00 11/05/2022 14:25


UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 11 maggio 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia: 9. Giuditta. Una giovinezza ammirevole, una vecchiaia generosa.

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi parleremo di Giuditta, una eroina biblica. La conclusione del libro che porta il suo nome – ne abbiamo ascoltato un brano – sintetizza l’ultima parte della vita di questa donna, che difese Israele dai suoi nemici. Giuditta è una giovane e virtuosa vedova giudea che, grazie alla sua fede, alla sua bellezza e alla sua astuzia, salva la città di Betulia e il popolo di Giuda dall’assedio di Oloferne, generale di Nabucodonosor re d’Assiria, nemico prepotente e sprezzante di Dio. E così, con il suo modo furbo di agire, è capace di sgozzare il dittatore che era contro il Paese. Era coraggiosa, questa donna, ma aveva fede.

Dopo la grande avventura che la vede protagonista, Giuditta torna a vivere nella sua città, Betulia, dove vive una bella vecchiaia fino a centocinque anni. Era giunto per lei il tempo della vecchiaia come arriva per molte persone: a volte dopo un’intensa vita di lavoro, a volte dopo un’esistenza avventurosa, o di grande dedizione. L’eroismo non è soltanto quello dei grandi eventi che cadono sotto i riflettori, per esempio quello di Giuditta di avere ucciso il dittatore: ma spesso l’eroismo si trova nella tenacia dell’amore riversato in una famiglia difficile e a favore di una comunità minacciata.

Giuditta visse più di cent’anni, una benedizione particolare. Ma non è raro, oggi, avere tanti anni ancora da vivere dopo la stagione del pensionamento. Come interpretare, come far fruttare questo tempo che abbiamo a disposizione? Io vado in pensione oggi, e saranno tanti anni, e cosa posso fare, in questi anni, come posso crescere – in età va da sé – ma come posso crescere in autorità, in santità, in saggezza?

La prospettiva della pensione coincide per molti con quella di un meritato e desiderato riposo da attività impegnative e faticose. Ma accade anche che la fine del lavoro rappresenti una fonte di preoccupazione e sia atteso con qualche trepidazione: “Che farò adesso che la mia vita si svuoterà di ciò che l’ha riempita per tanto tempo?”: questa è la domanda. Il lavoro quotidiano significa anche un insieme di relazioni, la soddisfazione di guadagnarsi da vivere, l’esperienza di avere un ruolo, una meritata considerazione, un tempo pieno che va al di là del semplice orario di lavoro.

Certo, c’è l’impegno, gioioso e faticoso, di accudire i nipoti, e oggi i nonni hanno un ruolo molto grande in famiglia per aiutare a crescere i nipoti; ma sappiamo che oggi di figli ne nascono sempre meno, e i genitori sono spesso più distanti, più soggetti a spostamenti, con situazioni di lavoro e di abitazione non favorevoli. A volte sono anche più restii nell’affidare ai nonni spazi di educazione, concedendo solo quelli strettamente legati al bisogno di assistenza. Ma qualcuno mi diceva, un po’ sorridendo con ironia: “Oggi, i nonni, in questa situazione socio-economica, sono diventati più importanti, perché hanno la pensione”. Ci sono nuove esigenze, anche nell’ambito delle relazioni educative e parentali, che ci chiedono di rimodellare la tradizionale alleanza fra le generazioni.

Ma, ci domandiamo: noi facciamo questo sforzo di “rimodellamento”? Oppure subiamo semplicemente l’inerzia delle condizioni materiali ed economiche? La compresenza delle generazioni, di fatto, si allunga. Cerchiamo, tutti insieme, di renderle più umane, più affettuose, più giuste, nelle nuove condizioni delle società moderne? Per i nonni, una parte importante della loro vocazione è sostenere i figli nell’educazione dei bambini. I piccoli imparano la forza della tenerezza e il rispetto per la fragilità: lezioni insostituibili, che con i nonni sono più facili da impartire e da ricevere. I nonni, da parte loro, imparano che la tenerezza e la fragilità non sono solo segni del declino: per i giovani, sono passaggi che rendono umano il futuro.

