00 19/08/2020 19:43


UDIENZA GENERALE

Biblioteca del Palazzo Apostolico
Mercoledì, 19 agosto 2020

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Catechesi - “Guarire il mondo”: 3. L’opzione preferenziale per i poveri e la virtù della carità

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La pandemia ha messo allo scoperto la difficile situazione dei poveri e la grande ineguaglianza che regna nel mondo. E il virus, mentre non fa eccezioni tra le persone, ha trovato, nel suo cammino devastante, grandi disuguaglianze e discriminazioni. E le ha aumentate!

La risposta alla pandemia è quindi duplice. Da un lato, è indispensabile trovare la cura per un virus piccolo ma tremendo, che mette in ginocchio il mondo intero. Dall’altro, dobbiamo curare un grande virus, quello dell’ingiustizia sociale, della disuguaglianza di opportunità, della emarginazione e della mancanza di protezione dei più deboli. In questa doppia risposta di guarigione c’è una scelta che, secondo il Vangelo, non può mancare: l’opzione preferenziale per i poveri (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium [EG], 195). E questa non è un’opzione politica; neppure un’opzione ideologica, un’opzione di partiti. L’opzione preferenziale per i poveri è al centro del Vangelo. E il primo a farla è stato Gesù; lo abbiamo sentito nel brano della Lettera ai Corinzi che è stato letto all’inizio. Lui, essendo ricco, si è fatto povero per arricchire noi. Si è fatto uno di noi e per questo, al centro del Vangelo, al centro dell’annuncio di Gesù c’è questa opzione.

Cristo stesso, che è Dio, ha spogliato sé stesso, rendendosi simile agli uomini; e non ha scelto una vita di privilegio, ma ha scelto la condizione di servo (cfr Fil 2,6-7). Annientò sé stesso facendosi servo. È nato in una famiglia umile e ha lavorato come artigiano. All’inizio della sua predicazione, ha annunciato che nel Regno di Dio i poveri sono beati (cfr Mt 5,3; Lc 6,20; EG, 197). Stava in mezzo ai malati, ai poveri, agli esclusi, mostrando loro l’amore misericordioso di Dio (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 2444). E tante volte è stato giudicato come un uomo impuro perché andava dai malati, dai lebbrosi, che secondo la legge dell’epoca erano impuri. E Lui ha rischiato per essere vicino ai poveri.

Per questo, i seguaci di Gesù si riconoscono dalla loro vicinanza ai poveri, ai piccoli, ai malati e ai carcerati, agli esclusi, ai dimenticati, a chi è privo del cibo e dei vestiti (cfr Mt 25,31-36; CCC, 2443). Possiamo leggere quel famoso parametro sul quale saremo giudicati tutti, saremo giudicati tutti. È Matteo, capitolo 25. Questo è un criterio-chiave di autenticità cristiana (cfr Gal 2,10; EG, 195). Alcuni pensano, erroneamente, che questo amore preferenziale per i poveri sia un compito per pochi, ma in realtà è la missione di tutta la Chiesa, diceva San Giovanni Paolo II (cfr S. Giovanni Paolo II, Enc. Sollicitudo rei socialis, 42). «Ogni cristiano e ogni comunità sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei poveri» (EG, 187).

La fede, la speranza e l’amore necessariamente ci spingono verso questa preferenza per i più bisognosi,[1] che va oltre la pur necessaria assistenza (cfr EG, 198). Implica infatti il camminare assieme, il lasciarci evangelizzare da loro, che conoscono bene Cristo sofferente, il lasciarci “contagiare” dalla loro esperienza della salvezza, dalla loro saggezza e dalla loro creatività (cfr ibid.). Condividere con i poveri significa arricchirci a vicenda. E, se ci sono strutture sociali malate che impediscono loro di sognare per il futuro, dobbiamo lavorare insieme per guarirle, per cambiarle (cfr ibid., 195). E a questo conduce l’amore di Cristo, che ci ha amato fino all’estremo (cfr Gv 13,1) e arriva fino ai confini, ai margini, alle frontiere esistenziali. Portare le periferie al centro significa centrare la nostra vita in Cristo, che «si è fatto povero» per noi, per arricchirci «per mezzo della sua povertà» (2 Cor 8,9).[2]

