DIFENDERE LA VERA FEDE

Per ascoltare e rileggere Benedetto

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    Caterina63
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    00 15/03/2016 18:41
      Udienze Generali del Santo Padre Bedetto XVI in mp3
     


     

    Udienze Generali del Santo Padre Benedetto XVI in mp3


    Il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna che il Papa  conferma nella fede tutti i suoi fratelli  e propone, nell’esercizio del Magistero ordinario, un insegnamento che porta ad una migliore intelligenza della Rivelazione in materia di fede e di costumi. (CCC892)
    Il Santo Padre Benedetto XVI, con  amore e maestria, attraverso il suo magistero, tra cui le Udienze Generali, porge al mondo il patrimonio della Rivelazione Divina , rendendolo comprensibile a tutti.
    Guarda con amore all’umanità intera e, come Gesù, si fa carico delle sofferenze e preoccupazioni di ogni uomo. 

    Con infaticabile  paternità e pazienza eroica,  continua ad affermare i valori dell’uomo, la salvezza eterna dell’anima, la crescita della fede, la difesa della vita, la custodia della pace nella giustizia e nella libertà, la sollecitudine verso i poveri e verso i sofferenti, la promozione dei popoli sottosviluppati e abbandonati.

    Alla scuola del nostro amato Papa Benedetto XVI possiamo scoprire la paternità e la maternità di Dio che si manifestano con estremo Amore e Verità nella sua Chiesa che, pur tra le sue luci e le sue ombre,  è sempre volta, sia al bene supremo ed eterno dell’uomo: la salvezza dell’anima, sia al bene dell’umanità anche sulla terra, lavorando per realizzare una civiltà basata sull’Amore.

    Egli ci insegna che la Chiesa è viva: “La Chiesa è viva e noi lo vediamo: noi sperimentiamo la gioia che il Risorto ha promesso ai suoi. La Chiesa è viva - essa è viva, perché Cristo è vivo, perché egli è veramente risorto.”
    “Essa porta in sé il futuro del mondo e perciò mostra anche a ciascuno di noi la via verso il futuro.”

    Benedetto XVI non si stanca mai di  invitare tutti, soprattutto i giovani, a  rimanere nell’Amore e nella Verità di Cristo. 
    “Sì, cari amici, Dio ci ama”- diceva ai giovani in occasione dell’ultima GMG di Madrid – 
    “La fede non si oppone ai vostri ideali più alti, al contrario, li eleva e li perfeziona. Cari giovani, non conformatevi con qualcosa che sia meno della Verità e dell’Amore, non conformatevi con qualcuno che sia meno di Cristo. Vale la pena accogliere nel nostro intimo la chiamata di Cristo e seguire con coraggio e generosità il cammino che ci propone!”.

    Amiamo il nostro caro Papa, aggrappiamoci con fiducia alla sua paterna e amorevole guida e preghiamo per lui, perché il Signore gli dia tanta forza e salute per continuare a guidare il mondo e confermarci nella fede.

    Regina Mundi ha il piacere di presentarvi Le registrazioni audio delle UDIENZE GENERALI  del  Santo Padre Benedetto XVI ,  una vera e propria scuola di fede, di Verità e di Amore.

    di Maria Caterina Muggianu



    Udienze generali del Santo Padre per l'anno della Fede

     

    Antico Testamento
    Nuovo Testamento
    Padri della Chiesa
    Udienze di Benedetto XVI sui Padri della Chiesa
    Santi
    L'uomo in preghiera
    Viaggi apostolici
    Feste
    Spiritualita
    Udienze di Benedetto XVI sulla Spiritualita


    Ultima Udienza Generale










    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 08/11/2017 11:08




    UNA SINTESI DEL PONTIFICATO DI BENEDETTO XVI, DA DISCUTERE E APPROFONDIRE

    In questi giorni si leggono molti bilanci del pontificato di Benedetto XVI. Alcuni parlano di un Papa debole che non ha saputo risolvere molti problemi della Chiesa. Qui proviamo a ricordare alcune delle azioni del Papa dimissionario, senza pretendere di essere esaustivi

    Lo scandalo della pedofilia

    • Già nella Pasqua del 2005, durante la via Crucis, il Card. Ratzinger aveva denunciato “la sporcizia che c’è nella Chiesa”.
    • Il 17 aprile 2008, durante il viaggio negli Stati Uniti, volle incontrare le vittime dei preti pedofili. Incontri simili ebbe con le vittime in Australia (2008), a Malta (2010), in Inghilterra (2010).
    • Nella Lettera agli irlandesi (l’Irlanda è il paese in cui si è verificato il più alto numero di casi) ha scritto: «Non posso che condividere lo sgomento e il senso di tradimento che molti di voi hanno sperimentato al venire a conoscenza di questi atti peccaminosi e criminali e del modo in cui le autorità della Chiesa in Irlanda li hanno affrontati... Da parte mia, considerando la gravità di queste colpe e la risposta spesso inadeguata ad esse riservata da parte delle autorità ecclesiastiche nel vostro Paese, ho deciso di scrivere questa Lettera Pastorale per esprimere la mia vicinanza a voi, e per proporvi un cammino di guarigione, di rinnovamento e di riparazione».
    • Il 15 luglio 2010 Benedetto XVI approvava alcune modifiche alle norme del documento De delictis gravioribus contro la pedofilia, con le quali rendeva più efficaci le procedure giudiziarie per i casi di abuso e sottolineava l’importanza di “dare sempre seguito alle disposizioni della legge civile per quanto riguarda il deferimento di crimini alle autorità preposte".
    • Il 16 maggio 2011 è stata pubblicata una Lettera Circolare che dava Linee guida per il trattamento dei casi di abuso sessuale nei confronti di minori da parte di chierici, evidenziando che il Vescovo diocesano ha il dovere di dare una risposta adeguata ai casi eventuali di abuso sessuale su minori.
      Per ulteriori dati su tutta la questione vedi qui.

    A proposito di governo
    Un dato interessante è il numero di vescovi dimissionari durante il pontificato di Benedetto XVI, nonostante non se ne sia parlato molto, Vatican Insider ha segnalato che dall’aprile del 2005 a oggi sono stati allontanati dal Papa, attraverso le modalità previste, 77 vescovi considerati poco adeguati.

    Trasparenza finanziaria

    • Quando esplose la polemica sulla mancata trasparenza finanziaria dello Stato Vaticano, il 30 dicembre 2010 Benedetto XVI ha promulgato la legge 127 che ha sottoposto tutti al "rispetto degli obblighi di prevenzione in materia di riciclaggio e di finanziamento del terrorismo", ha costituito l’Autorità di Informazione Finanziaria (AIF), incaricata di effettuare controlli sul rispetto degli obblighi previsti e stabilire, in caso di violazione, sanzioni amministrative pecuniarie e altre misure volte a garantire trasparenza. Dopo solo un anno, il 25 gennaio 2012, su richiesta dei Commissari Moneyval la Santa Sede ha rimesso mano alla legge 127 apportando modifiche. Nel luglio 2012 il Moneyval ha valutato positivamente 9 delle 16 raccomandazioni europee contro il riciclaggio, realizzate dal Vaticano, una promozione anche se con riserva.

    • Il 25 gennaio 2012 la Santa Sede ha ratificato tre trattati internazionali: ha aderito alla Convenzione Internazionale per la repressione del finanziamento al terrorismo (ONU, New York 1999) e alla Convenzione delle Nazioni Unite contro il crimine organizzato transnazionale (Palermo 2000), e ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro il traffico illecito dei narcotici e delle sostanze psicotrope (Vienna 1988), che aveva già firmato nello stesso anno in cui venne adottata (come si legge nel comunicato distribuito dalla Sala Stampa della Santa Sede).
      Di questo tema abbiamo già parlato qui.

    La questione dei lefebvriani
    Il 21 gennaio 2009 Benedetto XVI ha firmato un decreto con cui revocava la scomunica a Bernard Fellay, Bernard Tissier de Mallerais, Richard Williamson e Alfonso de Galarreta, i quattro sacerdoti “tradizionalisti” che nel 1988 furono ordinati vescovi, con gesto intrinsecamente scismatico, da mons. Marcel Lefebvre (1905-1991), fondatore e superiore della Fraternità Sacerdotale San Pio X. Ritirando la scomunica il Papa ha iniziato un tentativo coraggioso di sanare una ferita grave che da tempo affligge la Chiesa Cattolica. Il pontefice ha infatti annullato la più grave condanna che possa colpire un cattolico. Il Papa presentò un preambolo dottrinale con una proposta per il ritorno della Fraternità sacerdotale di San Pio X alla Chiesa cattolica. 

    In quel frangente esplose il caso Williamson, uno dei 4 vescovi lefebvriani riabilitati, che in un’intervista aveva negato l’esistenza delle camere a gas e la morte di milioni di ebrei, caso che sollevò un’ondata di critiche sulla Chiesa cattolica dal mondo ebraico e non solo. Allora Benedetto XVI scrisse una coraggiosa lettera per chiarire i fatti e ribadire l’assoluta solidarietà tra il mondo ebraico e la Chiesa.

    Dopo ulteriori passaggi non si è ancora arrivati a una soluzione definitiva, perché la Fraternità Sacerdotale di San Pio X non ha ancora risposto all'ultima proposta presentata dalla Santa Sede il 20 gennaio 2013.

    Il ritorno degli anglicani
    Il 4 novembre 2009 Benedetto XVI ha firmato la storica Costituzione apostolica Anglicanorum coetibus con la quale permetteva di accogliere nella Chiesa cattolica gli anglicani che, trovandosi in posizioni ormai lontane dalla Chiesa di Inghilterra, volessero tornare alla comunione con Roma. I gruppi di anglicani potevano mantenere le loro peculiarità liturgiche e i loro pastori anglicani sposati, che – rimanendo sposati – sarebbero stati ordinati come sacerdoti cattolici, anche se solo i celibi sarebbero potuti diventare vescovi. Dal 2009 a oggi sono stati eretti tre ordinariati personali: l'Ordinariato personale di Nostra Signora di Walsingham per il territorio della Conferenza episcopale di Inghilterra e Galles, l'Ordinariato personale della cattedra di San Pietro per il territorio degli Stati Uniti e l'Ordinariato personale di Nostra Signora della Croce del Sud per il territorio dell'Australia.

    Dialogo con altre religioni e atei 

    • Papa Ratzinger ha sempre suscitato ammirazione e stima in esponenti di altre religioni e in intellettuali laici di varia estrazione politica. Un caso significativo è quello del manifesto di quelli che si sono chiamati “marxisti ratzingeriani” che indicava ai politici un confronto speciale su due temi cari al Papa: il rifiuto del “relativismo etico” e il concetto di “valori non negoziabili”
    • Con il mondo ebraico ha sempre mantenuto un rapporto di grande fiducia, come dimostrano le dichiarazioni di molti rabbini di tutto il mondo (vedi per esempio qui), il viaggio in Israelenel maggio 2009, o la visita alla sinagoga di Roma nel 2010.
    • I contatti con la comunità islamica sono stati cordiali nel corso degli anni, fin dalla storica visita alla Moschea Blu durante il viaggio a Istanbul nel novembre 2006, o durante il viaggio in Terra Santa del 2009.

    Rivitalizzazione della fede
    Molti hanno detto che Benedetto XVI non è stato capace di parlare ai giovani come ha fatto Giovanni Paolo II. In realtà l’ultima Giornata mondiale della gioventù, nell’agosto del 2011, ha mostrato il contrario. In quella occasione, come ha notato Magister, l'età media dei persenti era molto bassa, circa 22 anni: questo significa che molti di essi vi partecipavano per la prima volta e che quindi il loro Papa è Benedetto XVI, non Giovanni Paolo II, che hanno conosciuto solo da bambini. A questi giovani pieni di domande un Papa come Benedetto XVI ha offerto risposte semplici eppure potentemente impegnative e attrattive.

    Un altro dato interessante è il numero dei fedeli presenti alle udienze del mercoledì che nel corso degli anni è andato aumentando, superando il numero di partecipanti alle udienze di Giovanni Paolo II.




    Perché siamo ancora nella Chiesa - J. Ratzinger/BenedettoXVI (2008)

     
    Una metafora per la natura della Chiesa

     “Una Chiesa che venga considerata solo dal punto di vista politico, cioè contro tutta la sua storia e la sua natura, non ha alcun senso e la decisione di rimanere in essa, se è una decisione esclusivamente politica, non è leale anche se si presenta come tale.
     
    Ma di fronte alla situazione attuale, come si può giustificare la permanenza nella Chiesa? In altri termini: se vuole avere senso, la scelta a favore della Chiesa deve essere di carattere spirituale – ma come si può motivare una simile scelta spirituale? Vorrei dare una prima risposta di nuovo con un paragone e con il ricorso a un’affermazione fatta in precedenza per descrivere la situazione attuale.
    Avevamo detto che noi, con la nostra analisi approfondita della Chiesa, siamo arrivati talmente vicino a essa che non riusciamo più a percepirla nel suo complesso.

    Questo pensiero si può approfondire ricorrendo a un’immagine che i Padri della Chiesa scoprirono nella loro meditazione simbolica sul mondo e sulla Chiesa. Essi spiegarono che nella struttura del cosmo materiale il ruolo della luna è una metafora di ciò che la Chiesa rappresenta per la realizzazione della salvezza nel cosmo spirituale-religioso. Viene ripreso qui un antichissimo simbolismo della storia delle religioni (i Padri non hanno mai parlato di "teologia delle religioni", ma l’hanno attuata), in cui la luna, come simbolo tanto della fertilità e della fragilità, della morte e della caducità, quanto anche della speranza nella rinascita e nella resurrezione, era l’immagine dell’esistenza umana, "patetica e insieme consolatrice".

    Il simbolismo lunare e quello terrestre si fondono spesso: la luna, nella sua fugacità e nella sua rinascita, rappresenta il mondo dell’uomo, il mondo terreno, questo mondo che è limitato dal bisogno di ricevere e che ottiene la propria fertilità non da se stesso, ma da qualche altra parte, dal sole.
    In questo modo il simbolismo lunare diventa anche il simbolo dell’essere umano, così come esso si manifesta nella donna, che concepisce ed è fertile in forza del seme che riceve. I Padri applicarono il simbolismo lunare alla Chiesa soprattutto per due motivi: per la relazione luna-donna (madre) e per il fatto che la luce della luna non è luce propria, ma luce del sole, senza il quale essa sarebbe solo oscurità; la luna risplende, ma la sua luce non è sua, bensì di qualcun altro. Essa è buio e luce allo stesso tempo. In se stessa è oscurità, ma dona luminosità in virtù di un altro, di cui riflette la luce. Proprio per questo essa rispecchia la Chiesa, che illumina pur essendo essa stessa buio; non è luminosa in virtù della propria luce, ma riceve quella del vero sole, Gesù Cristo, cosicché – sebbene essa stessa sia solo terra (anche la luna non è che un’altra terra) – è tuttavia in grado di illuminare la notte della nostra lontananza da Dio - la luna narra il mistero di Cristo.
     
    Non si devono forzare i simboli; ciò che hanno di prezioso consiste proprio in una ricchezza di immagini che si sottrae agli schematismi logici. Tuttavia oggi, nell’epoca del viaggio sulla luna, si impone un ampliamento del paragone, con il quale si metta in evidenza, confrontando il pensiero fisico e quello simbolico, lo specifico della nostra situazione anche rispetto alla realtà della Chiesa.
    L’astronauta e la sonda lunare scoprono la luna solo come roccia, deserto, sabbia, montagne, ma non come luce. E in effetti essa è in se stessa soltanto questo: deserto, sabbia, roccia. Tuttavia, per merito di altri e in funzione di altri ancora, essa è anche luce e rimane tale anche nell’epoca dei viaggi nello spazio. E’ quindi ciò che non è in se stessa.
     
    L’altro, ciò che non è suo, fa comunque parte anche della sua realtà. Esiste una verità della fisica e una verità poetico-simbolica e l’una non annulla l’altra. Allora chiedo: questa non è forse un’immagine molto precisa della Chiesa?
     
    Chi la esplora e la percorre con la sonda spaziale, può scoprire solo deserto, sabbia, roccia, le debolezze dell’uomo, i deserti, la polvere e le altezze della sua storia. Tutto ciò le appartiene, ma non rappresenta la sua effettiva realtà.

    L’elemento decisivo è che essa, benché sia solo sabbia e sassi, è di certo anche luce in virtù di un altro, del Signore: ciò che non è suo, è veramente suo, la sua effettiva natura, anzi, la sua natura consiste nel fatto che essa non vale per ciò che è, bensì solo per ciò che non è suo. Essa esiste in qualcosa che è al di fuori di essa e ha una luce che, pur non essendo sua, costituisce tutta la sua essenza. Essa è "luna" -mysterium lunae – e così riguarda i credenti, perché proprio così essa è il luogo di una costante scelta spirituale.
     
    Poiché il significato espresso in quest’immagine mi sembra di importanza decisiva, prima di tradurlo dal linguaggio metaforico in affermazioni oggettive, vorrei chiarirlo meglio con un’altra osservazione.
     
    Dopo la traduzione in tedesco della liturgia, secondo l’ultima riforma, mi si presentava continuamente una difficoltà linguistica nel recitare un testo, che appartiene proprio a questo stesso contesto e che è sintomatico per ciò di cui si tratta qui.
     
    Nella traduzione tedesca del Suscipiat si dice: il Signore riceva dalle tue mani questo sacrificio "per il bene nostro e di tutta la Sua santa Chiesa".
    A me veniva sempre spontaneo dire: "E di tutta la nostra santa Chiesa".
     
    In questa difficoltà linguistica viene alla luce tutta la problematica che stiamo trattando e diventa chiaro il fatto che siamo incorsi in una deviazione di prospettiva.
     
    Al posto della Sua Chiesa è subentrata la nostra e con essa le molte chiese: ognuno ha la propria.
    Le chiese sono diventate nostre imprese, di cui siamo orgogliosi o ci vergogniamo, tante piccole proprietà private che stanno una accanto all’altra, chiese soltanto "nostre" che noi stessi costruiamo, che sono opera e proprietà nostra, e che noi vogliamo trasformare o conservare come tali.
    Dietro alla "nostra Chiesa" o anche alla "vostra Chiesa" è scomparsa la "Sua Chiesa".
     
    Ma solo quest’ultima interessa e se non esiste più anche la "nostra" Chiesa deve abdicare.
    Se fosse soltanto nostra, la Chiesa sarebbe solo un inutile gioco da bambini.
    (Joseph Ratzinger, “Perché siamo ancora nella Chiesa", Rizzoli 2008)




    Senza la rinuncia di Benedetto XVI non si capirebbe Francesco (e la relazione di
    Kasper)

     

    Quando si maneggia la storia della Chiesa, un'avvertenza simile fu espressa dal grande storico del papato Ludwig von Pastor, occorre essere consapevoli di farlo come se si trattasse di materiale dinamitardo.

    Come la dinamite, può scoppiarti fra le mani quando meno te l'aspetti. Soprattutto se si mettono in atto operazioni eversive.

    Il dibattito aperto e sviluppato dal Foglio sull'importante, anche perché contestata, relazione del cardinale Walter Kasper, che costituisce la base per la preparazione del Concistoro sulla famiglia e il matrimonio previsto per il prossimo anno, potrebbe schiudere un confronto scevro da pregiudizi pur rigoroso nell'analisi, avvalendosi in primo luogo di paradigmi epistemologici propri delle scienze cosiddette profane e che tuttavia possono tornare utili al pensiero della tradizione teologica, in particolare cattolica.

    Cosa intendo dire con questo sermoncino? E' presto detto. Non ci sarebbe stato il pontificato francescano del gesuita Jorge Mario Bergoglio senza l'epocale rinuncia di Benedetto XVI. Bella scoperta, obietterà qualcuno. Soffermiamoci allora sulla storica (e coraggiosa) rinuncia al soglio di Pietro di Benedetto XVI. Si è scritto e detto che essa è differente da quella, a tutti nota, operata da Celestino V sette secoli prima. E' proprio così? La risposta può essere affermativa e al contempo negativa. Di diverso c'è il contesto storico: allora la teocrazia, anzi la ierocrazia spadroneggiava, nonostante la riforma gregoriana proprio in quegli anni avrebbe costituito, secondo la nota tesi dello studioso statunitense Harold Berman, il prodromo per la nascita degli stati moderni;sul piano culturale a farla da padrona era la teologia, che soprattutto nelle università di Parigi e di Bologna avrebbe delineato il solco da far percorrere alle scienze applicate e al diritto.

    Cosa c'è invece di simile fra la rinuncia di Pietro da Morrone e di Joseph Ratzinger? Molto.Le similitudini inoltre fra l'una e l'altra rinuncia non possono non riflettersi anche sul dibattito in corso riguardo alle problematiche sollevate dalla relazione del cardinale Kasper, che toccano sia la sfera teologica ( e filosofica) sia la sfera giuridica: da questa endiadi occorrerebbe che gli  esperti (o presunti tali) non si allontanassero, cosa che fanno quando evidenziano solo ora l'una oral'altra.

    Torniamo alle due rinunce. Allorché Celestino V decide di abdicare al trono papale, il gesto provoca due situazioni nella vita della Chiesa importantissime. La prima: la rinuncia di Celestino rivaluta la dimensione conciliare (e sinodale) della Chiesa. Sul piano giuridico le tesi del domenicano Jean Quidort e di Giovanni d'Andrea, entrambi canonisti, che intendono introdurre il principio consensualistico nelle decisioni della Chiesa, a cominciare dalla rinuncia papale che deve essere sottoposta al consensus del collegio cardinalizio ovvero se non addirittura del popolo, aprono la strada alla flessione dell'ideale ierocratico sottesa alla plenitudo potestatis papale a vantaggio di istanze cosiddette conciliariste (e sinodali). La seconda: gli effetti della rinuncia di Celestino si fanno sentire sul piano ecclesiologico e spirituale. Lo spiega molto bene lo storico del diritto Valerio Gigliotti nell'importante libro La tiara deposta (Olschki editore): “Con il suo gesto e il supporto teorico che ne derivò, l'ecclesiologia subirà una profonda evoluzione, già peraltro avviata dalla disputa di metà Duecento tra Mendicanti e Secolari che aveva indotto a valorizzare la vita monastica e spirituale, su modello soprattutto francescano, accanto a quella esclusivamente giuridica. Celestino V, nel pieno sviluppo del papato teocratico, diviene icona stessa della rinuncia al potere, di un abbandono della secularis potestas in favore della vita contemplativa”.

    L'irruzione, dopo sette secoli dalla morroniana, della renuntiatio ratzingeriana ci fa comprendere oltre alla subordinazione della potestas al servitium anche la derivazione patristica del gesto epocale compiuto dal Pontefice tedesco: sulla scia di Bernardo da Chiaravalle, Benedetto XVI sostanzia l'ufficio papale in ministerium piuttosto che in dominium. Rileva ancora Gigliotti che si tratta di “un gesto totale, oblativo, quasi uno scuotimento (una kenosis) interiore che ha precedenti illustri nella tradizione ascetica e mistica occidentale, da Meister Echart al Sandaeus e nella stessa renuntiatio alla guida dell'Ordine di san Francesco d'Assisi”.

