00 26/04/2017 09:48


  CHIESA - QUEI CONTI CHE NON TORNANO

 




Il documento preparatorio al prossimo Sinodo considera soltanto i giovani "lontani" per i quali la Chiesa deve cambiare linguaggio e modo di presentarsi. 
Totalmente assenti invece quelli che col linguaggio della Chiesa non hanno problemi, magari amano la messa in latino e la tradizione. L'intento è chiaro: questi giovani non devono esistere.

di padre Riccardo Barile OP

Giovani e pregheira

Si sta avviando la macchina del prossimo Sinodo sui giovani previsto nell’ottobre 2018 con il Documento preparatorio “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”, presentato da una breve lettera di Papa Francesco in data 13 gennaio 2017 e concluso da un questionario in vista della successiva redazione del Documento di lavoro o Instrumentum laboris.

I commenti e gli approfondimenti - non molti, perché il dibattito è ancora monopolizzato dal Sinodo trascorso e dall’Amoris Laetitia - si portano, come è normale, su quanto il documento dice, cioè su quello che c’è. E da questo punto di vista nulla da eccepire. Pur non tracciando «un’analisi completa della società e del mondo giovanile», si evidenziano delle difficoltà, ma soprattutto la positività dei giovani «che sanno scorgere quei segni del nostro tempo che lo Spirito addita ... alternative che mostrano come il mondo o la Chiesa potrebbero essere».

Così come è valido e costruente il discorso che si snoda a partire da “Fede e vocazione” da far maturare attraverso “Il dono del discernimento” (riconoscere, interpretare, scegliere) e nel contesto della missione e dell’accompagnamento spirituale (l’ultima espressione è una moderna furbizia per evitare la “direzione spirituale”).

Ma se si passa a quanto il documento non dice, cioè a quello che non c’è, qui casca l’asino. Quale è infatti l’immagine di giovane che il documento ha presente e in funzione del quale si auspicano attenzioni e risposte dalla Chiesa? A parte i «giovani poveri, emarginati ed esclusi» verso i quali «ciascuna comunità è chiamata ad avere attenzione», i giovani sono quelli che parlano un’altra lingua: «Ci accorgiamo che tra il linguaggio ecclesiale e quello dei giovani si apre uno spazio difficile da colmare». E non si tratta solo di linguaggio: i giovani nutrono spesso «sfiducia (...) verso le istituzioni», compresa «la Chiesa nel suo aspetto istituzionale», che i giovani vorrebbero «più vicina alla gente». Ne segue che per la Chiesa «accompagnare i giovani richiede di uscire dai propri schemi preconfezionati, incontrandoli dove sono, adeguandosi ai loro tempi e ai loro ritmi» (e non si tratta solo di orari!). Anzi, visto che i giovani sono questi, la stessa pastorale vocazionale è invitata ad «uscire (...) da quelle rigidità che rendono meno credibile l’annuncio della gioia del Vangelo, dagli schemi in cui le persone si sentono incasellate e da un modo di essere Chiesa che a volte risulta anacronistico».

Frase più, frase meno, tutto è girato e rigirato in queste categorie.

Ora, è vero che ci sono questi giovani
 e che in assoluto sono anche la schiacciante maggioranza, ma tra i giovani - quei pochi - che si rivolgono alla Chiesa sembrano essercene di molto, molto diversi. Sono giovani che non hanno difficoltà verso il linguaggio della Chiesa, anzi desiderano apprenderlo e vi trovano sicurezza; frequentano la Messa e alla comunione cercano di ricevere l’ostia in bocca e qualcuno, se glielo permettono, si inginocchia; dicono il Rosario e altri la coroncina della Divina Misericordia; se hanno rapporti prematrimoniali o anche solo se hanno praticato una masturbazione, vengono a confessarsi, ritenendo di non potersi accostare all’Eucaristia. 


