemplazione o il possesso. Esiste qualcosa che non ci serve per vivere, ma è bello, quegli oggetti spirituali che sono propri dell'uomo. Ma i desideri possono essere anche smodati!
Esperienza profonda che l'uomo cerca qualcosa... l'uomo non basta a se stesso.... non può essere autosufficiente. A detto F. Hadjadj 
Per elevare un palazzo, c’è bisogno di un terreno. Affinché l’uomo si elevi, ha bisogno di un Cielo. C’è una nostra creaturale destinazione a qualcun'altro. C’è la domanda: perché ci sono? A che serve la mia vita?

Ma esiste anche il desiderio della carne, il desiderio di una carne non cristificata
 (cfr. Gal e Rm desideri della carne e dello Spirito), esiste una lotta nel cuore dell’uomo!
Se voi osservate, esiste un identikit dell'uomo integrato, equilibrato, dell'uomo che ha trovato il suo baricentro. Un esempio? Persone disordinate che quando si innamorano cambiano!
Che cosa ami, chi ami, cosa vuoi costruire, a chi vuoi donarti?

Come avviene il cammino? Imparando ad innamorarsi del Signore! Il problema non è il desiderio, ma amare troppo poco il Signore. Per Ignazio l’uomo è un coacervo di desideri, dove ci sono desideri di cose buone e di cose cattive, desideri eccessivi di cose buone e desideri eccessivi di cose non cattive, ma solo necessarie, dove c’é mancanza di desiderio per cose buone, ma anche desideri eccessivi di cose non buone, ecc. Ecco allora la prospettiva liberante. Il desiderio ci può portare all'inferno, ma anche alle vette più alte del vivere, bisogna quindi  scegliere ciò che è oggettivamente più idoneo, senza lasciarsi distogliere dall'obiettivo dei desideri più profondi.

da L’ordine dei sentimenti nel cammino di un credentedi Carlo Maria Martini   
Sento timore e trepidazione perché a causa della natura complessa e poliedrica del tema del sentire umano non è possibile azzardare una parola conclusiva, ma semmai indicare qualche pista di lavoro.
“L’ordine dei sentimenti nel cammino di un credente: gli esercizi spirituali di sant’Ignazio quale cammino verso la libertà”, è il titolo della mia relazione. Possiamo esprimerlo in forma di domanda: “C’è un ordine dei sentimenti? C’è un governo dei sentimenti? E’ lecito questo governo? E’ possibile?”. In altri termini: come fare quando i sentimenti mi tradiscono? Quando non sgorgano come e quando io vorrei oppure si spengono quando e come io non vorrei, oppure si accavallano e si urtano, così da togliermi il controllo di essi? Oppure si occultano, scompaiono, mi lasciano freddo, arido e cinico, quando io vorrei invece reagire a una situazione in modo diverso, più costruttivo e mi sento vuoto di sentimenti? E’ possibile questo governo? E’ giusto? O è meglio lasciare la briglia alla spontaneità, affidarsi ai torrenti del deserto, che ora si intorbidano nel momento delle grandi piogge, ora si seccano e deludono la nostra sete? Come fare ad esempio, quando in un amore, che si voleva senza fine, in una amicizia che si voleva perenne, i sentimenti si ottundono e si spengono? E’ necessario rassegnarsi? Oppure lottare? Si possono risuscitare? Come?

Sono domande a cui non pretendo di rispondere esaustivamente, ma che pure si pongono nel cammino di ogni uomo e di ogni donna, perché sono parte di ogni rapporto umano.
E’ il problema dell’esserci o meno dei sentimenti, dell’esserci a dispetto di noi. E’ questa incapacità a governarli che ci irrita, e vorremmo capire meglio. Il discorso vale, e fortemente, anche nel nostro rapporto o non rapporto con Dio, nel credere o nel non credere, perché molto spesso il sì o il no alla fede è giocato sull’onda del sentire o del non sentire.
“Non credo perché non sento niente”, dice qualcuno; “Credevo, e tuttavia mi pare di non credere più, mi pare che i miei sentimenti si siano affievoliti con gli anni”.
Ci chiediamo: esiste un tentativo di risposta sistematica a questi problemi?  


Il libretto degli “Esercizi spirituali”

Penso siano molto pochi coloro che hanno letto nella sua stesura originale il testo di sant’Ignazio. E’ composto di circa ottanta paginette ed è stato scritto quando Ignazio era ancora in ricerca di Dio e faceva le sue esperienze titubanti anche, e difficili, che annotava su dei fogli. Il libretto è stato scritto tra il 1521 e il 1538; Ignazio cominciò quindi a trentun anni ad appuntare alcune note di metodo su ciò che accadeva dentro di lui, sul suo itinerario mentale, e concluse la stesura circa verso i quarantacinque anni. E’ importante sapere che non è un libro fatto per essere letto, dal momento che raccoglie indicazioni metodologiche per un itinerario della mente: è un po’ come una guida dei sentieri di montagna, che non va letta, ma che accompagna chi percorre quei sentieri.