    Con la rinuncia di Benedetto XVI si viene a creare una similitudine con la Chiesa di Celestino: lo sviluppo sinodale nella sua (ri)organizzazione. L'ottagono cardinalizio voluto da papa Francesco per riformare la struttura della Chiesa ne è la conferma. Questo sul piano giuridico. E sul piano teologico-dottrinale?

    Sebbene Ratzinger sia stato in un certo senso il braccio teologico del pontificato di Wojtyla (così come Agostino Casaroli è stato il braccio politico-diplomatico, ineguagliato per capacità di visione geopolitica), a mio avviso sarebbe errato mettere nello stesso calderone gli approcci alle questioni teologiche del Papa polacco con quelle del Papa tedesco, in base al convincimento che i due grandi Pontefici condividessero la medesima idea sul ruolo del cristianesimo nel mondo secolarizzato.

    La prova ci è fornita proprio dalla delicatissima questione della rinuncia papale. E il direttore del Foglio, che fu il primo (insieme con Antonio Socci) a ipotizzare ben un anno prima la rinuncia papale di Benedetto XVI, può intuirne la ricaduta generale riguardo anche al dibattito sollevato dalla relazione di Kasper.

    Giovanni Paolo II incaricò il canonista cardinale Vincenzo Fagiolo per trovare la ratio giuridicoteologica al convincimento di Wojtyla:“Non c'è posto nella Chiesa per un papa emerito”. Fagiolo assolse il compito, ed è importante leggerne l'impianto argomentativo per scorgervi un curioso uso (diciamo politico?) del messaggio evangelico. Per avvalorare quindi il convincimento wojtyliano

    Fagiolo sostenne quanto segue nella sua relazione presentata al Papa per iscritto, da leggere con attenzione parola per parola: “Le dimissioni nel 294 di Celestino V non possono da sole costituire un argomento che spiega con il fatto l'intero problema, che prima ancora d'essere d'ordine morale, è teologico e di diritto costituzionale. La societas fidelium, da Cristo fondata per un fine specifico, che coinvolge per il tempo e l'eternità l'intero popolo di Dio con la sua vocazione soprannaturale, ha una qualificazione giuridica che affonda le sue radici nella teologia e che pertanto considera l'uomo divenuto cristiano con il battesimo non nella sola sfera dei diritti puramente umani ma anche nell'ambito della vita e della missione della stessa Chiesa, al vertice della quale c'è il papa, quale vicario di Cristo con poteri che Cristo stesso gli ha conferito e che sono di natura soprannaturale. Il papa quindi non riceve la potestas dal basso ed i suoi poteri sono strettamente legati alla missione che proviene da Cristo. Il rapporto quindi, prima di essere tra lui Superiore e i sudditi membri della Chiesa, è tra lui e Cristo, dal quale discende e viene conferito sia il potere di confermare i fratelli nella fede (potestas docendi) sia quello di pascere il gregge affidato allo stesso Pietro (potestas regendi). Il discorso pertanto sulla rinuncia del papa si fa complesso, assume aspetti costituzionali e coinvolge problematiche che non possono essere risolte solamente guardando alla liceità dell'atto, come se il Vicarius Christi abbia un qualunque ufficio ecclesiastico e come se il suo munus non abbia un'origine e una marcata impronta apostolica che qualifica costituzionalmente la stessa struttura dell'ordinamento canonico”. Chiaro fin qui? Bene. Questa la conclusione apodittica del cardinale Fagiolo: “Di certo in maniera tassativa ed assoluta il papa non potrà mai dimettersi a motivo della sola età”.

    Non sono passati neanche vent'anni e il verdetto del canonista di fiducia di Giovanni Paolo II è stato smentito dal gesto di rinuncia papale dell'11 febbraio 2013. Smentito almeno in parte. Sì, perché nel libro-intervista di Peter Seewald Ratzinger aveva paventato come non implausibile la rinuncia papale, oltre che per ragioni d'età, anche qualora si fosse trovato nell'impossibilità “spiritualmente” di guidare la Chiesa. Ciò non è bastato però a far cambiare idea a chi ancora considera la rinuncia un vulnus. Che all'entourage di

    Wojtyla, per esempio, la rinuncia di Ratzinger non sia piaciuta lo dimostra la dichiarazione rilasciata a un settimanale diocesano dal principale collaboratore di Giovanni Paolo II, il cardinale di Cracovia Stanislaw Dziswisz: “Papa Wojtyla decise di restare sul soglio pontificio fino alla fine della sua vita perché riteneva che dalla croce non si scende”. La Santa Sede suggerì subito al porporato di rettificare quanto detto da lui stesso, consapevole essa stessa (eppoi dicono che portare sul groppone duemila anni di storia non serva granché) di quanto pericoloso sia maneggiare la materia. Proprio come la dinamite.

    Giuseppe Di Leo

    (da Il Foglio del 3 aprile 2014)

    IL PROFESSORE CHE DIVENNE PAPA 

    In un libro pubblicato dalla San Paolo, attingendo ai ricordi di colleghi e alunni, Gianni Valente ricostruisce le tappe della carriera accademica di Benedetto XVI.

    «Ormai lo dicono tutti: Benedetto XVI è il Papa professore. Lui stesso sembra suggerirlo in tanti modi». Partendo da questa considerazione, e attingendo al ricordo dei colleghi e degli allievi del "professor" Ratzinger, Gianni Valente racconta nel libro Ratzinger professore (San Paolo, pagine 208, euro 17) gli anni (1946-1977) dello studio e dell’insegnamento che hanno preceduto la nomina del cardinale tedesco prima ad arcivescovo di Monaco e Frisinga (1977), quindi a prefetto della Congregazione per la dottrina della fede (1981) e, infine (il 19 aprile 2005), l’elezione a Papa. Di seguito, pubblichiamo uno stralcio del capitolo del libro di Valente, intitolato "Tubinga. Gli anni difficili".

      
    Joseph Ratzinger nel 1966 non ha ancora quarant’anni, ma i capelli sono già incanutiti e la fama di enfant prodige della teologia tedesca è stata ormai consacrata dall’intensa partecipazione all’avventura conciliare. Il Concilio è appena alle spalle, e dai primi indizi si cerca di capire come si mettono le cose, come l’onda d’urto dell’evento conciliare s’incanalerà nelle forme e nei ritmi della vita della Chiesa. Il 25 luglio, a Bamberg, il teologo bavarese è chiamato a parlare di tutto questo al Katholikentag, periodico raduno dei cattolici tedeschi.

    Ratzinger parte dalla presa d’atto che, dopo il Concilio, «regna un certo disagio, un’atmosfera di freddezza e anche di delusione quale segue solitamente i momenti di gioia e di festa, quando il mondo sembrò di colpo cambiato, quando la grande speranza del totalmente diverso e nuovo si era affacciata per un attimo sul grigiore quotidiano, infrangendo pesanti consuetudini».

    Il teologo bavarese non fa ritrattazioni e non ostenta pentimenti: proprio le aspettative riposte nel rinnovamento conciliare gli forniscono i criteri per giudicarne i primi effetti. Ratzinger si attendeva che il Concilio rendesse più facile confessare davanti al mondo la fede e la speranza cristiane, e, invece, sembra farsi avanti una specie di impulso all’autoliquidazione. «La fede cristiana», spiega, «è per l’uomo di tutti i tempi uno scandalo, lo scandalo che l’Inafferrabile si sia fatto constatabile nell’uomo Gesù». Per questo, «un orientamento della Chiesa al mondo, che dovesse rappresentare un suo allontanamento dalla croce, non porterebbe a un rinnovamento della Chiesa, ma alla sua fine».

    La riforma della liturgia

    È sul terreno liturgico che si può misurare il primo, più esteso impatto del rinnovamento conciliare nel vissuto di fede del popolo cristiano. Anche su questo aspetto, nel suo intervento di Bamberg, Ratzinger non teorizza alcun dietro front rispetto alla strada indicata dal Concilio. Sostiene, addirittura, che «nessuno dimostra oggi con tanta efficacia, quanto i suoi oppositori, la necessità e il buon diritto della riforma liturgica».

    Citando san Paolo, definisce come legge fondamentale della liturgia il fatto che la lingua liturgica sia comprensibile per i fedeli che partecipano ai riti. Ma nel cantiere aperto dell’attuazione della riforma liturgica scorge subito «un affaccendarsi fine a sé stesso», con liturgisti di professione che «danno vita a un nuovo ritualismo di forme ricche di inventiva», con l’effetto di occultare la realtà dei misteri celebrati più di quanto non facessero i vecchi rituali barocchi. Una strategia che gli appare segnata da rigidezze ideologiche, unilateralismi e integralismi di nuova fattura. 

    «È proprio necessario», si chiede tra l’altro Ratzinger, «che la Messa sia celebrata versus populumÈ poi tanto importante poter guardare in faccia il sacerdote, o non è anche spesso salutare pensare che anch’egli è un cristiano con gli altri e ha ogni buon motivo di rivolgersi a Dio insieme a loro e per dire con loro "Padre nostro"?».

    Davanti alle divisioni e ai «piccoli sospetti», davanti alle inevitabili difficoltà della fase postconciliare, l’unico atteggiamento consono a chi davvero prova riconoscenza per l’evento conciliare è, secondo Ratzinger, la pazienza, «forma quotidiana dell’amore», mentre occorre guardarsi dal «pericoloso, nuovo trionfalismo nel quale cadono spesso proprio i denunciatori del trionfalismo passato. Fino a quando la Chiesa è pellegrina sulla terra, non ha diritto di gloriarsi di sé stessa. Questo nuovo modo di gloriarsi potrebbe diventare più insidioso di tiare e sedie gestatorie che, comunque, sono ormai motivo più di sorriso, che di orgoglio».

    Intanto, proprio nel 1966 il professore bavarese ha ricevuto la vocatio (chiamata) a entrare nel corpo docente della facoltà di Teologia cattolica di Tubinga. Lui insegnava Teologia dogmatica a Münster solo da tre anni, e, dopo il Concilio, tutti lo consideravano la "star" della facoltà westfalica. Ma per ogni teologo Tubinga esercita un richiamo particolare...

    La forza dell’attrazione di Tubinga non nasce solo dalle seduzioni del passato. Dal 1960 lì insegna Hans Kung: Ratzinger e il collega svizzero si sono conosciuti nel 1957. Kung era assistente di Teologia dogmatica a Münster. Il gentile e riservato professore bavarese e l’irruento e polemico collega elvetico si sono incontrati di nuovo al Concilio. Nel frenetico succedersi di strategie e iniziative, messe in campo dalla "tribù" dei teologi conciliari, il manovriero Kung ha sempre tenuto presente il suo collega di Münster. Il 22 novembre 1962, anche Ratzinger è invitato da Kung a pranzo alla trattoria romana "Da Ernesto", in piazza Santi Apostoli, dove, insieme con gli altri teologi (Karl Rahner, Edward Schillebeeckx e Jean Danielou) e all’editore olandese Paul Brand, prende forma l’idea di una rivista teologica internazionale, che rilanci tra il grande pubblico i temi e le istanze conciliari.

    Sia Kung, sia Ratzinger, a dire il vero, sanno di pensarla in maniera differente su come la stagione conciliare debba rifluire nel grande fiume della vita ordinaria della Chiesa. Ma allora, come spiega Ratzinger nella sua autobiografia, «consideravamo ciò come legittima differenza di posizioni teologiche», che «non avrebbe intaccato il nostro consenso di fondo».

    Oltre che per questioni teologiche, Ratzinger e Kung hanno avuto contatti anche riguardo a vicende più pratiche, connesse alla loro attività accademica. Nel corso del 1963, Kung ha rinunciato a un’offerta di ingaggio dell’Università di Münster, ma ha suggerito ai professori della facoltà teologica westfalica di arruolare al suo posto il giovane teologo Walter Kasper (oggi cardinale e, dal 2001, presidente del Pontificio consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, ndr). Ratzinger appoggia la candidatura: Kasper inizia a insegnare a Münster nel 1964.

    A muovere i fili, perché la facoltà tubinghese inviasse la vocatio al professor Ratzinger, è stato proprio Kung, supportato dal collega Max Seckler, che a Tubinga tiene a quei tempi la cattedra di Teologia fondamentale. «In questo periodo, ci fu un turnover generazionale con il pensionamento di diversi professori anziani. Per potenziare la facoltà, alcuni spingevano per chiamare alla cattedra di Teologia dogmatica professori maturi, dal profilo consolidato. Io avevo trent’anni, Kung 35. Fummo noi due a dare battaglia per chiamare un altro giovane. E Ratzinger, allora, era l’uomo del futuro».

    Aggiunge il professor Wolfgang Beinert, ex allievo di Ratzinger proprio a Tubinga: «Hans Kung forse chiamò Ratzinger proprio perché voleva che gli studenti potessero confrontarsi con un altro teologo del Concilio diverso da lui, che facesse da contrappeso alla sua teologia unilaterale. Altri professori più chiusi di loro, che nemmeno percepivano le distanze tra i due, e guardavano anche Ratzinger come fosse un pericoloso riformatore, dicevano: "Di Kung ce ne basta uno!"». 

    a cura di Maurizio De Paoli


    [Modificato da Caterina63 07/01/2018 21:19]
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    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 23/11/2017 19:11

    Pubblichiamo il testo integrale dell’intervista a Benedetto XVI contenuta nel libro Per mezzo della fede. Dottrina della giustificazione ed esperienza di Dio nella predicazione della Chiesa e negli Esercizi Spirituali a cura del gesuita Daniele Libanori (Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 2016, pagine 208, euro 20) in cui il Papa emerito parla della centralità della misericordia nella fede cristiana. Il volume raccoglie gli atti di un convegno che si è svolto nell’ottobre scorso a Roma. Come scrive Filippo Rizzi su «Avvenire» del 16 marzo, che ne pubblica uno stralcio, l’autore dell’intervista (il cui nome non è presente nel libro) è il gesuita  Jacques Servais, allievo di Hans Urs von Balthasar e studioso della sua opera.

    Santità, la questione posta quest’anno nel quadro delle giornate di studio promosse dalla rettoria del Gesù è quella della giustificazione per la fede. L’ultimo volume della sua opera omnia (gs IV) mette in evidenza la sua affermazione risoluta: «La fede cristiana non è un’idea, ma una vita». Commentando la celebre affermazione paolina (Romani 3, 28), lei ha parlato, a questo proposito, di una duplice trascendenza: «La fede è un dono ai credenti comunicato attraverso la comunità, la quale da parte sua è frutto del dono di Dio» («Glaube ist Gabe durch die Gemeinschaft; die sich selbst gegeben wird», gs IV, 512). Potrebbe spiegare che cosa ha inteso con quell’affermazione, tenendo conto naturalmente del fatto che l’obiettivo di queste giornate è chiarire la teologia pastorale e vivificare l’esperienza spirituale dei fedeli?

    Suor Francis, «Il padre misericordioso» (2010)

    Si tratta della questione: cosa sia la fede e come si arriva a credere. Per un verso la fede è un contatto profondamente personale con Dio, che mi tocca nel mio tessuto più intimo e mi mette di fronte al Dio vivente in assoluta immediatezza in modo cioè che io possa parlargli, amarlo ed entrare in comunione con lui. Ma al tempo stesso questa realtà massimamente personale ha inseparabilmente a che fare con la comunità: fa parte dell’essenza della fede il fatto di introdurmi nel noi dei figli di Dio, nella comunità peregrinante dei fratelli e delle sorelle. L’incontro con Dio significa anche, al contempo, che io stesso vengo aperto, strappato dalla mia chiusa solitudine e accolto nella vivente comunità della Chiesa. Essa è anche mediatrice del mio incontro con Dio, che tuttavia arriva al mio cuore in modo del tutto personale.

    La fede deriva dall’ascolto (fides ex auditu), ci insegna san Paolo. L’ascolto a sua volta implica sempre un partner. La fede non è un prodotto della riflessione e neppure un cercare di penetrare nelle profondità del mio essere. Entrambe le cose possono essere presenti, ma esse restano insufficienti senza l’ascolto mediante il quale Dio dal di fuori, a partire da una storia da Lui stesso creata, mi interpella. Perché io possa credere ho bisogno di testimoni che hanno incontrato Dio e me lo rendono accessibile.

    Nel mio articolo sul battesimo ho parlato della doppia trascendenza della comunità, facendo così emergere una volta ancora un importante elemento: la comunità di fede non si crea da sola. Essa non è un’assemblea di uomini che hanno delle idee in comune e che decidono di operare per la diffusione di tali idee. Allora tutto sarebbe basato su una propria decisione e in ultima analisi sul principio di maggioranza, cioè alla fin fine sarebbe opinione umana. Una Chiesa così costruita non può essere per me garante della vita eterna né esigere da me decisioni che mi fanno soffrire e che sono in contrasto con i miei desideri. No, la Chiesa non si è fatta da sé, essa è stata creata da Dio e viene continuamente formata da Lui. Ciò trova la sua espressione nei sacramenti, innanzitutto in quello del battesimo: io entro nella Chiesa non già con un atto burocratico, ma mediante il sacramento. E ciò equivale a dire che io vengo accolto in una comunità che non si è originata da sé e che si proietta al di là di se stessa.

    La pastorale che intende formare l’esperienza spirituale dei fedeli deve procedere da questi dati fondamentali. È necessario che essa abbandoni l’idea di una Chiesa che produce se stessa e far risaltare che la Chiesa diventa comunità nella comunione del corpo di Cristo. Essa deve introdurre all’incontro con Gesù Cristo e portare alla Sua presenza nel sacramento.

    Quando lei era prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, commentando la Dichiarazione congiunta della Chiesa cattolica e della Federazione luterana mondiale sulla dottrina della giustificazione del 31 ottobre 1999, ha messo in evidenza una differenza di mentalità in rapporto a Lutero e alla questione della salvezza e della beatitudine così come egli la poneva. L’esperienza religiosa di Lutero era dominata dal terrore davanti alla collera di Dio, sentimento piuttosto estraneo all’uomo moderno, marcato piuttosto dall’assenza di Dio (su veda il suo articolo in «Communio», 2000, 430). Per questi il problema non è tanto come assicurarsi la vita eterna, quanto piuttosto garantirsi, nelle precarie condizioni del nostro mondo, un certo equilibrio di vita pienamente umana. La dottrina di Paolo della giustificazione per la fede, in questo nuovo contesto, può raggiungere l’esperienza «religiosa» o almeno l’esperienza «elementare» dei nostri contemporanei?

    Innanzitutto tengo a sottolineare ancora una volta quello che scrivevo su «Communio» (2000) in merito alla problematica della giustificazione. Per l’uomo di oggi, rispetto al tempo di Lutero e alla prospettiva classica della fede cristiana, le cose si sono in un certo senso capovolte, ovvero non è più l’uomo che crede di aver bisogno della giustificazione al cospetto di Dio, bensì egli è del parere che sia Dio che debba giustificarsi a motivo di tutte le cose orrende presenti nel mondo e di fronte alla miseria dell’essere umano, tutte cose che in ultima analisi dipenderebbero da lui. A questo proposito trovo indicativo il fatto che un teologo cattolico assuma in modo addirittura diretto e formale tale capovolgimento: Cristo non avrebbe patito per i peccati degli uomini, ma anzi avrebbe per così dire cancellato le colpe di Dio. Anche per ora la maggior parte dei cristiani non condivide un così drastico capovolgimento della nostra fede, si può dire che tutto ciò fa emergere una tendenza di fondo del nostro tempo. Quando Johann Baptist Metz sostiene che la teologia di oggi deve essere «sensibile alla teodicea» (theodizeeempfindlich), ciò mette in risalto lo stesso problema in modo positivo. Anche a prescindere da una tanto radicale contestazione della visione ecclesiale del rapporto tra Dio e l’uomo, l’uomo di oggi ha in modo del tutto generale la sensazione che Dio non possa lasciar andare in perdizione la maggior parte dell’umanità. In questo senso la preoccupazione per la salvezza tipica di un tempo è per lo più scomparsa.

    Tuttavia, a mio parere, continua ad esistere, in altro modo, la percezione che noi abbiamo bisogno della grazia e del perdono. Per me è un «segno dei tempi» il fatto che l’idea della misericordia di Dio diventi sempre più centrale e dominante — a partire da suor Faustina, le cui visioni in vario modo riflettono in profondità l’immagine di Dio propria dell’uomo di oggi e il suo desiderio della bontà divina. Papa Giovanni Paolo II era profondamente impregnato da tale impulso, anche se ciò non sempre emergeva in modo esplicito. Ma non è di certo un caso che il suo ultimo libro, che ha visto la luce proprio immediatamente prima della sua morte, parli della misericordia di Dio. A partire dalle esperienze nelle quali fin dai primi anni di vita egli ebbe a constatare tutta la crudeltà degli uomini, egli afferma che la misericordia è l’unica vera e ultima reazione efficace contro la potenza del male. Solo là dove c’è misericordia finisce la crudeltà, finiscono il male e la violenza. Papa Francesco si trova del tutto in accordo con questa linea. La sua pratica pastorale si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto. A mio parere ciò mette in risalto che sotto la patina della sicurezza di sé e della propria giustizia l’uomo di oggi nasconde una profonda conoscenza delle sue ferite e della sua indegnità di fronte a Dio. Egli è in attesa della misericordia. Non è di certo un caso che la parabola del buon samaritano sia particolarmente attraente per i contemporanei. E non solo perché in essa è fortemente sottolineata la componente sociale dell’esistenza cristiana, né solo perché in essa il samaritano, l’uomo non religioso, nei confronti dei rappresentanti della religione appare, per così dire, come colui che agisce in modo veramente conforme a Dio, mentre i rappresentanti ufficiali della religione si sono resi, per così dire, immuni nei confronti di Dio. È chiaro che ciò piace all’uomo moderno. Ma mi sembra altrettanto importante tuttavia che gli uomini nel loro intimo aspettino che il samaritano venga in loro aiuto, che egli si curvi su di essi, versi olio sulle loro ferite, si prenda cura di loro e li porti al riparo. In ultima analisi essi sanno di aver bisogno della misericordia di Dio e della sua delicatezza. Nella durezza del mondo tecnicizzato nel quale i sentimenti non contano più niente, aumenta però l’attesa di un amore salvifico che venga donato gratuitamente. Mi pare che nel tema della misericordia divina si esprima in un modo nuovo quello che significa la giustificazione per fede. A partire dalla misericordia di Dio, che tutti cercano, è possibile anche oggi interpretare daccapo il nucleo fondamentale della dottrina della giustificazione e farlo apparire ancora in tutta la sua rilevanza.

