00 14/10/2017 13:21

2.3
Etica della libertà nell’amore e nello Spirito 
(5,13-6,10)

La dottrina paolina della giustificazione basata sulla fede nel Cristo morto e risorto e l’insegnamento della libertà del cristiano dai mezzi di salvezza sinora valsi per l’umanità, corrono il rischio d’essere fraintesi. La dottrina paolina della giustificazione annunzia addirittura: tu non puoi né devi fare da te solo; un altro, Gesù Cristo, l’ha già fatto per te! Chi ha "indossato" da credente questo Cristo nel battesimo, partecipa già alla forza vitale di Cristo, possiede il suo Spirito divino, che gli conferisce la vita. L’uomo redento è liberato dalla schiavitù della legge (Rm 8,2); egli è "giustificato" davanti a Dio mediante la fede. Da tutto ciò si potrebbe trarre una conclusione errata: se Cristo è morto per te, tu devi solo riporre saldamente in lui la tua fiducia di credente; per tutto il resto, puoi fare o non fare quello che vuoi. Paolo respinge nettamente e decisamente tali deduzioni dalla sua dottrina della giustificazione. Il suo insegnamento è questo: benché la legge per il credente battezzato sia una volta per tutte invalidata come principio di giustificazione dall’ordinamento di grazia instaurato da Dio nella morte di Gesù, non è però abolito l’imperativo etico! Anzi, l’apostolo afferma con la massima energia che l’imperativo etico viene veramente e totalmente valorizzato solo dall’indicativo nuovo concesso al credente nel battesimo mediante lo Spirito Santo. Infatti la recezione dello Spirito comporta la santificazione obiettiva dell’uomo giustificato. Ne deriva un’esigenza etica indispensabile: dalla santificazione oggettiva il cristiano deve trarne la propria santificazione soggettiva. Questo dà luogo a una nuova concezione e a una nuova fondazione dell’etica cristiana nei confronti di quella dell’Antico Testamento: la cristiana non è più l’etica della Torà, ma l’etica dello Spirito. Solo per questa via la legge perviene al suo senso proprio. Ora non si può più dire: il comportamento etico porta alla giustificazione davanti a Dio, bensì viceversa: la giustificazione esige anche un’etica corrispondente: "Camminate secondo lo Spirito" (Gal 5,16). Prima viene la giustificazione e santificazione oggettiva; poi ne deriva come imperativo etico la santificazione soggettiva, la condotta di vita nello Spirito.

L’esigenza di santità, che fa parte delle esigenze fondamentali di Dio (Es 22,31; Lv 11,45 ), si manifesta in questo modo proprio in tutta la sua severità e urgenza; infatti il possesso dello Spirito ora è il motivo di fondo della condotta etica. Compòrtati in modo degno dello Spirito che ti fu donato da Dio nel battesimo! Con questa formula si potrebbe esprimere l’esigenza etica di Dio. Questa è un’etica "consecutiva" ; essa infatti non è più la causa, il motivo, della giustificazione, bensì la conseguenza e il suo frutto. Ma in questo modo si acuisce l’incalzare delle sue esigenze, particolarmente del precetto dell’amore, che le riassume tutte (5,14). Ma questa etica nuova ha pure un orientamento radicalmente "cristocentrico". Infatti il comportamento etico del giustificato è la realizzazione esistenziale del sacramentale morire con Cristo, dell’ "essere crocifissi con Cristo" (2,19; 5, 24). Con ciò si vuole anche dire che il cristiano è decisamente esortato a prendere la via della sofferenza, che lo stesso Gesù ha percorso e che Paolo percorre alla sua sequela: egli porta nel corpo le stimmate di Gesù (6,17). Dunque le esigenze di santità poste da Dio, il suo imperativo, nell’etica paolina non ci scapitano: anzi, solo ora vengono pienamente valorizzate. Certo come già nell’etica di Gesù - o anche nella lettera di Giacomo 2,8 - ora si ha una riduzione radicale, quantitativa e qualitativa, delle imposizioni della legge, in quanto tutte quante si adempiono nell’unico comandamento: "Amerai il prossimo tuo come te stesso" (5,14). In questo si manifesta "La legge di Cristo" (6,2). Ma con ciò il baricentro viene decisamente trasferito, dal buon comportamento etico esterno, nel cuore, come aveva insegnato Gesù nel discorso della montagna (Mt 5,7). Un’osservanza prettamente formale dell’imperativo è definitivamente respinta: definitivamente, poiché era stata instancabilmente rifiutata già dai profeti dell’antica Alleanza. L’etica di Paolo è un’etica della libertà, ma anche un’etica che ha la sua norma nel precetto dell’amore e possiede il suo movente particolare nello Spirito, che vuole portare frutto. Ma a questo punto si oppongono "le opere della carne". Dunque la libertà cristiana deve dare buona prova di sé nella carità e nello Spirito. Questo è l’intento a cui mira la grande pericope etica di Gal 5,13-6,10.