Giuditta rimane vedova presto e non ha figli, ma, da anziana, è capace di vivere una stagione di pienezza e di serenità, nella consapevolezza di avere vissuto fino in fondo la missione che il Signore le aveva affidato. Per lei è il tempo di lasciare l’eredità buona della saggezza, della tenerezza, dei doni per la famiglia e la comunità: un’eredità di bene e non soltanto di beni. Quando si pensa all’eredità, alle volte pensiamo ai beni, e non al bene che si è fatto nella vecchiaia e che è stato seminato, quel bene che è la migliore eredità che noi possiamo lasciare.

Proprio nella sua vecchiaia, Giuditta “concesse la libertà alla sua ancella preferita”. Questo è segno di uno sguardo attento e umano nei confronti di chi le è stato vicino. Questa ancella l’aveva accompagnata al momento di quell’avventura per vincere il dittatore e sgozzarlo. Da vecchi, si perde un po’ di vista ma lo sguardo interiore si fa più penetrante: si vede con il cuore. Si diventa capaci di vedere cose che prima sfuggivano. I vecchi sanno guardare e sanno vedere … È così: il Signore non affida i suoi talenti solo ai giovani e ai forti: ne ha per tutti, su misura di ciascuno, anche per i vecchi. La vita delle nostre comunità deve saper godere dei talenti e dei carismi di tanti anziani, che per l’anagrafe sono già in pensione, ma che sono una ricchezza da valorizzare. Questo richiede, da parte degli anziani stessi, un’attenzione creativa, un’attenzione nuova, una disponibilità generosa. Le precedenti abilità della vita attiva perdono la loro parte di costrizione e diventano risorse di donazione: insegnare, consigliare, costruire, curare, ascoltare… Preferibilmente a favore dei più svantaggiati, che non possono permettersi alcun apprendimento o che sono abbandonati alla loro solitudine.

Giuditta liberò la sua ancella e colmò tutti di attenzioni. Da giovane si era conquistata la stima della comunità con il suo coraggio. Da anziana, la meritò per la tenerezza con cui ne arricchì la libertà e gli affetti. Giuditta non è una pensionata che vive malinconicamente il suo vuoto: è un’anziana appassionata che riempie di doni il tempo che Dio le dona. Io mi raccomando: prendete, uno di questi giorni, la Bibbia e prendete il Libro di Giuditta: è piccolino, si legge facilmente, sono 10 pagine, non di più. Leggete questa storia di una donna coraggiosa che finisce così, con tenerezza, con generosità, una donna all’altezza. E così io vorrei che fossero le nostre nonne. Tutte così: coraggiose, sagge e che ci lascino l’eredità non dei soldi, ma l’eredità della saggezza, seminata nei loro nipoti.

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Saluti

[Saluto cordialmente i pellegrini Polacchi. Lunedì avete celebrato la solennità di San Stanislao, vescovo e martire, patrono della vostra Patria. Questo strenuo difensore del divino ordine morale, particolarmente in questa settimana di preghiera per le vocazioni, ottenga per tutti i giovani il dono del sapiente discernimento della strada di vita, dell’affidamento a Cristo e della fedeltà ai valori evangelici. Vi benedico di cuore.]

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Rivolgo un pensiero speciale al popolo dello Sri Lanka, in particolare ai giovani che negli ultimi tempi hanno fatto sentire il loro grido di fronte alle sfide e ai problemi sociali ed economici del Paese. Mi unisco a quelle autorità religiose nell’esortare tutte le parti in causa a mantenere un atteggiamento pacifico, senza cedere alla violenza. Faccio appello a tutti coloro che hanno responsabilità, perché ascoltino le aspirazioni della gente garantendo il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà civili.

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Capitolari delle Figlie di San Francesco di Sales e delle Suore Mariste, i sacerdoti novelli dei Legionari di Cristo con i familiari, i Rettori dei Seminari Maggiori dei territori di Missione, l’Associazione Padre Eusebio Chini.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. In questo mese dedicato in modo speciale alla Madonna, vi invito a seguire l’esempio di Maria, confidando nella sua materna intercessione, fiduciosamente abbandonati nelle mani del Signore, sostenuti da Colei che sul Calvario restò fedele sotto la Croce.

E vorrei scusarmi perché oggi non potrò venire da voi a salutarvi a causa del mio ginocchio: è ancora malato. Dovrete voi camminare un po’ da me, ma è lo stesso e vi ricevo con il cuore in mano. Grazie, a voi.

E a tutti la mia benedizione.