    Quando Anselmo dice che il Cristo doveva morire in croce per riparare l’offesa infinita che era stata fatta a Dio e così restaurare l’ordine infranto, egli usa un linguaggio difficilmente accettabile dall’uomo moderno (cfr. gs iv 215.ss). Esprimendosi in questo modo, si rischia di proiettare [in] su Dio un’immagine di un Dio di collera, afferrato, dinanzi al peccato dell’uomo, da [uno stato affettivo] sentimenti di violenza e di aggressività paragonabile/i a quello che noi stessi possiamo sperimentare. Come è possibile parlare della giustizia di Dio senza rischiare di infrangere la certezza, ormai assodata presso i fedeli, che [il Dio] quello dei cristiani è un Dio «ricco di misericordia» (Efesini 2, 4)?

    La concettualità di sant’Anselmo è diventata oggi per noi di certo incomprensibile. È nostro compito tentare di capire in modo nuovo la verità che si cela dietro tale modo di esprimersi. Per parte mia formulo tre punti di vista su questo punto:

    a) La contrapposizione tra il Padre, che insiste in modo assoluto sulla giustizia, e il Figlio che ubbidisce al Padre e ubbidendo accetta la crudele esigenza della giustizia, non è solo incomprensibile oggi, ma, a partire dalla teologia trinitaria, è in sé del tutto errata. Il Padre e il Figlio sono una cosa sola e quindi la loro volontà è ab intrinseco una sola. Quando il Figlio nel giardino degli ulivi lotta con la volontà del Padre non si tratta del fatto che egli debba accettare per sé una crudele disposizione di Dio, bensì del fatto di attirare l’umanità al di dentro della volontà di Dio. Dovremo tornare ancora, in seguito, sul rapporto delle due volontà del Padre e del Figlio.

    b) Ma allora perché mai la croce e l’espiazione? In qualche modo oggi, nei contorcimenti del pensiero moderno di cui abbiamo parlato sopra, la risposta a tali domande è formulabile in modo nuovo. Mettiamoci di fronte all’incredibile sporca quantità di male, di violenza, di menzogna, di odio, di crudeltà e di superbia che infettano e rovinano il mondo intero. Questa massa di male non può essere semplicemente dichiarata inesistente, neanche da parte di Dio. Essa deve essere depurata, rielaborata e superata. L’antico Israele era convinto che il quotidiano sacrificio per i peccati e soprattutto la grande liturgia del giorno di espiazione (yom-kippur) fossero necessari come contrappeso alla massa di male presente nel mondo e che solo mediante tale riequilibrio il mondo poteva, per così dire, rimanere sopportabile. Una volta scomparsi i sacrifici nel tempio, ci si dovette chiedere cosa potesse essere contrapposto alle superiori potenze del male, come trovare in qualche modo un contrappeso. I cristiani sapevano che il tempio distrutto era stato sostituito dal corpo risuscitato del Signore crocifisso e che nel suo amore radicale e incommensurabile era stato creato un contrappeso all’incommensurabile presenza del male. Anzi essi sapevano che le offerte presentate finora potevano essere concepite solo come gesto di desiderio di un reale contrappeso. Essi sapevano anche che di fronte alla strapotenza del male solo un amore infinito poteva bastare, solo un’espiazione infinita. Essi sapevano che il Cristo crocifisso e risorto è un potere che può contrastare quello del male e che salva il mondo. E su queste basi poterono anche capire il senso delle proprie sofferenze come inserite nell’amore sofferente di Cristo e come parte della potenza redentrice di tale amore. Sopra citavo quel teologo per il quale Dio ha dovuto soffrire per le sue colpe nei confronti del mondo; ora, dato questo capovolgimento della prospettiva, emerge la seguente verità: Dio semplicemente non può lasciare com’è la massa del male che deriva dalla libertà che Lui stesso ha concesso. Solo lui, venendo a far parte della sofferenza del mondo, può redimere il mondo.

    c) Su queste basi diventa più perspicuo il rapporto tra il Padre e il Figlio. Riproduco sull’argomento un passo tratto dal libro di de Lubac su Origene che mi pare molto chiaro: «Il Redentore è entrato nel mondo per compassione verso il genere umano. Ha preso su di sé le nostre passiones prima ancora di essere crocefisso, anzi addirittura prima di abbassarsi ad assumere la nostra carne: se non le avesse provate prima non sarebbe venuto a prender parte alla nostra vita umana. Ma quale fu questa sofferenza che egli sopportò in anticipo per noi? Fu la passione dell’amore. Ma il Padre stesso, il Dio dell’universo, lui che è sovrabbondante di longanimità, pazienza, misericordia e compassione, non soffre anch’egli in un certo senso? “Il Signore tuo Dio, infatti, ha preso su di sé i tuoi costumi come colui che prende su di sé suo figlio” (Deuteronomio 1, 31). Dio prende dunque su di sé i nostri costumi come il Figlio di Dio prende su di sé le nostre sofferenze. Il Padre stesso non è senza passioni! Se lo si invoca, allora Egli conosce misericordia e compassione. Egli percepisce una sofferenza d’amore (Omelie su Ezechiele 6, 6)».

    In alcune zone della Germania ci fu una devozione molto commovente che contemplava die Not Gottes (“l’indigenza di Dio”). Per conto mio ciò mi fa passare davanti agli occhi un’impressionante immagine che rappresenta il Padre sofferente, che come Padre condivide interiormente le sofferenze del Figlio. E anche l’immagine del “trono di grazia” fa parte di questa devozione: il Padre sostiene la croce e il crocifisso, si china amorevolmente su di lui e d’altra parte per così dire è insieme sulla croce. Così in modo grandioso e puro si percepisce lì cosa significano la misericordia di Dio e la partecipazione di Dio alla sofferenza dell’uomo. Non si tratta di una giustizia crudele, non già del fanatismo del Padre, bensì della verità e della realtà della creazione: del vero intimo superamento del male che in ultima analisi può realizzarsi solo nella sofferenza dell’amore.

    Negli «Esercizi Spirituali», Ignazio di Loyola non utilizza le immagini veterotestamentarie di vendetta, al contrario di Paolo (cfr. 2 Tessalonicesi 1, 5-9); ciò non di meno egli invita a contemplare come gli uomini, fino alla Incarnazione, «discendevano all’inferno» (Esercizi Spirituali n. 102; cfr. ds IV, 376) e a considerare l’esempio dagli «innumerevoli altri che vi sono finiti per molti meno peccati di quelli che ho commesso io» (Esercizi Spirituali n. 52). È in questo spirito che san Francesco Saverio ha vissuto la propria attività pastorale, convinto di dover tentare di salvare dal terribile destino della perdizione eterna quanti più «infedeli» possibile. L’insegnamento, formalizzato nel concilio di Trento, nella sentenza riguardo al giudizio sui buoni e sui cattivi, in seguito radicalizzato dai giansenisti, è stato ripreso ín modo molto più contenuto nel Catechismo della Chiesa cattolica (cfr. §5 633, 1037). Si può dire che su questo punto, negli ultimi decenni, c’è stato una sorta di «sviluppo del dogma» di cui il Catechismo deve assolutamente tenere conto?

    Non c’è dubbio che in questo punto siamo di fronte a una profonda evoluzione del dogma. Mentre i padri e i teologi del medioevo potevano ancora essere del parere che nella sostanza tutto il genere umano era diventato cattolico e che il paganesimo esistesse ormai soltanto ai margini, la scoperta del nuovo mondo all’inizio dell’era moderna ha cambiato in maniera radicale le prospettive. Nella seconda metà del secolo scorso si è completamente affermata la consapevolezza che Dio non può lasciare andare in perdizione tutti i non battezzati e che anche una felicità puramente naturale per essi non rappresenta una reale risposta alla questione dell’esistenza umana. Se è vero che i grandi missionari del XVI secolo erano ancora convinti che chi non è battezzato è per sempre perduto — e ciò spiega il loro impegno missionario — nella Chiesa cattolica dopo il concilio Vaticano II tale convinzione è stata definitivamente abbandonata. Da ciò derivò una doppia profonda crisi. Per un verso ciò sembra togliere ogni motivazione a un futuro impegno missionario. Perché mai si dovrebbe cercare di convincere delle persone ad accettare la fede cristiana quando possono salvarsi anche senza di essa? Ma pure per i cristiani emerse una questione: diventò incerta e problematica l’obbligatorietà della fede e della sua forma di vita. Se c’è chi si può salvare anche in altre maniere non è più evidente, alla fin fine, perché il cristiano stesso sia legato alle esigenze dalla fede cristiana e alla sua morale. Ma se fede e salvezza non sono più interdipendenti, anche la fede diventa immotivata.

    Negli ultimi tempi sono stati formulati diversi tentativi allo scopo di conciliare la necessità universale della fede cristiana con la possibilità di salvarsi senza di essa. Ne ricordo qui due: innanzitutto la ben nota tesi dei cristiani anonimi di Karl Rahner. In essa si sostiene che l’atto-base essenziale dell’esistenza cristiana, che risulta decisivo in ordine alla salvezza, nella struttura trascendentale della nostra coscienza consiste nell’apertura al tutt’altro, verso l’unità con Dio. La fede cristiana avrebbe fatto emergere alla coscienza ciò che è strutturale nell’uomo in quanto tale. Perciò quando l’uomo si accetta nel suo essere essenziale, egli adempie l’essenziale dell’essere cristiano pur senza conoscerlo in modo concettuale. Il cristiano coincide dunque con l’umano e in questo senso è cristiano ogni uomo che accetta se stesso anche se egli non lo sa. È vero che questa teoria è affascinante, ma riduce il cristianesimo stesso a una pura conscia presentazione di ciò che l’essere umano è in sé e quindi trascura il dramma del cambiamento e del rinnovamento che è centrale nel cristianesimo.

    Ancor meno accettabile è la soluzione proposta dalle teorie pluralistiche della religione, per le quali tutte le religioni, ognuna a suo modo, sarebbero vie di salvezza e in questo senso nei loro effetti devono essere considerate equivalenti. La critica della religione del tipo di quella esercitata dall’Antico Testamento, dal Nuovo Testamento e dalla Chiesa primitiva è essenzialmente più realistica, più concreta e più vera nella sua disamina delle varie religioni. Una ricezione così semplicistica non è proporzionata alla grandezza della questione.

    Ricordiamo da ultimo soprattutto Henri de Lubac e con lui alcuni altri teologhi che hanno fatto forza sul concetto di sostituzione vicaria. Per essi la proesistenza di Cristo sarebbe espressione della figura fondamentale dell’esistenza cristiana e della Chiesa in quanto tale. È vero che così il problema non è del tutto risolto, ma a me pare che questa sia in realtà l’intuizione essenziale che così tocca l’esistenza del singolo cristiano. Cristo, in quanto unico, era ed è per tutti e i cristiani, che nella grandiosa immagine di Paolo costituiscono il suo corpo in questo mondo, partecipano di tale “essere per”. Cristiani, per così dire, non si è per se stessi, bensì, con Cristo, per gli altri. Ciò non significa una specie di biglietto speciale per entrare nella beatitudine eterna, bensì la vocazione a costruire l’insieme, il tutto. Quello di cui la persona umana ha bisogno in ordine alla salvezza è l’intima apertura nei confronti di Dio, l’intima aspettativa e adesione a Lui, e ciò viceversa significa che noi assieme al Signore che abbiamo incontrato andiamo verso gli altri e cerchiamo di render loro visibile l’avvento di Dio in Cristo.

    È possibile spiegare questo “essere per” anche in modo un po’ più astratto. È importante per l’umanità che in essa ci sia verità, che questa sia creduta e praticata. Che si soffra per essa. Che si ami. Queste realtà penetrano con la loro luce all’interno del mondo in quanto tale e lo sostengono. Io penso che nella presente situazione diventi per noi sempre più chiaro e comprensibile quello che il Signore dice ad Abramo, che cioè dieci giusti sarebbero stati sufficienti a far sopravvivere una città, ma che essa distrugge se stessa se tale piccolo numero non viene raggiunto. È chiaro che dobbiamo ulteriormente riflettere sull’intera questione.

    Agli occhi di molti “laici”, segnati dall’ateismo del XIX e XX secolo, Lei ha fatto notare, è piuttosto Dio — se esiste — che non l’uomo che dovrebbe rispondere delle ingiustizie, della sofferenza degli innocenti, del cinismo del potere al quale si assiste, impotenti, nel mondo e nella storia universale (cfr. «Spe salvi», n. 42)... Nel suo libro «Gesù di Nazaret», lei fa eco a ciò che per essi — e per noi — è uno scandalo: «La realtà dell’ingiustizia, del male, non può essere semplicemente ignorata, semplicemente messa da parte. Essa deve assolutamente essere superata e vinta. Solamente così c’è veramente misericordia» («Gesù di Nazaret», III 153, citando 2 Timoteo 2, 13). Il sacramento della confessione è, e in quale senso, uno dei luoghi nei quali può avvenire una «riparazione» del male commesso?

    Ho già cercato di esporre nel loro complesso i punti fondamentali relativi a questo problema rispondendo alla terza domanda. Il contrappeso al dominio del male può consistere in primo luogo solo nell’amore divino-umano di Gesù Cristo che è sempre più grande di ogni possibile potenza del male. Ma è necessario che noi ci inseriamo in questa risposta che Dio ci dà mediante Gesù Cristo. Anche se il singolo è responsabile per un frammento di male, e quindi è complice del suo potere, insieme a Cristo egli può tuttavia «completare ciò che ancora manca alle sue sofferenze» (cfr. Colossesi 1, 24).

    Il sacramento della penitenza ha di certo in questo campo un ruolo importante. Esso significa che noi ci lasciamo sempre plasmare e trasformare da Cristo e che passiamo continuamente dalla parte di chi distrugge a quella che salva.

    di Jacques Servais




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    00 25/11/2017 12:19


    • SPE SALVI

    Speranza, la virtù che non piaceva a Lutero

    A dieci anni dalla pubblicazione dell'enciclica Spe Salvi di Benedetto XVI, ripercorriamo i passi salienti di questo eccezionale documento: dalla novità portata da Cristo all'attacco feroce che la "speranza" ha subito negli ultimi 500 anni, fino al compito che spetta oggi alla cristianità.

    Mercoledì 25 ottobre Papa Francesco ha concluso il ciclo di udienze generali dedicato alla virtù della speranza che aveva iniziato lo scorso 7 dicembre 2016, e il 30 novembre ricorrerà il decennale dell’enciclica Spe Salvi di Benedetto XVI.

    La speranza è una parte fondamentale della vita cristiana, è la virtù che, su un piano soprannaturale, ci permette di aprire il cuore alla misericordia del Padre e, su un piano naturale, di vivere per il domani cioè di pensare, inventare, lavorare, produrre e progredire, in una parola rispondere al comando divino «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra» (Gen. 1, 28). Quindi ben si comprende perché un anno di catechesi e un’enciclica dedicata proprio ad approfondire la bellezza di questa virtù teologale.

    Il documento di Benedetto XVI non ha un semplice risvolto spirituale, ma si apre ad orizzonti culturale che avvolgono tutta la prospettiva esistenziale dell’uomo attraverso i secoli.
    In primo luogo mette in evidenza come la speranza sia una virtù legata teologicamente alla Bibbia e ancor più a Cristo. Se i popoli antichi hanno cercato di dare una spiegazione al nostro vivere e soffrire su questo mondo, è con la Rivelazione biblica che Dio stesso dona all’uomo una spiegazione coerente del suo esistere: creato per amore, macchiatosi di una gravissima colpa e per questo separato dalla fonte della sua esistenza, l’uomo ha però ancora una possibilità di recuperare la sua dignità originaria e ritornare all’unione di amore con il Creatore. L’uomo, estromesso dal Paradiso, potrà tornarci grazie alla misericordia del Padre che donerà una strada di salvezza. La promessa fa nascere nel popolo ebraico la speranza, fondata sulla certezza che la parola di Dio è vera, e con Cristo la speranza entra pienamente nella storia. Non solo il pensiero ebraico, ma anche la filosofia greca, che con il suo rigore critico aveva corroso le credenze pagane dei popoli antichi, trova compimento e soddisfazione nell’incontro con il Logos, il Verbum giovanneo, la Verità del Dio vivente. La speranza portata da Cristo al mondo ha generato gradualmente una società cristiana con i piedi ben fermi in terra ma con il volto orientato verso la certezza di una dimensione dell’essere più vera, più piena, più completa perché realtà unica con l’Eterno.

    Questa prospettiva cristiana dell’esistenza, sottolinea il Pontefice nel capitolo IV, ha tuttavia subito nel tempo un processo di corruzione e di degenerazione che può essere sintetizzato in specifici  momenti storici.

    In primo luogo Martin Lutero e la Riforma di cui poche settimane fa si è ricordato il V centenario.  Con Lutero la speranza da “certezza”, “sostanza” della vita umana, si muta in convinzione, termine che rimanda ad una dimensione soggettivistica del problema. La convinzione personale è  frutto di uno sforzo volontaristico mentre, sottolinea Benedetto XVI, nella lettera di san Paolo agli Efesini «il termine greco usato (elenchos) non ha il valore soggettivo di "convinzione", ma quello oggettivo di  "prova"» (S.S., n.7). Lutero priva la fede dell’apporto fondamentale della ragione e lo sostituisce con la volontà ma così facendo condanna la fede, e quindi la speranza, ad essere soggettive e a perdere la loro dimensione sociale, pubblica. Il fatto cristiano diventa un problema di “foro interno”, scrive il Papa «non è che la fede […] venga semplicemente negata» ma «viene piuttosto spostata su un altro livello – quello delle cose solamente private ed ultraterrene – e allo stesso tempo diventa in qualche modo irrilevante per il mondo» (S.S., n.17).

    Il secondo passaggio è rappresentato dalla filosofia rinascimentale secondo cui la ragione è serva della scienza e la ricerca della verità diventa ricerca dell’utilità. La speranza si trasforma in cieca fiducia nel progresso, nelle “magnifiche sorti e progressive” della scienza e poi, con l’Illuminismo, diventa fiducia cieca nella libertà svincolata da ogni limite. “Sapere aude” scrive Immanuel Kant, osa svincolarti da ogni limite, da ogni vincolo. La libertà illuminista non è più finalizzata alla ricerca della verità ma è una forza che rompe i vincoli della fede e della vita politico-sociale portando in sé un «potenziale rivoluzionario di un'enorme forza esplosiva» (n. 18) come si constaterà nei disastri rivoluzionari che insanguineranno l’Europa per decenni, prima con le truppe rivoluzionarie e poi con quelle napoleoniche.

    Terzo passaggio è rappresentato dal marxismo. La ragione, passata da cognitiva - cioè volta alla ricerca della verità - a strumentale – cioè funzionale alle utopie scientiste e illuministe -, viene subordinata all’utilità per una classe sociale, che diventa presto l’utilità per un partito, per uno Stato. Per Marx il regno di Dio sulla Terra s’instaura non grazie alla scienza, ma grazie alla politica.  Scrive il Papa: «Il progresso verso il meglio, verso il mondo definitivamente buono, non viene più semplicemente dalla scienza, ma dalla politica – da una politica pensata scientificamente, che sa riconoscere la struttura della storia e della società ed indica così la strada verso la rivoluzione, verso il cambiamento di tutte le cose» (n. 20).

    Fallita anche la speranza in un mondo perfetto e giusto, subentra la delusione, l’abbrutimento radicale del nichilismo che vede nel ’68 il suo momento emblematico. La perdita di ogni orizzonte si trasforma nell’esaltazione del soggettivismo più radicale, del piacere personale svincolato da ogni dovere, dalla libertà da qualsiasi limite fosse anche quello della propria vita. La “perdita del padre” ovvero del legame fra gli uomini, della capacità di sentirsi parte del mondo ma portatore di una responsabilità che precede e supera la propria dimensione personale, della necessità di essere parte di una comunità in cui ognuno contribuisce al bene oggettivo dell’altro e non puri “io” alla ricerca continua di “sé”, ha generato «l’esplosione della grande crisi culturale dell’Occidente» e una caduta nel nichilismo radicale. Percorso tragico, quello descritto dal Pontefice, che va oltre e aggiunge, senza timori: «Bisogna che nell'autocritica dell'età moderna confluisca anche un'autocritica del cristianesimo moderno» (n. 22) che purtroppo ha talora creduto alla critica di Lutero e ha ceduto alle utopie dell’illuminismo e del Comunismo.

    La speranza, nata con la venuta di Cristo sulla terra, ha subito un attacco feroce durato più di 500 anni ed ora cosa ci rimane? L’adagio popolare “finché c’è vita c’è speranza” può rispondere all’interrogativo. Il cristianesimo, che spesso ha sbagliato non solo teologia ma anche escatologia, può e deve ritrovare le motivazioni per far rinascere la speranza e queste possono essere rintracciate prima di tutto nella consapevolezza che la salvezza se è fine primario di ognuno, è raggiungibile solo se inseriti in una comunità. L’uomo non vive come una monade in questo mondo, è in un continuo relazionarsi e quindi la propria salvezza in qualche modo dipende anche dalla salvezza degli altri. E’ il fondamento della Dottrina sociale della Chiesa, lo scopo per cui il cristianesimo ha una morale sociale oltre che individuale, o per dirla con Pio XII «Dalla forma data alla società, consona o no alle leggi divine, dipende e s'insinua anche il bene o il male nelle anime» (Radiomessaggio di Pentecoste, 1 giugno 1941). Per questo oltre al giudizio particolare ci sarà anche quello universale, perché quest’ultimo risponde alla necessità di giustizia che l’uomo sente presente nel suo cuore.

    Gli orrori della storia, il cattivo che vince sul buono, devono trovare una risposta nella giustizia di Dio come mostra anche Gesù proponendo la parabola di Lazzaro e del ricco Epulone. Benedetto XVI ribadisce che l’inferno c’è, ed è la condizione che si preparano quelle «persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all'amore. Persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore». (n. 45).

    Ma nella vita non è sempre tutto bianco o tutto nero, ognuno di noi sperimenta quotidianamente delle zone d’ombra mirabilmente spiegate da san Paolo quando nella Lettera ai Romani scrive “Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene; c'è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio” (7,18-19), sapienza già del pagano Ovidio che nelle Metamorfosi ha scritto «Video meliora proboque, deteriora sequor».
    «Molta sporcizia - scrive Benedetto - copre la purezza, di cui, tuttavia, è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell'anima» (n. 46) e che fonda teologicamente l’idea del Purgatorio.
    L’amore di Dio per ogni uomo lo porta ad aspettare fino all’ultimo un segno, anche piccolo, di pentimento per potergli aprire le braccia del perdono come ha insegnato Papa Francesco durante la lunga catechesi che ha accompagnato l’Anno della Misericordia.

    Chi vive oggi nella speranza?
    Il Santo Padre cita grandi figure che hanno dato testimonianza alla speranza come, in tempi recenti, il cardinale Francois Xavier Nguyen Van Thuan (1928-2002) che ha patito tredici anni di carcere duro nel Vietnam comunista, e un secolo prima Giuseppina Bakita (1869-1947), schiava sudanese, testimone di quel Darfour che ancora oggi è terra di gravi persecuzioni contro i cristiani. Lei ha patito sulla sua pelle la brutalità a cui l’uomo può giungere quando separa la ragione dalla fede - come troppo spesso fa l’islam, - e ha ritrovato la speranza quando, arrivata a Verona, ha conosciuto Cristo, il Dio fatto uomo per amore dell’uomo, annunciatore della speranza al mondo perché Lui stesso Via, Verità e Vita.




