00 22/10/2018 19:22



CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA AL CIMITERO ROMANO DEL VERANO

OMELIA DI SUA SANTITÀ GIOVANNI PAOLO II

Solennità di Tutti i Santi
1° novembre 1979 

 

1. Noi tutti ci siamo riuniti oggi nel principale camposanto di Roma. Sono venuti qui tutti coloro per i quali questo cimitero ha un valore e un’eloquenza particolari. Esso ci parla dei Morti che vivono in noi: nella nostra memoria, nel nostro amore, nei nostri cuori. Ci parla dei nostri Genitori, di quelli cioè che ci hanno dato la vita terrestre, grazie ai quali tutti noi siamo diventati partecipi dell’umanità. Questo cimitero ci parla anche di molti altri uomini, il cui amore, esempio e influenza hanno lasciato nelle nostre anime durevoli tracce. Noi viviamo sempre nell’ambito della verità da loro vissuta, nell’ambito dei problemi che loro hanno servito. Siamo, in un certo senso, la loro continuità. Essi vivono in noi; e noi non possiamo cessare dal vivere in loro.

Venendo oggi in questo camposanto, noi vogliamo manifestare tutto ciò. In questo modo il cimitero di Roma, così come tutti i cimiteri in Italia e nel mondo, diventa luogo di una mirabile assemblea: un luogo che rende testimonianza che i morti non cessano di vivere in noi vivi, perché noi, viventi, non cessiamo di vivere da essi e in essi.

2. Se questa verità psicologica, in certo qual modo soggettiva, non può essere fallace, noi, seguendo le parole della odierna festività liturgica, dobbiamo confessare la stessa cosa che, con tanta semplicità e forza, annuncia il Salmo responsoriale: “Del Signore è la terra e quanto contiene, l’universo e i suoi abitanti” (Sal 24,1).

È del Signore!...

Se il mondo, questa terra e tutto ciò che essa contiene, e se infine l’uomo stesso non hanno quel Signore, se non appartengono a lui, se non sono le sue creature... allora il nostro senso della comunione con i morti, il nostro ricordo e il nostro amore si rompono nello stesso punto in cui nascono. Allora dobbiamo abbandonare ciò in cui ciascuno di noi esprime così fortemente se stesso; dobbiamo cancellare ciò che così fortemente decide di ciascuno di noi.

Allora infatti si svela – con una quasi implacabile necessità – questa seconda alternativa: soltanto la terra, che per un certo tempo accetta il dominio dell’uomo, in fin dei conti si dimostra invece la sua padrona. Allora il cimitero è luogo della definitiva sconfitta dell’uomo. È il luogo in cui si manifesta una definitiva e irrevocabile vittoria della “terra” su tutto l’essere umano, pur tanto ricco; il luogo del dominio della terra su colui che, durante la propria vita, pretendeva di essere il suo padrone.

Queste sono le inesorabili conseguenze logiche della concezione del mondo che rifiuta Dio e riduce tutta la realtà esclusivamente alla materia. Nel momento in cui l’uomo, nella sua mente e nel suo cuore, fa morire Dio, deve tener conto di avere condannato ad una morte irreversibile se stesso, di aver accettato il programma della morte dell’uomo. Questo programma purtroppo, e spesso senza una riflessione da parte nostra, diventa il programma della civiltà contemporanea.

3. Noi qui riuniti siamo venuti oggi in questo camposanto per confessare la presenza di Dio e la sua signoria sul mondo creato: per confessare la sua presenza salvifica nella storia dell’uomo. Noi siamo, come dice il Salmo, la generazione che lo cerca, che cerca il volto del Dio di Giacobbe (cf. Sal 24,6).

Sì, siamo venuti qui per confessare il mistero dell’Agnello di Dio, nel quale siamo dotati della salvezza e della vita eterna. Anzi, il Figlio di Dio, Dio vero, diventò uomo e come uomo accettò la morte, per donare a noi la partecipazione alla vita di Dio stesso. Di questa partecipazione ci parla oggi l’Apostolo Giovanni con le parole della sua prima Lettera: “Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente” (1Gv 3,1).