Tutti siamo preoccupati per le conseguenze sociali della pandemia. Tutti. Molti vogliono tornare alla normalità e riprendere le attività economiche. Certo, ma questa “normalità” non dovrebbe comprendere le ingiustizie sociali e il degrado dell’ambiente. La pandemia è una crisi e da una crisi non si esce uguali: o usciamo migliori o usciamo peggiori. Noi dovremmo uscire migliori, per migliorare le ingiustizie sociali e il degrado ambientale. Oggi abbiamo un’occasione per costruire qualcosa di diverso. Per esempio, possiamo far crescere un’economia di sviluppo integrale dei poveri e non di assistenzialismo. Con questo io non voglio condannare l’assistenza, le opere di assistenza sono importanti. Pensiamo al volontariato, che è una delle strutture più belle che ha la Chiesa italiana. Ma dobbiamo andare oltre e risolvere i problemi che ci spingono a fare assistenza. Un’economia che non ricorra a rimedi che in realtà avvelenano la società, come i rendimenti dissociati dalla creazione di posti di lavoro dignitosi (cfr EG, 204). Questo tipo di profitti è dissociato dall’economia reale, quella che dovrebbe dare beneficio alla gente comune (cfr Enc. Laudato si’ [LS], 109), e inoltre risulta a volte indifferente ai danni inflitti alla casa comune. L’opzione preferenziale per i poveri, questa esigenza etico-sociale che proviene dall’amore di Dio (cfr LS, 158), ci dà l’impulso a pensare e disegnare un’economia dove le persone, e soprattutto i più poveri, siano al centro. E ci incoraggia anche a progettare la cura del virus privilegiando coloro che ne hanno più bisogno. Sarebbe triste se nel vaccino per il Covid-19 si desse la priorità ai più ricchi! Sarebbe triste se questo vaccino diventasse proprietà di questa o quella Nazione e non sia universale e per tutti. E che scandalo sarebbe se tutta l’assistenza economica che stiamo osservando – la maggior parte con denaro pubblico – si concentrasse a riscattare industrie che non contribuiscono all’inclusione degli esclusi, alla promozione degli ultimi, al bene comune o alla cura del creato (ibid.). Sono dei criteri per scegliere quali saranno le industrie da aiutare: quelle che contribuiscono all’inclusione degli esclusi, alla promozione degli ultimi, al bene comune e alla cura del creato. Quattro criteri.

Se il virus dovesse nuovamente intensificarsi in un mondo ingiusto per i poveri e i più vulnerabili, dobbiamo cambiare questo mondo. Con l’esempio di Gesù, il medico dell’amore divino integrale, cioè della guarigione fisica, sociale e spirituale (cfr Gv 5,6-9) – come era la guarigione che faceva Gesù -, dobbiamo agire ora, per guarire le epidemie provocate da piccoli virus invisibili, e per guarire quelle provocate dalle grandi e visibili ingiustizie sociali. Propongo che ciò venga fatto a partire dall’amore di Dio, ponendo le periferie al centro e gli ultimi al primo posto. Non dimenticare quel parametro sul quale saremo giudicati, Matteo, capitolo 25. Mettiamolo in pratica in questa ripresa dall’epidemia. E a partire da questo amore concreto, ancorato alla speranza e fondato nella fede, un mondo più sano sarà possibile. Al contrario, usciremo peggio dalla crisi. Che il Signore ci aiuti, ci dia la forza per uscire migliori, rispondendo alle necessità del mondo di oggi.

 


[1] Cfr Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione su alcuni aspetti della "Teologia della Liberazione", (1984), 5.

[2] Benedetto XVI, Discorso inaugurale della V Conferenza Generale dell'Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi (13 maggio 2007), 3.


[Saluto cordialmente tutti i polacchi. Cari fratelli e sorelle, mi unisco spiritualmente a tutti coloro che intraprendono diverse iniziative spirituali, scientifiche e sociali per limitare gli effetti della pandemia nella società e per venire incontro alle vitali necessità dei malati e dei loro famigliari. Vi chiedo, siate generosi e non dimenticatevi delle necessità dei più poveri e delle persone sole, soprattutto gli anziani e i malati. Il Signore vi benedica e vi sostenga!]

* * *

Rivolgo un cordiale saluto ai fedeli di lingua italiana. Tutti invito a dedicare sempre più tempo alla preghiera e alla formazione cristiana, per essere fedeli discepoli di Cristo e crescere nello spirito di solidarietà fraterna.

