00 07/01/2018 19:50
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Di fronte alla riduzione, che a riguardo del concetto di "communio" si verificò negli anni dopo il 1985, la Congregazione per la Dottrina della Fede ritenne opportuno preparare una "Lettera ai Vescovi della Chiesa cattolica su alcuni aspetti della Chiesa intesa come comunione", che fu pubblicata con la data del 28 giugno 1992. Poiché oggi per teologi, che tengono alla propria rinomazione, sembra essere divenuto un dovere dare una valutazione negativa dei documenti della Congregazione per la Dottrina della Fede, su questo testo cadde una gragnola di critiche, da cui ben poco riuscì a salvarsi. Soprattutto fu criticata la frase, che la Chiesa universale sarebbe nel suo mistero essenziale una realtà, che ontologicamente e temporalmente precede le singole Chiese particolari. Questo nel testo era brevemente fondato con il richiamo al fatto che secondo i padri l'una e singola Chiesa precede la creazione e partorisce le Chiese particolari (9). I padri continuano così una teologia rabbinica, che aveva concepito come preesistenti la Thora ed Israele:  la creazione sarebbe stata concepita, perché in essa vi fosse uno spazio per la volontà di Dio; questa volontà però aveva bisogno di un popolo, che vive per la volontà di Dio e ne fa la luce del mondo. Poiché i padri erano convinti dell'identità ultima fra Chiesa ed Israele, essi non potevano vedere nella Chiesa qualcosa di casuale sorto all'ultima ora, ma riconoscevano in questa riunione dei popoli sotto la volontà di Dio la teleologia interna della creazione. A partire dalla cristologia l'immagine si allarga e si approfondisce:  la storia - di nuovo in relazione con l'Antico Testamento - viene spiegata come storia d'amore fra Dio e l'uomo.

Dio trova e si prepara la sposa del Figlio, l'unica sposa, che è l'unica Chiesa. A partire dalla parola della Genesi, che uomo e donna diverranno "due in una carne sola" (Gen 2, 24), l'immagine della sposa si fuse con l'idea della Chiesa come corpo di Cristo, metafora che a sua volta deriva dalla liturgia eucaristica. L'unico corpo di Cristo viene preparato; Cristo e la Chiesa saranno "due in una sola carne", un corpo, e così "Dio sarà tutto in tutto". Questa precedenza ontologica della Chiesa universale, dell'unica Chiesa e dell'unico corpo, dell'unica sposa, rispetto alle realizzazioni empiriche concrete nelle singole Chiese particolari mi sembra così evidente, che mi riesce difficile comprendere le obiezioni ad essa. Mi sembrano in realtà essere possibili solo se non si vuole e non si riesce più a vedere la grande Chiesa ideata da Dio - forse per disperazione a motivo della sua insufficienza terrena -; essa appare ora come una fantasticheria teologica, e rimane quindi solo l'immagine empirica delle Chiese nella loro relazione reciproca e nella loro conflittualità. Questo però significa che la Chiesa come tema teologico viene cancellato. Se si può vedere la Chiesa ormai solo nelle organizzazioni umane, allora in realtà rimane solo desolazione.

Ma allora non si è abbandonato solo l'ecclesiologia dei padri, ma anche quella del Nuovo Testamento e la concezione di Israele dell'Antico Testamento. Nel Nuovo Testamento del resto non è necessario attendere le epistole deutero-paoline e l'Apocalisse per riscontrare la priorità ontologica - riaffermata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede - della Chiesa universale rispetto alle Chiese particolari. Nel cuore delle grandi Lettere paoline, nella lettera ai Galati, l'Apostolo ci parla della Gerusalemme celeste e non come di una grandezza escatologica, ma come una realtà che ci precede:  "Questa Gerusalemme è la nostra madre" (Gal 4, 26). Al riguardo H. Schlier rileva che per Paolo come per la tradizione giudaica cui si ispira la Gerusalemme di lassù è il nuovo eone. Per l'apostolo però questo nuovo eone è già presente "nella Chiesa cristiana. Questa è per lui la Gerusalemme celeste nei suoi figli".

Se la priorità ontologica dell'unica Chiesa non si può seriamente negare, nondimeno la questione riguardante la precedenza temporale è senza dubbio già più difficile. La Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede rimanda qui all'immagine lucana della nascita della Chiesa a Pentecoste per opera dello Spirito Santo. Non si vuol qui discutere la questione della storicità di questo racconto.

