00 26/04/2017 11:08

  L'UNICA VERITÀ È NON CAPIRSI   versione testuale
ovvero dell'abuso di qualche difficoltà nella comunicazione
 
 

Il titolo è debitore allo schema - non al contenuto - di una frase famosa di Raoul Follereau (1903-1977): L'unica verità è amarsi (per correttezza bisogna aggiungere che per Follereau la frase era sempre unita ad un'altra: Nessuno ha diritto di essere felice da solo). C'è a volte tra gli uomini di Chiesa una sottile convergenza che si accorda sul fatto che la Chiesa non ha il linguaggio per rivolgersi all'uomo di oggi o a certi settori dell'umanità. Prenderemo in esame alcune affermazioni o contesti, nonché la frase di un noto teologo domenicano. In quale modo una simile problematica riguardi l'Ordine, lo si vedrà alla fine.
 
Paolo VI e la difficoltà di parlare agli operai


Nel bel mezzo del '68 e proprio nella notte di Natale Paolo VI andò a celebrare la Messa al Centro Siderurgico di Taranto. Era un po' (molto) imbarazzato e forse lo era già da tempo e con sincerità espresse tale imbarazzo comunicativo:
«Ma ora a voi, Lavoratori, che cosa diremo nel breve momento concesso a questo nostro rapido incontro?
Vi parliamo col cuore. Vi diremo una cosa semplicissima, ma piena di significato. Ed è questa: Noi facciamo fatica a parlarvi. Noi avvertiamo la difficoltà a farci capire da voi. O Noi forse non vi comprendiamo abbastanza? Sta il fatto che il discorso è per Noi abbastanza difficile. Ci sembra che tra voi e Noi non ci sia un linguaggio comune. Voi siete immersi in un mondo, che è estraneo al mondo in cui noi, uomini di Chiesa, invece viviamo. Voi pensate e lavorate in una maniera tanto diversa da quella in cui pensa ed opera la Chiesa! Vi dicevamo, salutandovi, che siamo fratelli ed amici: ma è poi vero in realtà?».
(Paolo VI, Omelia nella Messa di mezzanotte del Natale 1968 a Taranto nel Centro Siderurgico).

Queste frasi furono molto cavalcate e ancora oggi in certe occasioni lo sono. Ma in che senso Paolo VI si trovava in una difficoltà comunicativa? Chi avrà pazienza di leggere il seguito del discorso capirà come mai.
Dopo aver ricordato che nel mondo moderno lavoro e religione sono due realtà separate e opposte - opposizione assente in antico e che qui non si può analizzare -, il Papa proseguiva:
«Ma per ora vi basti il fatto che Noi, proprio come Papa della Chiesa cattolica, come misero, ma autentico rappresentante di quel Cristo, della cui Natività noi questa notte celebriamo la memoria, anzi la spirituale rinnovazione, siamo venuti qua fra voi per dirvi che questa separazione fra il vostro mondo del lavoro e quello religioso, quello cristiano, non esiste, o meglio non deve esistere. Ripeteremo ancora una volta da questo centro siderurgico, che consideriamo ora espressione tipica del lavoro moderno, portato alle sue più alte manifestazioni industriali, d'ingegno, di scienza, di tecnica, di dimensioni economiche, di finalità sociali, che il messaggio cristiano non gli è estraneo, non gli è rifiutato; anzi diremo che quanto più l'opera umana qui si afferma nelle sue dimensioni di progresso scientifico, di potenza, di forza, di organizzazione, di utilità, di meraviglia - di modernità insomma - tanto più merita e reclama che Gesù, l'operaio profeta, il maestro e l'amico dell'umanità, il Salvatore del mondo, il Verbo di Dio, che si incarna nella nostra umana natura, l'Uomo del dolore e dell'amore, il Messia misterioso e arbitro della storia, annunci qui, e di qui al mondo, il suo messaggio di rinnovazione e di speranza».