Tale coscienza ci accompagna oggi, venendo per pregare sulle tombe dei nostri cari e per celebrare, in mezzo a queste tombe, il Sacrificio del Corpo e del Sangue di Cristo. Offrendolo, pensiamo insieme con l’Autore dell’Apocalisse a coloro che “hanno lavato le loro vesti rendendole candide col sangue dell’Agnello” (Ap 7,14).

Veniamo qui con la fede. La fede solleva i sigilli di queste tombe e ci permette di pensare a quelli che sono morti come a persone che, per opera di Cristo, vivono in Dio. Con tale coscienza, con tale fede noi tutti, il Vescovo di Roma e i Parroci delle singole parrocchie romane, celebriamo qui oggi il Sacrificio di Cristo. Lo celebriamo con la speranza della vita eterna, che ci ha donato Cristo. “Chiunque ha questa speranza in lui purifica se stesso, come egli è puro” (1Gv 3,3).

Il cristianesimo è un programma pieno di vita. Dinanzi all’esperienza quotidiana della morte, di cui la nostra umanità diventa partecipe, esso ripete instancabilmente: “Credo nella vita eterna”. E in questa dimensione di vita si trova la definitiva realizzazione dell’uomo in Dio stesso: “Sappiamo... che... noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è” (1Gv 3,2).

4. Perciò anche oggi siamo chiamati a ritrovarci intorno a Cristo, quando egli pronunzia il suo discorso della montagna. Il Vangelo delle otto Beatitudini tocca queste due dimensioni della vita, di cui l’una appartiene a questa terra ed è temporale, mentre l’altra porta in sé la speranza della vita eterna.

Ascoltando queste parole, si può guardare verso la vita eterna a partire dalla temporalità. Ma si può anche e si deve guardare la temporalità, la nostra vita sulla terra, attraverso la prospettiva della vita eterna. E dobbiamo domandarci anche come deve essere questa nostra vita, affinché la speranza della vita eterna possa svilupparsi e maturare in essa. Allora comprendiamo in modo giusto che cosa vuol dire Gesù quando proclama “beati” i poveri in spirito, i miti, e quelli che sono afflitti con una afflizione buona, e quelli che hanno fame e sete della giustizia, e i misericordiosi, e i puri di cuore, e gli operatori di pace, e quelli che sono perseguitati per causa della giustizia.

Cristo vuole che noi siamo tali. E come tali ci attende il Padre. Non allontaniamoci da questo camposanto senza un profondo sguardo sulla nostra vita. Guardiamola nella prospettiva di Dio vivo, nella prospettiva dell’eternità. Allora anche il nostro incontro con quelli che ci hanno lasciato porterà pieno frutto: “La loro speranza è piena di immortalità” (Sap 3,4).


------------------------------------------


VISITA PASTORALE ALLA PARROCCHIA DI 
SAN LORENZO FUORI LE MURA

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Roma, 1 novembre 1981

 

1. “Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello” (Ap 7,14).

È uno dei vegliardi che stanno davanti al trono dell’Altissimo a pronunciare queste parole: le persone biancovestite, che Giovanni vede con occhio profetico, sono i redenti e costituiscono una “moltitudine immensa”, il cui numero è incalcolabile e la cui provenienza è quanto mai varia. Il sangue dell’Agnello, che per tutti si è immolato, ha esercitato in ogni angolo della terra la sua universale ed efficacissima virtù redentiva, apportando grazia e salvezza a questa “moltitudine immensa”. Dopo esser passati attraverso le prove di questa vita ed essersi purificati nel sangue di Cristo, essi – i redenti – sono al sicuro nel Regno di Dio e lo lodano e benedicono nei secoli.