    Erode docet
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    Quella profezia di Ratzinger sul nuovo ordine mondiale che rifiuta la fragilità

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    Ratzinger-fragilità-Charlie Gard

    L’eutanasia “di Stato” del piccolo Charlie Gard, consumata nel disperato tentativo internazionale di salvare la vita del bambino britannico, e il disegno di legge sulle disposizioni anticipate di trattamento (Dat) in discussione presso il Parlamento italiano, sembrano scandire le tappe verso l’imposizione di un modello ormai internazionale in cui la vita umana, nelle sue forme più deboli e fragili deve essere scartata ed eliminata. Ovviamente nel nome del progresso.

    Fa particolare impressione in questo contesto andare a rileggere la prefazione che nell’aprile del 1997 Joseph Ratzinger – più tardi, Papa Benedetto XVI – scrisse al libro del docente e filosofo belga Michel Schooyans, “Nuovo disordine mondiale”, tradotto e pubblicato in italiano dalle Edizioni San Paolo nel 2000.

    L’allora cardinale, commentando il libro di Schooyans – studioso molto acuto, acerrimo nemico delle politiche neomalthusiane ossessionate dalla riduzione della popolazione mondiale – identifica perfettamente l’impianto ideologico e il paradigma antropologico dietro la marea montante di aborto, gender theory ed eutanasia.

    “Sin dagli inizi dell’Illuminismo – scrive Ratzinger nella prefazione – la fede nel progresso ha sempre messo da parte l’escatologia cristiana, finendo di fatto per sostituirla completamente”. Mentre nei secoli precedenti tale fede si risolveva in un generalizzato ottimismo circa i progressi della scienza, è nel XX secolo che questo credo diventa una ideologia politica attraverso svariati tentativi.

    “Questi tentativi – argomenta l’allora cardinale – stanno assumendo una configurazione sempre più definita”. Essi “trovano espressione sempre più evidente nell’ONU e nelle sue Conferenze internazionali, in particolare quelle del Cairo e di Pechino, che nelle loro proposte di vie per arrivare a condizioni di vita diverse, lasciano trasparire una vera e propria filosofia dell’uomo nuovo e del mondo nuovo”.

    Un uomo nuovo e un mondo nuovo, già alla base del totalitarismo comunista, ma questa volta sostenuti da una nuova ideologia. Ideologia secondo il futuro pontefice che “non ha più la carica utopica che caratterizzava il sogno marxista; essa è al contrario molto realistica, in quanto fissa i limiti del benessere, ricercato a partire dai limiti dei mezzi disponibili per raggiungerlo e raccomanda, per esempio, senza per questo cercare di giustificarsi, di non preoccuparsi della cura di coloro che non sono più produttivi o che non possono più sperare in una determinata qualità della vita”.

    Difficile non scorgere nella descrizione ratzingeriana il retroterra culturale e ideologico che può aver spinto il Great Ormond Street Hospital di Londra a sottrarre il piccolo Charlie ai genitori, negando loro l’autorizzazione al trasferimento del bambino per tentare una cura all’estero e costringendoli ad un estenuante contenzioso in tribunale.

    Per Ratzinger già vent’anni fa si stava affacciando una nuova antropologia, la quale secondo il pensatore bavarese “non si aspetta più che gli uomini, abituatisi oramai alla ricchezza e al benessere, siano pronti a fare i sacrifici necessari per raggiungere un benessere generale, bensì propone delle strategie per ridurre il numero dei commensali alla tavola dell’umanità, affinché non venga intaccata la pretesa felicità che taluni hanno raggiunto.”

    E’ esattamente la filosofia politica che nella tradizione cristiana fa capo alla figura di Erode: sopprimere la nuova vita nel momento della sua maggiore debolezza per conservare i privilegi della vita più forte e potente, eppure così minacciata dalla fragilità di un bambino.

    Vale la pena tornare allora al messaggio del Natale 2005 del Ratzinger ormai al soglio di Pietro.  “Nel Natale – sottolinea Benedetto XVI – il nostro animo si apre alla speranza contemplando la gloria divina nascosta nella povertà di un Bambino avvolto in fasce e deposto in una mangiatoia: è il Creatore dell’universo, ridotto all’impotenza di un neonato!”

    All’uomo di oggi – che sia credente o meno – sta la possibilità secondo Ratzinger di lasciarsi toccare il cuore da quel bambino, anche per trovare le ragioni di un rinnovato impegno pubblico: “Uomo moderno, adulto eppure talora debole nel pensiero e nella volontà, lasciati prender per mano dal Bambino di Betlemme; non temere, fidati di Lui! La forza vivificante della sua luce ti incoraggia ad impegnarti nell’edificazione di un nuovo ordine mondiale, fondato su giusti rapporti etici ed economici.”

    Ratzinger delinea due visioni dell’uomo fondanti anche l’ordine politico: l’alternativa tra il cristianesimo radice della cultura occidentale e la moderna ideologia radicale di massa. I cattolici in politica prendano nota.



    [Modificato da Caterina63 13/12/2017 08:59]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
    Post: 39.988
    Sesso: Femminile
    00 13/12/2017 11:18
      da un articolo del maggio 2008 di Sandro Magister
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    "La Civiltà Cattolica" corregge. L'inferno non è vuoto, è solo poco affollato

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    In un articolo intitolato "L'inferno vuoto", il gesuita Giandomenico Mucci smonta la tesi secondo la quale "l'inferno c'è ma è vuoto". E lo fa sull'ultimo numero della "Civiltà Cattolica", quindi con l'imprimatur della segreteria di stato vaticana che esamina e autorizza prima della stampa ogni articolo della rivista.

    La formula "l'inferno c'è ma è vuoto" è un luogo comune il cui moderno rilancio viene generalmente attribuito al teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, promosso cardinale alla fine della sua vita. Ma c'è chi sostiene che anche Benedetto XVI velatamente approvi tale formula nella sua enciclica "Spe salvi".

    Mucci spiega che tutto ciò nasce per von Balthasar da un equivoco e per Benedetto XVI da un'imperfetta traduzione.

    Quanto al caso von Balthasar, Mucci scrive:

    «L'equivoco nacque, o fu fatto nascere, nel 1984 dopo un convegno romano sulla figura e sul pensiero di Adrienne von Speyr, durante il quale il teologo svizzero riprese la sua riflessione escatologica che già nel 1981 aveva suscitato aspre critiche nell'area teologica di lingua tedesca e ancora nel 1987 costringeva il suo autore a difenderla. La tesi di von Balthasar afferma che sperare la salvezza eterna di tutti gli uomini non è contrario alla fede. Essa si avvale dell'autorità di alcuni Padri della Chiesa, tra i quali Origene e Gregorio Nisseno, ed è condivisa da non pochi teologi contemporanei, tra i quali Guardini e Daniélou, de Lubac, Ratzinger e Kasper, e da scrittori cattolici come Claudel, Marcel e Bloy. Ai suoi critici von Balthasar replicava: "La soluzione da me proposta, secondo la quale Dio non condanna alcuno, ma è l'uomo, che si rifiuta in maniera definitiva all'amore, a condannare se stesso, non fu affatto presa in considerazione. Avevo anche rilevato che la Sacra Scrittura, accanto a tante minacce, contiene pure molte parole di speranza per tutti e che, se noi trasformiamo le prime in fatti oggettivi, le seconde perdono ogni senso e ogni forza: ma neppure di questo si è tenuto conto nella polemica. Invece sono state ripetutamente travisate le mie parole nel senso che chi spera la salvezza per tutti i suoi fratelli e tutte le sue sorelle, 'spera l'inferno vuoto' (che razza di espressione!). Oppure nel senso che chi manifesta una simile speranza insegna la 'redenzione di tutti' (apokatastasis) condannata dalla Chiesa, cosa che io ho espressamente respinto. Noi stiamo pienamente sotto il giudizio e non abbiamo alcun diritto e alcuna possibilità di conoscere in anticipo la sentenza del giudice. Com'è possibile identificare speranza e conoscenza? Ad esempio, spero che il mio amico guarirà dalla sua grave malattia, ma per questo forse lo so?"».

    Quanto a Benedetto XVI, nel finale dell'articolo padre Mucci riporta le parole della "Spe salvi" che fanno pensare che anche il papa sostenga la tesi dell'inferno vuoto. E addebita il malinteso all'imperfetta traduzione italiana del testo ufficiale latino dell'enciclica.

    Il passaggio cruciale della "Spe salvi", ai paragrafi 45 e 46, è il seguente:

    "Possono esserci persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all'amore. Persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore. È questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola 'inferno'. Dall'altra parte possono esserci persone purissime, che si sono lasciate interamente penetrare da Dio e di conseguenza sono totalmente aperte al prossimo – persone, delle quali la comunione con Dio orienta già fin d'ora l'intero essere e il cui andare verso Dio conduce solo a compimento ciò che ormai sono. Secondo le nostre esperienze, tuttavia, né l'uno né l'altro è il caso normale dell'esistenza umana. Nella gran parte degli uomini – così possiamo supporre – rimane presente nel più profondo della loro essenza un'ultima apertura interiore per la verità, per l'amore, per Dio...".

    Mucci fa notare che, nel testo ufficiale latino, questo passo dell'enciclica comincia con le parole "Sunt quidam...". Per cui la traduzione corretta non sarebbe l'ipotetico "Possono esserci...", ma un più assertivo "Vi sono...".

    Ciò non toglie che il pensiero di Benedetto XVI è nella sostanza chiarissimo e pieno di speranza. Il papa pensa a un inferno comunque poco affollato.

    E a un paradiso dove "la gran parte degli uomini" alla fine arriveranno, sia pure quasi tutti passando per il fuoco purificatore del purgatorio.

    Trovi in questa pagina di www.chiesa l'articolo integrale di padre Mucci: "L'inferno vuoto".



    L'inferno vuoto

    Da "La Civiltà Cattolica", n. 3788 del 19 aprile 2008 

    di Giandomenico Mucci S.I.



    L'uomo non può rinunciare a porsi, almeno una volta nella vita, la domanda sul perché dell'esistenza e a tentare una risposta, per chiarire e giustificare a se stesso il valore dell'esistenza. E una esigenza connaturata alla natura pensante dell'uomo. Sulla grande stampa italiana domina la risposta atea o agnostica. Scrittori e giornalisti, toccando o sfiorando i mille problemi di vario genere legati a quella domanda, suonano, un giorno sì un giorno no, la stessa musica. Non sarebbe possibile penetrare o eludere l'imperscrutabile decreto del Fato che ha posto l'uomo sulla terra per vivere, soffrire e morire, senza poter sperare in spazi più alti. L'impotenza paralizzerebbe l'uomo quando pretendesse di squarciare il mistero di quel decreto. Unico conforto è la vita stessa nella sua preziosa fragilità e con le cose belle che produce. Roberto Gervaso consiglia anche la lettura di Zenone, Seneca, Marco Aurelio e Montaigne (1). Figurarsi! 

    La risposta agnostica, sebbene molto pubblicizzata, è lungi dal convincere tutti. E di moda, da parte laicista, ironizzare sul «ritorno delle religioni», ma non pochi osservatori, anche non credenti, ne accettano il fatto. Più seria è l'obiezione che nasce da quella che Gian Enrico Rusconi chiama la «de-teologizzazione dell'atteggiamento religioso» (2). Essa constata o contesta alla Chiesa il cambiamento che si pretende sia avvenuto nel suo discorso pubblico: non più l'insistenza sui riferimenti dogmatici, ma la rivendicazione del monopolio dell'etica. I dogmi del peccato originale, della redenzione, della salvezza sarebbero oggi taciuti o proposti senza la forza di un tempo e, comunque, non costituirebbero più l'ossatura della dottrina morale della Chiesa. La dottrina millenaria della natura decaduta con il peccato sarebbe ormai divenuta obsoleta e sostituita da una sorta di «bio-teologismo» impegnato a risacralizzare la natura avversando le scienze biologiche e le teorie dell'evoluzione. 

    Che in taluni settori della Chiesa si ecceda forse con le tematiche sociali ed etico-pragmatiche è un fatto noto anche agli analisti cattolici. Già parecchi anni or sono, un fine letterato, Italo Alighiero Chiusano, metteva in luce la sproporzione tra l'impegno sociale e la predicazione delle verità della fede (3). Ma qui valga soltanto aver accennato a questi problemi. Ci interessa ora quell'altro fenomeno di de-teologizzazione, portato avanti dagli scrittori atei e agnostici, che consiste principalmente nel parlare con disinvolta ignoranza di argomenti capitali della dottrina cristiana, non nel senso con cui li intende la Chiesa, ma nell'ottica dell'immanenza laicista. Il risultato è il ridicolo gettato a piene mani su ciò che o non si conosce nei suoi veri termini o si stravolge per confondere i cattolici. La formuletta dell'«inferno vuoto» è uno di questi casi più frequenti. Usata da quegli scrittori, la formuletta significa che la Chiesa contemporanea ha mutato la sua fede nell'inferno che prima era «pieno», mentre ora è «vuoto». Si risente in questi autori l'eco del sarcasmo di Voltaire che, in una pagina antisemita, giudicava la dottrina cattolica dell'inferno cosa da domestiche e da sarti (4). Perché, si sa, «il più comune rimprovero che si fa oggidì alla religione si è che essa conduca a sentimenti bassi, volgari» (5). Vorremmo mostrare a eventuali cattolici disorientati che le cose non stanno così. 

    L'equivoco 

    È diventato un luogo comune in Italia citare Hans Urs von Balthasar come il teologo che ha detto che l'inferno esiste, ma è vuoto. L'equivoco nacque, o fu fatto nascere, nel 1984 dopo il Convegno romano sulla figura e sul pensiero di Adrienne von Speyr, durante il quale il teologo svizzero riprese la sua riflessione escatologica che già nel 1981 aveva suscitato aspre critiche nell'area teologica di lingua tedesca e ancora nel 1987 costringeva il suo autore a difenderla (6). La tesi di von Balthasar afferma che sperare la salvezza eterna di tutti gli uomini non è contrario alla fede. Essa si avvale dell'autorità di alcuni Padri della Chiesa, tra i quali Origene e Gregorio Nisseno, ed è condivisa da non pochi teologi contemporanei, tra i quali Guardini e Daniélou, de Lubac, Ratzinger e Kasper, e da scrittori cattolici come Claudel, Marcel e Bloy. 

    Ai suoi critici von Balthasar replicava: «La soluzione da me proposta, secondo la quale Dio non condanna alcuno, ma è l'uomo, che si rifiuta in maniera definitiva all'amore, a condannare se stesso, non fu affatto presa in considerazione. Avevo anche rilevato che la Sacra Scrittura, accanto a tante minacce, contiene pure molte parole di speranza per tutti e che, se noi trasformiamo le prime in fatti oggettivi, le seconde perdono ogni senso e ogni forza: ma neppure di questo si è tenuto conto nella polemica. Invece sono state ripetutamente travisate le mie parole nel senso che, chi spera la salvezza per tutti i suoi fratelli e tutte le sue sorelle, "spera l'inferno vuoto" (che razza di espressione!). Oppure nel senso che chi manifesta una simile speranza, insegna la "redenzione di tutti" (apokatastasis) condannata dalla Chiesa, cosa che io ho espressamente respinto: noi stiamo pienamente sotto il giudizio e non abbiamo alcun diritto e alcuna possibilità di conoscere in anticipo la sentenza del giudice. Com'è possibile identificare speranza e conoscenza? Spero che il mio amico guarirà dalla sua grave malattia - ma per questo forse lo so?» (7). Basti questo testo a quanti ripetono per abitudine la formuletta dell'«inferno vuoto» della quale sono responsabili le «fin troppo grossolane deformazioni sui giornali» (8). 

    Chiesa e teologi 

    Chi conosce la dottrina della Chiesa sa bene che essa si distingue dalle interpretazioni dei teologi. Soltanto la dottrina fa parte, a vario titolo, del Magistero della Chiesa. La Commediaè Dante. Altra cosa sono i commenti dei dantisti. «Il popolo cristiano crede per buone ragioni, ma lascia ai teologi la cura di dimostrare che quelle ragioni sono buone», disse il card. Dechamps, arcivescovo di Malines, durante la celebrazione del Concilio Vaticano I. Gli scrittori laici e i giornalisti non sono abituati a queste distinzioni e fors'anche le giudicano furbeschi cavilli ecclesiastici. Questo può spiegare la disavventura capitata al pensiero di von Balthasar, l'invenzione giornalistica della formuletta a lui attribuita, il nessun valore di ciò che significa. Quegli scrittori poi mostrano un interesse morboso per l'inferno, o sia per paure inconsce non del tutto sopite o sia perché considerano l'inferno (peraltro banalizzato dal linguaggio corrente) come argomento fertile per deridere la fede della Chiesa. Essi ignorano che questa fede guarda escatologicamente al fine ultimo salvifico della vita cristiana, alla realtà positiva che è il Signore, e medita l'inferno soltanto come «il retro della medaglia», la sorte di chi in terra manca il fine ultimo (9). 

    Il Magistero della Chiesa sull'inferno insegna tre cose. La prima: esiste dopo la morte terrena uno stato, non un luogo, che spetta a chi è morto nel peccato grave e ha perduto la grazia santificante con un atto personale. E la cosiddetta retribuzione dell'empio. La seconda: questo stato comporta la privazione dolorosa della visione di Dio (pena dal danno). La terza: in questo stato c'è un elemento che, con espressione neotest amentaria, è descritto come «fuoco» (pena del senso). Le due pene, e quindi anche l'inferno, sono eterne. Il lettore che vorrà conoscere la secolare documentazione dogmatica potrà consultare un qualsiasi trattato teologico di escatologia (10). 

    Esistono i dannati? 

    Per comprendere in qualche modo l'inferno bisognerebbe penetrare il senso e la gravità del peccato mortale. E il peccato è un mistero come la sua sanzione. E il mistero di una creatura che rigetta la fonte e il fine del suo essere. L'agonia spirituale dell'inferno è il termine orribile delle tendenze peccatrici maturate dall'anima lungo la vita terrena, volontariamente sviluppate e non approdate a una sincera conversione. Ciò significa che il peccatore si è egoisticamente preferito a Dio, e Dio ha ratificato la libera volontà del dannato. Sotto un certo aspetto, l'inferno è il peccatore riuscito, il peccatore che è riuscito a fare perfettamente ciò che ha voluto e iniziato a fare sulla terra. Perciò l'inferno è opera dell'uomo del quale Dio rispetta la volontà. L'uomo ottiene nell'inferno ciò che ha voluto ottenere (11). 

    Tutto questo si oppone alla bontà divina? «La concreta possibilità della dannazione è necessaria, se si vuol continuare ad ammettere la libertà creata nella sua vera essenza. La libertà dell'uomo non può ridursi alla possibilità di scegliere tra un luogo e l'altro di villeggiatura o tra una cravatta a righe e una cravatta a pois; e neppure di scegliere la moglie o il partito politico: la nostra libertà, nel suo significato più profondo, è la spaventosa e stupenda prerogativa di poter costruire il nostro destino eterno. Per non essere puramente nominale, questa prerogativa deve necessariamente includere la reale e concreta possibilità di decidere per la perdizione. Come si vede, il mistero della dannazione è essenzialmente connesso col mistero della libertà, che è forse l'unico vero mistero dell'universo creato» (12). 

    Sono due, dunque, i punti fermi. Esiste la possibilità di un fallimento eterno se l'uomo rifiuta la salvezza offertagli da Dio. E un pericolo contro il quale la Scrittura e la Tradizione della Chiesa, fino ai nostri tempi, ci mettono in guardia affinché non alimentiamo certezze assolute. Si deve alimentare la speranza nella salvezza di tutti gli uomini per la misericordia di Dio e il sacrificio di Cristo. Ma «la speranza è ben diversa dalla sicurezza» (13). 

    Esistono i dannati? Si è mai dannato qualcuno? Per quanto riguarda gli uomini, non ci sono argomenti incontrovertibili per affermarlo. Il dogma cristiano ci impegna a credere che l'inferno è lo stato eterno di chi lascia questa vita in peccato mortale, ma non ci impegna a credere che qualcuno sia morto, o muoia, in peccato mortale. Perciò, educata dalla Scrittura (1 Tim 2,4; 2 Pt 3,9), la Chiesa non cessa di pregare affinché tutti gli uomini si salvino. Né sono pochi i cristiani che sanno bene che la salvezza è condizionata alla libera cooperazione dell'uomo con la grazia e tuttavia sperano nella potenza del sacrificio della Croce. Ma neppure esistono argomenti per affermare o presumere che nessuno mai si dannerà (14). Chiunque può vedere, alla luce di quanto siamo venuti dicendo, come sia perfettamente ortodosso il pensiero di von Balthasar su questa materia e quanto fuorviante, e sostanzialmente erronea, la formuletta dell'«inferno vuoto». 

    Un teologo speciale 

    Nel 1977, l'anno stesso nel quale fu elevato all'episcopato, l'allora card. J. Ratzinger pubblicava un compendio di escatologia che «è, assieme all'ecclesiologia, il trattato che ho esposto più frequentemente nelle mie lezioni» (15). Le quattro pagine dedicate all'inferno formano una bella sintesi dei due temi principali che esauriscono, per così dire, la comprensione della materia: l'inferno nella sua relazione con la libertà umana e con la speranza cristiana. 

    «Che cosa rimane dunque? In primo luogo la costatazione dell'assoluto rispetto che Dio mostra di avere per la libertà della sua creatura. L'amore è un dono che l'uomo riceve; è la conseguente trasformazione di ogni sua miseria, di ogni sua insufficienza; neppure il "sì" a tale amore scaturisce dall'uomo stesso, ma è provocato dalla forza di questo amore. Ma la libertà di rifiutarsi alla maturazione di questo "sì", di non accettarlo come qualcosa di proprio, questa libertà rimane. [...]. [Dio] non tratta gli uomini come esseri minorenni, i quali, in fondo, non possano essere ritenuti responsabili del proprio destino, bensì il suo cielo si fonda sulla libertà che lascia anche al perduto il diritto di volere lui stesso la propria perdizione. La particolarità del cristianesimo emerge qui nella affermazione della grandezza dell'uomo: la sua vita è un caso di estrema serietà [...]» (16). Contro la «terrificante realtà dell'inferno» c'è solamente «la speranza che può nascere soltanto nel condividere la sofferenza di quella notte con Colui che è venuto a trasformare con la sua sofferenza la notte di tutti noi» (17). 

    Trent'anni dopo, l'Autore di queste pagine, divenuto Benedetto XVI, ha ripreso il grave problema con accorata sensibilità pastorale nella enciclica Spe salvi. Sensibilità pastorale e disincantato realismo. «Possono esserci [ma il testo latino recita: Sunt quidam] persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all'amore. Persone in cui tutto è divenuto menzogna; persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore. E questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile [ma il testo latino recita: nihil sanabile invenias]e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno» (18). 