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UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 18 maggio 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia - 10. Giobbe. La prova della fede, la benedizione dell’attesa

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il brano biblico che abbiamo ascoltato chiude il Libro di Giobbe, un vertice della letteratura universale. Noi incontriamo Giobbe nel nostro cammino di catechesi sulla vecchiaia: lo incontriamo come testimone della fede che non accetta una “caricatura” di Dio, ma grida la sua protesta di fronte al male, finché Dio risponda e riveli il suo volto. E Dio alla fine risponde, come sempre in modo sorprendente: mostra a Giobbe la sua gloria ma senza schiacciarlo, anzi, con sovrana tenerezza, come fa Dio, sempre, con tenerezza. Bisogna leggere bene le pagine di questo libro, senza pregiudizi, senza luoghi comuni, per cogliere la forza del grido di Giobbe. Ci farà bene metterci alla sua scuola, per vincere la tentazione del moralismo davanti all’esasperazione e all’avvilimento per il dolore di aver perso tutto.

In questo passaggio conclusivo del libro – noi ricordiamo la storia, Giobbe che perde tutto nella vita, perde le ricchezze, perde la famiglia, perde il figlio e perde anche la salute e rimane lì, piagato, in dialogo con tre amici, poi un quarto, che vengono a salutarlo: questa è la storia – e in questo passaggio di oggi, il passaggio conclusivo del libro, quando Dio finalmente prende la parola (e questo dialogo di Giobbe con i suoi amici è come una strada per arrivare al momento che Dio dia la sua parola) Giobbe viene lodato perché ha compreso il mistero della tenerezza di Dio nascosta dietro il suo silenzio. Dio rimprovera gli amici di Giobbe che presumevano di sapere tutto, sapere di Dio e del dolore, e, venuti per consolare Giobbe, avevano finito per giudicarlo con i loro schemi precostituiti. Dio ci preservi da questo pietismo ipocrita e presuntuoso! Dio ci preservi da quella religiosità moralistica e quella religiosità di precetti che ci dà una certa presunzione e porta al fariseismo e all’ipocrisia.

Ecco come si esprime il Signore nei loro confronti. Così dice il Signore: «La mia ira si è accesa contro di [voi][…], perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe. […]»: questo è quello che dice il Signore agli amici di Giobbe. «Il mio servo Giobbe pregherà per voi, affinché io, per riguardo a lui, non punisca la vostra stoltezza, perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe» (42,7-8). La dichiarazione di Dio ci sorprende, perché abbiamo letto le pagine infuocate della protesta di Giobbe, che ci hanno lasciato sgomenti. Eppure – dice il Signore – Giobbe ha parlato bene, anche quando era arrabbiato e anche arrabbiato contro Dio, ma ha parlato bene, perché ha rifiutato di accettare che Dio sia un “Persecutore”, Dio è un’altra cosa. E in premio Dio restituisce a Giobbe il doppio di tutti i suoi beni, dopo avergli chiesto di pregare per quei suoi cattivi amici.

Il punto di svolta della conversione della fede avviene proprio al culmine dello sfogo di Giobbe, là dove dice: «Io so che il mio redentore è vivo / e che, ultimo, si ergerà sulla polvere! / Dopo che questa mia pelle sarà strappata via, / senza la mia carne, vedrò Dio. / Io lo vedrò, io stesso, / i miei occhi lo contempleranno e non un altro». (19,25-27). Questo passaggio è bellissimo. A me viene in mente la fine di quell’oratorio geniale di Haendel, il Messia, dopo quella festa dell’Alleluja lentamente il soprano canta questo passaggio: “Io so che il mio Redentore vive”, con pace. E così, dopo tutta questa cosa di dolore e di gioia di Giobbe, la voce del Signore è un’altra cosa. “Io so che il mio Redentore vive”: è una cosa bellissima. Possiamo interpretarlo così: “Mio Dio, io so che Tu non sei il Persecutore. Il mio Dio verrà e mi renderà giustizia”. È la fede semplice nella risurrezione di Dio, la fede semplice in Gesù Cristo, la fede semplice che il Signore sempre ci aspetta e verrà.

La parabola del libro di Giobbe rappresenta in modo drammatico ed esemplare quello che nella vita accade realmente. Cioè che su una persona, su una famiglia o su un popolo si abbattono prove troppo pesanti, prove sproporzionate rispetto alla piccolezza e fragilità umana. Nella vita spesso, come si dice, “piove sul bagnato”. E alcune persone sono travolte da una somma di mali che appare veramente eccessiva e ingiusta. E tante persone sono così.