La parole della prima lettura dell’odierna liturgia esprimono così la gioia escatologica della salvezza ormai raggiunta: salvezza che viene partecipata da persone “di ogni nazione, razza, popolo e lingua” (Ap 7,9). È la gioia di tutti i santi, che stanno in piedi “davanti all’Agnello” ed a gran voce gridano: “La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello” (Ap 7,9-10).

Per opera dell’Agnello, che toglie i peccati del mondo, tutti essi partecipano della santità di Dio stesso.

“Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazia, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen” (Ap 7,12).

Partecipando della santità di Dio stesso, tutti coloro che oggi la Chiesa ricorda come tra loro intimamente associati nella Comunione dei santi (Communio Sanctorum), partecipano al tempo stesso della gloria di Dio. E godono della sua gloria.

2. Tra di essi si trova il grande santo, a cui è dedicata questa storica Basilica: Lorenzo, diacono e martire, di cui si vanta la Chiesa Romana così come la Chiesa gerosolimitana si vanta di santo Stefano, pure diacono e protomartire. Ha scritto in proposito san Leone Magno: il Signore “ha voluto esaltare a tal punto il suo nome glorioso in tutto il mondo che dall’Oriente all’Occidente, nel fulgore vivissimo della luce irradiata dai più grandi diaconi, la stessa gloria che è venuta a Gerusalemme da Stefano e toccata anche a Roma per merito di Lorenzo” (S. Leone Magno, Homilia, 85, 4: PL 54,486).

Veramente Lorenzo, al pari di Stefano, è passato “attraverso la grande tribolazione” e ha lavato le sue vesti “rendendole candide col sangue dell’Agnello” (cf. Ap 7,14). La storia ci conferma quanto sia glorioso il nome di Lorenzo, come glorioso è il sepolcro, presso il quale siamo ora riuniti e sul quale sorge l’altare papale. La sua sollecitudine per i poveri, il suo generoso servizio alla Chiesa di Roma nell’importante settore dell’assistenza e della carità, la fedeltà a Papa Sisto II, da lui spinta al punto di volerlo seguire nella prova suprema del martirio e l’eroica testimonianza del sangue, resa a Cristo solo pochi giorni dopo, sono cose universalmente note, ben al di là dei particolari della più nota tradizione iconografica.

Davvero, Lorenzo passò attraverso la “grande tribolazione” e ne uscì vittorioso, sicché la sua memoria è benedetta nei secoli. Quante sono le Chiese, le parrocchie, le cappelle, le località che da lui prendono nome nel mondo? Quante sono le Chiese a lui intitolate qui in Roma? Voglio limitarmi solo a questa Basilica, che a distanza di tanti secoli e dopo varie trasformazioni e anche distruzioni (purtroppo), ci riporta col pensiero a quella primitiva Basilica che l’imperatore Costantino “fecit... Beato Laurentio martyri via Tiburtina, in agrum Veranum” (Liber Pontificalis).

Ho detto “distruzioni”, perché non posso dimenticare i gravissimi danni subiti da questo Tempio, come dalla zona circostante del “Quartiere san Lorenzo” nel bombardamento del 19 luglio 1943.

Tuttora è vivo il ricordo di quella giornata drammatica, allorché la bianca figura di Pio XII, accompagnato da colui che dopo un ventennio sarebbe stato suo successore col nome di Paolo VI, comparve immediatamente tra la popolazione atterrita e sgomenta, portando conforto, speranza e soccorso in mezzo alle rovine ancora fumanti. Né dimentico che questa stessa Basilica, sempre cara ai Romani Pontefici, accoglie nell’ipogeo le spoglie mortali del Servo di Dio Pio IX.

3. Ed ecco, in questo giorno solenne che oggi vive tutta la Chiesa, Lorenzo, arcidiacono e martire, testimone eroico di Cristo crocifisso e risorto, sembra parlare a noi con le parole della prima lettera di san Giovanni: “Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente” (1Gv 3,1).

Nel compimento della salvezza eterna, nella gloria del regno celeste, si riconferma e realizza in definitiva pienezza ciò che abbiamo accettato mediante la fede: “Noi fin da ora siamo figli di Dio” (1Gv 3,2).