    Ma forse non è questo «il caso normale dell'esistenza umana. Nella gran parte degli uomini - così possiamo supporre rimane presente nel più profondo della loro essenza un'ultima apertura interiore per la verità, per l'amore, per Dio. Nelle concrete scelte di vita, però, essa è ricoperta da sempre nuovi compromessi col male - molta sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia, è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell'anima» (19). «Il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l'amore» (20). Riecheggia in questi testi l'avvertimento della Chiesa a non dimenticare la possibilità dell'esito fallimentare di una vita centrata sul peccato. E vi riecheggia, con la fede nella misericordia salvatrice, la speranza che ad essa tutti possano un giorno accedere. Quia pius es. 


    NOTE 


    1) Cfr R. GERVASO, «Per chi suona la campana?», in Il Messaggero, 19 gennaio 2007, 8. 

    2) G. E. RUSCONI, «Se tra cattolici e laici il dialogo è una finzione», in la Repubblica, 7 dicembre 2007, 46. 

    3) Cfr I. A. CHIUSANO, «Un incontro con i "Novissimi"», in Oss. Rom., 15 luglio 1993, 3. 

    4) Cfr VOLTAIRE, «Inferno», in Id., Dizionario filosofico, vol. I, Milano, Bur, 19913, 281. 

    5) A. MANZONI, «Osservazioni sulla morale cattolica», II, 2, in ID., Tutte le Opere, vol. II, Firenze, Sansoni, 1973, 1.481. 

    6) Nel 1981 e nel 1987, l'autore pubblicò due volumetti sulla sua opinione e la disputa che ne seguì. Ultima edizione italiana: H. U. VON BALITIASAR, Sperare per tutti. Breve discorso sull'inferno, Milano, Jaca Book, 1997. Cfr M. PARADISO, «Von Balthasar e l'inferno», in Avvenire, 22 novembre 1995, 24. 

    7) H. U. VON BALTHASAR, Sperare per tutti. Breve discorso sull'inferno, cit., 123. 

    8) Ivi, 14. 

    9) Cfr A. RUDONI, Escatologia, Torino, Marietti, 1972, 9, nota 1. 

    10) Cfr C. POZO, Teologia dell'aldilà, Roma, Ed. Paoline, 19722, 255-260. 

    11) Cfr R. W. GLEASON, Le monde à venir. Théologie des fins dernières, Paris, Lethielleux, 1960, 130-144. 

    12) G. BIFFI, Linee di escatologia cristiana, Milano, Jaca Book, 1984, 67 s. 

    13) E-J. NOCKE, Escatologia, Brescia, Queriniana, 1984, 143. 

    14) Cfr A. RUDONI, Escatologia, cit., 170 s; G. BIFFI, Linee di escatologia cristiana, cit., 68. 

    15) J. RATZINGER, Escatologia. Morte e vita eterna, Assisi (Pg), Cittadella, 20054, 21. 

    16) Ivi, 225 s. 

    17) Ivi, 227. 

    18) BENEDETTO XVI, «Lettera enciclica Spe salvi», n. 45, in Civ. Catt. 2007 IV 588 s. 

    19) Ivi, n. 46, p. 589. 

    20) Ivi, n. 47, p. 590. 

    __________ 


    > La Civiltà Cattolica



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 31/12/2017 10:00
    [SM=g1740758] Il 20 dicembre 2006 Benedetto XVI tenne, nel corso dell'udienza generale, una catechesi sul Mistero del Natale il cui testo è consultabile qui:

    w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2006/documents/hf_ben-xvi_aud_20061...

    www.youtube.com/watch?v=h_bFsYNeJ_U

    [SM=g1740758]

    Il 1° gennaio 2007, Solennità di Maria SS.ma Madre di Dio e XL Giornata mondiale della Pace, Benedetto XVI tenne una bellissima omelia il cui testo è consultabile qui:

    w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2007/documents/hf_ben-xvi_hom_20070101_world-day-pe...

    www.youtube.com/watch?v=CLruK7y_1C4







    [SM=g1740771]

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      GIUBILEO DEI CATECHISTI E DEI DOCENTI DI RELIGIONE

    INTERVENTO DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER DURANTE IL CONVEGNO DEI CATECHISTI E DEI DOCENTI DI RELIGIONE

    Domenica, 10 Dicembre 2000

    La vita umana non si realizza da sé. La nostra vita è una questione aperta, un progetto incompleto ancora da completare e da realizzare. La domanda fondamentale di ogni uomo è: come si realizza questo - diventare uomo? Come si impara l'arte di vivere? Quale è la strada alla felicità?
    Evangelizzare vuol dire: mostrare questa strada - insegnare l'arte di vivere. Gesù dice nell'inizio della sua vita pubblica: Sono venuto per evangelizzare i poveri (Lc 4, 18); questo vuol dire: Io ho la risposta alla vostra domanda fondamentale; io vi mostro la strada della vita, la strada alla felicità - anzi: io sono questa strada. La povertà più profonda è l'incapacità di gioia, il tedio della vita considerata assurda e contraddittoria. Questa povertà è oggi molto diffusa, in forme ben diverse sia nelle società materialmente ricche sia anche nei paesi poveri. L'incapacità di gioia suppone e produce l'incapacità di amare, produce l'invidia, l'avarizia - tutti i vizi che devastano la vita dei singoli e il mondo. Perciò abbiamo bisogno di una nuova evangelizzazione - se l'arte di vivere rimane sconosciuta, tutto il resto non funziona più. Ma questa arte non è oggetto della scienza - questa arte la può comunicare solo chi ha la vita - colui che è il Vangelo in persona.

    I. Struttura e metodo nella nuova evangelizzazione

    1. La struttura

    Prima di parlare dei contenuti fondamentali della nuova evangelizzazione vorrei dire una parola sulla sua struttura e sul metodo adeguato. La Chiesa evangelizza sempre e non ha mai interrotto il cammino dell'evangelizzazione. Celebra ogni giorno il mistero eucaristico, amministra i sacramenti, annuncia la parola della vita - la parola di Dio, s'impegna per la giustizia e la carità. E questa evangelizzazione porta frutto: dà luce e gioia, dà il cammino della vita a tante persone; molti altri vivono, spesso senza saperlo, della luce e del calore risplendente da questa evangelizzazione permanente. Tuttavia osserviamo un processo progressivo di scristianizzazione e di perdita dei valori umani essenziali che è preoccupante. Gran parte dell'umanità di oggi non trova nell'evangelizzazione permanente della Chiesa il Vangelo, cioè la risposta convincente alla domanda: Come vivere?

    Perciò cerchiamo, oltre l'evangelizzazione permanente, mai interrotta, mai da interrompere, una nuova evangelizzazione, capace di farsi sentire da quel mondo, che non trova accesso all'evangelizzazione "classica". Tutti hanno bisogno del Vangelo; il Vangelo è destinato a tutti e non solo a un cerchio determinato e perciò siamo obbligati a cercare nuove vie per portare il Vangelo a tutti.

    Però qui si nasconde anche una tentazione - la tentazione dell'impazienza, la tentazione di cercare subito il grande successo, di cercare i grandi numeri. E questo non è il metodo di Dio. Per il regno di Dio e così per l'evangelizzazione, strumento e veicolo del regno di Dio, vale sempre la parabola del grano di senape (cfr Mc 4, 31-32). Il Regno di Dio ricomincia sempre di nuovo sotto questo segno. Nuova evangelizzazione non può voler dire: Attirare subito con nuovi metodi più raffinati le grandi masse allontanatesi dalla Chiesa. No - non è questa la promessa della nuova evangelizzazione. Nuova evangelizzazione vuol dire: Non accontentarsi del fatto, che dal grano di senape è cresciuto il grande albero della Chiesa universale, non pensare che basti il fatto che nei suoi rami diversissimi uccelli possono trovare posto - ma osare di nuovo con l'umiltà del piccolo granello lasciando a Dio, quando e come crescerà (Mc 4, 26-29). Le grandi cose cominciano sempre dal granello piccolo ed i movimenti di massa sono sempre effimeri. Nella sua visione del processo dell'evoluzione Teilhard de Chardin parla del "bianco delle origini" (le blanc des origines): L'inizio delle nuove specie è invisibile ed introvabile per la ricerca scientifica. Le fonti sono nascoste - troppo piccole. Con altre parole: Le realtà grandi cominciano in umiltà. Lasciamo da parte, se e fino a che punto Teilhard ha ragione con le sue teorie evoluzioniste; la legge delle origini invisibili dice una verità - una verità presente proprio nell'agire di Dio nella storia: "Non perché sei grande ti ho eletto, al contrario - sei il più piccolo dei popoli; ti ho eletto, perché ti amo..." dice Dio al popolo di Israele nell'Antico Testamento ed esprime così il paradosso fondamentale della storia della salvezza: Certo, Dio non conta con i grandi numeri; il potere esteriore non è il segno della sua presenza. Gran parte delle parabole di Gesù indicano questa struttura dell'agire divino e rispondono così alle preoccupazioni dei discepoli, i quali si aspettavano ben altri successi e segni dal Messia - successi del tipo offerto da Satana al Signore: Tutto questo - tutti i regni del mondo - ti do... (Mt 4, 9). Certo, Paolo alla fine della sua vita ha avuto l'impressione di aver portato il Vangelo ai confini della terra, ma i cristiani erano piccole comunità disperse nel mondo, insignificanti secondo i criteri secolari. In realtà furono il germe che penetra dall'interno la pasta e portarono in sé il futuro del mondo (cfr Mt 13, 33). Un vecchio proverbio dice: "Successo non è un nome di Dio". La nuova evangelizzazione deve sottomettersi al mistero del grano di senape e non pretendere di produrre subito il grande albero. Noi o viviamo troppo nella sicurezza del grande albero già esistente o nell'impazienza di avere un albero più grande, più vitale - dobbiamo invece accettare il mistero che la Chiesa è nello stesso tempo grande albero e piccolissimo grano. Nella storia della salvezza è sempre contemporaneamente Venerdì Santo e Domenica di Pasqua...

    2. Il metodo

    Da questa struttura della nuova evangelizzazione deriva anche il metodo giusto. Certo, dobbiamo usare in modo ragionevole i metodi moderni di farci ascoltare - o meglio: di rendere accessibile e comprensibile la voce del Signore... Non cerchiamo ascolto per noi - non vogliamo aumentare il potere e l'estensione delle nostre istituzioni, ma vogliamo servire al bene delle persone e dell'umanità dando spazio a Colui, che è la Vita. Questa espropriazione del proprio io offrendolo a Cristo per la salvezza degli uomini, è la condizione fondamentale del vero impegno per il Vangelo.

    "Io sono venuto nel nome del Padre mio, e non mi ricevete; se un altro venisse nel proprio nome, lo ricevereste" dice il Signore (Gv 5, 43). Il contrassegno dell'Anticristo è il suo parlare nel proprio nome. Il segno del Figlio è la sua comunione col Padre. Il Figlio ci introduce nella comunione trinitaria, nel circolo dell'eterno amore, le cui persone sono "relazioni pure", l'atto puro del donarsi e dell'accogliersi. Il disegno trinitario - visibile nel Figlio, che non parla nel nome suo - mostra la forma di vita del vero evangelizzatore - anzi, evangelizzare non è semplicemente una forma di parlare, ma una forma di vivere: vivere nell'ascolto e farsi voce del Padre. "Non parlerà da sé, ma dirà tutto ciò che avrà udito" dice il Signore sullo Spirito Santo (Gv 16, 13). Questa forma cristologica e pneumatologica dell'evangelizzazione è nello stesso tempo una forma ecclesiologica: Il Signore e lo Spirito costruiscono la Chiesa, si comunicano nella Chiesa. L'annuncio di Cristo, l'annuncio del Regno di Dio suppone l'ascolto della sua voce nella voce della Chiesa. "Non parlare nel nome proprio" significa: parlare nella missione della Chiesa...

    Da questa legge dell'espropriazione seguono conseguenze molto pratiche. Tutti i metodi ragionevoli e moralmente accettabili sono da studiare - è un dovere far uso di queste possibilità di comunicazione. Ma le parole e tutta l'arte della comunicazione non possono guadagnare la persona umana in quella profondità, alla quale deve arrivare il Vangelo. Pochi anni fa leggevo la biografia di un ottimo sacerdote del nostro secolo, Don Didimo, parroco di Bassano del Grappa. Nelle sue note si trovano parole d'oro, frutto di una vita di preghiera e di meditazione. Al nostro proposito dice Don Didimo, per esempio: "Gesù predicava nel giorno, di notte pregava". Con questa breve notizia voleva dire: Gesù doveva acquistare da Dio i discepoli. Lo stesso vale sempre. Non possiamo guadagnare noi gli uomini. Dobbiamo ottenerli da Dio per Dio. Tutti i metodi sono vuoti senza il fondamento della preghiera. La parola dell'annuncio deve sempre bagnare in una intensa vita di preghiera.

    Dobbiamo aggiungere un passo ulteriore. Gesù predicava di giorno, di notte pregava - questo non è tutto. La sua intera vita fu - come lo mostra in modo molto bello il Vangelo di s. Luca - un cammino verso la croce, ascensione verso Gerusalemme. Gesù non ha redento il mondo tramite parole belle, ma con la sua sofferenza e la sua morte. Questa sua passione è la fonte inesauribile di vita per il mondo; la passione dà forza alla sua parola.

    Il Signore stesso - estendendo ed ampliando la parabola del grano di senape - ha formulato questa legge di fecondità nella parola del chicco di grano che muore, caduto in terra (Gv 12, 24). Anche questa legge è valida fino alla fine del mondo ed è - insieme col mistero del grano di senape - fondamentale per la nuova evangelizzazione. Tutta la storia lo dimostra. Sarebbe facile dimostrarlo nella storia del cristianesimo. Vorrei ricordare qui soltanto l'inizio dell'evangelizzazione nella vita di s. Paolo. Il successo della sua missione non fu frutto di una grande arte retorica o di prudenza pastorale; la fecondità fu legata alla sofferenza, alla comunione nella passione con Cristo (cfr 1 Cor 2, 1-5; 2 Cor 5, 7; 11, 10s; 11, 30; Gal 4, 12-14). "Nessun segno sarà dato, se non il segno di Giona profeta" ha detto il Signore. Il segno di Giona è il Cristo crocifisso - sono i testimoni, che completano "quello che manca ai patimenti di Cristo" (Col 1, 24). In tutti i periodi della storia si è sempre di nuovo verificata la parola di Tertulliano: È un seme il sangue dei martiri.

    Sant'Agostino dice lo stesso in modo molto bello, interpretando Gv 21, dove la profezia del martirio di Pietro e il mandato di pascere, cioè l'istituzione del suo primato sono intimamente connessi. Sant'Agostino commenta il testo Gv 21, 16 nel modo seguente: "Pasci le mie pecorelle", cioè soffri per le mie pecorelle (Sermo Guelf. 32 PLS 2, 640). Una madre non può dar la vita a un bambino senza sofferenza. Ogni parto esige sofferenza, è sofferenza, ed il divenire cristiano è un parto. Diciamolo ancora una volta con parole del Signore: Il regno di Dio esige violenza (Mt 11, 12; Lc 16, 16), ma la violenza di Dio è la sofferenza, è la croce. Non possiamo dare vita ad altri, senza dare la nostra vita. Il processo di espropriazione sopra indicato è la forma concreta (espressa in tante forme diverse) di dare la propria vita. E pensiamo alla parola del Salvatore: "...chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà..." (Mc 8, 36).

    II. I contenuti essenziali della nuova evangelizzazione

    1. Conversione

    Quanto ai contenuti della nuova evangelizzazione è innanzitutto da tener presente l'inscindibilità dell'Antico e del Nuovo Testamento. Il contenuto fondamentale dell'Antico Testamento è riassunto nel messaggio di Giovanni Battista: Convertitevi! Non c'è accesso a Gesù senza il Battista; non c'è possibilità di arrivare a Gesù senza risposta all'appello del precursore, anzi: Gesù ha assunto il messaggio di Giovanni nella sintesi della sua propria predicazione: Convertitevi e credete al Vangelo (Mc 1, 15). La parola greca per convertirsi significa: ripensare - mettere in questione il proprio ed il comune modo di vivere; lasciar entrare Dio nei criteri della propria vita; non giudicare più semplicemente secondo le opinioni correnti. Convertirsi significa di conseguenza: non vivere come vivono tutti, non fare come fanno tutti, non sentirsi giustificati in azioni dubbiose, ambigue, malvagie dal fatto che altri fanno lo stesso; cominciare a vedere la propria vita con gli occhi di Dio; cercare quindi il bene, anche se è scomodo; non puntare sul giudizio dei molti, degli uomini, ma sul giudizio di Dio - con altre parole: cercare un nuovo stile di vita, una vita nuova. Tutto questo non implica un moralismo; la riduzione del cristianesimo alla moralità perde di vista l'essenza del messaggio di Cristo: il dono di una nuova amicizia, il dono della comunione con Gesù e quindi con Dio. Chi si converte a Cristo non intende crearsi una autarchia morale sua, non pretende di costruire con le proprie forze la sua propria bontà. "Conversione" (Metanoia) significa proprio il contrario: uscire dall'autosufficienza, scoprire ed accettare la propria indigenza - indigenza degli altri e dell'Altro, del suo perdono, della sua amicizia. La vita non convertita è autogiustificazione (io non sono peggiore degli altri); la conversione è l'umiltà dell'affidarsi all'amore dell'Altro, amore che diventa misura e criterio della mia propria vita.

    Qui dobbiamo tener presente anche l'aspetto sociale della conversione. Certo, la conversione è innanzitutto un atto personalissimo, è personalizzazione. Io mi separo dalla formula "vivere come tutti" (non mi sento più giustificato dal fatto che tutti fanno quanto faccio io) e trovo davanti a Dio il mio proprio io, la mia responsabilità personale. Ma la vera personalizzazione è sempre anche una nuova e più profonda socializzazione. L'io si apre di nuovo al tu, in tutta la sua profondità, e così nasce un nuovo Noi. Se lo stile di vita diffuso nel mondo implica il pericolo della de-personalizzazione, del vivere non la mia propria vita, ma la vita di tutti gli altri, nella conversione deve realizzarsi un nuovo Noi del cammino comune con Dio. Annunciando la conversione dobbiamo anche offrire una comunità di vita, uno spazio comune del nuovo stile di vita.

    Evangelizzare non si può con sole parole; il vangelo crea vita, crea comunità di cammino; una conversione puramente individuale non ha consistenza...

    2. Il Regno di Dio

    Nella chiamata alla conversione è implicito - come sua condizione fondamentale - l'annuncio del Dio vivente. Il teocentrismo è fondamentale nel messaggio di Gesù e dev'essere anche il cuore della nuova evangelizzazione. La parola-chiave dell'annuncio di Gesù è: Regno di Dio. Ma Regno di Dio non è una cosa, una struttura sociale o politica, un'utopia. Il Regno di Dio è Dio. Regno di Dio vuol dire: Dio c'è. Dio vive. Dio è presente e agisce nel mondo, nella nostra - nella mia vita. Dio non è una lontana "causa ultima", Dio non è il "grande architetto" del deismo, che ha montato la macchina del mondo e starebbe adesso fuori - al contrario: Dio è la realtà più presente e decisiva in ogni atto della mia vita, in ogni momento della storia. Nella sua conferenza di congedo dalla sua cattedra nell'università di Münster il teologo J.B. Metz ha detto delle cose inaspettate dalla sua bocca. Metz in passato ci aveva insegnato l'antropocentrismo - il vero avvenimento del cristianesimo sarebbe stata la svolta antropologica, la secolarizzazione, la scoperta della secolarità del mondo. Poi ci ha insegnato la teologia politica - il carattere politico della fede; poi la "memoria pericolosa"; finalmente la teologia narrativa. Dopo questo cammino lungo e difficile ci dice oggi: Il vero problema del nostro tempo è la "Crisi di Dio", l'assenza di Dio, camuffata da una religiosità vuota. La teologia deve ritornare ad essere realmente teo-logia, un parlare di Dio e con Dio. Metz ha ragione: L'"unum necessarium" per l'uomo è Dio. Tutto cambia, se Dio c'è o se Dio non c'è. Purtroppo - anche noi cristiani viviamo spesso come se Dio non esistesse ("si Deus non daretur"). Viviamo secondo lo slogan: Dio non c'è, e se c'è, non c'entra. Perciò l'evangelizzazione deve innanzitutto parlare di Dio, annunciare l'unico Dio vero: il Creatore - il Santificatore - il Giudice (cfr il Catechismo della Chiesa cattolica).

    Anche qui è da tener presente l'aspetto pratico. Dio non si può far conoscere con le sole parole. Non si conosce una persona, se si sa di questa persona solo di seconda mano. Annunciare Dio è introdurre nella relazione con Dio: Insegnare a pregare. La preghiera è fede in atto. E solo nell'esperienza della vita con Dio appare anche l'evidenza della sua esistenza. Perciò sono così importanti le scuole di preghiera, di comunità di preghiera. C'è complementarità tra preghiera personale ("nella propria camera", solo davanti agli occhi di Dio), preghiera comune "paraliturgica" ("religiosità popolare") e preghiera liturgica. Sì, la liturgia è innanzitutto preghiera; la sua specificità consiste nel fatto che il suo soggetto primario non siamo noi (come nella preghiera privata e nella religiosità popolare), ma Dio stesso - la liturgia è actio divina, Dio agisce e noi rispondiamo all'azione divina.

    Parlare di Dio e parlare con Dio devono sempre andare insieme. L'annuncio di Dio è guida alla comunione con Dio nella comunione fraterna, fondata e vivificata da Cristo. Perciò la liturgia (i sacramenti) non è un tema accanto alla predicazione del Dio vivente, ma la concretizzazione della nostra relazione con Dio. In questo contesto mi sia permessa una osservazione generale sulla questione liturgica. Il nostro modo di celebrare la liturgia è spesso troppo razionalista. La liturgia diventa insegnamento, il cui criterio è: farsi capire - la conseguenza è non di rado la banalizzazione del mistero, la prevalenza delle nostre parole, la ripetizione delle fraseologie che sembrano più accessibili e più gradevoli per la gente. Ma questo è un errore non soltanto teologico, ma anche psicologico e pastorale. L'onda dell'esoterismo, la diffusione di tecniche asiatiche di distensione e di auto-svuotamento mostrano che nelle nostre liturgie manca qualcosa. Proprio nel nostro mondo di oggi abbiamo bisogno del silenzio, del mistero sopra-individuale, della bellezza. La liturgia non è l'invenzione del sacerdote celebrante o di un gruppo di specialisti; la liturgia (il "rito") è cresciuta in un processo organico nei secoli, porta in sé il frutto dell'esperienza di fede di tutte le generazioni.

    Anche se i partecipanti non capiscono forse tutte le singole parole, percepiscono il significato profondo, la presenza del mistero, che trascende tutte le parole. Non il celebrante è il centro dell'azione liturgica; il celebrante non sta davanti al popolo nel nome proprio - non parla da sé e per sé, ma "in persona Cristi". Non contano le capacità personali del celebrante, ma solo la sua fede, nella quale si fa trasparente Cristo. "Egli deve crescere, e io invece diminuire" (Gv 3, 30).