Il mio pensiero va infine agli anziani, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Domani celebreremo la memoria liturgica di San Bernardo di Chiaravalle, grande dottore della Chiesa e soprattutto tenero cantore della Madonna. Il suo esempio susciti in ciascuno il desiderio di abbandonarsi con fiducia alla materna protezione della Vergine santa, consolatrice degli afflitti.


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UDIENZA GENERALE

Biblioteca del Palazzo Apostolico
Mercoledì, 26 agosto 2020

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Catechesi - “Guarire il mondo”: 4. La destinazione universale dei beni e la virtù della speranza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Davanti alla pandemia e alle sue conseguenze sociali, molti rischiano di perdere la speranza. In questo tempo di incertezza e di angoscia, invito tutti ad accogliere il dono della speranza che viene da Cristo. È Lui che ci aiuta a navigare nelle acque tumultuose della malattia, della morte e dell’ingiustizia, che non hanno l’ultima parola sulla nostra destinazione finale.

La pandemia ha messo in rilievo e aggravato i problemi sociali, soprattutto la disuguaglianza. Alcuni possono lavorare da casa, mentre per molti altri questo è impossibile. Certi bambini, nonostante le difficoltà, possono continuare a ricevere un’educazione scolastica, mentre per tantissimi altri questa si è interrotta bruscamente. Alcune nazioni potenti possono emettere moneta per affrontare l’emergenza, mentre per altre questo significherebbe ipotecare il futuro.

Questi sintomi di disuguaglianza rivelano una malattia sociale; è un virus che viene da un’economia malata. Dobbiamo dirlo semplicemente: l’economia è malata. Si è ammalata. È il frutto di una crescita economica iniqua - questa è la malattia: il frutto di una crescita economica iniqua - che prescinde dai valori umani fondamentali. Nel mondo di oggi, pochi ricchissimi possiedono più di tutto il resto dell’umanità. Ripeto questo perché ci farà pensare: pochi ricchissimi, un  gruppetto, possiedono più di tutto il resto dell’umanità. Questa è statistica pura. È un’ingiustizia che grida al cielo! Nello stesso tempo, questo modello economico è indifferente ai danni inflitti alla casa comune. Non si prende cura della casa comune. Siamo vicini a superare molti dei limiti del nostro meraviglioso pianeta, con conseguenze gravi e irreversibili: dalla perdita di biodiversità e dal cambiamento climatico fino all’aumento del livello dei mari e alla distruzione delle foreste tropicali. La disuguaglianza sociale e il degrado ambientale vanno di pari passo e hanno la stessa radice (cfr Enc. Laudato si’, 101): quella del peccato di voler possedere, di voler dominare i fratelli e le sorelle, di voler possedere e dominare la natura e lo stesso Dio. Ma questo non è il disegno della creazione.

«All’inizio, Dio ha affidato la terra e le sue risorse alla gestione comune dell’umanità, affinché se ne prendesse cura» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 2402). Dio ci ha chiesto di dominare la terra in suo nome (cfr Gen 1,28), coltivandola e curandola come un giardino, il giardino di tutti (cfr Gen 2,15). «Mentre “coltivare” significa arare o lavorare [...], “custodire” vuol dire proteggere [e] preservare» (LS, 67).Ma attenzione a non interpretare questo come carta bianca per fare della terra ciò che si vuole. No. Esiste «una relazione di reciprocità responsabile» (ibid.) tra noi e la natura. Una relazione di reciprocità responsabile fra noi e la natura. Riceviamo dal creato e diamo a nostra volta. «Ogni comunità può prendere dalla bontà della terra ciò di cui ha bisogno per la propria sopravvivenza, ma ha anche il dovere di tutelarla» (ibid.). Ambedue le parti.

Difatti, la terra «ci precede e ci è stata data» (ibid.), è stata data da Dio «a tutto il genere umano» (CCC, 2402). E quindi è nostro dovere far sì che i suoi frutti arrivino a tutti, non solo ad alcuni. E questo è un elemento-chiave della nostra relazione con i beni terreni. Come ricordavano i padri del Concilio Vaticano II, «l’uomo, usando di questi beni, deve considerare le cose esteriori che legittimamente possiede non solo come proprie, ma anche come comuni, nel senso che possano giovare non unicamente a lui ma anche agli altri» (Cost. past. Gaudium et spes, 69). Infatti, «la proprietà di un bene fa di colui che lo possiede un amministratore della Provvidenza, per farlo fruttificare e spartirne i frutti con gli altri» (CCC, 2404). Noi siamo amministratori dei beni, non padroni. Amministratori. “Sì, ma il bene è mio”. È vero, è tuo, ma per amministrarlo, non per averlo egoisticamente per te.