Ciò che conta è l'affermazione teologica, che sta a cuore a Luca. La Congregazione per la Dottrina della Fede richiama l'attenzione sul fatto che la Chiesa ha inizio nella comunità dei 120 radunata intorno a Maria, soprattutto nella rinnovata comunità dei dodici, che non sono membri di una Chiesa locale, ma sono gli apostoli, che porteranno il vangelo ai confini della terra. Per chiarire ulteriormente si può aggiungere che essi nel loro numero di dodici sono allo stesso tempo l'antico ed il nuovo Israele, l'unico Israele di Dio, che ora - come fin dall'inizio era contenuto fondamentalmente nel concetto di popolo di Dio - si estende a tutte le nazioni e fonda in tutti i popoli l'unico popolo di Dio.

Questo riferimento viene rafforzato da due ulteriori elementi:  la Chiesa in questa ora della sua nascita parla già in tutte le lingue. I padri della Chiesa hanno giustamente interpretato questo racconto del miracolo delle lingue come un anticipo della Catholica - la Chiesa fin dal primo istante è orientata "kat'holon" - abbraccia tutto l'universo. A ciò fa da corrispettivo il fatto che Luca descriva la schiera degli ascoltatori come pellegrini provenienti da tutta quanta la terra, sulla base di una tavola di dodici popoli, il cui significato è quello di alludere alla onnicomprensività dell'uditorio; Luca ha arricchito questa tavola dei popoli ellenistica con un tredicesimo nome:  i romani, con cui senza dubbio voleva sottolineare ancora una volta l'idea dell'Orbis.

Non si rende del tutto esattamente il senso del testo della Congregazione per la Dottrina della Fede, quando al riguardo Walter Kasper dice che la comunità originaria di Gerusalemme sarebbe stata di fatto Chiesa universale e Chiesa locale allo stesso tempo e poi continua:  "Certamente questo rappresenta un'elaborazione lucana; infatti dal punto di vista storico esistevano presumibilmente sin dall'inizio più comunità, accanto alla comunità di Gerusalemme anche comunità in Galilea". Qui non si tratta della questione per noi ultimamente insolubile, quando esattamente e dove per la prima volta sono sorte delle comunità cristiane, ma dell'inizio interiore della Chiesa nel tempo, che Luca vuol descrivere e che egli al di là di ogni rilevamento empirico riconduce alla forza dello Spirito Santo.

Soprattutto però non si rende giustizia al racconto lucano, se si dice che la "comunità originaria di Gerusalemme" sarebbe stata allo stesso tempo Chiesa universale e Chiesa locale. La realtà prima nel racconto di san Luca non è una comunità originaria gerosolimitana, ma la realtà prima è che nei dodici l'antico Israele, che è unico, diviene quello nuovo e che ora questo unico Israele di Dio per mezzo del miracolo delle lingue, ancora prima di divenire la rappresentazione di una Chiesa locale gerosolimitana, si mostra come una unità che abbraccia tutti i tempi e tutti i luoghi. Nei pellegrini presenti, che provengono da tutti i popoli, essa coinvolge subito anche tutti i popoli del mondo. Forse non è necessario sopravvalutare la questione della precedenza temporale della Chiesa universale, che Luca nel suo racconto propone chiaramente. Importante resta nondimeno che la Chiesa nei dodici viene generata dall'unico Spirito fin dall'inizio per tutti i popoli e pertanto anche sin dal primo istante è orientata ad esprimersi in tutte le culture e proprio così ad essere l'unico popolo di Dio:  non una comunità locale si allarga lentamente, ma il lievito è sempre orientato all'insieme e quindi porta in sé una universalità sin dal primo istante.

La resistenza contro le affermazioni della precedenza della Chiesa universale rispetto alle Chiese particolari è teologicamente difficile da comprendere o addirittura incomprensibile. Comprensibile diviene solo a partire da un sospetto che sinteticamente è stato così formulato:  "Totalmente problematica diventa la formula, se l'unica Chiesa universale viene tacitamente identificata con la Chiesa romana, de facto con il Papa e la Curia. Se questo avviene, allora la Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede non può essere intesa come un aiuto alla chiarificazione della ecclesiologia di comunione, ma deve essere compresa come il suo abbandono e come il tentativo di una restaurazione del centralismo romano". In questo testo l'identificazione della Chiesa universale con il Papa e la Curia viene dapprima introdotta come ipotesi, come pericolo, ma poi sembra di fatto essere attribuita alla Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede, che così viene ad apparire come restaurazione teologica e quindi come distacco dal Concilio Vaticano II.