    3. Gesù Cristo

    Con questa riflessione il tema Dio si è già esteso e concretizzato nel tema Gesù Cristo: Solo in Cristo e tramite Cristo il tema Dio diventa realmente concreto: Cristo è Emanuele, il Dio-con-noi - la concretizzazione dell'"Io sono", la risposta al Deismo. Oggi la tentazione è grande di ridurre Gesù Cristo, il figlio di Dio solo a un Gesù storico, a un uomo puro. Non si nega necessariamente la divinità di Gesù, ma con certi metodi si distilla dalla Bibbia un Gesù a nostra misura, un Gesù possibile e comprensibile nei parametri della nostra storiografia. Ma questo "Gesù storico" è un artefatto, l'immagine dei suoi autori e non l'immagine del Dio vivente (cfr 2 Cor 4, 4s; Col 1, 15).

    Non il Cristo della fede è un mito; il cosiddetto Gesù storico è una figura mitologica, auto-inventata dai diversi interpreti. I duecento anni di storia del "Gesù storico" riflettono fedelmente la storia delle filosofie e delle ideologie di questo periodo.

    Non posso nei limiti di questa conferenza entrare nei contenuti dell'annuncio del Salvatore. Vorrei brevemente accennare a due aspetti importanti. Il primo è la sequela di Cristo - Cristo si offre come strada della mia vita. Sequela di Cristo non significa: imitare l'uomo Gesù. Un tale tentativo fallisce necessariamente - sarebbe un'anacronismo. La sequela di Cristo ha una meta molto più alta: assimilarsi a Cristo, e cioè arrivare all'unione con Dio. Una tale parola suona forse strana nell'orecchio dell'uomo moderno. Ma in realtà abbiamo tutti la sete dell'infinito: di una libertà infinita, di una felicità senza limite. Tutta la storia delle rivoluzioni degli ultimi due secoli si spiega solo così. La droga si spiega solo così. L'uomo non si accontenta di soluzioni sotto il livello della divinizzazione. Ma tutte le strade offerte dal "serpente" (Gen 3, 5), cioè dalla sapienza mondana, falliscono. L'unica strada è la comunione con Cristo, realizzabile nella vita sacramentale. Sequela di Cristo non è un argomento di moralità, ma un tema "misterico" - un insieme di azione divina e di risposta nostra.

    Così troviamo presente nel tema sequela l'altro centro della cristologia, al quale volevo accennare: il mistero pasquale - la croce e la risurrezione. Nelle ricostruzioni del "Gesù storico" di solito il tema della croce è senza significato. In una interpretazione "borghese" diventa un incidente di per sé evitabile, senza valore teologico; in una interpretazione rivoluzionaria diventa la morte eroica di un ribelle. La verità è diversa. La croce appartiene al mistero divino - è espressione del suo amore fino alla fine (Gv 13, 1). La sequela di Cristo è partecipazione alla sua croce, unirsi al suo amore, alla trasformazione della nostra vita, che diventa nascita dell'uomo nuovo, creato secondo Dio (cfr Ef 4, 24). Chi omette la croce, omette l'essenza del cristianesimo (cfr 1 Cor 2, 2).

    4. La vita eterna

    Un ultimo elemento centrale di ogni vera evangelizzazione è la vita eterna. Oggi dobbiamo con nuova forza nella vita quotidiana annunciare la nostra fede. Vorrei accennare qui soltanto ad un aspetto oggi spesso trascurato della predicazione di Gesù: L'annuncio del Regno di Dio è annuncio del Dio presente, del Dio che ci conosce, ci ascolta; del Dio che entra nella storia, per fare giustizia.

    Questa predicazione è perciò anche annuncio del giudizio, annuncio della nostra responsabilità. L'uomo non può fare o non fare ciò che vuole. Egli sarà giudicato. Egli deve rendere conto. Questa certezza ha valore per i potenti così come per i semplici. Ove essa è onorata, sono tracciati i limiti di ogni potere di questo mondo. Dio fa giustizia, e solo lui può ultimamente farlo. A noi ciò riuscirà tanto più, quanto più saremo in grado di vivere sotto gli occhi di Dio e di comunicare al mondo la verità del giudizio. Così l'articolo di fede del giudizio, la sua forza di formazione delle coscienze, è un contenuto centrale del Vangelo ed è veramente una buona novella. Lo è per tutti coloro che soffrono sotto l'ingiustizia del mondo e cercano la giustizia. Si comprende così anche la connessione fra il Regno di Dio e i "poveri", i sofferenti e tutti coloro di cui parlano le beatitudini del discorso della montagna. Essi sono protetti dalla certezza del giudizio, dalla certezza, che c'è giustizia.

    Questo è il vero contenuto dell'articolo sul giudizio, su Dio giudice: C'è giustizia. Le ingiustizie del mondo non sono l'ultima parola della storia. C'è giustizia. Solo chi non vuole, che sia giustizia, può opporsi a questa verità. Se prendiamo sul serio il giudizio e la serietà della responsabilità che per noi ne scaturisce, comprendiamo bene l'altro aspetto di questo annuncio, cioè la redenzione, il fatto che Gesù nella croce assume i nostri peccati; che Dio stesso nella passione del Figlio si fa avvocato di noi peccatori, e rende così possibile la penitenza, la speranza al peccatore pentito, speranza espressa in modo meraviglioso nella parola di s. Giovanni: Davanti a Dio, rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. "Dio è più grande del nostro cuore e conosce tutto" (1 Giov 3, 19s). La bontà di Dio è infinita, ma non dobbiamo ridurre questa bontà ad una leziosa sdolcinatura senza verità. Solo credendo al giusto giudizio di Dio, solo avendo fame e sete della giustizia (cfr Mt 5, 6) apriamo il nostro cuore, la nostra vita alla misericordia divina. Si vede: Non è vero che la fede nella vita eterna rende insignificante la vita terrestre. Al contrario: Solo se la misura della nostra vita è l'eternità, anche questa vita sulla nostra terra è grande e il suo valore immenso.

    Dio non è il concorrente della nostra vita, ma il garante della nostra grandezza. Così ritorniamo al nostro punto di partenza: Dio. Se consideriamo bene il messaggio cristiano, non parliamo di un sacco di cose. Il messaggio cristiano è in realtà molto semplice. Parliamo di Dio e dell'uomo, e così diciamo tutto.


    [Modificato da Caterina63 07/01/2018 11:31]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 07/01/2018 19:43
     Quando Ratzinger corresse le eresie del cardinale Kasper sul primato della Chiesa Cattolica


    INTERVENTO DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER
     SULL'ECCLESIOLOGIA DELLA COSTITUZIONE "LUMEN GENTIUM" 
    AL CONVEGNO INTERNAZIONALE SULL'ATTUAZIONE 
    DEL CONCILIO ECUMENICO VATICANO II 
    PROMOSSO DAL COMITATO DEL GRANDE GIUBILEO DELL'ANNO 2000

    Domenica, 27 Febbraio 2000

     

     

    Nel tempo della preparazione al Concilio Vaticano II ed anche durante il Concilio stesso il Cardinale Frings mi ha spesso raccontato un piccolo episodio, che evidentemente lo aveva toccato profondamente. Papa Giovanni XXIII non aveva da parte sua fissato alcun tema determinato per il Concilio, ma aveva invitato i Vescovi del mondo a proporre le loro priorità, così che dalle esperienze vive della Chiesa universale emergesse la tematica di cui il Concilio si sarebbe dovuto occupare. Anche nella Conferenza Episcopale Tedesca si discusse su quali temi si dovessero proporre per la riunione dei Vescovi. Non solo in Germania, ma praticamente in tutta la Chiesa cattolica si era del parere che il tema dovesse essere la Chiesa:  il Concilio Vaticano I interrotto innanzitempo a motivo della guerra franco-tedesca non aveva potuto condurre a termine la sua sintesi ecclesiologica, ma aveva lasciato un capitolo di ecclesiologia isolato. Riprendere le fila di allora e così cercare una visione globale della Chiesa appariva essere il compito urgente dell'imminente Concilio Vaticano II.

    Ciò emergeva anche dal clima culturale dell'epoca:  la fine della prima guerra mondiale aveva portato con sé un profondo rivolgimento teologico. La teologia liberale orientata in modo del tutto individualistico si era eclissata come da se stessa, si era ridestata una nuova sensibilità per la Chiesa.

    Non solo Romano Guardini parlava di risveglio della Chiesa nelle anime; il Vescovo evangelico Otto Dibelius coniava la formula del secolo della Chiesa, e Karl Barth dava alla sua dogmatica fondata sulle tradizioni riformate il titolo programmatico di "Kirchliche Dogmatik" (Dogmatica ecclesiale):  la dogmatica presuppone la Chiesa, così egli spiegava; senza Chiesa non esiste. Fra i membri della Conferenza Episcopale Tedesca pertanto era ampiamente prevalente un consenso sul fatto che la Chiesa dovesse essere il tema. L'anziano Vescovo Buchberger di Regensburg, che come ideatore del Lexikon für Theologie und Kirche in dieci volumi, oggi alla sua terza edizione, si era conquistato stima e rinomanza molto al di là della sua diocesi, chiese la parola - così mi raccontava l'Arcivescovo di Colonia - e disse:  cari fratelli, al Concilio voi dovete innanzitutto parlare di Dio. Questo è il tema più importante.  I  Vescovi  rimasero  colpiti;  non  potevano  sottrarsi  alla  gravità  di questa parola.

    Naturalmente  non  potevano  decidersi a proporre semplicemente il tema di Dio. Ma un'inquietudine interiore è nondimeno rimasta almeno nel Cardinale Frings, che si chiedeva continuamente come potessimo soddisfare a questo imperativo.

    Questo episodio mi è ritornato in mente, quando lessi il testo della conferenza con la quale Johann Baptist Metz si congedò nel 1993 dalla sua cattedra di Münster. Di questo importante discorso vorrei citare almeno alcune frasi significative. Metz dice:  "La crisi, che ha colpito il cristianesimo europeo, non è più primariamente o almeno esclusivamente una crisi ecclesiale... La crisi è più profonda:  essa non ha affatto le sue radici solo nella situazione della Chiesa stessa:  la crisi è divenuta una crisi di Dio". "Schematicamente si potrebbe dire:  religione, sì - Dio no, ove questo no a sua volta non è inteso nel senso categorico dei grandi ateismi. Non esistono più grandi ateismi. L'ateismo di oggi può in realtà già di nuovo riprendere a parlare di Dio - distrattamente o tranquillamente -, senza intenderlo veramente...". "Anche la Chiesa ha una sua concezione della immunizzazione contro le crisi di Dio. Essa non parla più oggi - come ad esempio ancora al Concilio Vaticano II - di Dio, ma soltanto - come ad esempio nell'ultimo Concilio - del Dio annunciato per mezzo della Chiesa. La crisi di Dio viene cifrata ecclesiologicamente". Parole del genere dalla bocca del creatore della teologia politica devono rendere attenti. Esse ci ricordano innanzitutto giustamente che il Concilio Vaticano II non fu solo un concilio ecclesiologico, ma prima e soprattutto esso ha parlato di Dio e questo non solo all'interno della cristianità, ma rivolto al mondo - di quel Dio, che è il Dio di tutti, che tutti salva e a tutti è accessibile. Forse che il Vaticano II, come Metz sembra dire, ha raccolto solo metà dell'eredità del precedente Concilio? Una relazione, che è dedicata all'ecclesiologia del Concilio, deve evidentemente porsi questa domanda.

    Vorrei subito anticipare la mia tesi di fondo:  il Vaticano II voleva chiaramente inserire e subordinare il discorso della Chiesa al discorso di Dio, voleva proporre una ecclesiologia nel senso propriamente teo-logico, ma la recezione del Concilio ha finora trascurato questa caratteristica qualificante in favore di singole affermazioni ecclesiologiche, si è gettata su singole parole di facile richiamo e così è restata indietro rispetto alle grandi prospettive dei Padri conciliari. Qualcosa di analogo si può per altro dire a proposito del primo testo, che il Vaticano II mise a punto - la Costituzione sulla Sacra Liturgia. Il fatto che essa si collocasse all'inizio, aveva dapprincipio motivi pragmatici. Ma retrospettivamente si deve dire che nell'architettura del Concilio questo ha un senso preciso:  all'inizio sta l'adorazione. E quindi Dio. Questo inizio corrisponde alla parola della Regola benedettina:  Operi Dei nihil praeponatur. La Costituzione sulla Chiesa, che segue poi come secondo testo del Concilio, la si dovrebbe considerare ad essa interiormente collegata. La Chiesa si lascia guidare dalla preghiera, dalla missione di glorificare Dio.

    L'ecclesiologia ha a che fare per sua natura con la liturgia. E quindi è poi anche logico che la terza Costituzione parli della parola di Dio, che convoca la Chiesa e la rinnova in ogni tempo. La quarta Costituzione mostra come la glorificazione di Dio si propone nella vita attiva, come la luce ricevuta da Dio viene portata nel mondo e solo così diviene totalmente la glorificazione di Dio. Nella storia del postconcilio certamente la Costituzione sulla liturgia non fu più compresa a partire da questo fondamentale primato dell'adorazione, ma piuttosto come un libro di ricette su ciò che possiamo fare con la liturgia. Nel frattempo ai creatori della liturgia sembra che sia uscito di mente, occupati come sono in modo sempre più incalzante a riflettere come si possa configurare la liturgia in modo sempre più attraente, comunicativo, coinvolgendovi attivamente sempre più gente, che la liturgia in realtà è "fatta" per Dio e non per noi stessi. Quanto più però noi la facciamo per noi stessi, tanto meno attraente essa è, perché tutti avvertono chiaramente che l'essenziale va sempre più perduto.

    Per quanto concerne ora l'ecclesiologia di "Lumen gentium", sono innanzitutto restate nella coscienza alcune parole chiave:  l'idea di Popolo di Dio, la collegialità dei Vescovi come rivalutazione del ministero del Vescovo nei confronti del primato del Papa, la rivalutazione delle Chiese locali nei confronti della Chiesa universale, l'apertura ecumenica del concetto di Chiesa e l'apertura alle altre religioni; infine la questione dello stato specifico della Chiesa cattolica, che si esprime nella formula secondo cui la Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica, di cui parla il Credo, "subsistit in Ecclesia catholica":  lascio questa famosa formula qui dapprima non tradotta, perché essa - come era previsto - ha trovato le spiegazioni più contraddittorie - dall'idea, che qui si esprima la singolarità della Chiesa cattolica unita al Papa fino all'idea che qui sia stata raggiunta un'equiparazione con tutte le altre Chiese cristiane e la Chiesa cattolica abbia abbandonato la sua pretesa di specificità.

    In una prima fase della recezione del Concilio domina insieme con il tema della Collegialità il concetto di popolo di Dio, che compreso assai presto totalmente a partire dall'uso linguistico politico generale della parola popolo, nell'ambito della teologia della liberazione fu compreso con l'uso della parola marxista di popolo come contrapposizione alle classi dominanti e più in generale ancora più ampiamente nel senso della sovranità del popolo, che ora finalmente sarebbe da applicare anche alla Chiesa. Ciò a sua volta diede occasione ad ampi dibattiti sulle strutture, nei quali fu interpretato a seconda della situazione in modo più occidentale come "democratizzazione" ovvero più nel senso delle "Democrazie popolari" orientali. Lentamente questo "fuoco d'artificio di parole" (N. Lohfink) intorno al concetto di popolo di Dio si è andato spegnendo, da una parte e principalmente perché questi giochi di potere si sono svuotati da se stessi e dovevano lasciare il posto al lavoro ordinario nei consigli parrocchiali, dall'altra però anche, perché un solido lavoro teologico ha mostrato in modo incontrovertibile l'insostenibilità di tali politicizzazioni di un concetto di per sé proveniente da un ambito totalmente diverso.

    Come risultato di analisi esegetiche accurate l'esegeta di Bochum Werner Berg ad es. afferma:  "Malgrado l'esiguo numero di passi, che contengono l'espressione "popolo di Dio" - da questo punto di vista "popolo di Dio" è un concetto biblico piuttosto raro -, può nondimeno rilevarsi qualcosa di comune:  l'espressione "popolo di Dio" esprime la "parentela" con Dio, la relazione con Dio, il legame fra Dio e quello che è designato come "popolo di Dio", quindi una "direzione verticale".

    L'espressione si presta meno a descrivere la struttura gerarchica di questa comunità, soprattutto se il "popolo di Dio" viene descritto come "controparte" dei ministri... A partire dal suo significato biblico l'espressione non si presta neppure ad un grido di protesta contro i ministri:  "Noi siamo il popolo di Dio"". Il professore di teologia fondamentale di Paderborn Josef Meyer zu Schlochtern conclude la rassegna sulla discussione intorno al concetto di popolo di Dio con l'osservazione che la Costituzione sulla Chiesa del Vaticano II termina il capitolo relativo in modo tale da "designare la struttura trinitaria come fondamento dell'ultima determinazione della Chiesa...". Così la discussione è ricondotta al punto essenziale:  la Chiesa non esiste per se stessa, ma dovrebbe essere lo strumento di Dio, per radunare gli uomini a lui, per preparare il momento, in cui "Dio sarà tutto in tutto" (1 Cor 15, 28).

    Proprio il concetto di Dio era stato lasciato da parte nel "fuoco d'artificio" intorno a questa espressione e in tal modo era stato privato del suo significato. Infatti una Chiesa, che esiste solo per se stessa, è superflua. E la gente lo nota subito. La crisi della Chiesa, come essa si rispecchia nel concetto di popolo di Dio, è "crisi di Dio"; essa risulta dall'abbandono dell'essenziale. Ciò che resta, è ormai solo una lotta per il potere. Di questa ve ne è abbastanza altrove nel mondo, per questa non c'è bisogno della Chiesa.

    Si può certamente dire che all'incirca a partire dal Sinodo straordinario del 1985, che doveva tentare una specie di bilancio di vent'anni di postconcilio, un nuovo tentativo si va diffondendo, quello di riassumere l'insieme dell'ecclesiologia conciliare in un concetto base:  l'ecclesiologia di comunione. Ho accolto con gioia questo nuovo ricentramento dell'ecclesiologia ed ho anche cercato secondo le mie capacità di prepararlo. Si deve comunque innanzitutto riconoscere che la parola "communio" nel Concilio non ha una posizione centrale. Nondimeno, compresa rettamente, essa può servire come sintesi per gli elementi essenziali dell'ecclesiologia conciliare. Tutti gli elementi essenziali del concetto cristiano di "communio" si trovano riuniti nel famoso passo di 1 Giov 1,3, che si può considerare come il criterio di riferimento per ogni corretta comprensione cristiana della "communio":  "Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta".

    Qui emerge in primo piano il punto di partenza della "communio":  l'incontro con il Figlio di Dio, Gesù Cristo, che nell'annuncio della Chiesa viene agli uomini. Così nasce la comunione degli uomini fra di loro, che a sua volta si fonda sulla comunione con il Dio uno e trino.

    Alla comunione con Dio si ha accesso tramite quella realizzazione della comunione di Dio con l'uomo, che è Cristo in persona; l'incontro con Cristo crea comunione con lui stesso e quindi con il Padre nello Spirito Santo; e a partire di qui unisce gli uomini fra di loro. Tutto questo ha come fine la gioia piena:  la Chiesa porta in sé una dinamica escatologica. Nell'espressione gioia piena si avverte il riferimento ai discorsi d'addio di Gesù, quindi al mistero pasquale ed al ritorno del Signore nelle apparizioni pasquali, che tende al suo pieno ritorno nel nuovo mondo:  "Voi sarete afflitti, ma la vostra afflizione si cambierà in gioia... vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà... Chiedete e otterrete, perché la vostra gioia sia piena" (Gv 16, 20.22.24). Se si confronta l'ultima frase citata con Lc 11, 13 - l'invito alla preghiera in Luca -, appare chiaramente che "gioia" e "Spirito Santo" si equivalgono e che dietro la parola gioia si nasconde in 1 Giov 1, 3 lo Spirito Santo qui non espressamente menzionato. La parola "communio" ha quindi a partire da questo ambito biblico un carattere teologico, cristologico, storicosalvifico ed ecclesiologico. Porta quindi in sé anche la dimensione sacramentale, che in Paolo appare in modo del tutto esplicito:  "Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo..." (1 Cor 10, 16s). L'ecclesiologia di comunione è fin dal suo intimo una ecclesiologia eucaristica. Essa si colloca così assai vicino all'ecclesiologia eucaristica, che teologi ortodossi hanno sviluppato in modo convincente nel nostro secolo. In essa l'ecclesiologia diviene più concreta e rimane nondimeno allo stesso tempo totalmente spirituale, trascendente ed escatologica.

    Nell'Eucaristia Cristo, presente nel pane e nel vino e donandosi sempre nuovamente, edifica la Chiesa come suo corpo e per mezzo del suo corpo di risurrezione ci unisce al Dio uno e trino e fra di noi. L'Eucaristia si celebra nei diversi luoghi e tuttavia è allo stesso tempo sempre universale, perché esiste un solo Cristo e un solo corpo di Cristo. L'Eucaristia include il servizio sacerdotale della "repraesentatio Christi" e quindi la rete del servizio, la sintesi di unità e molteplicità, che si palesa già nella parola "Communio". Si può così senza dubbio dire che questo concetto porta in sé una sintesi ecclesiologica, che unisce il discorso della Chiesa al discorso di Dio ed alla vita da Dio e con Dio, una sintesi, che riprende tutte le intenzioni essenziali dell'ecclesiologia del Vaticano II e le collega fra di loro nel modo giusto.

    Per tutti questi motivi ero grato e contento, quando il Sinodo del 1985 riportò al centro della riflessione il concetto di "communio". Ma gli anni successivi mostrarono che nessuna parola è protetta dai malintesi, neppure la migliore e la più profonda. Nella misura in cui "communio" divenne un facile slogan, essa fu appiattita e travisata. Come per il concetto di popolo di Dio così si doveva anche qui rilevare una progressiva orizzontalizzazione, l'abbandono del concetto di Dio. L'ecclesiologia di comunione cominciò a ridursi alla tematica della relazione fra Chiesa locale e Chiesa universale, che a sua volta ricadde sempre più nel problema della divisione di competenze fra l'una e l'altra.

    Naturalmente si diffuse nuovamente il motivo egualitaristico, secondo cui nella "communio" potrebbe esservi solo piena uguaglianza. Si è così arrivati di nuovo esattamente alla discussione dei discepoli su chi fosse il più grande, che evidentemente in nessuna generazione intende placarsi. Marco ne riferisce con maggiore insistenza. Nel cammino verso Gerusalemme Gesù aveva parlato per la terza volta ai discepoli della sua prossima passione.