Se sono seminaristi sono attenti a presentarsi con un segno di riconoscimento che va dalla talare a un altro segno meno vistoso ma percepibile; non si scompongono se si cita loro il Denzinger o un discorso di Pio XII; non praticano la liturgia preconciliare ma prendono volentieri parte a una Messa in latino; hanno ripreso ad apprezzare l’adorazione eucaristica; non sono entusiasti di andare a sentire alcuni “mostri sacri” teologici e monastici del postconcilio invitati a parlare loro, ma ci vanno restando come in apnea (al riguardo ho in mente due nomi di mostri sacri e due eventi di questo tipo, ma mi autocensuro dal citarli con esattezza... devo pur vivere!).

E questi sono quelli “normali”. Ci sono poi i fans della Messa preconciliare, ci sono poi i lefevriani come frangia estrema. E chi vuole vada a cercarsi e si guardi il filmato “Sacerdoti per il terzo millennio” realizzato da un seminario lefevriano tedesco e doppiato in italiano quasi senza gregoriano di sottofondo e senza stucchevoli “voci da prete”: ci si sente allargare il cuore alla vista di tanta abbondanza e tanta gioiosa serietà, scelte rituali a parte sulle quali non mi fermo per non allungare.

Dunque a fronte di questi giovani non è il caso di inventare linguaggi nuovi, uscire dagli schemi, abbattere rigidità - ma ci sono veramente? - ecc.

E invece quale è l’opzione del nostro Documento? Il silenzio: questi giovani non ci sono. Ma siccome il fenomeno ha una sua diffusione e preoccupa con diversa intensità alcuni vescovi, rettori di seminari, superiori e formatori religiosi ecc., non si può pensare che si tratti di una dimenticanza dell’estensore. Per cui la vera scelta verso costoro non è: «Silenzio: non esistono»; ma: «Silenzio: Non devono esistere».

Il che pone un sinistro sospetto su quelle tante aperture all’ascolto e all’accoglienza della voce dello Spirito che risuona nei giovani: sì, purché la voce dello Spirito e financo le critiche e le contestazioni vadano in una precisa direzione... nella quale è possibile anche “hacer lio / fare casino”; in direzioni più tradizionali, no.

E non ci si limita al silenzio, ma spesso, di fronte ad una vocazione del genere, si lascia trasparire una sofferenza interiore tipo: “Aspettavamo una vocazione di centro sinistra o comunque progressista... invece sei arrivato tu... un animale così strano di fronte al giovane dei documenti... anche se, è vero, sei (iper)connesso... comunque sii il benvenuto... c’est la vie!”. Tralascio per ora che cosa succede o può succedere dopo, per non girare il ferro nella piaga.

Il discorso ha però una sua serietà con alcune piste di considerazioni che mi limito ad enunciare senza svilupparle:

- questi giovani per lo più non rifiutano il Vaticano II ma l’applicazione concreta che ne è venuta dopo e spesso non tanto a livello di documenti, ma di prassi;

- a differenza dei giovani del postconcilio cresciuti in un clima un poco più clericale ed ecclesiastico del dovuto e quindi ansiosi di declericalizzare e secolarizzare, questi giovani sono cresciuti in una società secolarizzata e cercano una esperienza cristiana forte;

- cercare sicurezze è un atteggiamento sano e non da immaturi;

- le conseguenze del peccato originale toccano tutti, dal Pontefice Romano in giù, per cui bisogna stare attenti a non attribuire tutti i difetti di questi giovani alla loro scelta di Chiesa, ma alla normale debolezza umana;

- e poi i frutti: chi li accoglie accettando veramente le loro istanze in quello che hanno di azione dello Spirito - chiaro che deve viverle lui per primo - potrà certo raddrizzare dei difetti, ma soprattutto sperimenterà la fecondità e la bellezza della vita cristiana tradizionale, che è moderna;

- chi li rifiuta dicendo (assicuro che la frase è stata detta) “Piuttosto di avere vocazioni così è meglio non averne”, rischia di essere esaudito dal Signore, ma a suo danno.