Per assicurare che ciò che possediamo porti valore alla comunità, «l’autorità politica ha il diritto e il dovere di regolare il legittimo esercizio del diritto di proprietà in funzione del bene comune» (ibid., 2406).[1] La «subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni [...] è una “regola d’oro” del comportamento sociale, e il primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale» (LS, 93).[2]

Le proprietà, il denaro sono strumenti che possono servire alla missione. Però li trasformiamo facilmente in fini, individuali o collettivi. E quando questo succede, vengono intaccati i valori umani essenziali. L’homo sapiens si deforma e diventa una specie di homo œconomicus – in senso deteriore – individualista, calcolatore e dominatore. Ci dimentichiamo che, essendo creati a immagine e somiglianza di Dio, siamo esseri sociali, creativi e solidali, con un’immensa capacità di amare. Ci dimentichiamo spesso di questo. Di fatto, siamo gli esseri più cooperativi tra tutte le specie, e fioriamo in comunità, come si vede bene nell’esperienza dei santi.[3] C’è un detto spagnolo che mi ha ispirato questa frase, e dice così: florecemos en racimo como los santos. Fioriamo in comunità come si vede nell’esperienza dei santi.

Quando l’ossessione di possedere e dominare esclude milioni di persone dai beni primari; quando la disuguaglianza economica e tecnologica è tale da lacerare il tessuto sociale; e quando la dipendenza da un progresso materiale illimitato minaccia la casa comune, allora non possiamo stare a guardare. No, questo è desolante. Non possiamo stare a guardare! Con lo sguardo fisso su Gesù (cfr Eb 12,2) e con la certezza che il suo amore opera mediante la comunità dei suoi discepoli, dobbiamo agire tutti insieme, nella speranza di generare qualcosa di diverso e di meglio. La speranza cristiana, radicata in Dio, è la nostra àncora. Essa sostiene la volontà di condividere, rafforzando la nostra missione come discepoli di Cristo, il quale ha condiviso tutto con noi.

E questo lo capirono le prime comunità cristiane, che come noi vissero tempi difficili. Consapevoli di formare un solo cuore e una sola anima, mettevano tutti i loro beni in comune, testimoniando la grazia abbondante di Cristo su di loro (cfr At 4,32-35). Noi stiamo vivendo una crisi. La pandemia ci ha messo tutti in crisi. Ma ricordatevi: da una crisi non si può uscire uguali, o usciamo migliori, o usciamo peggiori. Questa è la nostra opzione. Dopo la crisi, continueremo con questo sistema economico di ingiustizia sociale e di disprezzo per la cura dell’ambiente, del creato, della casa comune? Pensiamoci. Possano le comunità cristiane del ventunesimo secolo recuperare questa realtà - la cura del creato e la giustizia sociale: vanno insieme -, dando così testimonianza della Risurrezione del Signore. Se ci prendiamo cura dei beni che il Creatore ci dona, se mettiamo in comune ciò che possediamo in modo che a nessuno manchi, allora davvero potremo ispirare speranza per rigenerare un mondo più sano e più equo.

E per finire, pensiamo ai bambini. Leggete le statistiche: quanti bambini, oggi, muoiono di fame per una non buona distribuzione delle ricchezze, per un sistema economico come ho detto prima; e quanti bambini, oggi, non hanno diritto alla scuola, per lo stesso motivo. Che sia questa immagine, dei bambini bisognosi per fame e per mancanza di educazione, che ci aiuti a capire che dopo questa crisi dobbiamo uscire migliori. Grazie.


[1] Cfr GS, 71; S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 42; Lett. enc. Centesimus annus, 40.48).

[2] Cfr S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens, 19.

[3] “Florecemos en racimo, como los santos”: espressione comune in lingua spagnola.


Saluti

* * *

Rivolgo un cordiale saluto ai fedeli di lingua italiana, esortando tutti ad essere in ogni ambiente generosi testimoni della gratuità dell’amore di Dio.

Il mio pensiero va infine agli anziani, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Domani e dopodomani la liturgia fa memoria di due grandi Santi, santa Monica e suo figlio sant’Agostino, uniti in terra da vincoli familiari ed in cielo dallo stesso destino di gloria. Il loro esempio e la loro intercessione spingano ciascuno ad una ricerca sincera della Verità evangelica.