Questo salto interpretativo sorprende, ma rappresenta senza dubbio un sospetto largamente diffuso; esso dà voce ad un'accusa che si ode tutt'intorno, ed esprime bene anche una crescente incapacità a rappresentarsi  sotto  la  Chiesa  universale, sotto  la  Chiesa  una,  santa,  cattolica qualcosa di concreto. Come unico elemento configurabile restano il Papa e la Curia, e se si dà ad essi una classificazione troppo alta dal punto di vista teologico, è comprensibile che ci si senta minacciati.

Così ci si trova qui molto concretamente, dopo quello che solo apparentemente è un Excursus, di fronte alla questione dell'interpretazione del Concilio. La domanda, che ora ci si pone, è la seguente:  quale idea di Chiesa universale ha propriamente il Concilio? Non si può dire in verità che la Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede "identifichi tacitamente la Chiesa universale con la Chiesa romana, de facto con il Papa e la Curia". Questa tentazione insorge se in precedenza si era già identificato la Chiesa locale di Gerusalemme e la Chiesa universale, cioè se si è ridotto il concetto di Chiesa alle comunità che appaiono empiricamente e la sua profondità teologica è stata persa di vista. È proficuo ritornare con questi interrogativi al testo stesso del Concilio. Subito la prima frase della Costituzione sulla Chiesa chiarisce che il Concilio non considera la Chiesa come una realtà chiusa in se stessa, ma la vede a partire da Cristo:  "Cristo è la luce delle genti, e questo sacro concilio, adunato nello Spirito Santo, ardentemente desidera che la luce di Cristo, riflessa sul volto della Chiesa, illumini tutti gli uomini... ". Sullo sfondo riconosciamo l'immagine presente nella teologia dei padri, che vede nella Chiesa la luna, la quale non ha da se stessa luce propria, ma rimanda la luce del sole Cristo.

L'ecclesiologia si manifesta come dipendente dalla cristologia, ad essa legata. Poiché però nessuno può parlare correttamente di Cristo, del Figlio, senza allo stesso tempo parlare del Padre e poiché non si può parlare correttamente di Padre e Figlio senza mettersi in ascolto dello Spirito Santo, la visione cristologica della Chiesa si allarga necessariamente in una ecclesiologia trinitaria (LG n. 2-4). Il discorso sulla Chiesa è un discorso su Dio, e solo così è corretto. In questa ouverture trinitaria, che offre la chiave per la giusta lettura dell'intero testo, noi apprendiamo che cosa è la Chiesa una, santa a partire dalle ed in tutte le concrete realizzazioni storiche, che cosa significa "Chiesa universale". Questo si chiarifica ulteriormente quando successivamente viene mostrato il dinamismo interiore della Chiesa verso il Regno di Dio. Proprio perché la Chiesa è da comprendersi teo-logicamente, essa autotrascende sempre se stessa; essa è il raduno per il Regno di Dio, irruzione in esso. Vengono poi presentate brevemente le diverse immagini della Chiesa, che rappresentano tutte l'unica Chiesa, sia che si parli della sposa, che della casa di Dio, della sua famiglia, del tempio, della città santa, della nostra madre, della Gerusalemme di lassù o del gregge di Dio, ecc. Alla fine ciò si concretizza ulteriormente.