Minima e ulteriore conferma: in data 8 dicembre 2016 è uscita la nuova “Ratio fundamentalis” per la formazione dei seminaristi sino al sacerdozio e oltre con la formazione permanente. È un documento molto ben strutturato e si dicono cose sagge sul Catechismo della Chiesa cattolica, sulla filosofia, sul giusto uso dei media, sulla serietà degli studi, sulla preghiera ecc.

Quando però si fanno delle critiche o si mette in guardia contro qualcosa, si mette in guardia contro il clericalismo, i princìpi astratti, la sicurezza dottrinale e spirituale, le certezze precostituite, la cura ostentata dalla liturgia ecc. (cf nn. 33, 41-42; 120). Mai una volta la messa in guardia dal pericolo di deviare dalla sana e buona dottrina scegliendosi maestri a piacere. No, quelle erano preoccupazioni di san Paolo (1Tm 1,10; 4,6; Tt 1,9; 2,1.7; 2Tm 4,3) e di certi giovani di oggi, “gente a cui si fa notte innanzi sera” (Petrarca, Trionfo della Morte I,39). Oggi sulla dottrina e sulla buona liturgia possiamo rimanere tranquilli e non è il caso di segnalare pericoli e fomentare tendenze pericolose tra i seminaristi.

Ma non sarà invece che si scrivono queste cose e se ne tacciono altre solo perché “è di moda”? Una canzoncina del 1800 che si usava nelle missioni popolari per correggere i costumi ad un certo punto faceva: «E mode non più; / chi segue le mode / non segue Gesù». Nessun dubbio che allora riguardasse gli abiti femminili: che oggi per caso non riguardi anche i Documenti?







 

Lo ammettono. E' l'enciclica di san Giovanni Paolo II il vero "nemico" e la grande imputata colpevole di aver bloccato la teologia morale. Lo sostiene un fuoco incrociato di teologi à la page con in testa Andrea Grillo. "Veritatis splendor "sbaglia sugli assoluti morali e il rifiuto di un'etica della situazione e perchè è un pronunciamento magisteriale sulla materia morale, che si vuole sganciata dalla Rivelazione. Amoris Laetitia interverrebbe per sanare la frattura". Ma le cose non stanno così perchè contraddirla significa intaccare l'unità della Chiesa. 

di Lorenzo Bertocchi

Dopo il convegno “A un anno da Amoris laetitia. Fare chiarezza”, organizzato a Roma da La Nuova Bussola Quotidiana e dal mensile di apologetica Il Timone, c'è un fatto nuovo e interessante che si inserisce nel dibattito posto dai dubia che quattro cardinali hanno rivolto al pontefice sulle parti ritenute ambigue dell'esortazione apostolica. Un fatto e una domanda. Che meritano di essere conosciuti.

L'ANTEFATTO

Nel settembre 2014 il vescovo di Anversa, Johan Bonny, scrisse una lunga lettera indirizzata ai padri che stavano per riunirsi a Roma in vista del primo round del doppio sinodo sulla famiglia, l'assemblea straordinaria, a cui seguirà poi quella ordinaria del 2015. Il nocciolo di quella lunga missiva era contenuto in poche righe. Queste: «Dopo l'Humanae Vitae e la Familiaris Consortio, la dottrina della Chiesa Cattolica si è trovata legata quasi esclusivamente ad una determinata scuola di teologia morale, costruita su una propria interpretazione della legge naturale».

Occorreva, secondo Bonny, riaprire la porta a quella teologia morale capace di riconoscere «ciò che è umanamente possibile quando ci si trova in circostanze fragili e complesse». Una porta che, sempre secondo Bonny, era stata “marginalizzata” non da un magistero, come ad esempio quello dell'enciclica Veritatis splendor, ma, sostiene il presule, da “uno sviluppo politico ecclesiale”.

IL FATTO

Ma qual è il fatto nuovo che sembra emergere sempre più chiaro nel dibattito sull'Amoris laetitia? Lo scrivono nero su bianco i due curatori di un autorevole volume, Amoris laetitia: un punto di svolta per la teologia morale? (edizioni San Paolo), che nella domanda del titolo contiene già un indizio di questo nuovo elemento.