    Arrivati a Cafarnao egli chiese loro di che cosa avevano discusso fra di loro lungo la via. "Ma essi tacevano", perché avevano discusso su chi di loro fosse il più grande - una specie di discussione sul primato (Mc 9, 33-37). Non è così anche oggi? Mentre il Signore va verso la sua passione, mentre la Chiesa e in essa egli stesso soffre, noi ci soffermiamo sul nostro tema preferito, sulla discussione circa i nostri diritti di precedenza. E se egli venisse fra di noi e ci chiedesse di che cosa abbiamo parlato, quanto dovremmo arrossire e tacere.

    Questo non vuol dire che nella Chiesa non si debba anche discutere sul retto ordinamento e sulla assegnazione delle responsabilità. E certamente vi saranno sempre squilibri, che esigono correzioni. Naturalmente può verificarsi un centralismo romano esorbitante, che come tale deve poi essere evidenziato e purificato. Ma tali questioni non possono distrarre dal vero e proprio compito della Chiesa:  la Chiesa non deve parlare primariamente di se stessa, ma di Dio, e solo perché questo avvenga in modo puro, vi sono allora anche rimproveri intraecclesiali, per i quali la correlazione del discorso su Dio e sul servizio comune deve dare la direzione. In conclusione non a caso ritorna nella tradizione evangelica in diversi contesti la parola di Gesù secondo cui l'ultimo diverrà il primo ed il primo l'ultimo - come uno specchio, che riguarda sempre tutti.


       continua...........


    [Modificato da Caterina63 07/01/2018 19:50]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 07/01/2018 19:50
      continua da sopra.....

    Di fronte alla riduzione, che a riguardo del concetto di "communio" si verificò negli anni dopo il 1985, la Congregazione per la Dottrina della Fede ritenne opportuno preparare una "Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione", che fu pubblicata con la data del 28 giugno 1992. Poiché oggi per teologi, che tengono alla propria rinomazione, sembra essere divenuto un dovere dare una valutazione negativa dei documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede, su questo testo cadde una gragnola di critiche, da cui ben poco riuscì a salvarsi. Soprattutto fu criticata la frase, che la Chiesa universale sarebbe nel suo mistero essenziale una realtà, che ontologicamente e temporalmente precede le singole Chiese particolari. Questo nel testo era brevemente fondato con il richiamo al fatto che secondo i padri l'una e singola Chiesa precede la creazione e partorisce le Chiese particolari (9). I padri continuano così una teologia rabbinica, che aveva concepito come preesistenti la Thora ed Israele:  la creazione sarebbe stata concepita, perché in essa vi fosse uno spazio per la volontà di Dio; questa volontà però aveva bisogno di un popolo, che vive per la volontà di Dio e ne fa la luce del mondo. Poiché i padri erano convinti dell'identità ultima fra Chiesa ed Israele, essi non potevano vedere nella Chiesa qualcosa di casuale sorto all'ultima ora, ma riconoscevano in questa riunione dei popoli sotto la volontà di Dio la teleologia interna della creazione. A partire dalla cristologia l'immagine si allarga e si approfondisce:  la storia - di nuovo in relazione con l'Antico Testamento - viene spiegata come storia d'amore fra Dio e l'uomo.

    Dio trova e si prepara la sposa del Figlio, l'unica sposa, che è l'unica Chiesa. A partire dalla parola della Genesi, che uomo e donna diverranno "due in una carne sola" (Gen 2, 24), l'immagine della sposa si fuse con l'idea della Chiesa come corpo di Cristo, metafora che a sua volta deriva dalla liturgia eucaristica. L'unico corpo di Cristo viene preparato; Cristo e la Chiesa saranno "due in una sola carne", un corpo, e così "Dio sarà tutto in tutto". Questa precedenza ontologica della Chiesa universale, dell'unica Chiesa e dell'unico corpo, dell'unica sposa, rispetto alle realizzazioni empiriche concrete nelle singole Chiese particolari mi sembra così evidente, che mi riesce difficile comprendere le obiezioni ad essa. Mi sembrano in realtà essere possibili solo se non si vuole e non si riesce più a vedere la grande Chiesa ideata da Dio - forse per disperazione a motivo della sua insufficienza terrena -; essa appare ora come una fantasticheria teologica, e rimane quindi solo l'immagine empirica delle Chiese nella loro relazione reciproca e nella loro conflittualità. Questo però significa che la Chiesa come tema teologico viene cancellato. Se si può vedere la Chiesa ormai solo nelle organizzazioni umane, allora in realtà rimane solo desolazione.

    Ma allora non si è abbandonato solo l'ecclesiologia dei padri, ma anche quella del Nuovo Testamento e la concezione di Israele dell'Antico Testamento. Nel Nuovo Testamento del resto non è necessario attendere le epistole deutero-paoline e l'Apocalisse per riscontrare la priorità ontologica - riaffermata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede - della Chiesa universale rispetto alle Chiese particolari. Nel cuore delle grandi Lettere paoline, nella lettera ai Galati, l'Apostolo ci parla della Gerusalemme celeste e non come di una grandezza escatologica, ma come una realtà che ci precede:  "Questa Gerusalemme è la nostra madre" (Gal 4, 26). Al riguardo H. Schlier rileva che per Paolo come per la tradizione giudaica cui si ispira la Gerusalemme di lassù è il nuovo eone. Per l'apostolo però questo nuovo eone è già presente "nella Chiesa cristiana. Questa è per lui la Gerusalemme celeste nei suoi figli".

    Se la priorità ontologica dell'unica Chiesa non si può seriamente negare, nondimeno la questione riguardante la precedenza temporale è senza dubbio già più difficile. La Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede rimanda qui all'immagine lucana della nascita della Chiesa a Pentecoste per opera dello Spirito Santo. Non si vuol qui discutere la questione della storicità di questo racconto.

    Ciò che conta è l'affermazione teologica, che sta a cuore a Luca. La Congregazione per la Dottrina della Fede richiama l'attenzione sul fatto che la Chiesa ha inizio nella comunità dei 120 radunata intorno a Maria, soprattutto nella rinnovata comunità dei dodici, che non sono membri di una Chiesa locale, ma sono gli apostoli, che porteranno il vangelo ai confini della terra. Per chiarire ulteriormente si può aggiungere che essi nel loro numero di dodici sono allo stesso tempo l'antico ed il nuovo Israele, l'unico Israele di Dio, che ora - come fin dall'inizio era contenuto fondamentalmente nel concetto di popolo di Dio - si estende a tutte le nazioni e fonda in tutti i popoli l'unico popolo di Dio.

    Questo riferimento viene rafforzato da due ulteriori elementi:  la Chiesa in questa ora della sua nascita parla già in tutte le lingue. I padri della Chiesa hanno giustamente interpretato questo racconto del miracolo delle lingue come un anticipo della Catholica - la Chiesa fin dal primo istante è orientata "kat'holon" - abbraccia tutto l'universo. A ciò fa da corrispettivo il fatto che Luca descriva la schiera degli ascoltatori come pellegrini provenienti da tutta quanta la terra, sulla base di una tavola di dodici popoli, il cui significato è quello di alludere alla onnicomprensività dell'uditorio; Luca ha arricchito questa tavola dei popoli ellenistica con un tredicesimo nome:  i romani, con cui senza dubbio voleva sottolineare ancora una volta l'idea dell'Orbis.

    Non si rende del tutto esattamente il senso del testo della Congregazione per la Dottrina della Fede, quando al riguardo Walter Kasper dice che la comunità originaria di Gerusalemme sarebbe stata di fatto Chiesa universale e Chiesa locale allo stesso tempo e poi continua:  "Certamente questo rappresenta un'elaborazione lucana; infatti dal punto di vista storico esistevano presumibilmente sin dall'inizio più comunità, accanto alla comunità di Gerusalemme anche comunità in Galilea". Qui non si tratta della questione per noi ultimamente insolubile, quando esattamente e dove per la prima volta sono sorte delle comunità cristiane, ma dell'inizio interiore della Chiesa nel tempo, che Luca vuol descrivere e che egli al di là di ogni rilevamento empirico riconduce alla forza dello Spirito Santo.

    Soprattutto però non si rende giustizia al racconto lucano, se si dice che la "comunità originaria di Gerusalemme" sarebbe stata allo stesso tempo Chiesa universale e Chiesa locale. La realtà prima nel racconto di san Luca non è una comunità originaria gerosolimitana, ma la realtà prima è che nei dodici l'antico Israele, che è unico, diviene quello nuovo e che ora questo unico Israele di Dio per mezzo del miracolo delle lingue, ancora prima di divenire la rappresentazione di una Chiesa locale gerosolimitana, si mostra come una unità che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi. Nei pellegrini presenti, che provengono da tutti i popoli, essa coinvolge subito anche tutti i popoli del mondo. Forse non è necessario sopravvalutare la questione della precedenza temporale della Chiesa universale, che Luca nel suo racconto propone chiaramente. Importante resta nondimeno che la Chiesa nei dodici viene generata dall'unico Spirito fin dall'inizio per tutti i popoli e pertanto anche sin dal primo istante è orientata ad esprimersi in tutte le culture e proprio così ad essere l'unico popolo di Dio:  non una comunità locale si allarga lentamente, ma il lievito è sempre orientato all'insieme e quindi porta in sé una universalità sin dal primo istante.

    La resistenza contro le affermazioni della precedenza della Chiesa universale rispetto alle Chiese particolari è teologicamente difficile da comprendere o addirittura incomprensibile. Comprensibile diviene solo a partire da un sospetto che sinteticamente è stato così formulato:  "Totalmente problematica diventa la formula, se l'unica Chiesa universale viene tacitamente identificata con la Chiesa romana, de facto con il Papa e la Curia. Se questo avviene, allora la Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede non può essere intesa come un aiuto alla chiarificazione della ecclesiologia di comunione, ma deve essere compresa come il suo abbandono e come il tentativo di una restaurazione del centralismo romano". In questo testo l'identificazione della Chiesa universale con il Papa e la Curia viene dapprima introdotta come ipotesi, come pericolo, ma poi sembra di fatto essere attribuita alla Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede, che così viene ad apparire come restaurazione teologica e quindi come distacco dal Concilio Vaticano II.

    Questo salto interpretativo sorprende, ma rappresenta senza dubbio un sospetto largamente diffuso; esso dà voce ad un'accusa che si ode tutt'intorno, ed esprime bene anche una crescente incapacità a rappresentarsi  sotto  la  Chiesa  universale, sotto  la  Chiesa  una,  santa,  cattolica qualcosa di concreto. Come unico elemento configurabile restano il Papa e la Curia, e se si dà ad essi una classificazione troppo alta dal punto di vista teologico, è comprensibile che ci si senta minacciati.

    Così ci si trova qui molto concretamente, dopo quello che solo apparentemente è un Excursus, di fronte alla questione dell'interpretazione del Concilio. La domanda, che ora ci si pone, è la seguente:  quale idea di Chiesa universale ha propriamente il Concilio? Non si può dire in verità che la Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede "identifichi tacitamente la Chiesa universale con la Chiesa romana, de facto con il Papa e la Curia". Questa tentazione insorge se in precedenza si era già identificato la Chiesa locale di Gerusalemme e la Chiesa universale, cioè se si è ridotto il concetto di Chiesa alle comunità che appaiono empiricamente e la sua profondità teologica è stata persa di vista. È proficuo ritornare con questi interrogativi al testo stesso del Concilio. Subito la prima frase della Costituzione sulla Chiesa chiarisce che il Concilio non considera la Chiesa come una realtà chiusa in se stessa, ma la vede a partire da Cristo:  "Cristo è la luce delle genti, e questo sacro concilio, adunato nello Spirito Santo, ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul volto della Chiesa, illumini tutti gli uomini... ". Sullo sfondo riconosciamo l'immagine presente nella teologia dei padri, che vede nella Chiesa la luna, la quale non ha da se stessa luce propria, ma rimanda la luce del sole Cristo.

    L'ecclesiologia si manifesta come dipendente dalla cristologia, ad essa legata. Poiché però nessuno può parlare correttamente di Cristo, del Figlio, senza allo stesso tempo parlare del Padre e poiché non si può parlare correttamente di Padre e Figlio senza mettersi in ascolto dello Spirito Santo, la visione cristologica della Chiesa si allarga necessariamente in una ecclesiologia trinitaria (LG n. 2-4). Il discorso sulla Chiesa è un discorso su Dio, e solo così è corretto. In questa ouverture trinitaria, che offre la chiave per la giusta lettura dell'intero testo, noi apprendiamo che cosa è la Chiesa una, santa a partire dalle ed in tutte le concrete realizzazioni storiche, che cosa significa "Chiesa universale". Questo si chiarifica ulteriormente quando successivamente viene mostrato il dinamismo interiore della Chiesa verso il Regno di Dio. Proprio perché la Chiesa è da comprendersi teo-logicamente, essa autotrascende sempre se stessa; essa è il raduno per il Regno di Dio, irruzione in esso. Vengono poi presentate brevemente le diverse immagini della Chiesa, che rappresentano tutte l'unica Chiesa, sia che si parli della sposa, che della casa di Dio, della sua famiglia, del tempio, della città santa, della nostra madre, della Gerusalemme di lassù o del gregge di Dio, ecc. Alla fine ciò si concretizza ulteriormente.

    Riceviamo una risposta molto pratica alla domanda:  che cosa è questo, quest'unica Chiesa universale che precede ontologicamente e temporalmente le Chiese locali? Dov'è? Dove possiamo vederla agire? La Costituzione risponde parlandoci dei sacramenti. Vi è innanzitutto il battesimo:  esso è un evento trinitario, cioè totalmente teologico, molto più che una socializzazione legata alla Chiesa locale, come oggi è purtroppo così spesso travisato. Il battesimo non deriva dalla singola comunità, ma in esso si apre a noi la porta all'unica Chiesa, esso è la presenza dell'unica Chiesa, e può scaturire solo a partire da essa - dalla Gerusalemme di lassù, dalla nuova madre. Al riguardo il noto ecumenista Vinzenz Pfnür ha detto recentemente al riguardo:  il battesimo è essere inseriti "nell'unico corpo di Cristo aperto per noi sulla croce (cfr Ef 2, 16), nel quale essi... vengono battezzati per mezzo dell'unico Spirito (1 Cor 12, 13), ciò che è essenzialmente di più che non l'annuncio battesimale in uso in molti luoghi:  abbiamo accolto nella nostra comunità...".

    Membra di questo unico corpo noi diveniamo nel battesimo, "ciò che non va scambiato con l'appartenenza ad una Chiesa locale. Di ciò fa parte l'unica sposa e l'unico episcopato..., al quale con Cipriano si partecipa solo nella comunione dei vescovi". Nel battesimo la Chiesa universale precede continuamente la Chiesa locale e la costituisce. A partire di qui la Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla "communio" può dire che nella Chiesa non vi sono stranieri:  ognuno è ovunque a casa sua e non solo ospite. È sempre l'unica Chiesa, l'unica e la medesima. Chi è battezzato a Berlino, è nella Chiesa a Roma o a New York o a Kinshasa o a Bangalore o in qualunque altro posto, altrettanto a casa sua come nella Chiesa in cui è stato battezzato. Non deve registrarsi di nuovo, è l'unica Chiesa. Il battesimo viene da essa e partorisce in essa. Chi parla del battesimo parla, tratta di per se stesso anche della parola di Dio, che per la Chiesa intera è solo una e continuamente la precede in tutti i luoghi, la convoca e la edifica. Questa parola è sopra la Chiesa, e nondimeno è in essa, affidata ad essa come soggetto vivo. La parola di Dio ha bisogno, per essere presente in modo efficace nella storia, di questo soggetto, ma questo soggetto da parte sua non sussiste senza la forza vivificante della parola, che innanzitutto la rende soggetto. Quando parliamo della parola di Dio, intendiamo anche il Credo,  che  sta  al  centro  dell'evento  battesimale;  esso  è  la  modalità,  con  cui  la  Chiesa  accoglie  la parola e se la appropria, in qualche modo parola e risposta allo stesso tempo. Anche qui la Chiesa universale è presente, l'unica Chiesa in modo assai concreto e qui percepibile.

    Il testo conciliare passa dal battesimo all'Eucaristia, nella quale Cristo dona il suo corpo e ci rende così suo corpo. Questo corpo è unico, e così nuovamente l'Eucaristia per ogni Chiesa locale è il luogo dell'inserimento nell'unico Cristo, il divenire una cosa sola di tutti i comunicandi nella "communio" universale, che unisce cielo e terra, vivi e morti, passato, presente e futuro e apre all'eternità. L'Eucaristia non nasce dalla Chiesa locale e non finisce in essa. Essa manifesta continuamente che Cristo dall'esterno attraverso le nostre porte chiuse viene a noi; essa viene continuamente a noi a partire dall'esterno, dal totale, unico corpo di Cristo e ci conduce entro di esso. Questo "extra nos" del Sacramento si rivela anche nel ministero del vescovo e del presbitero:  che l'eucaristia abbia bisogno del sacramento del servizio sacerdotale, ha il suo fondamento esattamente nel fatto che la comunità non può darsi essa stessa l'eucaristia; essa deve riceverla a partire dal Signore per mezzo della mediazione dell'unica Chiesa.

    La successione apostolica, che costituisce il ministero sacerdotale, implica allo stesso tempo l'aspetto sincronico come quello diacronico del concetto di Chiesa:  l'appartenere all'insieme della storia della fede a partire dagli apostoli e lo stare in comunione con tutti coloro che si lasciano radunare dal Signore nel suo corpo. La Costituzione sulla Chiesa ha notoriamente trattato il ministero episcopale nel terzo capitolo e chiarito il suo significato a partire dal concetto fondamentale del "collegium". Questo concetto che appare solo in modo marginale nella tradizione serve a illustrare l'interiore unità del ministero episcopale. Vescovo non si è come singoli, ma attraverso l'appartenenza ad un corpo, ad un collegio, che a sua volta rappresenta la continuità storica del "collegium apostolorum". In questo senso il ministero episcopale deriva dall'unica Chiesa e introduce in essa. Proprio qui diviene visibile che non esiste teologicamente alcuna contrapposizione fra Chiesa locale e Chiesa universale.

    Il Vescovo rappresenta nella Chiesa locale l'unica Chiesa, ed egli edifica l'unica Chiesa, mentre edifica la Chiesa locale e risveglia i suoi doni particolari per l'utilità di tutto quanto il corpo. Il ministero del successore di Pietro è un caso particolare del ministero episcopale e connesso in modo particolare con la responsabilità per l'unità di tutta quanta la Chiesa. Ma questo ministero di Pietro e la sua responsabilità non potrebbero neppure esistere, se non esistesse innanzitutto la Chiesa universale. Si muoverebbe infatti nel vuoto e rappresenterebbe una pretesa assurda. Senza dubbio la retta correlazione di episcopato e primato dovette essere continuamente riscoperta anche attraverso fatica e sofferenze. Ma questa ricerca è impostata in modo corretto solo quando viene considerata a partire dal primato  della  specifica  missione  della  Chiesa  e  ad  esso  in ogni tempo orientata e subordinata:  il compito cioè di portare Dio agli uomini, gli uomini a Dio. Lo scopo della Chiesa è il Vangelo, e attorno ad esso tutto in lei deve ruotare.

    Vorrei a questo punto interrompere l'analisi del concetto di "communio" e prendere ancora posizione almeno brevemente nei confronti del punto più discusso di "Lumen gentium":  il significato della già menzionata frase di "Lumen gentium" 8, secondo cui l'unica Chiesa di Cristo, che confessiamo nel Simbolo come l'unica, santa, cattolica ed apostolica, "sussiste" nella Chiesa cattolica, che è guidata da Pietro e dai vescovi in comunione con lui.

    La Congregazione per la Dottrina della Fede si vide obbligata nel 1985 a prendere posizione nei confronti di questo testo molto discusso a motivo di un libro di Leonardo Boff, nel quale l'autore sosteneva la tesi, secondo cui l'unica Chiesa di Cristo come sussiste nella Cattolico-romana, così sussisterebbe anche in altre Chiese cristiane. Superfluo dire che il pronunciamento della Congregazione per la Dottrina della Fede fu sopraffatto da critiche pungenti e poi messo da parte. Nel tentativo di riflettere su dove oggi siamo nella recezione dell'ecclesiologia conciliare, la questione dell'interpretazione del "subsistit" è inevitabile, ed al riguardo l'unico pronunciamento ufficiale del Magistero dopo il Concilio su questa parola, cioè la menzionata Notificazione, non può essere trascurato.

    A distanza di 15 anni emerge con più chiarezza, di quanto non fosse allora, che non si trattava qui tanto di un singolo autore teologico, ma di una visione di Chiesa che circola con diverse variazioni e che anche oggi è molto attuale. La chiarificazione del 1985 ha presentato estesamente il contesto della tesi di Boff già brevemente riferita. Questi particolari non è necessario che li approfondiamo ulteriormente, perché ci sta a cuore qualcosa di più fondamentale. La tesi, il cui rappresentante allora è stato Boff, si potrebbe caratterizzare come relativismo ecclesiologico. Essa trova la sua giustificazione nella teoria secondo cui il "Gesù storico" di per sé non avrebbe pensato ad una Chiesa, tanto meno quindi l'avrebbe fondata. La Chiesa come realtà storica sarebbe sorta solo dopo la resurrezione, nel processo di perdita di tensione escatologica, a motivo delle inevitabili necessità sociologiche dell'istituzionalizzazione, ed all'inizio non sarebbe neppure esistita una Chiesa universale "cattolica", ma solo diverse Chiese locali con diverse teologie, diversi ministeri ecc..

    Nessuna Chiesa istituzionale potrebbe quindi affermare di essere quell'una Chiesa di Gesù Cristo voluta da Dio stesso; tutte le configurazioni istituzionali sono quindi nate da necessità sociologiche e pertanto come tali sono tutte costruzioni umane, che si possono o addirittura si devono anche nuovamente radicalmente mutare in nuove circostanze. Nella loro qualità teologica si differenziano in modo molto secondario, e pertanto si potrebbe dire che in tutte o in ogni caso almeno in molte sussiste l'"unica Chiesa di Cristo" - a proposito della quale ipotesi sorge naturalmente la domanda con che diritto in una tale visione si possa semplicemente parlare di un'unica Chiesa di Cristo.

    La tradizione cattolica invece ha scelto un altro punto di partenza:  essa fa fiducia agli evangelisti, crede ad essi. Allora risulta evidente che Gesù, il quale annunciò il regno di Dio, per la sua realizzazione radunò attorno a sé dei discepoli; egli donò loro non solo la sua parola come nuova interpretazione dell'Antico Testamento, ma nel sacramento dell'ultima cena fece loro dono di un nuovo centro unificante, per mezzo del quale tutti coloro che si confessano cristiani, in un modo totalmente nuovo divengono una cosa sola con lui - tanto che Paolo poté designare questa comunione come l'essere un solo corpo con Cristo, come l'unità di un solo corpo nello Spirito. Allora risulta evidente che la promessa dello Spirito Santo non era un vago annuncio, ma intendeva la realtà di Pentecoste - il fatto dunque che la Chiesa non fu pensata e fatta da uomini, ma fu creata per mezzo dello Spirito, è e rimane creatura dello Spirito Santo.