Il libretto si può definire come l’itinerario per una scelta libera da condizionamenti emozionali, da investimenti affettivi errati, da blocchi sentimentali. Scelta, però, non priva di emozioni e di sentimenti; tuttavia libera da condizionamenti ciechi e irrazionali, nella ricerca e nella suscitazione di sentimenti sorgivi e autentici
. Ignazio ci aiuta a ricercare, nel nostro intimo, i sentimenti autentici e a scoprire quelli inautentici e distruttivi, per mettere ordine.

La parola “ordine” è fondamentale e la troviamo già nella definizione che Ignazio dà degli Esercizi: “Esercizi spirituali per mettere ordine nella propria vita senza prendere decisioni emozionalmente compromesse”. Egli ha proprio di mira la forza dei sentimenti da incanalare nella maniera giusta. E, in una delle prime Annotazioni metodologiche del libretto, sottolinea la forza del binomio capire – sentire, perché non basta capire, ma occorre capire e sentire.

Conclude: “Non è il sapere molto che sazia e soddisfa l’anima, ma il sentire e il gustare le cose interiormente” (Ann. 2. a).
Si avverte dunque che il capire è importante; meno importante è il sapere molto, l’accumulo di pure informazioni; molto importante, per un cammino autentico della persona, è l’educarsi al sentire e gustare interiormente. E’ una vera educazione dei sentimenti
.

Ho cercato così di far cogliere la relazione tra il libretto degli Esercizi spirituali e il tema che ci siamo proposti: l’ordine dei sentimenti nel cammino di una persona.
Ancora sottolineo, del testo ignaziano, che l’importanza dell’ordine dei sentimenti è anche indicata da alcune regole metodologiche, poste verso la fine, che trattano della scoperta che si deve imparare a fare dei propri movimenti interiori, delle emozioni, dei desideri, delle paure, delle angosce, delle ripugnanze, dei soprassalti di entusiasmo, ecc., in modo da mettervi ordine secondo una serie di principi orientativi chiari ed efficaci. Sono le cosiddette Regole per il discernimento, termine che appare già nella Scrittura, nel Nuovo Testamento e che acquista nel libretto un rilievo specifico. E’ importante – afferma sant’Ignazio – che ciascuno scopra e si renda ragione di ciò che ha dentro, soprattutto dei movimenti, delle pulsioni, degli istinti, non per una semplice psicanalisi del passato, bensì in relazione all’hinc et nunc, al vissuto del momento che si sta attraversando.


Come gli esercizi spirituali ci aiutano a ordinare i sentimenti.

Torna la domanda dell’inizio: è possibile un ordine dei sentimenti, un governo di essi?
Per rispondere sintetizzo alcune note di itinerario, che valgono per tutti e che mi sembra offrano le linee indicative e quasi conclusive di ciò che abbiamo vissuto nei precedenti incontri di questa sessione della “Cattedra” [dei non credenti].

1. E’ certamente possibile ordinare i sentimenti; ordinarli evidentemente con un dominio (lo diceva già Aristotele) non dispotico, bensì politico. Ordinarli infatti non significa schiacciarli o scatenarli o rimuoverli; esiste un giusto mezzo, un governo, una supervisione. E’ già un’acquisizione: c’è un cammino personale possibile del governo dei sentimenti.

2. Questo ordinamento dei sentimenti è in relazione a un fine, dice il libretto. Noi diremmo: un ordinamento dei sentimenti è possibile in relazione a un senso globale della vita, a una Weltanschauung. Non esiste un ordinamento senza un prima o un poi, senza priorità, senza un ordine dei valori, senza un cammino che va verso una meta. E’ il confronto tra il senso globale della vita e gli accadimenti oscuri del mio sentire tumultuoso e apparentemente incontrollabile e indecifrabile, che mi permette a poco a poco di tracciare delle coordinate di senso, di cominciare a capirci qualcosa, di separare alcune emozioni da altre, di riconoscerne alcune come costruttive, altre come distruttive, e di cominciare a darmi un ordine pratico nel confrontarmi con esse.


3. Nasce la domanda che ritengo cruciale per un cammino adulto, per colui che ha già superato le prime conflittualità adolescenziali o giovanili dei sentimenti e ha a che fare con sentimenti più profondi e duraturi, quelli che reggono o non reggono nell’impegno della vita. Che cosa fare quando il pozzo si prosciuga, quando la sorgente si dissecca, quando i sentimenti, che ritenevo necessari, ovvi, giusti, si affievoliscono? Che cosa fare quando nell’amore umano sembra che non si sia più capaci di dirsi niente? Quando nella preghiera non si sente più nulla, sembra di mangiare sabbia, di camminare in un deserto? Quando sembra di non credere più a niente?