Il fatto è che l'enciclica di san Giovanni Paolo II Veritatis splendor sarebbe la grande imputata per aver bloccato la teologia morale cattolica (e quindi tutta una serie di questioni legate alla sessualità, alla contraccezione, etc.), dietro a una visione ritenuta unilaterale. Il problema, secondo Stephan Goertz e Antonio Autiero, i curatori del libro presentato giovedì scorso alla Gregoriana, è dato dall'idea «complessiva che con Familiaris consortio e Veritatis splendor sia stata codificata una dottrina completamente inattaccabile dal punto di vista della teologia morale, una dottrina che si basa solidamente sulla sacra Scrittura e sulla tradizione, una dottrina non più bisognosa di ulteriori sviluppi, ha portato a dei blocchi di pensiero e di azione nella chiesa cattolica. Con Amoris laetitia, papa Francesco si propone di offrire uno spunto a continuare nella ricerca, anche in questo campo».

Sulla stessa lunghezza d'onda il professore Andrea Grillo, insegnante al Pontificio Ateneo Sant'Anselmo, che ha parlato di “massimalismo morale” nel caso di Veritatis splendor. Anzi, secondo Grillo la rottura con la tradizione l'avrebbe operata proprio l'enciclica di Giovanni Paolo II e ora Amoris laetitia, semplicemente, avrebbe rimesso le cose al loro posto. «La discontinuità», ha scritto sul suo blog Come se non, «era stata introdotta da alcuni documenti del XX secolo – che vanno da Casti Connubii, a Humanae Vitae a Veritatis Splendor – i quali avevano introdotto un “massimalismo morale” del tutto inedito fino ad allora, con una grande forzatura nella lettura delle fonti tradizionali, e rispetto a cui Amoris Laetitia opera un vero e proprio atto di “riconciliazione con la tradizione”».

Che il problema fosse proprio Veritatis splendor, con i suoi chiari riferimenti agli assoluti morali, al rifiuto di una coscienza creativa e di un'etica della situazione, lo ha ribadito anche il redentorista Marcelo Vidal all'Università di Salamanca, durante un recente incontro introdotto dal cardinale di Madrid Carlos Osoro. «Amoris laetitia», avrebbe detto Vidal, come riporta Infocatolica, «è contro Veritatis splendor, vale a dire un testo che abbiamo voluto come risarcimento di quella [enciclica] che ha fermato il rinnovamento della Teologia morale del Vaticano II».

Parole che sanno tanto di rivincita in bocca a Vidal, visto che il redentorista fu “ripreso” dalla congregazione per la Dottrina della fede nel 2001 (vedi QUI), proprio in riferimento a tre suoi libri sull'insegnamento della teologia morale. La “Notificazione” firmata dal prefetto cardinale Ratzinger indicava, tra l'altro, che «consequenziale al modello morale assunto [nei libri di Vidal, nda] è l’attribuzione di un ruolo insufficiente alla Tradizione e al Magistero morale della Chiesa, che vengono filtrati attraverso le frequenti «opzioni» e «preferenze» dell’Autore. Dal commento all’Enciclica Veritatis splendor, in modo particolare, si evince la concezione manchevole della competenza morale del Magistero ecclesiastico». Sul finale poi si legge un passo significativo: «con questa Notificazione, [la congregazione della Dottrina della fede] desidera anche incoraggiare i teologi moralisti a proseguire il cammino di rinnovamento della teologia morale, in particolare nell’approfondimento della morale fondamentale e nell’uso rigoroso del metodo teologico-morale, secondo gli insegnamenti dell’Enciclica Veritatis splendor e con il vero senso di responsabilità ecclesiale».