a) La libertà cristiana come servizio d’amore reso al prossimo (5,13-15)

13Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Purché questa libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. 14Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. 15Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!

v. 13. Questo v. riassume il risultato di tutta la discussione condotta finora. Paolo espone il motivo per cui respinge totalmente il "giudaismo" degli avversari, con il quale non si può ammettere nessun compromesso; infatti il cristiano è stato chiamato alla libertà, e precisamente per essere liberato da tutti quei mezzi di salvezza, che sono stati eliminati da Cristo. Dio ha chiamato i cristiani alla libertà mediante la morte redentrice di Cristo e mediante il loro battesimo. Cristo con la sua morte e risurrezione fece diventare realtà e possibilità per il credente la chiamata di Dio alla libertà (5,1). La libertà è il contenuto della redenzione; questa, per sua natura, è liberazione per la libertà. Se nel contenuto della libertà cristiana rientra la liberazione da tutti i mezzi salvifici di cui l’umanità si è servita finora, ad essa si aggiunge anche la liberazione da quel mezzo di salvezza che è la legge; questo è l’insegnamento di Paolo ai Galati. Ma il discorso di Paolo potrebbe essere frainteso e strumentalizzato per un libertinaggio totale. Ecco perché aggiunge subito: "mònon (= solamente)". Questa è una parola di ammonimento che collega il seguito del discorso alla prima parte del versetto. "Voi siete stati chiamati alla libertà, fratelli; solamente che questa libertà non diventi pretesto per la carne!" L’impulso ad abusare della libertà cristiana "a favore della carne" potrebbe provenire agli uomini in quanto, appellandosi alla loro libertà in Cristo, compiono le "opere della carne" presumendo ora di trovarsi "al di là del bene e del male". La vera libertà cristiana consiste nel servire il prossimo mediante l’amore. "Piuttosto servite gli uni agli altri mediante l’amore". Questa frase fa un effetto sorprendente perché sembra che questo imperativo contenga un paradosso, anzi un contrasto con l’essenza della libertà, cioè il doulèuein (= servire). Fin qui l’apostolo ha usato questo verbo in senso negativo (4,8.9.25.) per esprimere una condizione di schiavitù. Ora, d’improvviso, egli esige dai cristiani un nuovo "servire": il servizio reciproco reso per amore. "La libertà alla quale i Galati sono chiamati, è - in conformità al suo senso e al suo retto impiego - la libertà per l’amore; essa è, si può anche dire, la libertà dell’amore" (Schlier). Il complemento accentuato "mediante l’amore" si richiama al "mediante l’amore" di 5,6 ("La fede che agisce mediante l’amore"). Solo nell’adempimento fattivo del precetto dell’amore la fede diventa efficace come principio di giustificazione. Accanto al complemento di modo "mediante l’amore" anche il dativo allèlois (= gli uni agli altri) qualifica il "servire" in maniera molto significativa. L’"essere schiavo" si basa normalmente su una condizione unilaterale: l’uno è il padrone, l’altro è il suo schiavo. L’"essere schiavi l’uno per l’altro, reciprocamente," da un punto di vista sociologico - profano, è proprio un non senso ed è possibile solo grazie all’esempio che ne ha dato Cristo (Lc 22, 27). D’allora in poi esiste un servizio da schiavi "reciproco", basato appunto sull’atteggiamento dell’amore reso possibile dall’intervento di Dio in Cristo: l’esistere totalmente per l’altro e per tutti! In ciò l’agàpe (= amore gratuito) si manifesta in modo sostanziale e la libertà cristiana si realizza. Soltanto nell’esercizio dell’agàpe la libertà cristiana diventa del tutto libera, perché si sgancia dall’io e si sbarazza da tutti i legami che la tengono prigioniera. L’uomo che ama è l’uomo libero.