A mio parere l'incomprensione non sta nei singoli enunciati, tutti chiari, ma nella costruzione della frase, pesantissima e complessa, tanto che anche un seminarista di oggi farebbe difficoltà a seguire il discorso. Era un tipo di linguaggio non solo ecclesiale, ma congeniale a Paolo VI, però lontano dal linguaggio corrente anche in senso nobile.
Dunque si tratta solo di una questione di linguaggio e non di oggetto o di contenuti: in questo senso la Chiesa da sempre ha detto e ancor oggi dice cose comprensibilissime. Che poi non siano accettate è un altro paio di maniche.
 
Congar e i romani di periferia estranei alle cose ecclesiastiche
Lunedì 14 novembre 1960: udienza pubblica del Papa Giovanni XXIII alle ore 11 con la presenza del nostro teologo domenicano Yves Congar († 1995), il quale nel Diario esprime tutta la sua desolazione per i fasti cerimoniali, rinascimentali e barocchi della Chiesa "romana":
«Dappertutto gendarmi pontifici o guardie svizzere in alta uniforme. Il servizio è veramente impeccabile. Ma che sfarzo, che apparato! (...) Vi è uno straordinario servizio di giovani in abito cremisi, di guardie svizzere dal portamento fiero, con elmo e alabarda (...). Verso le 11 e 10 viene intonato il Credo e il papa fa il suo ingresso a piedi. È proprio un bel momento. Ma la Sistina subito dopo canta un Tu es Petrus teatrale (...). Il popolo cristiano non è presente, né di diritto né di fatto. Si può intravedere l'ecclesiologia che sta alla base di tutto questo. È l'espressione sfarzosa di un potere monarchico.
(...) Ahimè! Dopo aver dato la benedizione (...) il papa sale sul trono e si allontana in sedia; applausi privi di senso. Il papa fa un gesto che sembra dire: ahimè! Non posso farci niente...»
(Yves Congar, Diario del Concilio 1960-1963. Vol. I. San Paolo, Cinisello Balsamo 2005, p. 84).

Nel tornare a casa, forse stordito da tanto fasto, sbaglia strada e l'ambiente circostante gli suggerisce altre dolorose considerazioni sul rapporto Chiesa/mondo che non possono che essere negative per la comunicazione:
«Mentre faccio ritorno mi perdo un po' attraversando quartieri popolari e popolosi: vie molto strette senza marciapiedi, biancheria stesa alle finestre, piccole botteghe di artigiani, striscioni con l'invito a votare comunista... Dico a me stesso: ciò a cui ho appena assistito, ciò che abbiamo "fatto" in San Pietro non ha ALCUN rapporto con QUESTO mondo. Non coincide neppure per un millimetro.
Vi è un apparato di "Chiesa" che funziona per se stesso, senza alcun contatto con la gente» (ivi, p. 85).

Come risulta dalla frequentazione dei suoi scritti, Congar era ossessionato dal superamento di una immagine/spettacolo di Chiesa di tipo rinascimentale e barocco e riteneva che, superata questa immagine, ne sarebbe venuta fuori una Chiesa più comprensibile, più accettabile, più comunicativa. Era una tensione presente allora in molti teologi, sembra nello stesso J. Ratzinger.

Ma domandiamoci: come spiegare allora la popolarità di Giovanni XXIII? E se la Chiesa dovesse fare l'una e l'altra cosa? Come mai oggi una certa dimensione cerimoniale della Chiesa, compresa la liturgia, non arreca più fastidio e non è più un ostacolo comunicativo? Insomma, è proprio vero che se figure e personaggi di Chiesa si presentano con un qualche contorno cerimoniale rischiano l'estraneità?
La risposta alle domande di cui sopra può essere varia, ma il dubbio e la riflessione sono d'obbligo. Dubbio e riflessione che lasciano aperto lo spiraglio che la Chiesa non è estranea ed è in grado di comunicare anche nel suo aspetto cerimoniale, che tuttavia va sempre rivisto per evitare che sia la pura riproposizione del passato.
 