Riceviamo una risposta molto pratica alla domanda:  che cosa è questo, quest'unica Chiesa universale che precede ontologicamente e temporalmente le Chiese locali? Dov'è? Dove possiamo vederla agire? La Costituzione risponde parlandoci dei sacramenti. Vi è innanzitutto il battesimo:  esso è un evento trinitario, cioè totalmente teologico, molto più che una socializzazione legata alla Chiesa locale, come oggi è purtroppo così spesso travisato. Il battesimo non deriva dalla singola comunità, ma in esso si apre a noi la porta all'unica Chiesa, esso è la presenza dell'unica Chiesa, e può scaturire solo a partire da essa - dalla Gerusalemme di lassù, dalla nuova madre. Al riguardo il noto ecumenista Vinzenz Pfnür ha detto recentemente al riguardo:  il battesimo è essere inseriti "nell'unico corpo di Cristo aperto per noi sulla croce (cfr Ef 2, 16), nel quale essi... vengono battezzati per mezzo dell'unico Spirito (1 Cor 12, 13), ciò che è essenzialmente di più che non l'annuncio battesimale in uso in molti luoghi:  abbiamo accolto nella nostra comunità...".

Membra di questo unico corpo noi diveniamo nel battesimo, "ciò che non va scambiato con l'appartenenza ad una Chiesa locale. Di ciò fa parte l'unica sposa e l'unico episcopato..., al quale con Cipriano si partecipa solo nella comunione dei vescovi". Nel battesimo la Chiesa universale precede continuamente la Chiesa locale e la costituisce. A partire di qui la Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla "communio" può dire che nella Chiesa non vi sono stranieri:  ognuno è ovunque a casa sua e non solo ospite. È sempre l'unica Chiesa, l'unica e la medesima. Chi è battezzato a Berlino, è nella Chiesa a Roma o a New York o a Kinshasa o a Bangalore o in qualunque altro posto, altrettanto a casa sua come nella Chiesa in cui è stato battezzato. Non deve registrarsi di nuovo, è l'unica Chiesa. Il battesimo viene da essa e partorisce in essa. Chi parla del battesimo parla, tratta di per se stesso anche della parola di Dio, che per la Chiesa intera è solo una e continuamente la precede in tutti i luoghi, la convoca e la edifica. Questa parola è sopra la Chiesa, e nondimeno è in essa, affidata ad essa come soggetto vivo. La parola di Dio ha bisogno, per essere presente in modo efficace nella storia, di questo soggetto, ma questo soggetto da parte sua non sussiste senza la forza vivificante della parola, che innanzitutto la rende soggetto. Quando parliamo della parola di Dio, intendiamo anche il Credo,  che  sta  al  centro  dell'evento  battesimale;  esso  è  la  modalità,  con  cui  la  Chiesa  accoglie  la parola e se la appropria, in qualche modo parola e risposta allo stesso tempo. Anche qui la Chiesa universale è presente, l'unica Chiesa in modo assai concreto e qui percepibile.

Il testo conciliare passa dal battesimo all'Eucaristia, nella quale Cristo dona il suo corpo e ci rende così suo corpo. Questo corpo è unico, e così nuovamente l'Eucaristia per ogni Chiesa locale è il luogo dell'inserimento nell'unico Cristo, il divenire una cosa sola di tutti i comunicandi nella "communio" universale, che unisce cielo e terra, vivi e morti, passato, presente e futuro e apre all'eternità. L'Eucaristia non nasce dalla Chiesa locale e non finisce in essa. Essa manifesta continuamente che Cristo dall'esterno attraverso le nostre porte chiuse viene a noi; essa viene continuamente a noi a partire dall'esterno, dal totale, unico corpo di Cristo e ci conduce entro di esso. Questo "extra nos" del Sacramento si rivela anche nel ministero del vescovo e del presbitero:  che l'eucaristia abbia bisogno del sacramento del servizio sacerdotale, ha il suo fondamento esattamente nel fatto che la comunità non può darsi essa stessa l'eucaristia; essa deve riceverla a partire dal Signore per mezzo della mediazione dell'unica Chiesa.

La successione apostolica, che costituisce il ministero sacerdotale, implica allo stesso tempo l'aspetto sincronico come quello diacronico del concetto di Chiesa:  l'appartenere all'insieme della storia della fede a partire dagli apostoli e lo stare in comunione con tutti coloro che si lasciano radunare dal Signore nel suo corpo. La Costituzione sulla Chiesa ha notoriamente trattato il ministero episcopale nel terzo capitolo e chiarito il suo significato a partire dal concetto fondamentale del "collegium". Questo concetto che appare solo in modo marginale nella tradizione serve a illustrare l'interiore unità del ministero episcopale. Vescovo non si è come singoli, ma attraverso l'appartenenza ad un corpo, ad un collegio, che a sua volta rappresenta la continuità storica del "collegium apostolorum". In questo senso il ministero episcopale deriva dall'unica Chiesa e introduce in essa. Proprio qui diviene visibile che non esiste teologicamente alcuna contrapposizione fra Chiesa locale e Chiesa universale.