LA DOMANDA

Se le cose stanno come sostengono il vescovo Bonny, i curatori di un importante libro, il professor Grillo e il redentorista Vidal, viene spontaneo chiedersi quale possa essere stato in quasi venticinque anni il dovuto “ossequio della volontà e dell'intelletto” al magistero autentico rappresentato da Veritatis splendor. Ma non è questa la domanda principale che si propone.

Leggendo le “Osservazioni” della congregazione per la Dottrina della fede a di un libro in lingua tedesca, “Teologia morale fuorigioco? Risposta alla enciclica Veritatis splendor”, è possibile comprendere la portata delle questioni che si sollevano. Tali “osservazioni” furono pubblicate sull'Osservatore romano del 2 febbraio 1996. 

Secondo gli autori di quel testo in lingua tedesca, «la Veritatis splendor sbaglia non solo perché critica delle teorie morali che, a loro avviso, rispondono alla verità, ma soprattutto perché intende essere un pronunciamento magisteriale su una materia - la morale normativa - che di per sé non rientrerebbe nelle competenze del magistero della chiesa, dato che su di essa non esisterebbe un concreto insegnamento specifico nella Rivelazione né sarebbe esistita, almeno fino a questo momento, una dottrina cattolica definita. (…) Conseguentemente alcuni autori sono convinti di poter rendere la "Veritatis splendor" oggetto di una "quaestio disputata", e si sentono autorizzati a favorire il dissenso pubblico da un pronunciamento del magistero ordinario del romano pontefice».

La questione comincia a emergere, e riguarda nello specifico il fatto che Veritatis splendor possa effettivamente essere derubricata a mero “sviluppo politico ecclesiale” rispetto al pluralismo della teologia morale, come ha scritto il vescovo Bonny, oppure a espressione unilaterale di un “massimalismo morale”, come dice, invece, il professore Andrea Grillo; o come un'enciclica che ha “portato a dei blocchi di pensiero” come hanno scritto gli autorevolissimi Stephan Goertz e Antonio Autiero nella post fazione al testo presentato il 4 maggio alla Gregoriana.

Ma quanto spazio ha avuto nella Chiesa questa interpretazione di Veritatis splendor? Quanti i pastori, i teologi e i sacerdoti, che sono andati per la loro strada indipendentemente dall’insegnamento di quell’enciclica? E' questo un esempio di “pluriformità” della Chiesa?

La risposta a queste domande deve tener conto della conclusione di quell’ “Osservazione” pubblicata sull'Osservatore romano nel 1996:

«Come ha ricordato recentemente Giovanni Paolo II (…): “Nelle encicliche Veritatis splendor ed Evangelium vitae, così come nella lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis, ho voluto riproporre la dottrina costante della fede della chiesa, con un atto di conferma di verità chiaramente attestate dalla Scrittura, dalla tradizione apostolica e dall'insegnamento unanime dei pastori. Tali dichiarazioni, in virtù dell'autorità trasmessa al successore di Pietro di "confermare i fratelli" (Lc 22,32), esprimono quindi la comune certezza presente nella vita e nell'insegnamento della chiesa” (Discorso alla sessione plenaria della Congregazione per la dottrina della fede, 24.11.1995, nn. 5-6). «A nessuno sfugge», chiosava la congregazione per la Dottrina della fede, «che contestare in linea di principio il ruolo del magistero della chiesa espresso in queste parole, (...), non costituisce un problema semplicemente disciplinare, bensì intacca profondamente l'unità e l'identità della Parola sulla quale è fondata la chiesa». 

 

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SAN PAOLO RISPONDE AI DUBIA E METTE IN CHIARO LA FONTE: «AGLI SPOSATI ORDINO, NON IO, MA IL SIGNORE...»