Siamo tali già mediante la grazia santificante nel tempo della vita terrestre, al riparo della fede. Ma ancora non si è manifestato in pienezza ciò che saremo un giorno. Quando lo vedremo così come Egli è, noi saremo simili a lui così come il Figlio è simile al Padre.

Così sembra parlare a noi in questa veneranda Basilica, in diretta vicinanza col Campo Verano, san Lorenzo, diacono e martire romano e, insieme con lui, parlano oggi tutti i santi.

E poi a queste parole giovannee aggiungiamo un fervido incoraggiamento a tutti noi, che in questa terra “pellegriniamo mediante la fede e la speranza”. Sembrano allora dire:
“Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro” (1Gv 3,3).

4. La solennità di Tutti i Santi porta con sé una particolare chiamata alla santità. Noi dobbiamo ricordare che si tratta di una chiamata universale, cioè valida per tutti gli esseri umani senza distinzione di età, di professione, di razza e di lingua. Come i salvati, così i chiamati. Accogliete questa chiamata voi tutti, che costituite la comunità parrocchiale del Popolo di Dio che si aduna presso la Basilica di san Lorenzo. Nel giorno della celebrazione dei santi e della santità, è giusto ed opportuno questo richiamo che col saluto più cordiale desidero ora rivolgere a ciascuno di voi.

È presente con me il Signor Cardinale Vicario di Roma, che sempre mi accompagna in queste visite pastorali, e con lui sono anche il Vicegerente, i Vescovi Ausiliari e specialmente il Vescovo Ausiliare del settore Nord. Unito a loro, miei fratelli e collaboratori nell’Episcopato, io riprendo questo appello alla santità, emergente dall’intima significazione ecclesiale e spirituale della festività odierna, e lo ripeto in forma ed in tono di vivissima esortazione a tutte le componenti della parrocchia. Questa, al confronto di altre parrocchie dell’Urbe, non è molto numerosa, ma quanti problemi essa conosce e deve affrontare per la prevalente sua composizione operaia e per la sua tipica collocazione nelle immediate adiacenze del centro storico, inglobando nel suo ambito – oltre al Cimitero del Verano – importanti strutture scolastiche, ospedaliere e civili.

Mi rivolgo, innanzitutto, al reverendo parroco, ai vice-parroci ed a tutti i confratelli della Comunità Cappuccina, che so impegnati in un delicato e non facile lavoro: per loro la via della santità è legata non già alla segregazione dal mondo, ma ad un multiforme e ben esigente apostolato in favore di tanti fedeli che versano, a volte, in situazione precaria e sono, in non pochi altri casi, soggetti a dispersioni e pericoli. Coraggio, io dico loro, assicurando il mio apprezzamento, il mio ricordo e la mia preghiera di comunione a sostegno del loro lavoro che, proprio in ragione delle accennate difficoltà, è più meritorio e genuinamente evangelico.

E raccomando, poi, a tutti i parrocchiani di corrispondere con generosa disponibilità a queste cure dei loro sacerdoti, reagendo alle insidiose minacce di scristianizzazione e dimostrando con la loro vita di esser degni delle tradizioni cristiane che si incentrano nel nome glorioso del santo titolare di questa Basilica. La vocazione alla santità, infatti, vuol dire messa in pratica, nella concretezza della propria esistenza, degli esempi e degli insegnamenti di Gesù Cristo. Così han fatto i santi, così dobbiamo fare tutti noi.

5. Nella solennità di Ognissanti, dunque, viviamo particolarmente la presenza di Cristo, che è diventato la causa della salvezza eterna per tutti quanti hanno accolto il messaggio del suo Vangelo della croce e della risurrezione.

A noi che viviamo in questo mondo lo stesso Cristo non cessa di dire: “Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e vi ristorerò” (Mt 11,28).