Il Vescovo rappresenta nella Chiesa locale l'unica Chiesa, ed egli edifica l'unica Chiesa, mentre edifica la Chiesa locale e risveglia i suoi doni particolari per l'utilità di tutto quanto il corpo. Il ministero del successore di Pietro è un caso particolare del ministero episcopale e connesso in modo particolare con la responsabilità per l'unità di tutta quanta la Chiesa. Ma questo ministero di Pietro e la sua responsabilità non potrebbero neppure esistere, se non esistesse innanzitutto la Chiesa universale. Si muoverebbe infatti nel vuoto e rappresenterebbe una pretesa assurda. Senza dubbio la retta correlazione di episcopato e primato dovette essere continuamente riscoperta anche attraverso fatica e sofferenze. Ma questa ricerca è impostata in modo corretto solo quando viene considerata a partire dal primato  della  specifica  missione  della  Chiesa  e  ad  esso  in ogni tempo orientata e subordinata:  il compito cioè di portare Dio agli uomini, gli uomini a Dio. Lo scopo della Chiesa è il Vangelo, e attorno ad esso tutto in lei deve ruotare.

Vorrei a questo punto interrompere l'analisi del concetto di "communio" e prendere ancora posizione almeno brevemente nei confronti del punto più discusso di "Lumen gentium":  il significato della già menzionata frase di "Lumen gentium" 8, secondo cui l'unica Chiesa di Cristo, che confessiamo nel Simbolo come l'unica, santa, cattolica ed apostolica, "sussiste" nella Chiesa cattolica, che è guidata da Pietro e dai vescovi in comunione con lui.

La Congregazione per la Dottrina della Fede si vide obbligata nel 1985 a prendere posizione nei confronti di questo testo molto discusso a motivo di un libro di Leonardo Boff, nel quale l'autore sosteneva la tesi, secondo cui l'unica Chiesa di Cristo come sussiste nella Cattolico-romana, così sussisterebbe anche in altre Chiese cristiane. Superfluo dire che il pronunciamento della Congregazione per la Dottrina della Fede fu sopraffatto da critiche pungenti e poi messo da parte. Nel tentativo di riflettere su dove oggi siamo nella recezione dell'ecclesiologia conciliare, la questione dell'interpretazione del "subsistit" è inevitabile, ed al riguardo l'unico pronunciamento ufficiale del Magistero dopo il Concilio su questa parola, cioè la menzionata Notificazione, non può essere trascurato.

A distanza di 15 anni emerge con più chiarezza, di quanto non fosse allora, che non si trattava qui tanto di un singolo autore teologico, ma di una visione di Chiesa che circola con diverse variazioni e che anche oggi è molto attuale. La chiarificazione del 1985 ha presentato estesamente il contesto della tesi di Boff già brevemente riferita. Questi particolari non è necessario che li approfondiamo ulteriormente, perché ci sta a cuore qualcosa di più fondamentale. La tesi, il cui rappresentante allora è stato Boff, si potrebbe caratterizzare come relativismo ecclesiologico. Essa trova la sua giustificazione nella teoria secondo cui il "Gesù storico" di per sé non avrebbe pensato ad una Chiesa, tanto meno quindi l'avrebbe fondata. La Chiesa come realtà storica sarebbe sorta solo dopo la resurrezione, nel processo di perdita di tensione escatologica, a motivo delle inevitabili necessità sociologiche dell'istituzionalizzazione, ed all'inizio non sarebbe neppure esistita una Chiesa universale "cattolica", ma solo diverse Chiese locali con diverse teologie, diversi ministeri ecc..

Nessuna Chiesa istituzionale potrebbe quindi affermare di essere quell'una Chiesa di Gesù Cristo voluta da Dio stesso; tutte le configurazioni istituzionali sono quindi nate da necessità sociologiche e pertanto come tali sono tutte costruzioni umane, che si possono o addirittura si devono anche nuovamente radicalmente mutare in nuove circostanze. Nella loro qualità teologica si differenziano in modo molto secondario, e pertanto si potrebbe dire che in tutte o in ogni caso almeno in molte sussiste l'"unica Chiesa di Cristo" - a proposito della quale ipotesi sorge naturalmente la domanda con che diritto in una tale visione si possa semplicemente parlare di un'unica Chiesa di Cristo.