L’amore è il reale distacco dell’uomo da se stesso. Ora egli vede nel prossimo il fratello e usa della libertà messagli a disposizione dal vangelo per amare come Dio ama.

v. 14. La legge è sempre perfettamente osservata se si adempie il precetto dell’amore. L’agàpe che si è rivelata esemplarmente nella morte sacrificale di Cristo, è l’esecuzione e il perfezionamento escatologico della legge. Anche i vangeli presentano il comandamento dell’amore come compendio di tutta la legge e i profeti (Mt 22,40 e parall.). In Rm 13,8-10 Paolo scrive: "non abbiate alcun debito con nessuno, se non quello di un amore vicendevole; perché chi ama il suo simile ha adempiuto la legge. Infatti il precetto "Non commettere adulterio, non uccidere, non rubare, non desiderare" e qualsiasi altro comandamento si riassume in queste parole "Amerai il prossimo tuo come te stesso". L’amore non fa nessun male al prossimo: pieno compimento della legge è l’amore". Secondo Paolo tutta quanta la legge è "adempiuta" in quanto è "assunta" nell’agàpe, cosicché il cristiano è rilasciato alla libertà dell’amore.

V. 15. Nell’agàpe ci si serve gli uni gli altri, fuori di essa ci si morde, ci si divora e ci si ingoia gli uni gli altri.

b) La condotta cristiana nello Spirito (5,16-26)

b1) Carne contro Spirito e Spirito contro carne (5,16-18).

16Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; 17la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste.
18Ma se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete più sotto la legge.

V. 16. "Camminate secondo lo Spirito" significa: la vostra vita deve essere "spirituale", deve corrispondere alla natura dello Spirito. Lo Spirito rappresenta il modo "secondo cui" si deve vivere, nel senso che è la norma determinante della vita, la base e la maniera di comportarsi. È il "fare attenzione e il dare ascolto allo Spirito qualunque cosa faccia lo Spirito che vi vuole condurre" (Schlier). "Se voi vivete nel modo che si addice allo Spirito, con tutta certezza non soddisferete la brama della carne". Le opere della carne enumerate nei vv.19 ss. concretizzano il "desiderio della carne" nelle sue molteplici forme. Che qui Spirito e carne siano intesi come opposti inconciliabili, risulta anche dal v. seguente.

V. 17. La "carne" non si identifica con la natura corporea dell’uomo, ma è l’essenza di ciò che è terreno, ostile a Dio e peccaminoso; con questo termine Paolo indica "tutta la miseria di quell’uomo che non è afferrato dallo Spirito" (Kuss). Secondo Gal 5,24, essenza della carne sono le "passioni e le brame" ; queste assumono concretezza nel catalogo di vizi dei vv. 19-20; in esse si manifesta l’inimicizia dalle carne contro lo Spirito, cosicché sussiste una situazione di conflitto tra carne e Spirito.

V. 18. Secondo la teologia di Paolo, fra legge e carne esiste una connessione inscindibile. La legge dice "Non desiderare!" (cfr. Rm 7,7-11), la carne invece dice: "Desidera!" di modo che l’uomo che soddisfa il desiderio della carne finisce per sottoporsi al dominio mortale della legge. Ma se l’uomo è guidato dallo Spirito, non è neppure più soggetto al dominio della legge. La legge non lo giudica più.

Lo Spirito stesso ora diventa la norma del suo agire; l’uomo è "mosso" dallo Spirito. E solo tale mozione dello Spirito immette nell’ambito della libertà cristiana. Il desiderio della carne si manifesta nelle opere che sono elencate nel v. successivo.

b2) Le opere della carne (5,19-21)

19Del resto le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, 20idolatria, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, 21invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio.

vv. 19-21. L’apostolo non elenca tutti i vizi, ma con la locuzione convenzionale e conclusiva "e cose simili" si riferisce a tutte le opere peccaminose della "carne". La minaccia dei mali alla fine del catalogo dei vizi rientrava nella predicazione missionaria di Paolo e corrisponde ad una consuetudine tradizionale ( cfr. 1Cor 6,9; 5,6; Col 3,6).

b3) Il frutto dello Spirito (5,22-25)

22Il frutto dello Spirito invece è amore, gioia, pace, pazienza, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé; 23contro queste cose non c’è legge. 24Ora quelli che sono di Cristo Gesù hanno crocifisso la loro carne con le sue passioni e i suoi desideri. 25Se pertanto viviamo dello Spirito, camminiamo anche secondo lo Spirito.