Tutti abbiamo conosciuto persone così. Siamo stati impressionati dal loro grido, ma spesso siamo anche rimasti ammirati di fronte alla fermezza della loro fede e del loro amore nel loro silenzio. Penso ai genitori di bambini con gravi disabilità o a chi vive un’infermità permanente o al familiare che sta accanto... Situazioni spesso aggravate dalla scarsità di risorse economiche. In certe congiunture della storia, questi cumuli di pesi sembrano darsi come un appuntamento collettivo. È quello che è successo in questi anni con la pandemia di Covid-19 e che sta succedendo adesso con la guerra in Ucraina.

Possiamo giustificare questi “eccessi” come una superiore razionalità della natura e della storia? Possiamo benedirli religiosamente come giustificata risposta alle colpe delle vittime, che se li sono meritati? No, non possiamo. Esiste una sorta di diritto della vittima alla protesta, nei confronti del mistero del male, diritto che Dio concede a chiunque, anzi, che è Lui stesso, in fondo, a ispirare. Alle volte io trovo gente che mi si avvicina e mi dice: “Ma, Padre, io ho protestato contro Dio perché ho questo problema, quell’altro …”. Ma, sai, caro, che la protesta è un modo di preghiera, quando si fa così. Quando i bambini, i ragazzi protestano contro i genitori, è un modo per attirare l’attenzione e chiedere che si prendano cura di loro. Se tu hai nel cuore qualche piaga, qualche dolore e ti viene voglia di protestare, protesta anche contro Dio, Dio ti ascolta, Dio è Padre, Dio non si spaventa della nostra preghiera di protesta, no! Dio capisce. Ma sii libero, sii libera nella tua preghiera, non imprigionare la tua preghiera negli schemi preconcetti! La preghiera dev’essere così, spontanea, come quella di un figlio con il padre, che gli dice tutto quello che gli viene in bocca perché sa che il padre lo capisce. Il “silenzio” di Dio, nel primo momento del dramma, significa questo. Dio non si sottrarrà al confronto, ma all’inizio lascia a Giobbe lo sfogo della sua protesta, e Dio ascolta. Forse, a volte, dovremmo imparare da Dio questo rispetto e questa tenerezza. E a Dio non piace quella enciclopedia – chiamiamola così – di spiegazioni, di riflessione che fanno gli amici di Giobbe. Quello è succo di lingua, che non è giusto: è quella religiosità che spiega tutto, ma il cuore rimane freddo. A Dio non piace, questo. Piace più la protesta di Giobbe o il silenzio di Giobbe.

La professione di fede di Giobbe – che emerge proprio dal suo incessante appello a Dio, a una giustizia suprema – si completa alla fine con l’esperienza quasi mistica, direi io, che gli fa dire: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (42,5). Quanta gente, quanti di noi dopo un’esperienza un po’ brutta, un po’ oscura, dà il passo e conosce Dio meglio di prima! E possiamo dire, come Giobbe: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma adesso ti ho visto, perché ti ho incontrato. Questa testimonianza è particolarmente credibile se la vecchiaia se ne fa carico, nella sua progressiva fragilità e perdita. I vecchi ne hanno viste tante nella vita! E hanno visto anche l’inconsistenza delle promesse degli uomini. Uomini di legge, uomini di scienza, uomini di religione persino, che confondono il persecutore con la vittima, imputando a questa la responsabilità piena del proprio dolore. Si sbagliano!

I vecchi che trovano la strada di questa testimonianza, che converte il risentimento per la perdita nella tenacia per l’attesa della promessa di Dio – c’è un cambiamento, dal risentimento per la perdita verso una tenacia per seguire la promessa di Dio – questi vecchi sono un presidio insostituibile per la comunità nell’affrontare l’eccesso del male. Lo sguardo dei credenti che si rivolge al Crocifisso impara proprio questo. Che possiamo impararlo anche noi, da tanti nonni e nonne, da tanti anziani che, come Maria, uniscono la loro preghiera, a volte straziante, a quella del Figlio di Dio che sulla croce si abbandona al Padre. Guardiamo gli anziani, guardiamo i vecchi, le vecchie, le vecchiette; guardiamoli con amore, guardiamo la loro esperienza personale. Essi hanno sofferto tanto nella vita, hanno imparato tanto nella vita, ne hanno passate tante, ma alla fine hanno questa pace, una pace – io direi – quasi mistica, cioè la pace dell’incontro con Dio, tanto che possono dire “Io ti conoscevo per sentito dire, ma adesso ti hanno visto i miei occhi”. Questi vecchi assomigliano a quella pace del figlio di Dio sulla croce che si abbandona al Padre.