Che il nostro incontro odierno intorno a Cristo, il quale nell’Eucaristia rinnova la sua morte e risurrezione, possa diventare per tutti – affaticati e oppressi – la fonte della speranza. Che tutti possiamo in lui trovare il ristoro e la grazia della salvezza eterna. Amen.


-------------------------------

 VIAGGIO APOSTOLICO IN SPAGNA

SANTA MESSA PER I DEFUNTI NEL CIMITERO DI ALMUDENA

PAROLE DI GIOVANNI PAOLO II

Madrid, 2 novembre 1982

Ci disponiamo a celebrare l’Eucaristia in questo luogo sacro, ove sono sepolti i resti mortali dei vostri defunti, cari fratelli e sorelle di Madrid. Qui riposano persone che hanno avuto un significato determinante nella vostra esistenza. Molti di voi, forse, hanno qui parenti molti stretti, forse gli stessi genitori da cui avete ricevuto la vita. Essi tornano in questo momento alla memoria di ciascuno, emergendo dal passato, come animati da un desiderio di riannodare un dialogo che la morte ha bruscamente interrotto. Così, in questo cimitero dell’“Almudena” - come accade oggi, giorno dei Defunti, negli altri cimiteri cristiani di ogni parte del mondo - si costituisce una ammirabile assemblea, nella quale i vivi incontrano i propri defunti, e con loro rinsaldano i vincoli di una comunione che la morte non ha potuto interrompere.

Comunione reale, non illusoria. Garantita da Cristo che ha voluto vivere nella sua carne l’esperienza della nostra morte, per trionfare su di essa - a vantaggio di tutti noi - con il prodigioso avvenimento della resurrezione. “Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, e resuscitato” (Lc 24, 5-6). L’annuncio degli Angeli, proclamato in quella mattina di Pasqua presso il sepolcro vuoto, è giunto attraverso i secoli fino a noi. Questo annuncio ci propone, anche in questa assemblea liturgica, il motivo essenziale della nostra speranza. In effetti, “se siamo morti con Cristo - ci ricorda san Paolo, alludendo a ciò che è avvenuto nel battesimo - crediamo che anche vivremo con lui” (Rm 6, 8).

Corroborati in questa certezza, eleviamo al cielo - anche tra le tombe di un cimitero - il canto gioioso dell’Alleluia, che è il canto della vittoria. I nostri defunti “vivono con Cristo”, dopo essere stati sepolti con lui nella morte (cf. Rm 6, 4). Per loro il tempo della prova è finito, cedendo il posto al tempo della ricompensa. Per questo - nonostante il velo di tristezza suscitato dalla nostalgia della loro presenza visibile - ci rallegriamo nel sapere che hanno già raggiunto la serenità della “patria”.

Tuttavia, dato che anche loro sono stati partecipi della fragilità propria di ogni essere umano, sentiamo il dovere - che è al tempo stesso una necessità del cuore - di offrire loro l’aiuto affettuoso della nostra orazione, affinché qualunque eventuale residuo di umana debolezza, che possa ancora ritardare il loro felice incontro con Dio, sia cancellato definitivamente. Con questa intenzione ci apprestiamo a celebrare l’Eucaristia per tutti i defunti che riposano in questo cimitero, includendo nel nostro suffragio anche i defunti dei cimiteri di Madrid e della Spagna intera, così come quelli di tutte le Nazioni del mondo.

 
-------------------------------

CONCELEBRAZIONE EUCARISTICA AL CIMITERO ROMANO DEL VERANO

OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II

Solennità di Tutti i Santi 
Martedì, 1° novembre 1983

 

“Rallegriamoci tutti nel Signore in questa solennità di tutti i Santi”.

1. Fratelli e sorelle carissimi! Convenuti all’interno di questo sacro recinto per pregare presso le tombe dei nostri amati congiunti, potrebbe a noi sembrare quasi fuori tempo e fuori luogo un tale invito a rallegrarci nel Signore. Oggi, infatti, nella vigilia della Commemorazione di tutti i fedeli defunti, parrebbe più appropriato aprire l’anima a pensieri austeri e, quindi, anche a sentimenti e ricordi mesti e dolenti.