Il "pianeta giovani"
L'espressione ancora oggi compare in vario modo in iniziative che si rivolgono ai giovani a livello di sport, cultura, divertimento e, naturalmente, pastorale.
L'espressione lascia intendere che i giovani sono di un "altro" pianeta, dunque "alieni" e comunicativamente refrattari a tutta la pastorale corrente o quasi. È un altro modo spesso ricorrente per dire che "la Chiesa non sa parlare a..." in questo caso ai giovani.
Che ci sia una difficoltà comunicativa generazionale è un fenomeno umano e dunque tocca anche la vita e la pastorale della Chiesa e dunque va seriamente affrontato. Ma va affrontato nella prospettiva di far entrare i giovani nella normalità della vita ecclesiale e nelle formule acquisite della dottrina catechetica e non di creare un "pianeta parallelo". È interessante che i libri liturgici parlino di Messa con i fanciulli e non di Messa dei fanciulli e una simile considerazione dovrebbe riguardare l'approccio pastorale al "pianeta giovani".
In ogni caso molti settori del "pianeta giovani" sembrano sempre più accettare e gustare la dottrina giusta della Chiesa, la liturgia ben celebrata, l'impegno sociale tenendo conto delle direttive del Magistero. Dunque la Chiesa, restando com'è e senza stravolgersi, sa comunicare con i giovani.
 
La comunicazione "forte" della Chiesa
Quelle di cui sopra erano considerazioni "datate". Ora invece, nel pieno dell'attualità, ecco il commento di un giornalista dopo la recente GMG di Madrid:
«Due milioni di persone per Benedetto XVI a Madrid, con Zapatero - ex grande speranza, ora stella cadente del laicismo internazionale - accusato di "andare a Canossa" dal Papa antirelativista. Il giorno dopo, il presidente della Repubblica - e storico dirigente comunista - Giorgio Napolitano che inaugura il meeting di Comunione e Liberazione, non esattamente l'ala sinistra della cristianità. Il giorno prima, il festoso passaggio di consegne davanti a settemila giovani tra Dionigi Tettamanzi e Angelo Scola, l'arcivescovo che ha segnato la storia della curia ambrosiana e il successore che si accinge a farlo.
È impossibile non notare i segni della centralità della Chiesa e del mondo cattolico in generale. E colpisce ancora di più il modo in cui la Chiesa ha conseguito questo risultato. Non venendo incontro al mondo, ma facendo sì che il mondo le andasse incontro. Senza cedere a compromessi, anzi rivendicando l'integrità della dottrina. Usando i mezzi più avanzati (...), ma senza attenuare il proprio messaggio tradizionale, a cominciare appunto dal rifiuto del relativismo»
(Aldo Cazzullo, Corriere della Sera, 22 agosto 2011, pp. 1.36).

Ci sarebbero centinaia di distinzioni da fare, ma limitiamoci a due:

a) in realtà la Chiesa deve "andare incontro al mondo" per cogliere ciò che lo Spirito vi opera e per annunciare Gesù Cristo;

b) il successo mediatico molto dipende da un diverso conteso, dal momento che anche Pio XII aveva un annuncio "forte" ma non godeva della popolarità degli attuali pontefici.

Tuttavia la forza del testo sta nell'analisi della comunicazione: il messaggio preciso e identitario è quello che a lungo andare paga e produce aggregazione vera. Il che ovviamente non è contro né l'ecumenismo, né il dialogo interreligioso, né il dialogo culturale, né la collaborazione operativa in diversi campi.
 