vv. 22-23. L’espressione "frutto dello Spirito" al singolare, vuol soprattutto far notare l’unità della vita nei confronti "della frantumata varietà della vita carnale" (Oepke). Lo Spirito integra il battezzato in unità spirituale anche dal punto di vista etico. "Un concetto, che con particolare chiarezza rende la compenetrazione - caratteristica dell’operato morale dei credenti - di attività divina e attività umana le quali in definitiva non possono più separare nettamente l’una dall’altra, è il concetto di ‘frutto’" (Kuss). Secondo Gal 5,22-23 frutto dello Spirito sono le seguenti virtù:

 agàpe: essa sta all’inizio dell’enumerazione come fonte e quintessenza di tutti i doni e di tutte le virtù. Questa preminenza dipende dall’affermazione di 5,14, secondo cui nel precetto dell’amore del prossimo trova il suo compendio e adempimento "tutta la legge". Perciò è da supporre che l’apostolo con agàpe intenda anzitutto l’amore per gli altri e specialmente per i compagni di fede. Se questo amore è "frutto dello Spirito" esso è dono e grazia provenienti dall’alto, come le successive virtù del catalogo. Proprio per questo esso è l’eco molteplice di quell’amore che, secondo Rm 5,5, è stato riversato nei nostri cuori dallo Spirito Santo.

• charà: "È difficile trovare una parola che sia altrettanto al centro dell’Antico Testamento come la parola gioia... La gioia di riconoscenza per la bontà di Dio è il senso della vita umana. Quando giunge il tempo della salvezza, Dio moltiplica l’esultanza e raddoppia la gioia" (Koehler). Nel Nuovo Testamento si dice che la nascita del Messia introduce già il grande tempo della gioia (Lc 2,10), e così in Paolo la gioia è l’"esplosione della speranza e l’eco vitale della situazione escatologica del cristiano" (Schlier). In Gal 5,22 charà si trova tra i due concetti soteriologici agàpe e eirène; quindi Paolo non intende parlare della gioia anzitutto in senso psichico, ma come espressione dell’acquisita pienezza dello Spirito (Rm 14,27): essa è gioia ricevuta, che dev’essere trasmessa (2Cor 8,2) e deve contrassegnare tutta l’esistenza anche quando nella vita ci si trova nella tribolazione (1Ts 1,6; 2Cor 7,4). Perciò la gioia fa parte del ringraziamento liturgico (Col 1,12) e determina l’umore fondamentale della comunità cristiana;

• eirène: "Shalòm è l’essenza stessa della salvezza e della prosperità" (Gross). A inaugurare questo stato di cose sarà il "principe della pace" (Is 9,5), cioè il Messia. La venuta del Messia in Gesù Cristo significa una manifestazione della pace escatologica per gli uomini che sono oggetto della compiacenza di Dio (Lc 2,14). In Ef 2,14-17 è descritta l’immensa opera pacificatrice di Cristo, che crea l’unità. Il dono salvifico della pace chiama la comunità a un vasto lavoro di pace e a nutrire sentimenti di pace nel senso più ampio; essa stessa dev’essere un luogo in cui regna la pace.

• macrothumìa: significa longanimità, pazienza. Il Dio della Bibbia è un Dio misericordioso e pietoso, longanime e ricco di grazia (Es 34,6) . Poiché Dio è longanime e misericordioso, tale dev’essere anche l’uomo (parabola del servo spietato in Mt 18,23-35). Così anche Paolo esige dalle comunità cristiane la longanimità reciproca. Stando a 1Cor 13,4 la longanimità è un predicato dell’agàpe. Poiché i cristiani sono eletti di Dio, santi ed amati, essi devono rivestirsi di un cuore di misericordia, bontà, umiltà, mitezza, longanimità (Col 3,12). Quindi la longanimità nelle comunità cristiane si dimostra come frutto dello Spirito, eco della sperimentata longanimità di Dio verso il peccatore.

• chrestòtes: significa bontà duratura. Il Dio dell’Antico Testamento si rivela come un Dio di bontà. Gesù manifesta la bontà di Dio soprattutto col suo comportamento verso i pubblicani e peccatori. Per questo la bontà fa parte delle virtù dei cristiani e in essa si esprime l’agàpe (Cor 13,4; Ef 4,32; Col 3,12).

• agathosùne: la parola "esprime, le medesime delicate sfumature di chrestòtes, però è maggiormente orientata all’essere buoni e alla rettitudine" (Stachowiak).

 pìstis: è la virtù della fedeltà, o - più verosimilmente - il "fidarsi" proprio dell’amore, come si legge in 1Cor 13,7: "La carità tutto crede". È il rapporto reciproco che rende la fiducia affidamento.