 
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UDIENZA GENERALE

Cortile San Damaso
Mercoledì, 2 settembre 2020

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Catechesi - “Guarire il mondo”: 5. La solidarietà e la virtù della fede

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Dopo tanti mesi riprendiamo il nostro incontro faccia a faccia e non schermo a schermo. Faccia a faccia. Questo è bello! L’attuale pandemia ha evidenziato la nostra interdipendenza: siamo tutti legati, gli uni agli altri, sia nel male che nel bene. Perciò, per uscire migliori da questa crisi, dobbiamo farlo insieme. Insieme, non da soli, insieme. Da soli no, perché non si può! O si fa insieme o non si fa. Dobbiamo farlo insieme, tutti quanti, nella solidarietà. Questa parola oggi vorrei sottolinearla: solidarietà.

Come famiglia umana abbiamo l’origine comune in Dio; abitiamo in una casa comune, il pianeta-giardino, la terra in cui Dio ci ha posto; e abbiamo una destinazione comune in Cristo. Ma quando dimentichiamo tutto questo, la nostra interdipendenza diventa dipendenza di alcuni da altri – perdiamo questa armonia dell’interdipendenza nella solidarietà – aumentando la disuguaglianza e l’emarginazione; si indebolisce il tessuto sociale e si deteriora l’ambiente. È sempre lo stesso modo di agire.

Pertanto, il principio di solidarietà è oggi più che mai necessario, come ha insegnato San Giovanni Paolo II (cfr Enc. Sollicitudo rei socialis, 38-40). In un mondo interconnesso, sperimentiamo che cosa significa vivere nello stesso “villaggio globale”. È bella questa espressione: il grande mondo non è altra cosa che un villaggio globale, perché tutto è interconnesso. Però non sempre trasformiamo questa interdipendenza in solidarietà. C’è un lungo cammino fra l’interdipendenza e la solidarietà. Gli egoismi – individuali, nazionali e dei gruppi di potere – e le rigidità ideologiche alimentano al contrario «strutture di peccato» (ibid., 36).

«La parola “solidarietà” si è un po’ logorata e a volte la si interpreta male, ma indica molto di più di qualche atto sporadico di generosità. È di più! Richiede di creare una nuova mentalità che pensi in termini di comunità, di priorità della vita di tutti rispetto all’appropriazione dei beni da parte di alcuni» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 188). Questo significa solidarietà. Non è solo questione di aiutare gli altri – questo è bene farlo, ma è di più –: si tratta di giustizia (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1938-1940). L’interdipendenza, per essere solidale e portare frutti, ha bisogno di forti radici nell’umano e nella natura creata da Dio, ha bisogno di rispetto dei volti e della terra.

La Bibbia, fin dall’inizio, ci avverte. Pensiamo al racconto della Torre di Babele (cfr Gen 11,1-9), che descrive ciò che accade quando cerchiamo di arrivare al cielo – la nostra meta – ignorando il legame con l’umano, con il creato e con il Creatore. È un modo di dire: questo accade ogni volta che uno vuole salire, salire, senza tenere conto degli altri. Io solo! Pensiamo alla torre. Costruiamo torri e grattacieli, ma distruggiamo la comunità. Unifichiamo edifici e lingue, ma mortifichiamo la ricchezza culturale. Vogliamo essere padroni della Terra, ma roviniamo la biodiversità e l’equilibrio ecologico. Vi ho raccontato in qualche altra udienza di quei pescatori di San Benedetto del Tronto che sono venuti quest’anno e mi hanno detto: “Abbiamo tolto dal mare 24 tonnellate di rifiuti, dei quali la metà era plastica”. Pensate! Questi hanno lo spirito di prendere i pesci, sì, ma anche i rifiuti e portarli fuori per pulire il mare. Ma questo [inquinamento] è rovinare la terra, non avere solidarietà con la terra che è un dono e l’equilibrio ecologico.