La tradizione cattolica invece ha scelto un altro punto di partenza:  essa fa fiducia agli evangelisti, crede ad essi. Allora risulta evidente che Gesù, il quale annunciò il regno di Dio, per la sua realizzazione radunò attorno a sé dei discepoli; egli donò loro non solo la sua parola come nuova interpretazione dell'Antico Testamento, ma nel sacramento dell'ultima cena fece loro dono di un nuovo centro unificante, per mezzo del quale tutti coloro che si confessano cristiani, in un modo totalmente nuovo divengono una cosa sola con lui - tanto che Paolo poté designare questa comunione come l'essere un solo corpo con Cristo, come l'unità di un solo corpo nello Spirito. Allora risulta evidente che la promessa dello Spirito Santo non era un vago annuncio, ma intendeva la realtà di Pentecoste - il fatto dunque che la Chiesa non fu pensata e fatta da uomini, ma fu creata per mezzo dello Spirito, è e rimane creatura dello Spirito Santo.

Allora però istituzione e Spirito stanno nella Chiesa in una relazione ben diversa da quella che le menzionate correnti di pensiero vorrebbero suggerirci. Allora l'istituzione non è semplicemente una struttura che si può mutare o demolire a piacere, che non avrebbe niente a che vedere con la realtà della fede come tale. Allora questa forma di corporeità appartiene alla Chiesa stessa. La Chiesa di Cristo non è nascosta in modo inafferrabile dietro le molteplici configurazioni umane, ma esiste realmente, come Chiesa vera e propria, che si manifesta nella professione di fede, nei sacramenti e nella successione apostolica.

Il Vaticano II con la formula del "subsistit" - conformemente alla tradizione cattolica - voleva quindi dire esattamente il contrario del "relativismo ecclesiologico":  la Chiesa di Gesù Cristo esiste realmente. Egli stesso l'ha voluta, e lo Spirito Santo la crea continuamente a partire  dalla  Pentecoste  pur  di  fronte ad ogni  fallimento  umano  e  la  sostiene nella sua identità essenziale. L'istituzione non è una inevitabile, ma teologicamente irrilevante o addirittura dannosa esteriorità, ma appartiene nel suo nucleo essenziale alla concretezza dell'incarnazione. Il Signore mantiene la sua parola:  "Le porte dell'inferno non prevarranno contro di essa".

A questo punto diviene necessario indagare un po' più accuratamente circa la parola "subsistit". Il Concilio si differenzia con questa espressione dalla formula di Pio XII, che nella sua Enciclica "Mystici Corporis Christi" aveva detto:  la Chiesa cattolica "è" (est) l'unico corpo mistico di Cristo. Nella differenza fra "subsistit" e "est" si nasconde tutto quanto il problema ecumenico. La parola subsistit deriva dall'antica filosofia ulteriormente sviluppatasi nella scolastica. Ad essa corrisponde la parola greca "hypostasis", che nella cristologia ha un ruolo centrale, per descrivere l'unione di natura divina ed umana nella persona di Cristo. "Subsistere" è un caso speciale di "esse". È l'essere nella forma di un soggetto a se stante. Qui si tratta proprio di questo. Il Concilio vuol dirci che la Chiesa di Gesù Cristo come soggetto concreto in questo mondo può essere incontrata nella Chiesa cattolica.

Ciò può avvenire solo una volta e la concezione secondo cui il Subsistit sarebbe da moltiplicare non coglie proprio ciò che si intendeva dire. Con la parola subsistit il Concilio voleva esprimere la singolarità e la non moltiplicabilità della Chiesa cattolica:  esiste la Chiesa come soggetto nella realtà storica.