Eppure, questo è l’invito della Liturgia della Chiesa, e io non esito a ripeterlo ora dinanzi a voi, non senza avvertire che la spirituale letizia, proprio perché incentrata nel Signore, può ben comporsi con quel senso di tristezza che nasce dalla meditazione intorno alla brevità e relatività della vita su questa terra, e anzi di questo naturale e insopprimibile moto dell’umana psicologia essa può divenire come il punto d’arrivo per un arcano processo di sublimazione. Chi crede e spera in Dio - voglio dire - sa trasformare le stesse sofferenze in ragioni di gioia, e sa come e perché nel suo intimo possa svolgersi una tale trasformazione. Proprio adesso ci è stato proposto il Vangelo delle Beatitudini, e Gesù stesso ha preannunciato questo cambiamento, proclamando solennemente: “Beati gli afflitti, perché saranno consolati” (Mt 5, 5)!

2. Il Vangelo delle Beatitudini è stato il codice, al quale si sono ispirati i santi nella loro vita, pur nell’estrema varietà delle circostanze. Ad esso si sono ispirati tutti e ciascuno di “quella moltitudine immensa . . . di ogni nazione, razza, popolo e lingua”, di cui ci ha parlato la prima Lettura (Ap 7, 9). Tutti e ciascuno - uomini e donne, giovani e vecchi, sacerdoti o laici, religiosi e religiose claustrali o viventi nel mondo - hanno preso sul serio le programmatiche enunciazioni di Cristo Signore e, sforzandosi di tradurle nella pratica quotidiana, hanno meritato di ottenere la salvezza e di entrare nel Regno del Padre. Ecco perché leggiamo che “tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello . . . E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello»” (Ap 7, 9-10).

Anche se mi manca il tempo per esaminare ad una ad una le Beatitudini della povertà evangelica, della sofferenza cristianamente accettata, dell’impegno in favore della giustizia e della pace, della purezza di cuore, ecc. (cf. Mt 5, 1-12), non posso non rilevare come per i santi sia stato essenziale, ai fini della loro salvezza eterna, il rapporto di adesione che con esse hanno non solo instaurato a livello concettuale, ma altresì vissuto a livello esistenziale. Fedeli a questi alti insegnamenti di Cristo, i santi hanno così potuto seguirlo come l’Agnello che, dopo essersi immolato al Calvario, è ora assiso nella gloria presso il trono di Dio.

3. Chi sono i santi? Ancora una volta ci risponde il testo sacro odierno: “Essi sono coloro che sono passati attraverso la grande tribolazione e hanno lavato le loro vesti, rendendole candide col sangue dell’Agnello” (Ap 7, 14).

Queste parole non solo ci confermano la realtà di quel passaggio dal dolore alla gioia, del quale ho parlato all’inizio, ma assumono un significato del tutto particolare nel contesto dell’Anno Santo della Redenzione, che si sta celebrando in tutta quanta la Chiesa. Quest’Anno Santo vuol dire, essenzialmente, attingere ai tesori inesauribili del mistero della Redenzione. E che cos’è quel “lavare le vesti e renderle candide col sangue dell’Agnello” se non attingere a questi stessi tesori? Non è forse vero - come canta l’Inno pasquale - che “l’Agnello ha redento il suo gregge”? Ecco allora che i santi, oltre che essere per noi modelli delle virtù evangeliche, quali sono proposte nelle singole Beatitudini, sono persone che più pienamente hanno attinto alle “risorse” della Redenzione di Cristo e, partecipi del “candore” dell’Agnello, ci precedono nella celebrazione della liturgia celeste, che si svolge “davanti al trono e davanti all’Agnello”.