L'aquila e il gallo e la comunicazione che si affloscia

Torniamo indietro nel tempo. Silvano del Monte Athos († 1938) scrisse che un'aquila, conscia di tutto ciò che vedeva, ebbe compassione del gallo ristretto alla vista dell'aia e del pollaio, per cui pensò di andargli a raccontare com'era vario e bello il mondo visto dall'alto, anche se, «vedendo il gallo passeggiare con orgoglio e con gaiezza in mezzo alle galline, pensò: "Dunque egli è soddisfatto della sua sorte. Ma malgrado ciò gli parlerò egualmente di quello che conosco".
E l'aquila parlò al gallo della bellezza e grandezza del mondo. All'inizio il gallo ascoltò con attenzione pur non comprendendo nulla. Ma l'aquila si rattristava sempre più notando che il gallo non capiva niente, e provava difficoltà a parlare con il gallo; e il gallo da parte sua si annoiava non capendo nulla di ciò che diceva l'aquila, e provava difficoltà nell'ascoltarla. Ma ognuno era contento della sua situazione.
Questo è ciò che succede quando un uomo colto parla con un ignorante, o ancor meglio è il caso di quando un uomo spirituale parla con un uomo non spirituale.
Lo spirituale è simile all'aquila, il non spirituale al gallo. Lo spirito dello spirituale si istruisce giorno e notte nella legge del Signore e si innalza a Dio con la preghiera; mentre lo spirito non spirituale è legato alla terra e tormentato dai pensieri. Lo spirito del primo gioisce della pace che viene dall'alto, l'anima del secondo resta vuota e straziata. Lo spirituale vola come un'aquila nelle altezze e la sua anima percepisce la presenza di Dio e vede il mondo intero anche se prega nell'oscurità della notte; mentre il non spirituale gioisce della vanità e delle ricchezze, oppure cerca piaceri carnali.
E quando uno spirituale e un non spirituale si incontrano, entrambi si annoiano, e il loro rapporto è difficile».

(Silvano del Monte Athos in Archimandrita Sofronio, Silvano del Monte Athos La vita, la dottrina, gli scritti. Gribaudi, Torino 1978, pp. 431-432).

Ecco, questa è la vera incomunicabilità.

E tuttavia, prendendo un po' le parti del gallo, bisogna aggiungere che non sempre l'aquila sa parlare bene e con entusiasmo di quello che ha visto, per cui il gallo è un po' scusato se si annoia. Il tutto è riespresso da una battuta - la riporto per tradizione orale - attribuita al card. Giacomo Biffi in una conferenza. Alla solita domanda/obiezione che la Chiesa non sa parlare all'uomo di oggi e che bisognerebbe ripensare il linguaggio ecc., il cardinale rispose: «Guardi, non è questione di linguaggio, è questione di temperatura» (cioè di fervor in Spiritu di chi parla). Per cui, care aquile, prendete provvedimenti!
 
---------------
 
Dov'è la malizia? Ma come! I Domenicani non sono predicatori? E allora come si fa a predicare se si pensa che il linguaggio della Chiesa non è comprensibile o per lo meno non è simpatico?
In realtà la malizia di questo mese è "incompiuta" - come la Sinfonia n. 8 in Si^m di Franz Schubert -, in quanto a questo disagio comunicativo si associano certe espressioni sulla predicazione oggi ricorrenti inter nos, le quali, se oltrepassano un certo limite, fanno arrivare la predicazione alla frutta, per cui tale, se il Signore vorrà, sarà il titolo della prossima malizia conclusiva del discorso: "Quando la predicazione è alla frutta".
Fra Riccardo Barile o.p.




QUANDO LA PREDICAZIONE È ALLA FRUTTA   versione testuale
ovvero quando nella notte nera tutte le vacche sono nere
 
 

La frase che in una notte nera tutte le vacche sono nere è di Georg Wilhelm Friedrich Hegel († 1831) - Fenomenologia dello spirito - ed è in riferimento polemico al concetto di assoluto di Friedrich Wilhelm Joseph von Schelling († 1854), che secondo Hegel sarebbe talmente identificante da annullare ogni diversità.

Al di là delle polemiche di questi filosofi - ossessione, bersaglio e croce dei teologi cattolici venuti un po' dopo di loro -, la frase assume spesso un senso generico per indicare un discorso nel quale si tende ad annullare le differenze, producendo errori talvolta, inattività più volte, confusione sempre.
Qualcosa del genere capita con il troppo ripetere certe frasi o insistere su di esse al riguardo della predicazione, con la conseguenza che tutto diventa predicazione e a questo punto non si sa più che cosa sia la predicazione. Anzi, non si sa più che cosa fare. E così la predicazione arriva alla frutta.
 