La differenza fra subsistit e est rinchiude però il dramma della divisione ecclesiale. Benché la Chiesa sia soltanto una e sussista in un unico soggetto, anche al di fuori di questo soggetto esistono realtà ecclesiali - vere Chiese locali e diverse comunità ecclesiali. Poiché il peccato è una contraddizione, questa differenza fra subsistit ed est non si può ultimamente dal punto di vista logico pienamente risolvere. Nel paradosso della differenza fra singolarità e concretezza della Chiesa da una parte e esistenza di una realtà ecclesiale al di fuori dell'unico soggetto dall'altra si rispecchia la contraddittorietà del peccato umano, la contraddittorietà della divisione. Tale divisione è qualcosa di totalmente altro dalla sopra descritta dialettica relativistica, nella quale la divisione dei cristiani perde il suo aspetto doloroso ed in realtà non è una frattura, ma solo il manifestarsi delle molteplici variazioni di un unico tema, nel quale tutte le variazioni in qualche modo hanno ragione ed in qualche modo non ce l'hanno. Una necessità intrinseca per la ricerca dell'unità in realtà allora non esiste, perché in verità comunque l'unica Chiesa è ovunque e da nessuna parte. Il cristianesimo quindi in realtà esisterebbe solo nella dialettica correlazione di variazioni contrapposte. L'ecumenismo consiste nel fatto che tutti in qualche modo si riconoscono reciprocamente, perché tutti sarebbero solo frammenti della realtà cristiana. L'ecumenismo sarebbe quindi il rassegnarsi ad una dialettica relativistica, perché il Gesù storico appartiene al passato e la verità rimane comunque nascosta.

La visione del Concilio è tutt'altra:  che nella Chiesa cattolica sia presente il subsistit dell'unico soggetto Chiesa, non è affatto merito dei cattolici, ma solo opera di Dio, che egli fa perdurare malgrado il continuo demerito dei soggetti umani. Essi non possono gloriarsene, ma solo ammirare la fedeltà di Dio vergognandosi dei loro propri peccati e allo stesso tempo pieni di gratitudine. Ma l'effetto dei loro propri peccati si può vedere:  tutto il mondo vede lo spettacolo delle comunità cristiane divise e contrapposte, che rivendicano reciprocamente le loro pretese di verità e così apparentemente vanificano la preghiera di Cristo alla vigilia della sua passione. Mentre la divisione come realtà storica è percepibile ad ognuno, la sussistenza dell'unica Chiesa nella figura concreta della Chiesa cattolica si può percepire come tale solo nella fede.

Poiché il Concilio Vaticano II ha avvertito questo paradosso, proprio per questo ha proclamato come un dovere l'ecumenismo quale ricerca della vera unità e l'ha affidato alla Chiesa del futuro.

Arrivo alla conclusione. Chi vuol comprendere l'orientamento dell'ecclesiologia conciliare, non può tralasciare i capitoli 4-7 della Costituzione, nei quali si parla dei laici, della vocazione universale alla santità, dei religiosi e dell'orientamento escatologico della Chiesa. In questi capitoli torna ancora una volta in primo piano lo scopo intrinseco della Chiesa, ciò che è più essenziale alla sua esistenza:  si tratta cioè della santità, della conformità a Dio - che nel mondo vi sia spazio per Dio, che egli possa abitare in esso e così il mondo divenga il suo "regno". Santità è qualcosa di più che una qualità morale. Essa è il dimorare di Dio con gli uomini, degli uomini con Dio, la "tenda" di Dio fra di noi ed in mezzo a noi (Giov 1, 14). Si tratta della nuova nascita - non da carne e sangue, ma da Dio (Giov 1, 13).

L'orientamento alla santità è identico con l'orientamento escatologico, e di fatto ora esso a partire dal messaggio di Gesù è fondamentale per la Chiesa. La Chiesa esiste, perché divenga dimora di Dio nel mondo e così sia "santità":  per questo si dovrebbe competere nella Chiesa, non su un più o un meno in diritti di precedenza, sull'occupazione dei primi posti. Tutto questo è poi ancora una volta ripreso e sintetizzato nell'ultimo capitolo della Costituzione sulla Chiesa, che tratta della Madre del Signore.