Quante volte, cari fratelli e sorelle, abbiamo sentito parlare della “comunione dei santi”? Comunione significa unione intima, che è molto più di un semplice contatto e comunicazione: nel campo soprannaturale, essa esprime l’unione intima che sussiste con coloro che, per il possesso della grazia santificante, sono membra vive della Chiesa e a titolo del tutto speciale, con coloro che, per il possesso della gloria, sono già “beati” nella Chiesa cosiddetta trionfante. A questa realtà della “comunione dei santi” il carattere della Solennità odierna e la circostanza dell’Anno Giubilare devono simultaneamente aprirci. Noi dobbiamo, pertanto, ringraziare i santi, e non già come individui degni, sì, di ammirazione, ma per noi troppo lontani e quasi irraggiungibili nella loro altezza, ma come fratelli che ci sono vicini e vogliono aiutarci nel nostro pellegrinaggio terreno. Come essi, vivendo presso il trono di Dio, accanto all’Agnello redentore, ora partecipano in pienezza ai frutti della Redenzione, così sono in grado di aprirci in modo singolare l’accesso a tali soprannaturali “risorse”. Quella “comunione” esistente tra tutti coloro che appartengono a Cristo, diventa nel caso dei santi un vincolo ancora più stretto e per noi, pellegrini quaggiù, particolarmente fecondo: diventa intercessione, ossia aiuto nelle necessità, difesa dai pericoli, sostegno nell’operare il bene. Accompagnati e come scortati da questa moltitudine immensa di fratelli maggiori, noi dobbiamo accostarci con rinnovata fiducia al trono dov’è l’Agnello immacolato, per far nostri e - direi quasi - “personalizzare” i frutti della Redenzione, che egli ha compiuto con la sua morte e risurrezione.

4. Oggi i santi, domani i morti. Con sapiente intuito pedagogico la Chiesa tiene e mantiene cronologicamente unite queste due ricorrenze, perché, pur preoccupata della sorte degli uomini su questa terra, essa non può assolutamente disattendere o trascurare la loro dimensione ultraterrena. Per questo, come ci ha fatto meditare intorno ai santi, ora ci invita anche a ricordare con devoto pensiero i nostri fratelli defunti. Dirò di più: quella serie di concetti, che ho fin qui sviluppato nel quadro della “comunione dei santi”, può e deve essere riferita - come conviene - ai defunti, poiché anche tra noi e loro vige quel vincolo di unione. E se, seguendo l’esempio dei santi, ho voluto ribadire il nostro comune dovere di attingere alle inesauribili “risorse” della Redenzione di Cristo, desideriamo altresì, oggi e domani specialmente, che ogni frutto di questa nostra partecipazione serva alle anime dei fedeli defunti.

Sapete bene come durante quest’Anno viene elargita una speciale Indulgenza giubilare che - al pari delle altre Indulgenze - può sempre essere applicata ai defunti a modo di suffragio. Questo ho voluto esplicitamente riaffermare nella Bolla di indizione dell’Anno Santo (cf. Giovanni Paolo II, Aperite portas Redemptori, 11), e questo desidero ora raccomandarvi caldamente, additandovi un concreto e prezioso atto di carità verso i defunti, che è ad un tempo esercizio e riprova della “comunione dei santi”.

Che sarebbe, in effetti, il giorno dei morti, se mancasse - tra i vari omaggi umanamente pur tanto apprezzabili e commoventi - questo profumato fiore spirituale che è la preghiera di suffragio? Accanto agli atti tradizionali di devozione per loro io vi indico, in particolare, il dono dell’Indulgenza.

Ecco, mentre si approssima il Vespro in questa giornata solenne, la visione dei santi e dei beati del cielo e con essa l’invito liturgico “a rallegrarci nel Signore” si combinano col ricordo puntuale e dolente dei nostri cari defunti. Ancora una volta noi tutti siamo interiormente sollecitati ad operare una sintesi tra pensieri e sentimenti diversi: le gioie e i dolori possono e debbono armonizzarsi nella superiore, rassicurante serenità della speranza cristiana. E sappiamo che questa è speranza che non confonde (cf. Rm 5, 5).

---------------------------------



[Modificato da Caterina63 22/10/2018 20:58]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)