Ricordo un racconto medievale che descrive questa “sindrome di Babele”, che è quando non c’è solidarietà. Questo racconto medievale dice che, durante la costruzione della torre, quando un uomo cadeva – erano schiavi – e moriva nessuno diceva nulla, al massimo: “Poveretto, ha sbagliato ed è caduto”. Invece, se cadeva un mattone, tutti si lamentavano. E se qualcuno era il colpevole, era punito! Perché? Perché un mattone era costoso da fare, da preparare, da cuocere. C’era bisogno di tempo e di lavoro per fare un mattone. Un mattone valeva di più della vita umana. Ognuno di noi pensi cosa succede oggi. Purtroppo anche oggi può succedere qualcosa del genere. Cade qualche quota del mercato finanziario – lo abbiamo visto sui giornali in questi giorni – e la notizia è in tutte le agenzie. Cadono migliaia di persone a causa della fame, della miseria e nessuno ne parla.

Diametralmente opposta a Babele è la Pentecoste, lo abbiamo sentito all’inizio dell’udienza (cfr At 2,1-3). Lo Spirito Santo, scendendo dall’alto come vento e fuoco, investe la comunità chiusa nel cenacolo, le infonde la forza di Dio, la spinge a uscire, ad annunciare a tutti Gesù Signore. Lo Spirito crea l’unità nella diversità, crea l’armonia. Nel racconto della Torre di Babele non c’era l’armonia; c’era quell’andare avanti per guadagnare. Lì, l’uomo era un mero strumento, mera “forza-lavoro”, ma qui, nella Pentecoste, ognuno di noi è uno strumento, ma uno strumento comunitario che partecipa con tutto sé stesso all’edificazione della comunità. San Francesco d’Assisi lo sapeva bene, e animato dallo Spirito dava a tutte le persone, anzi, alle creature, il nome di fratello o sorella (cfr LS, 11; cfr San Bonaventura, Legenda maior, VIII, 6: FF 1145). Anche il fratello lupo, ricordiamo.

Con la Pentecoste, Dio si fa presente e ispira la fede della comunità unita nella diversità e nella solidarietà. Diversità e solidarietà unite in armonia, questa è la strada. Una diversità solidale possiede gli “anticorpi” affinché la singolarità di ciascuno – che è un dono, unico e irripetibile – non si ammali di individualismo, di egoismo. La diversità solidale possiede anche gli anticorpi per guarire strutture e processi sociali che sono degenerati in sistemi di ingiustizia, in sistemi di oppressione (cfr Compendio della dottrina sociale della Chiesa, 192). Quindi, la solidarietà oggi è la strada da percorrere verso un mondo post-pandemia, verso la guarigione delle nostre malattie interpersonali e sociali. Non ce n’è un’altra. O andiamo avanti con la strada della solidarietà o le cose saranno peggiori. Voglio ripeterlo: da una crisi non si esce uguali a prima. La pandemia è una crisi. Da una crisi si esce o migliori o peggiori. Dobbiamo scegliere noi. E la solidarietà è proprio una strada per uscire dalla crisi migliori, non con cambiamenti superficiali, con una verniciata così e tutto è a posto. No. Migliori!

Nel mezzo della crisi, una solidarietà guidata dalla fede ci permette di tradurre l’amore di Dio nella nostra cultura globalizzata, non costruendo torri o muri – e quanti muri si stanno costruendo oggi - che dividono, ma poi crollano, ma tessendo comunità e sostenendo processi di crescita veramente umana e solida. E per questo aiuta la solidarietà. Faccio una domanda: io penso ai bisogni degli altri? Ognuno si risponda nel suo cuore.

Nel mezzo di crisi e tempeste, il Signore ci interpella e ci invita a risvegliare e attivare questa solidarietà capace di dare solidità, sostegno e un senso a queste ore in cui tutto sembra naufragare. Possa la creatività dello Spirito Santo incoraggiarci a generare nuove forme di familiare ospitalità, di feconda fraternità e di universale solidarietà. Grazie.


Saluti


APPELLO PER IL LIBANO

 

Cari fratelli e sorelle, a un mese dalla tragedia che ha colpito la città di Beirut, il mio pensiero va ancora al caro Libano e alla sua popolazione particolarmente provata. E questo sacerdote che è qui, ha portato la bandiera del Libano a questa udienza.

Come San Giovanni Paolo II disse trent’anni fa in un momento cruciale della storia del Paese, anche io quest’oggi ripeto: «Di fronte ai ripetuti drammi, che ciascuno degli abitanti di questa terra conosce, noi prendiamo coscienza dell’estremo pericolo che minaccia l’esistenza stessa del Paese. Il Libano non può essere abbandonato nella sua solitudine» (Lettera apostolica a tutti i Vescovi della Chiesa cattolica sulla situazione nel Libano, 7 settembre 1989).