A prima vista l'inserimento della mariologia nell'ecclesiologia, che il Concilio ha intrapreso, potrebbe apparire piuttosto casuale. È vero dal punto di vista storico che di fatto una maggioranza assai ridotta di padri decise per questo inserimento. Ma da un punto di vista più interiore questa decisione corrisponde perfettamente all'orientamento dell'insieme della Costituzione:  solo se si è compresa questa correlazione, si è compresa rettamente l'immagine della Chiesa, che il Concilio voleva tracciare. In questa decisione sono state messe a frutto le ricerche di H. Rahner, A. Müller, R. Laurentin e Karl Delahaye, grazie ai quali mariologia ed ecclesiologia sono state allo stesso tempo rinnovate e approfondite. Soprattutto Hugo Rahner ha mostrato in modo grandioso a partire dalle fonti, che tutta quanta la mariologia è stata pensata e impostata dai padri prima di tutto come ecclesiologia:  la Chiesa è vergine e madre, essa è concepita senza peccato e porta il peso della storia, essa soffre e nondimeno è già ora assunta in cielo.

Molto lentamente si rivela nel corso dello sviluppo successivo che la Chiesa è anticipata in Maria, in Maria è personificata e che viceversa Maria non sta come individuo isolato chiuso in se stesso, ma porta in sé tutto quanto il mistero della Chiesa. La persona non è chiusa individualisticamente e la comunità non è compresa collettivisticamente in modo impersonale; entrambe si sovrappongono l'una all'altra in modo inseparabile. Questo vale già per la donna dell'Apocalisse, così come appare nel capitolo 12:  non è corretto limitare questa figura esclusivamente in modo individualistico a Maria, perché in lei è insieme contemplato tutto quanto il popolo di Dio, l'antico ed il nuovo Israele, che soffre e nella sofferenza è fecondo; ma non è neppure corretto escludere da questa immagine Maria, la madre del Redentore.

Così nella sovrapposizione fra persona e comunità, come la troviamo in questo testo, già è anticipato l'intreccio di Maria e Chiesa, che poi è stato lentamente sviluppato nella teologia dei Padri e finalmente ripreso dal Concilio. Che più tardi entrambe si siano separate, che Maria sia stata vista come un individuo ricolmato di privilegi e perciò da noi infinitamente lontano, la Chiesa a sua volta in modo impersonale e puramente istituzionale, ha danneggiato in eguale misura sia la mariologia che l'ecclesiologia. Operano qui le divisioni, che il pensiero occidentale ha particolarmente attuato e che per altro hanno i loro buoni motivi. Ma se vogliamo comprendere rettamente la Chiesa e Maria, dobbiamo saper ritornare a prima di queste divisioni, per comprendere la natura sovraindividuale della persona e sovraistituzionale della comunità proprio là, ove persona e comunità vengono ricondotte alle loro origini a partire dalla forza del Signore, del nuovo Adamo.

La visione mariana della Chiesa e la visione ecclesiale, storicosalvifica di Maria ci riconducono ultimamente a Cristo e al Dio trinitario, perché qui si manifesta ciò che significa santità, cosa è la dimora di Dio nell'uomo e nel mondo, cosa dobbiamo intendere con tensione "escatologica" della Chiesa. Così solo il capitolo di Maria porta a compimento l'ecclesiologia conciliare e ci riporta al suo punto di partenza cristologico e trinitario.

Per dare un assaggio della teologia dei Padri, vorrei a conclusione proporre un testo di sant'Ambrogio, scelto da Hugo Rahner:  "Così dunque state saldi sul terreno del vostro cuore!... Che cosa significa stare, l'apostolo ce lo ha insegnato, Mosè lo ha scritto:  "Il luogo, sul quale tu stai, è terra santa". Nessuno sta, se non colui che sta saldo nella fede... ed ancora una parola sta scritta:  "Tu però sta saldo con me". Tu stai saldo con me, se tu stai nella Chiesa. La Chiesa è la terra santa, sulla quale noi dobbiamo stare... Sta dunque saldo, sta nella Chiesa. Sta saldo colà, ove io ti voglio apparire, là io resto presso di te. Ove è la Chiesa, là è il luogo saldo del tuo cuore. Sulla Chiesa si appoggiano i fondamenti della tua anima. Infatti nella Chiesa io ti sono apparso come una volta nel roveto ardente. Il roveto sei tu, io sono il fuoco. Fuoco nel roveto io sono nella tua carne. Fuoco io sono, per illuminarti; per bruciare le spine dei tuoi peccati, per donarti il favore della mia grazia".

Card. JOSEPH RATZINGER 
Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede


[Modificato da Caterina63 07/01/2018 20:01]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)