L'inciso "in caso di unione illeggitima" a proposito dell'indissolubilità del matrimonio non è una corbelleria bella e buona, ma è la giusta traduzione

Quesito

Caro Padre Angelo,
ti scrivo perché ogni tanto non capisco come mai la traduzione del Vangelo cambi. La ratio sarebbe per facilitare la lettura ed avvicinarla alla lingua parlata corrente, ma così non mi pare. Il Vangelo di questa sera parla del ripudio della moglie, che non deve essere esercitato per non esporre la moglie ad adulterio.
A parte che si parla sempre dell’indissolubilità del matrimonio e si omette il caso di porneia, che evidentemente richiederebbe il ripudio,  giustificato da Gesù stesso. 
In questo caso porneia è traducibile con fornicazione, per intendersi tradimento, atti sessuali con altro uomo o donna, che non sia il legittimo consorte. Tutto ciò viene sempre sorvolato e non ne ho mai sentito trattare da nessun sacerdote durante l’omelia. Capisco che si intenda glissare, perché altrimenti tutti i matrimoni decadrebbero all’istante, ma non mi sembra corretto alterare la scrittura in modo così marcato. 
Nel  foglietto che ho trovato in Chiesa questa sera si è tradotto porneia con unione illegale!!!!!! Ma questa è una corbelleria bella e buona, notare che subito dopo Gesù dice: dite si al si e no al no, tutto il resto viene dal maligno!
Perché non si dicono le cose come stanno? 
Perché non si dice la verità e la si nasconde con giravolte linguistiche?
Tutto ciò altro non fa che alimentare la tesi che la Chiesa abbia manipolato nei secoli la Parola di Gesù a suo uso e consumo. Che ne dici?
“Io invece vi dico che chiunque ripudia la propria donna (= moglie), ad eccezione del caso di fornicazione (in greco: porneia), fa sì che essa sia adultera e chi sposa una donna ripudiata, commette adulterio” (Mt 5,32). 
Eugenio


Risposta del sacerdote

Caro Eugenio,
1. secondo il Vangelo di Matteo Gcsù viene interrogato da alcuni Farisei sull'argomento
del matrimonio. 
I moralisti di quel tempo si dividevano in due scuole riguardo al divorzio.

Alcuni, che appartenevano alla scuola di Hillel, lo consideravano possibile per numerosi e
svariati motivi... 
A questi liberali si opponevano i discepoli di Shammai che lo permettevano
soltanto in caso di condotta immorale o di adulterio della moglie. 
I Farisei che interrogano
Gesù sembrano essere della scuola più rigorosa, quella di Shammai. 
Essi si scandalizzavano per il fatto che Gesù mangiasse con i pubblicani e i peccatori e anche perché nel suo insegnamento presentava una concezione meno rigorista della loro sul riposo del sabato.
Proprio per questo erano portati a pensare che Gesù si schierasse da parte dell’altra scuola.

2. Lo interrogarono dunque chiedendo: “È lecito a un uomo ripudiare la propria moglie per qualsiasi motivo?” (Mt 19,3).
Gesù non si lascia prendere nel tranello facendo proprie le opinioni degli uni o degli altri, ma dà una risposta che esclude il divorzio: “Ora io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie - salvo il caso di
porneia - e ne sposa un'altra, commette adulterio” (Mt 19,9).

3. L'inciso di Matteo - salvo il caso di porneia - ha fatto pensare ad  alcuni che Gesù concedesse il divorzio in caso di adulterio e la possibilità per il coniuge leso di risposarsi. 
Ma se questo fosse stato il pensiero di Gesù, si sarebbe schierato dalla parte della scuola di Smammai, mentre chiaramente Gesù si pone al di sopra delle parti.
Inoltre i discepoli con la loro reazione: “Se tale è la
condizione dell'uomo verso la donna, non conviene sposarsi” (Mt 19,10), fanno intendere che hanno capito in senso assoluto l'insegnamento di Gesù, e non nel senso di Shammai perché altrimenti non si sarebbero stupiti.

4. Ma che cos’è questa porneia?
Certamente non si tratta di adulterio, perché in greco l’adulterio o il tradimento coniugale vengono indicato con un termine proprio: “moicheia”.
La traduzione della CEI del 1974 aveva tradotto: “eccetto in caso di concubinato”.
L’attuale (del 2008) traduce: “in caso di unione illegittima”.
L’attuale “in caso di unione illegittima” rende meglio l’idea e fa capire che si tratta di un falso matrimonio.
La traduzione precedente diceva “concubinato” e il concubinato non è un vero matrimonio, ma un falso matrimonio.
In sostanza dunque non cambia nulla. L’espressione “unione illegittima” è più intelligibile di quella di concubinato.