La verità è a metà strada
Il discorso è complicato, poiché si tratta di frasi - e di atteggiamenti interiori e pratici - che hanno indubbiamente del vero che va accolto. Il guaio è quando frasi e azioni conseguenti vengono assolutizzate.
Quali sono tali frasi o impostazioni? Sono tante e, tra le tante, eccone qualcuna.

Il riferimento al XIII secolo.
Per i Frati Predicatori è importante perché è il tempo della nascita e della primitiva espansione, ma soprattutto è il tempo in cui l'Ordine - in verità insieme ad altri - risolse nella Chiesa la "crisi" della predicazione. Guardare a queste origini dà speranza, ma a patto di rendersi lucidamente conto che la situazione pastorale ed ecclesiale al riguardo è praticamente capovolta: oggi non c'è più la crisi della predicazione come al secolo XIII - quasi tutti i ministri, per grazia di Dio, predicano -, per cui il nostro ruolo va ripensato; oggi la predicazione cultuale, cioè all'interno delle celebrazioni liturgiche, è largamente maggioritaria rispetto al secolo XIII e dunque modi, programmi, interventi ecc. sono da rivedere. Non sempre si ha il coraggio di intraprendere questa analisi e ci si consola di frasi fatte.

La liturgia è predicazione.
Il primato della liturgia non è in discussione. Si tratta solo di vedere se basta la liturgia senza una predicazione aggiunta. Intendiamoci: in contesti limite di una persecuzione o di una chiesa ridotta al silenzio, la liturgia ha mantenuto in vita la comunità cristiana. Ma è questa la condizione normale presupposta dalla frase del titolo? Certo, la frase in parte è vera. Infatti, benché la liturgia sia «principalmente culto della maestà divina, contiene tuttavia anche una ricca istruzione per il popolo fedele» (SC 33).
Resta però vero che «la liturgia non esaurisce tutta l'azione della Chiesa» e prima che gli uomini possano accostarsi alla liturgia «è necessario che siano chiamati alla fede e alla conversione», appunto con la predicazione, la quale poi, in forma più estesa della liturgia, continua in tutto il corso della vita cristiana (SC 9). Dunque celebrare la liturgia non basta: ci vogliono altre forme di ministero della parola. Che senso ha partecipare alla liturgia e non conoscere il Catechismo della Chiesa Cattolica? Ed è proprio perché la liturgia ha da essere quel culmine che deve essere, che chi celebra la liturgia dovrà anche darsi da fare per spiegare altrove il catechismo.

La vita comune è predicazione.
Certo la vita comune offre una testimonianza positiva e, inversamente, la mancanza di unità in Cristo indebolisce il messaggio, tant'è vero che la divisione dei cristiani è un ostacolo alla corsa della Parola nel mondo. Ma la vita comune non è una parola esplicita e vivere insieme non è di per sé essere predicatori, altrimenti i Certosini sarebbero anch'essi "ordine dei predicatori" (per cui, sia concesso, quelle domenicane non sono "Monache predicatrici", ma "Monache dell'Ordine dei Predicatori"). A parte l'equivoco che la vita comune è testimonianza cristiana non perché stiamo insieme tra di noi ma perché stiamo insieme a Gesù Cristo, resta l'indicazione del Signore Gesù quando "costituì" i Dodici: «perché stessero con lui e per mandarli a predicare» (Mc 3,14). Dunque il "mandarli a predicare" non è incluso totalmente nello "stare con lui", anche se questa prima esperienza è fondamentale e genera la predicazione: non da sola, però, ma in forza dell'invio!

Dare la parola agli altri è predicazione.
Quanti profeti dell'AT e quanti apostoli del NT hanno dato la parola ai poveri e ai piccoli di fronte ai potenti di questo mondo! Ma hanno dato tale parola all'interno della loro attività di proferire la parola. L'atteggiamento non è stato: "Adesso noi stiamo zitti, parlate voi!".