4. Gli Esercizi spirituali insegnano che esistono delle regole preziosissime... regole fondate sulla conoscenza profonda della persona e delle sue relazioni con altre persone e con il mistero al di là delle persone umane. Regole che danno una luce straordinaria per quei momenti di buio da cui pochi sono esenti nel corso della vita, soprattutto se si tratta di persone che hanno dedicato la loro esistenza alla preghiera. I contemplativi lottano più di ogni altro con l’aridità dei sentimenti, con la ripugnanza, con l’impotenza, con l’oscurità della notte. Sono i momenti in cui ci si chiede: Che cosa mi sta succedendo? Perché i miei sentimenti non mi obbediscono più?

La regola fondamentale, il segreto della “notte oscura” (per usare l’espressione di san Giovanni della Croce), è molto semplice: anche un pozzo prosciugato nutre i fiori della vita.
E’ dunque la scoperta di un’affettività subliminale al di là dei sentimenti immediatamente percepibili; è la scoperta di un’affettività che è dentro di noi senza che noi lo sappiamo
 e che è, se noi lo vogliamo, più forte delle ripugnanze e delle paure.

Siamo o ci sembra di essere nel “buco nero”, ma in realtà c’è qualcosa di più profondo, che scorre nel silenzio e che nutre le risposte. Il non sapere dell’esistenza di queste acque porta alla disperazione, al cinismo, alla tomba dell’amore; lo scoprirlo invece è l’avvio di una nuova matura esistenza, di un nuovo ordine dei sentimenti.

L’ultima parola che in proposito ci dice il libretto degli Esercizi è quindi consolante: esiste, al di là dei sentimenti superficiali, vulcanici, tumultuosi, proprio là dove si entra nella notte, nel deserto, la capacità di scoprire la potenzialità di energie umane profonde, che, se accolte, pongono la persona in una maturità nuova, in un più definitivo e pieno controllo di sé, in una nuova, acquisita libertà.
E’ qualcosa che non si può esprimere a parole, perché va vissuta; è qualcosa verso cui si orienta tutta la grande tradizione mistica, e non solo cristiana, e che ha trovato una sedimentazione molto semplice proprio nel dinamismo, nel processo degli Esercizi spirituali di sant’Ignazio.
Non riguarda, ripeto, soltanto i cammini mistici, ma ogni esistenza che voglia pensarsi seriamente come esistenza che fonde in unità pensare e sentire.

Chi vuol vivere un’esistenza così, arriva, presto o tardi, a dover fare il conto con la conflittualità e l’oscurità dei sentimenti che riteneva migliori e più validi. Soprattutto se si tratta della preghiera o dell’amore, di quegli amori che abbiamo scelto e che hanno costituito la nostra esperienza di vita. E’ qui che avviene la scoperta della radice più vera delle grandi scelte della vita, della “opzione fondamentale” che non si svolge nelle scaramucce dei sentimenti superficiali, bensì a queste profondità, dove ciascuno arriva, dove ciascuno ritrova, magari nel buio, la verità di sé.


Quali domande pratiche conseguono per noi?   

Sintetizzo le domande in una sola che possiamo portare con noi per continuare la riflessione: Dove, quando mi è stato dato di accedere a questa profondità di me?

Parlo di profondità – voglio sottolinearlo ancora – che non è frutto di introspezione, di terapia analitica, bensì di quella scoperta della propria autenticità che per lo più avviene nei momenti duri e neri della vita, allorché la persona giunge, forse per la prima volta, a una così autentica libertà, che la estrae dai condizionamenti emozionali che continuamente ci travolgono, verso la scoperta di un’emozionalità interiore potentissima, invincibile, perché sorgiva e finalmente libera
. Questo è l’accesso alla libertà, il cammino verso la libertà. Lasciamo allora che la domanda che ho posto penetri in noi.

da K. Demmer, Introduzione alla teologia morale
Nell'uso comune la parola «libertà» assume anzitutto il senso di libertà di scelta (libertas arbitrii) ed indica la capacità di ciascuno di scegliere tra diversi oggetti. Limitarsi però solo a questo significato comporta necessariamente percepire la norma come restrizione, un «gravamen libertatis». Sorge il dubbio che questa non sia ancora la piena essenza della libertà.
La prospettiva cambia
 e ci permette di aderire maggiormente alla realtà se si inizia a comprendere la libertà come libertà essenziale; in altri termini come capacità di attuare il bene riconosciuto come tale e quindi di auto determinarsi. Questa visione permette di rischiare un progetto su degli ideali, su una meta di vita pienamente riuscita e sensata conferendo alla decisione morale, intesa come adempimento della norma, una sfumatura del tutto singolare.

Le norme in questo senso non restringono la libertà ma abilitano tutte le sue capacità, non sono un peso ma un dono, un gesto di solidarietà nell'ambito di una comunità fraterna. Prendere una decisione morale significa quindi non fuoriuscire da questo ambito, in cui il singolo non è abbandonato ad una norma, che forse lo impegna fino al limite delle sue forze, ma in cui la comunità lo accompagna per un tratto di strada. È in base a ciò che le norme devono essere trasparenti, altrimenti non assolvono il loro compito, non costruiscono ma schiacciano e conducono alla rassegnazione se non addirittura al cinismo.






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)