• praütes: significa spirito di umiltà, Nei LXX il termine ebraico anaw "è anzitutto chi si trova in uno stato di oppressione, ma poi indica prevalentemente colui che si sente servo di fronte a Dio e si sottomette a lui tacitamente e incondizionatamente" (Hauck). Prautes, più che la mitezza indica la stato di abbandono che si radica in Dio. "L’autocontrollo di chi si affida a Dio è il correlato della pacatezza mite (Is 26,6), non la distanza superiore del (sedicente) saggio" (Hauck). Secondo Mt 5,5 Gesù nelle sue beatitudini riprende la promessa del Sal 37,9.11 secondo cui i poveri e i miti, che confidano in Jahvè, possederanno la terra. Nel vangelo di Matteo la mitezza è una caratteristica particolare dello stesso Gesù (11,29; 21,5). In 2Cor 10,1 Paolo esorta la comunità "per la dolcezza e mitezza di Cristo". In Gal 6,1 i credenti, come uomini "spirituali" devono riprendere il fratello peccatore "nello spirito di mitezza" ; così eviteranno la tracotanza, l’impazienza e l’ira. Perciò in 1Cor 4,21 la mitezza è menzionata insieme all’agàpe.

• encràteia: è l’astinenza da dissolutezze sessuali e d’altro genere; essa è dono di Dio (Sap 8,21). Paolo pratica la "continenza" come un lottatore, castigando il suo corpo e riducendolo in schiavitù (1Cor 9,24-27). In 1Cor 7,9 questo termine si riferisce alla continenza sessuale. In questo v. l’encràteiava vista come il contrario dei vizi enumerati nei vv. 20-21: fornicazione, impurità, dissolutezza, sbevazzate, gozzoviglie e cose simili.

Contro le virtù menzionate in questi vv. 22-23 non vi è legge; anzi in esse, in cui si esercita l’agàpe, la legge raggiunge il suo perfetto compimento (5,14). È lo Spirito, e non la legge, che "spinge" il cristiano a praticare queste virtù. Lo Spirito, e non la legge, è l’unico principio morale del cristiano. "La legge, che conduce solo alla sventura, non esiste più per il credente mosso dallo Spirito" (Ekkert). Anche qui Paolo resta fedele alla logica del vangelo.

Nei due versetti successivi ricompare il tema "carne-Spirito" e quindi essi concludono la diretta trattazione di Paolo a questo proposito. Il motivo per riprendere l’argomento è dato da possibili obiezioni contro la vita "senza la legge" del cristiano. Una possibile obiezione potrebbe essere questa: anche il battezzato vive tuttora "nella carne" e quindi è continuamente minacciato dalle sue "passioni e brame"; perciò egli deve continuare a orientarsi alla legge, se vuole davvero vivere secondo lo Spirito. Questa o simili obiezioni vengono confutate da Paolo nei vv. 24-25.

v. 24. L’obiezione sopra esposta non ha valore, non perché i battezzati non siano più esposti al potere della carne, ma perché hanno crocefisso la carne. Dove, quando e come i credenti hanno crocefisso la carne? Essi hanno fatto ciò quando - mediante l’atto di fede suggellato dal battesimo - affidarono completamente la loro sorte a Cristo, rinunciarono a tutte le sicurezze offerte dalla legge e, al di là della loro vita concreta, accettarono la condanna a morte indicata dalla croce di Gesù. Questa accettazione è dall’apostolo designata con il verbo attivo"hanno crocifisso"; con ciò i credenti crocefissero la carne con le passioni e le bramosie, ossia quell’uomo vecchio che è un "uomo senza lo Spirito", un uomo la cui esistenza è rivolta contro Dio. Quindi l’attivo "hanno crocefisso" mette in evidenza la decisione: i credenti si sono decisi per lo Spirito e contro la carne. E perciò anche nelle loro risoluzioni etiche essi ora accettano solo gli impulsi dello Spirito e non più quelli della legge. Questa decisione, presa una volta, continua ad imporsi contro la carne nelle decisioni quotidiane. L’apostolo chiama i credenti: "Coloro che appartengono a Cristo Gesù". I fedeli hanno crocefisso la carne, tutto il loro passato, perché vogliono appartenere, e appartengono di fatto, a Cristo. E chi è posseduto da Cristo, è sottratto al potere della legge.

v. 25. Vivere mediante lo Spirito significa avere la vera esistenza, la vita stessa di Dio. Da qui deriva la conseguenza etica: "Conformiamoci allo Spirito". Conformarsi significa concordare, essere in sintonia. Quindi: "Stiamo in armonia con lo Spirito!". Il contrario di una vita in consonanza con lo Spirito sarebbe una vita in contraddizione con esso, una vita "nella carne".



Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)