Per oltre cento anni, il Libano è stato un Paese di speranza. Anche durante i periodi più bui della sua storia, i libanesi hanno conservato la loro fede in Dio e dimostrato la capacità di fare della loro terra un luogo di tolleranza, di rispetto, di convivenza unico nella regione. È profondamente vera l’affermazione che il Libano rappresenta qualcosa di più di uno Stato: il Libano «è un messaggio di libertà, è un esempio di pluralismo tanto per l’Oriente quanto per l’Occidente» (ibid.). Per il bene stesso del Paese, ma anche del mondo, non possiamo permettere che questo patrimonio vada disperso.

Incoraggio tutti i libanesi a continuare a sperare e a ritrovare le forze e le energie necessarie per ripartire. Domando ai politici e ai leader religiosi di impegnarsi con sincerità e trasparenza nell’opera di ricostruzione, lasciando cadere gli interessi di parte e guardando al bene comune e al futuro della nazione. Rinnovo altresì l’invito alla Comunità internazionale a sostenere il Paese per aiutarlo ad uscire dalla grave crisi, senza essere coinvolto nelle tensioni regionali.

In modo particolare mi rivolgo agli abitanti di Beirut, duramente provati dall’esplosione: riprendete coraggio, fratelli! La fede e la preghiera siano la vostra forza. Non abbandonate le vostre case e la vostra eredità, non fate cadere il sogno di quelli che hanno creduto nell’avvenire di un Paese bello e prospero.

Cari pastori, vescovi, sacerdoti, consacrati, consacrate, laici, continuate ad accompagnare i vostri fedeli. E a voi, vescovi e sacerdoti, chiedo zelo apostolico; vi chiedo povertà, niente lusso, povertà con il vostro povero popolo che sta soffrendo. Date voi l’esempio di povertà e di umiltà. Aiutate i vostri fedeli e il vostro popolo a rialzarsi ed essere protagonisti di una nuova rinascita. Siate tutti operatori di concordia e rinnovamento nel nome dell’interesse comune, di una vera cultura dell’incontro, del vivere insieme nella pace, di fratellanza. Una parola tanto cara a San Francesco: fratellanza. Che questa concordia sia un rinnovamento nell’interesse comune. Su questo fondamento si potrà assicurare la continuità della presenza cristiana e il vostro inestimabile contributo al Paese, al mondo arabo e a tutta la regione, in uno spirito di fratellanza fra tutte le tradizioni religiose che ci sono nel Libano.

È per questa ragione che desidero invitare tutti a vivere una giornata universale di preghiera e digiuno per il Libano, venerdì prossimo, 4 settembre. Io ho l’intenzione di inviare un mio rappresentante quel giorno in Libano per accompagnare la popolazione: andrà il Segretario di Stato a nome mio, per esprimere la mia vicinanza e solidarietà. Offriamo la nostra preghiera per tutto il Libano e per Beirut. Siamo vicini anche con l’impegno concreto della carità, come in altre occasioni simili. Invito anche i fratelli e le sorelle di altre confessioni e tradizioni religiose ad associarsi a questa iniziativa nelle modalità che riterranno più opportune, ma tutti insieme.

E adesso vi chiedo di affidare a Maria, Nostra Signora di Harissa, le nostre angosce e speranze. Sia Lei a sostenere quanti piangono i loro cari e infondere coraggio a tutti quelli che hanno perso le loro case e con esse parte della loro vita. Che interceda presso il Signore Gesù, affinché la Terra dei Cedri rifiorisca ed effonda il profumo del vivere insieme in tutta la Regione del Medio Oriente.

E adesso invito tutti, per quanto possibile, a metterci in piedi in silenzio e pregare in silenzio per il Libano.

* * *

Saluto cordialmente voi, pellegrini qui presenti, e quanti seguono attraverso i media. Vi incoraggio a invocare spesso nelle vostre giornate lo Spirito Santo: la sua forza buona e creativa ci permette di uscire da noi stessi e di essere per gli altri un segno di conforto e di speranza.

Rivolgo un pensiero speciale agli anziani, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Il Signore conosce meglio di noi stessi le attese e le necessità che portiamo nel cuore. Affidiamoci alla sua Provvidenza con piena fiducia, ricercando sempre il bene, anche quando costa.


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[Modificato da Caterina63 06/09/2020 14:27]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)