5. Per comprendere bene questo inciso è opportuno notare anche che né Marco né Luca ne fanno menzione e non danno alcuna possibilità di divorzio: “Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio verso di lei; se lei, ripudiato il marito, ne sposa un altro, commette adulterio” (Mc 19,11-12); oppure ancora: “Chiunque ripudia la propria moglie e ne sposa un'altra, commette adulterio; chi sposa una donna ripudiata dal marito, commette adulterio” (Lc 16,18).

6. Va ricordato anche che sempre nel Vangelo di Matteo, nel contesto del discorso della montagna, Gesù esclude in ogni caso un secondo matrimonio per i divorziati: “Ma io vi dico: chiunque ripudia la propria moglie, eccetto il caso di porneia (unione illegittima), la espone all'adulterio, e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio” (Mt
5, 32).
Questa dottrina è ripresa da san Paolo quando dice: “La donna sposata, infatti, per legge è legata al marito finché egli vive; ma se il marito muore, è liberata dalla legge che la lega al marito. Ella sarà dunque considerata adultera se passa a un altro uomo mentre il marito vive; ma se il marito muore ella è libera dalla legge, tanto che non è più adultera se passa a un altro uomo” (Rm 7,2-3) e “Agli sposati ordino, non io, ma il Signore: la moglie non si separi dal marito - e qualora si separi, rimanga senza sposarsi o si riconcili con il marito - e il marito non ripudi la moglie” (1 Cor 7,10-11).

7. Da questi diversi testi emerge la seguente dottrina: 

1- il matrimonio è indissolubile; 
2- chi ripudia la moglie la espone a diventare adultera, e di ciò diviene colpevole; 
3- e se ne sposaun'altra commette adulterio; 
4- in caso di infedeltà della moglie, l'uomo dandole il libello del ripudio non l'esporrà all'adulterio, e quindi non ne sarà colpevole, poiché l'adulterio è già stato commesso, ma egli non potrà risposarsi, come neanche la moglie ripudiata, senza commettere adulterio.

8. Tu dici: “porneia è traducibile con fornicazione, per intendersi tradimento, atti sessuali con altro uomo o donna, che non sia il legittimo consorte”.
Dici bene, ma solo in parte. 
Si può tradurre, sì, con fornicazione. Ma che cos’è la fornicazione?
Per fornicazione s’intende il rapporto sessuale tra due persone che non sono sposate.
Il concubinato è uno stato di fornicazione permanente.
È un’unione, sì, ma è un’unione illegittima perché le persone non sono sposate.

9. Tu non commetti un errore quando scrivi: “porneia è traducibile con fornicazione”, ma lo commetti quando scrivi: “per intendersi tradimento”.
No, la fornicazione non è la stessa cosa che un tradimento. Il tradimento è nel genere dell’adulterio, è un venir meno alla fedeltà coniugale.

10. Allora se vuoi tradurre “fornicazione”, puoi farlo.
Ma devi intendere per fornicazione quello che questa parola significa, senza confonderla con l’adulterio.
La CEI avrebbe potuto tradurre “fornicazione”, ma subito tanti sarebbero caduti nell’errore in cui involontariamente sei caduto anche tu: di intenderla per adulterio.
“Fornicazione”, “unione illegittima”, “falso matrimonio”, “concubinato” si equivalgono.

Ecco, come vedi la Chiesa non manipola i testi sacri. Sa che sono parola di Dio. Come potrebbe permetterselo?
Ti ringrazio comunque del quesito che sarà servito per chiarire a molti le idee.
Ti ricordo al Signore e ti benedico.
Padre Angelo









[Modificato da Caterina63 26/05/2017 20:49]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)