    Allora però istituzione e Spirito stanno nella Chiesa in una relazione ben diversa da quella che le menzionate correnti di pensiero vorrebbero suggerirci. Allora l'istituzione non è semplicemente una struttura che si può mutare o demolire a piacere, che non avrebbe niente a che vedere con la realtà della fede come tale. Allora questa forma di corporeità appartiene alla Chiesa stessa. La Chiesa di Cristo non è nascosta in modo inafferrabile dietro le molteplici configurazioni umane, ma esiste realmente, come Chiesa vera e propria, che si manifesta nella professione di fede, nei sacramenti e nella successione apostolica.

    Il Vaticano II con la formula del "subsistit" - conformemente alla tradizione cattolica - voleva quindi dire esattamente il contrario del "relativismo ecclesiologico":  la Chiesa di Gesù Cristo esiste realmente. Egli stesso l'ha voluta, e lo Spirito Santo la crea continuamente a partire  dalla  Pentecoste  pur  di  fronte ad ogni  fallimento  umano  e  la  sostiene nella sua identità essenziale. L'istituzione non è una inevitabile, ma teologicamente irrilevante o addirittura dannosa esteriorità, ma appartiene nel suo nucleo essenziale alla concretezza dell'incarnazione. Il Signore mantiene la sua parola:  "Le porte dell'inferno non prevarranno contro di essa".

    A questo punto diviene necessario indagare un po' più accuratamente circa la parola "subsistit". Il Concilio si differenzia con questa espressione dalla formula di Pio XII, che nella sua Enciclica "Mystici Corporis Christi" aveva detto:  la Chiesa cattolica "è" (est) l'unico corpo mistico di Cristo. Nella differenza fra "subsistit" e "est" si nasconde tutto quanto il problema ecumenico. La parola subsistit deriva dall'antica filosofia ulteriormente sviluppatasi nella scolastica. Ad essa corrisponde la parola greca "hypostasis", che nella cristologia ha un ruolo centrale, per descrivere l'unione di natura divina ed umana nella persona di Cristo. "Subsistere" è un caso speciale di "esse". È l'essere nella forma di un soggetto a se stante. Qui si tratta proprio di questo. Il Concilio vuol dirci che la Chiesa di Gesù Cristo come soggetto concreto in questo mondo può essere incontrata nella Chiesa cattolica.

    Ciò può avvenire solo una volta e la concezione secondo cui il Subsistit sarebbe da moltiplicare non coglie proprio ciò che si intendeva dire. Con la parola subsistit il Concilio voleva esprimere la singolarità e la non moltiplicabilità della Chiesa cattolica:  esiste la Chiesa come soggetto nella realtà storica.

    La differenza fra subsistit e est rinchiude però il dramma della divisione ecclesiale. Benché la Chiesa sia soltanto una e sussista in un unico soggetto, anche al di fuori di questo soggetto esistono realtà ecclesiali - vere Chiese locali e diverse comunità ecclesiali. Poiché il peccato è una contraddizione, questa differenza fra subsistit ed est non si può ultimamente dal punto di vista logico pienamente risolvere. Nel paradosso della differenza fra singolarità e concretezza della Chiesa da una parte e esistenza di una realtà ecclesiale al di fuori dell'unico soggetto dall'altra si rispecchia la contraddittorietà del peccato umano, la contraddittorietà della divisione. Tale divisione è qualcosa di totalmente altro dalla sopra descritta dialettica relativistica, nella quale la divisione dei cristiani perde il suo aspetto doloroso ed in realtà non è una frattura, ma solo il manifestarsi delle molteplici variazioni di un unico tema, nel quale tutte le variazioni in qualche modo hanno ragione ed in qualche modo non ce l'hanno. Una necessità intrinseca per la ricerca dell'unità in realtà allora non esiste, perché in verità comunque l'unica Chiesa è ovunque e da nessuna parte. Il cristianesimo quindi in realtà esisterebbe solo nella dialettica correlazione di variazioni contrapposte. L'ecumenismo consiste nel fatto che tutti in qualche modo si riconoscono reciprocamente, perché tutti sarebbero solo frammenti della realtà cristiana. L'ecumenismo sarebbe quindi il rassegnarsi ad una dialettica relativistica, perché il Gesù storico appartiene al passato e la verità rimane comunque nascosta.

    La visione del Concilio è tutt'altra:  che nella Chiesa cattolica sia presente il subsistit dell'unico soggetto Chiesa, non è affatto merito dei cattolici, ma solo opera di Dio, che egli fa perdurare malgrado il continuo demerito dei soggetti umani. Essi non possono gloriarsene, ma solo ammirare la fedeltà di Dio vergognandosi dei loro propri peccati e allo stesso tempo pieni di gratitudine. Ma l'effetto dei loro propri peccati si può vedere:  tutto il mondo vede lo spettacolo delle comunità cristiane divise e contrapposte, che rivendicano reciprocamente le loro pretese di verità e così apparentemente vanificano la preghiera di Cristo alla vigilia della sua passione. Mentre la divisione come realtà storica è percepibile ad ognuno, la sussistenza dell'unica Chiesa nella figura concreta della Chiesa cattolica si può percepire come tale solo nella fede.

    Poiché il Concilio Vaticano II ha avvertito questo paradosso, proprio per questo ha proclamato come un dovere l'ecumenismo quale ricerca della vera unità e l'ha affidato alla Chiesa del futuro.

    Arrivo alla conclusione. Chi vuol comprendere l'orientamento dell'ecclesiologia conciliare, non può tralasciare i capitoli 4-7 della Costituzione, nei quali si parla dei laici, della vocazione universale alla santità, dei religiosi e dell'orientamento escatologico della Chiesa. In questi capitoli torna ancora una volta in primo piano lo scopo intrinseco della Chiesa, ciò che è più essenziale alla sua esistenza:  si tratta cioè della santità, della conformità a Dio - che nel mondo vi sia spazio per Dio, che egli possa abitare in esso e così il mondo divenga il suo "regno". Santità è qualcosa di più che una qualità morale. Essa è il dimorare di Dio con gli uomini, degli uomini con Dio, la "tenda" di Dio fra di noi ed in mezzo a noi (Giov 1, 14). Si tratta della nuova nascita - non da carne e sangue, ma da Dio (Giov 1, 13).

    L'orientamento alla santità è identico con l'orientamento escatologico, e di fatto ora esso a partire dal messaggio di Gesù è fondamentale per la Chiesa. La Chiesa esiste, perché divenga dimora di Dio nel mondo e così sia "santità":  per questo si dovrebbe competere nella Chiesa, non su un più o un meno in diritti di precedenza, sull'occupazione dei primi posti. Tutto questo è poi ancora una volta ripreso e sintetizzato nell'ultimo capitolo della Costituzione sulla Chiesa, che tratta della Madre del Signore.

    A prima vista l'inserimento della mariologia nell'ecclesiologia, che il Concilio ha intrapreso, potrebbe apparire piuttosto casuale. È vero dal punto di vista storico che di fatto una maggioranza assai ridotta di padri decise per questo inserimento. Ma da un punto di vista più interiore questa decisione corrisponde perfettamente all'orientamento dell'insieme della Costituzione:  solo se si è compresa questa correlazione, si è compresa rettamente l'immagine della Chiesa, che il Concilio voleva tracciare. In questa decisione sono state messe a frutto le ricerche di H. Rahner, A. Müller, R. Laurentin e Karl Delahaye, grazie ai quali mariologia ed ecclesiologia sono state allo stesso tempo rinnovate e approfondite. Soprattutto Hugo Rahner ha mostrato in modo grandioso a partire dalle fonti, che tutta quanta la mariologia è stata pensata e impostata dai padri prima di tutto come ecclesiologia:  la Chiesa è vergine e madre, essa è concepita senza peccato e porta il peso della storia, essa soffre e nondimeno è già ora assunta in cielo.

    Molto lentamente si rivela nel corso dello sviluppo successivo che la Chiesa è anticipata in Maria, in Maria è personificata e che viceversa Maria non sta come individuo isolato chiuso in se stesso, ma porta in sé tutto quanto il mistero della Chiesa. La persona non è chiusa individualisticamente e la comunità non è compresa collettivisticamente in modo impersonale; entrambe si sovrappongono l'una all'altra in modo inseparabile. Questo vale già per la donna dell'Apocalisse, così come appare nel capitolo 12:  non è corretto limitare questa figura esclusivamente in modo individualistico a Maria, perché in lei è insieme contemplato tutto quanto il popolo di Dio, l'antico ed il nuovo Israele, che soffre e nella sofferenza è fecondo; ma non è neppure corretto escludere da questa immagine Maria, la madre del Redentore.

    Così nella sovrapposizione fra persona e comunità, come la troviamo in questo testo, già è anticipato l'intreccio di Maria e Chiesa, che poi è stato lentamente sviluppato nella teologia dei Padri e finalmente ripreso dal Concilio. Che più tardi entrambe si siano separate, che Maria sia stata vista come un individuo ricolmato di privilegi e perciò da noi infinitamente lontano, la Chiesa a sua volta in modo impersonale e puramente istituzionale, ha danneggiato in eguale misura sia la mariologia che l'ecclesiologia. Operano qui le divisioni, che il pensiero occidentale ha particolarmente attuato e che per altro hanno i loro buoni motivi. Ma se vogliamo comprendere rettamente la Chiesa e Maria, dobbiamo saper ritornare a prima di queste divisioni, per comprendere la natura sovraindividuale della persona e sovraistituzionale della comunità proprio là, ove persona e comunità vengono ricondotte alle loro origini a partire dalla forza del Signore, del nuovo Adamo.

    La visione mariana della Chiesa e la visione ecclesiale, storicosalvifica di Maria ci riconducono ultimamente a Cristo e al Dio trinitario, perché qui si manifesta ciò che significa santità, cosa è la dimora di Dio nell'uomo e nel mondo, cosa dobbiamo intendere con tensione "escatologica" della Chiesa. Così solo il capitolo di Maria porta a compimento l'ecclesiologia conciliare e ci riporta al suo punto di partenza cristologico e trinitario.

    Per dare un assaggio della teologia dei Padri, vorrei a conclusione proporre un testo di sant'Ambrogio, scelto da Hugo Rahner:  "Così dunque state saldi sul terreno del vostro cuore!... Che cosa significa stare, l'apostolo ce lo ha insegnato, Mosè lo ha scritto:  "Il luogo, sul quale tu stai, è terra santa". Nessuno sta, se non colui che sta saldo nella fede... ed ancora una parola sta scritta:  "Tu però sta saldo con me". Tu stai saldo con me, se tu stai nella Chiesa. La Chiesa è la terra santa, sulla quale noi dobbiamo stare... Sta dunque saldo, sta nella Chiesa. Sta saldo colà, ove io ti voglio apparire, là io resto presso di te. Ove è la Chiesa, là è il luogo saldo del tuo cuore. Sulla Chiesa si appoggiano i fondamenti della tua anima. Infatti nella Chiesa io ti sono apparso come una volta nel roveto ardente. Il roveto sei tu, io sono il fuoco. Fuoco nel roveto io sono nella tua carne. Fuoco io sono, per illuminarti; per bruciare le spine dei tuoi peccati, per donarti il favore della mia grazia".

    Card. JOSEPH RATZINGER 
    Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede


    [Modificato da Caterina63 07/01/2018 20:01]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 14/01/2018 14:51
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    Visita di Benedetto XVI – 19 marzo 2017


     

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    Umili per riflettere la bellezza di Dio


    Mentre papa Benedetto varca la soglia del monastero, noi siamo ad attenderlo in Coro, con l’orecchio teso verso l’uscio, a voler percepire l’eco silenziosa dei suoi passi. Mentre si avvicina piano, riemergono dal fondo della memoria del cuore le parole da lui pronunziate a poche centinai di metri da qui, nella loggia centrale del Palazzo Apostolico di Castel Gandolfo, in quello che sarebbe passato alla storia come “l’addio di Papa Benedetto”. In quell’occasione, con parole semplici e sobrie, aveva detto: «Sono semplicemente un pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio in questa terra». Con questi sentimenti Sua Santità Benedetto XVI varcava la soglia del silenzio, oltre la quale avrebbe continuato a «lavorare per il bene comune e il bene della Chiesa e dell’umanità – così aveva sottolineato – con il mio cuore, con il mio amore, con la mia preghiera, con la mia riflessione, con tutte le mie forze interiori». Ed ecco che oggi, da pellegrino, papa Benedetto fa nuovamente tappa al nostro monastero.


    È la terza domenica di Quaresima, la divina liturgia ci dà la chiave di lettura per interpretare l’evento. Questa mattina, il Vangelo proclamato nella celebrazione eucaristica ci ha parlato di un altro “pellegrino”, dischiudendoci il dialogo sorprendente tra Gesù e la donna di Samaria vicino al pozzo. Si ripresenta ora ai nostri occhi una simile scena: Benedetto avanza lentamente e siede al centro del nostro Coro. Ha la bellezza di uno sposo dimesso, rivestito di luce, nel bianco della veste che indossa; la trasparenza dell’acqua “pretiosa, umile et casta”.



     


     


    Affiancato dal suo segretario personale, mons. Georg Gänswein e dalle quattro Memores, ci guarda e sorridendoci ci saluta con il francescano “Pace e bene”, come a dire che davvero si sente a casa! Benedetto esordisce con un saluto rivolto a noi, dicendo : «Care sorelle, è una grande gioia essere con voi oggi, nella festa di san Giuseppe, nella terza domenica della Quaresima».


     


     


    Inizia il Vespro. Il calendario liturgico della Chiesa ci consegna oggi, 19 marzo 2017, giorno onomastico di Joseph-Benedetto, i secondi vespri della III domenica di Quaresima. Al centro della riflessione di papa Benedetto è la lettura breve, tratta dalla Prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi: “Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo. Ogni atleta, però, è temperante in tutto. Essi lo fanno per raggiungere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile”.



    Le olimpiadi della vita

    «San Paolo parla delle Olimpiadi, dà così il senso e la direzione della propria vita e della nostra. Le Olimpiadi erano per la Grecia un avvenimento superiore a tutti, esistevano da più di mille anni. Tutta la cronologia greca era basata sulle Olimpiadi, e possiamo così indovinare che cos’era per loro un “vincitore” nelle Olimpiadi. E Paolo qui ci dice: Sapete le rinunce, tutta la disciplina, tutta la vita che ordinano verso questa vittoria… ».

    Il discorso continua e il suo parlare si fa più profondo, interpellandoci esistenzialmente:


    «… Ma noi tutti possiamo pensare a una vittoria più grande, che perdura in eterno. La vita, si dice, è una Olimpiade e noi siamo in esercizio verso la meta. Dobbiamo pensare… Se per gli atleti tutte le rinunce hanno senso, perché vogliono vincere e alla fine questa vittoria è una cosa che passa presto, noi invece vogliamo vincere una vittoria eterna: le Olimpiadi della vita!».
     Come non sentire nell’espressione di san Paolo, che ci invita a correre anche noi in modo da conquistare il premio, l’eco delle parole di Chiara d’Assisi quando parla di una corsa da intraprendere per conquistare il premio eterno e invita Agnese di Praga a tenere fisso lo sguardo sulla meta, senza dar peso agli ostacoli, avanzando «con corsa veloce, passo leggero, senza inciampi ai piedi, così che i tuoi passi non raccolgano neanche la polvere…».

     


    La vittoria dell’essere uomini

    «Mentre facilmente ci impegniamo per cose visibili, non pensiamo alla Olimpiade essenziale della nostra vita, non pensiamo che dobbiamo vincere la vittoria dell’essere uomini», che abbiamo una “vittoria” da conseguire.
    Le sue parole ci richiamano immediatamente il senso profondo, la dignità che appartiene all’essere uomini.
    È una meta a cui arriviamo quasi impreparati: «Questa, quindi, è l’idea essenziale di san Paolo. Questa è la vera Olimpiade, questa è la scuola di essere uomini: imparare ad essere uomini, essere immagine di Dio. E questa vittoria vale tutto il tempo, tutta la forza: alla fine ho imparato ad essere uomo, alla fine ho imparato ad essere immagine di Dio». La vittoria cristiana è una scuola di sapienza che si fonda sull’umiltà come virtù propria dell’essere creature amate da Dio, creati a sua immagine e somiglianza.


    Umili per riflettere la bellezza di Dio

    Arriviamo a questo grande passaggio, arriviamo alla grande meta che ci attende, dice Benedetto, «senza essere maturati, arriviamo essendo umili, figli e immagine di Dio». Umiltà è, allora, lasciare che Dio sia se stesso in noi, perché traspaia al di fuori la sua immagine, l’immagine di Dio che ci abita.

    Rivolgendosi poi direttamente a noi, papa Benedetto così ci dice: «Voi, care sorelle, siete qui, in monastero, per essere in cammino verso questa vittoria,  alla scuola dell’essere immagine di Dio e per questo noi tutti vi ringraziamo di cuore».

    Papa Benedetto continua la sua riflessione, rispondendo a una domanda: come imparare ad essere figli di Dio e “uomini” secondo la sua immagine? Ed è la figura di san Giuseppe a darcene un esempio concreto: «Lui è un vincitore grande, lui ha saputo vivere, ha saputo imparare l’essenziale, l’essere persona umana, l’essere immagine di Dio». E sottolinea tre aspetti della figura di Giuseppe.

     

    «Primo. San Giuseppe era soprattutto un uomo pio, un uomo di fede e di amore, un uomo osservante. Sappiamo dalla Scrittura che era ovvio, nella sua famiglia, che andassero ogni sabato alla sinagoga per meditare insieme, imparare la Parola di Dio. Sono andati insieme alle feste. Sappiamo come già, con Gesù dodicenne, sono andati alla festa della Pasqua».

    La sacra Scrittura ci dice che ogni famiglia, appartenente al popolo d’Israele, dunque anche la famiglia di Giuseppe, frequentava ogni sabato la sinagoga, imparando così la familiarità con la Parola di Dio. Giuseppe «era realmente un uomo che ha vissuto la vita dei fedeli di Israele, anche per lui la Parola di Dio era familiare. E sappiamo anche che la sua non era solo una osservanza formale: andava molto più in profondità perché, realmente, nella liturgia, nell’ascolto della Parola di Dio, aveva conosciuto Dio personalmente».

    Conoscere Dio personalmente… qui Benedetto apre uno spiraglio che permette di intravedere la profondità dell’orizzonte di Dio.  Sappiamo, infatti, che la fede e solo la fede è capace di dischiuderci la conoscenza personale di Dio, la vera conoscenza. Fede è la grande parola che ha impregnato, sin dal suo nascere, la vita di Giuseppe, come quella di Joseph-Benedetto. Fede è la grande parola che ha segnato sorprendentemente la svolta del suo pontificato. «Solo perché lo conosceva personalmente, san Giuseppe poteva essere sicuro che l’angelo parlava realmente in nome di Dio. Solo perché conosceva il grande “tuono”, la melodia della Parola di Dio, poteva riconoscerlo in questi momenti decisivi e rispondere nel modo adeguato».


    «Un secondo elemento. San Giuseppe, che è un uomo di Dio, un uomo osservante, un uomo pio, è anche un uomo competente, coraggioso, attivo. Sapeva decidere. Possiamo vedere quante decisioni gravi: andare a Betlemme, in Egitto e alla fine è ritornato a Nazareth. Un uomo di decisioni chiare, di coraggio; un uomo di Dio proprio nell’essere veramente presente anche nei problemi di questa vita.»

     

    «Terzo punto. San Giuseppe, lo sappiamo tutti, era un uomo umile. Un uomo che ha vissuto non per apparire, ma per servire: non apparire, ma essere.[…] San Giuseppe era un uomo di umiltà e, così, un uomo di coraggio, perché “umiltà” non è una debolezza: al contrario, umiltà è coraggio di vivere per la verità e non per l’apparenza».

    L’arte da imparare in questa vita non è, allora, come spesso il mondo crede e vuol far credere, quella di essere invincibili e perfetti, ma semplicemente di essere ciò che siamo: deboli, fragili e, proprio per questo, profondamente veri in Dio, «umili» perché consapevoli della nostra pochezza e povertà, ma risplendenti della sua gloria. Spesso, inconsapevolmente, pensiamo all’umiltà come a una virtù da acquisire, finendo per farla sembrare alla fine quasi un “rivestimento”, un soprabito acquisibile a prezzo di impegno e sforzo da parte nostra, quando invece l’opera di Dio che quotidianamente ci riporta al nostro humus vitale è, al contrario, prima di tutto un lasciarci fare e disfare dagli eventi.

    Così ha poi terminato la sua riflessione. «La discrezione, il silenzio di san Giuseppe era così forte che, umile in Dio, non è stato scoperto nella pietà e nella teologia della Chiesa, benché il messaggio di lui nella Scrittura è grandissimo. Ma la sua umiltà e il suo silenzio sono così forti che, solo dopo mille anni di umiltà, di non apparenza, la Chiesa ha scoperto questa bella figura. San Giuseppe, prega per noi!».

     

    “So che siete sempre con me con la preghiera, come io sono unito con voi”

    Alla preghiera dei vespri è seguito un momento di fraterna condivisione nella sala della comunità.
    Oltre alle Memores erano presenti anche il nostro Vescovo Marcello e Mons. Georg che, con la sua presenza fraterna e la sua schietta amabilità, ha contribuito a creare davvero un clima di famiglia.

     

    Papa Benedetto ha espresso così la sua gioia per questo incontro: «Care sorelle, è per me una gioia grande venire qui, e ancora una volta, essere con voi in questa atmosfera di gioia spirituale nella fede, nella comunione, nella gioia dei figli di Dio. So che siete sempre con me con la preghiera, come io sono unito con voi».

     

     

    Al termine dell’incontro ciascuna di noi ha potuto salutare personalmente Sua Santità Benedetto XVI, esprimendogli una parola di gratitudine e affetto.

     

    In questi anni abbiamo avuto la gioia di avere qui tra noi papa Benedetto in altre due occasioni: nella Messa In Cœna Domini del Giovedì Santo 2013, a pochi giorni dalla sua rinuncia al ministero petrino, e il 10 luglio 2015.  Quello che più di tutto colpisce, insieme alla mitezza della sua persona, alla sua gioia contagiosa, è la limpida trasparenza dei suoi occhi “accesi” d’Eterno, capaci di stupore e di gratitudine. Il suo sguardo profondo, contemplativo, capace di vedere l’invisibile nella vita
    e nella storia.

     

     

     

    Prima di salutarci con un «arrivederci a presto!», la Madre sr. Maria Concetta gli ha offerto il dono preparato da noi Sorelle: una croce in legno di ulivo raffigurante Gesù crocifisso con san Francesco e santa Chiara in adorazione ai suoi piedi.

     

     

     

    Raggiunte da così tanta Grazia non possiamo che lodare il Donatore di ogni bene per i tanti benefici di cui ci ha colmate. Riprendiamo il nostro cammino tenendo fisso lo sguardo alla meta, per combattere la “buona battaglia” e giungere così alla vittoria: far splendere la pienezza la nostra umanità e lasciar così trasparire l’immagine di Dio che abita in noi.

     

     


    [Modificato da Caterina63 14/01/2018 14:53]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)