Il silenzio è predicazione.
Come non ricordare l'esigenza di ascoltare in silenzio Dio che parla, prima di parlare noi di Dio? E ad un altro livello, come non ricordare i tre amici di Giobbe venuti per consolarlo, ma poi rimasti in silenzio accanto a lui «per sette giorni e sette notti» (Gb 2,13) prima di iniziare il dialogo? Oggi qualcuno insiste sul silenzio a fronte di situazioni che non si comprendono o sono troppo dolorose per far cadere su di esse una parola. Un qualche silenzio è anche esigito dai tempi dell'acquisizione di una cultura all'interno della quale annunciare il vangelo (ascoltare il mondo). Ma sembra chiaro - non per tutti lo è - che questo silenzio non può dirsi predicazione, ma semmai preparazione alla predicazione.
 
Anche l'equivoco è a metà strada
Il termine "predicare/predicazione/predica" deriva dal verbo latino praedicare, «composto dalla preposizione prae "davanti" e da dic-are, derivato da dic-ere "dire" mediante una "a" che aggiunge valore intensivo o durativo» (Remo Bracchi, voce Etimologie in Dizionario di Omiletica, LDC - Velar 1988, p. 114). Dunque la predicazione non solo è una parola esplicita, ma di una certa intensità in se stessa e nel predicatore (cattolicamente è anche un ministero che esige un "mandato").
L'atteggiamento primario del predicatore dovrebbe essere, più o meno: «Dopo aver riflettuto, parlerò ancora, sono pieno come la luna nel plenilunio» (Sir 50,6), «Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1Cor 9,16), «Gesù andò nella Galilea, proclamando il vangelo di Dio, e diceva: "Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel Vangelo"» (Mc 1,14-15).

Ciò di fronte alle culture comporta non solo lo starle ad ascoltare, ma il coraggio di annunciare qualcosa di nuovo che può presentarsi apparentemente estraneo alle culture stesse; di fronte agli uditori comporta addirittura richiederne la conversione, se è vero che la predicazione del NT «non ha nulla a che vedere con una teoria che si è liberi di ammettere; essa esige dall'uditorio un impegno, perché, secondo il loro senso biblico, parola e verità hanno valore di vita. Ogni predicazione che non termina in un appello alla penitenza corre il rischio di cessare di essere vangelo per diventare conferenza» (Audusseau - Léon-Dufour in Dizionario di Teologia biblica, Marietti, Torino 1965, 858-859).

Tutto ciò non sussiste allo stato puro e al 100%: va armonizzato con la celebrazione della liturgia all'interno della comunità cristiana, con l'ascolto non solo di Dio ma della cultura in cui ci si trova (anche questo è un ascolto di Dio, sebbene in diverso modo), con il dare la parola agli altri ecc. Insomma, va vissuto con il tipico stile cattolico che nulla scarta e tutto compone e armonizza gerarchicizzando.

Ma appunto qui c'è il "crinale": quale è la giusta gerarchia? È ovviamente la giusta proporzione. E quale è la giusta proporzione? Si è predicatori e c'è predicazione - anche se si svolge un'attività più sedentaria di studio - quando le frasi riportate sopra stanno al di sotto del 50% nella presentazione della nostra vita, nelle attività e negli "affetti". 
Se passano il 50% allora l'intensità dell'etimologia del termine "predicazione" e dei suoi fondamenti biblici è snervata e ciò avviene quando prendono il sopravvento attenzioni tipo: ascoltiamo il mondo, diamo la parola agli altri, stiamo in silenzio perché non comprendiamo o non siamo sufficientemente aggiornati, soprattutto affiniamo la testimonianza comunitaria approfondendo come si fa ad essere amici ecc. Altro che "valore intensivo o durativo" aggiunto al semplice "dire"!

Quando questi fattori - peraltro giusti e perseguibili - prevalgono, la predicazione è alla frutta. Che se poi superano l'85%, allora è al caffè.
 
 
 
Fra Riccardo Barile o.p.






Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)