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Saluti

[Saluto i fedeli di lingua araba. Giobbe è l’uomo sofferente che ha protestato per la gravità del suo dolore, ma è rimasto solido nella fede, per questo Dio lo ha riempito di tenerezza e l’ha accompagnato in un percorso spirituale per arrivare alla verità e per scoprire che Dio è buono. Il Signore vi benedica tutti e vi protegga sempre da ogni male!]

[Saluto cordialmente i pellegrini polacchi. Due giorni fa avete ricordato Sant'Andrea Bobola, martire gesuita, patrono della vostra Patria. Il suo impegno per l'unità della Chiesa, la sua forza d'animo e la sua fermezza nella difesa della fede in Cristo, vi diano il coraggio di professare i valori evangelici, soprattutto di fronte alle tentazioni della mondanità. Vi benedico di cuore.]

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i sacerdoti della diocesi di Milano e i diaconi prossimi al sacerdozio di Padova: vi esorto a rinnovare giorno per giorno la disponibilità a rispondere fedelmente alla chiamata del Signore per un servizio generoso al popolo santo di Dio. Saluto l’Associazione “Famiglie per l’accoglienza” che si dedica all’adozione, prendendosi cura di bambini e anziani in difficoltà: perseverate nella fede e nella cultura dell’accoglienza, offrendo così una bella testimonianza cristiana e un importante servizio sociale. Grazie, grazie per quello che fate.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. Cari giovani, non abbiate paura di mettere le vostre energie al servizio del Vangelo, con l’entusiasmo caratteristico della vostra età; e voi, cari anziani e cari malati, siate consapevoli di offrire un contributo prezioso alla società, grazie alla vostra saggezza; e voi, cari sposi novelli, fate sì che le vostre famiglie crescano come luoghi in cui si impara ad amare Dio ed il prossimo nella serenità e nella gioia.



UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 25 maggio 2022

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Catechesi sulla Vecchiaia - 11. Qoelet: la notte incerta del senso e delle cose della vita

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nella nostra riflessione sulla vecchiaia – continuiamo a riflettere sulla vecchiaia –, oggi ci confrontiamo con il Libro di Qoelet, un altro gioiello incastonato nella Bibbia. A una prima lettura questo breve libro colpisce e lascia sconcertati per il suo celebre ritornello: «Tutto è vanità», tutto è vanità: il ritornello che va e viene; tutto è vanità, tutto è “nebbia”, tutto è “fumo”, tutto è “vuoto”. Stupisce trovare queste espressioni, che mettono in discussione il senso dell’esistenza, dentro la Sacra Scrittura. In realtà, la continua oscillazione di Qoelet tra senso e non-senso è la rappresentazione ironica di una conoscenza della vita che si distacca dalla passione per la giustizia, della quale è garante il giudizio di Dio. E la conclusione del Libro indica la via d’uscita dalla prova: «Temi Dio e osserva i suoi comandamenti, perché qui sta tutto l’uomo» (12,13). Questo è il consiglio per risolvere questo problema.

Di fronte a una realtà che, in certi momenti, ci sembra ospitare tutti i contrari, riservando loro comunque lo stesso destino, che è quello di finire nel nulla, la via dell’indifferenza può apparire anche a noi l’unico rimedio ad una dolorosa disillusione. Sorgono in noi domande come queste: I nostri sforzi hanno forse cambiato il mondo? Qualcuno è forse capace di far valere la differenza del giusto e dell’ingiusto? Sembra che tutto questo è inutile: perché fare tanti sforzi?

È una specie di intuizione negativa che può presentarsi in ogni stagione della vita, ma non c’è dubbio che la vecchiaia rende quasi inevitabile questo appuntamento col disincanto. Il disincanto, nella vecchiaia, viene. E dunque la resistenza della vecchiaia agli effetti demoralizzanti di questo disincanto è decisiva: se gli anziani, che hanno ormai visto di tutto, conservano intatta la loro passione per la giustizia, allora c’è speranza per l’amore, e anche per la fede. E per il mondo contemporaneo è diventato cruciale il passaggio attraverso questa crisi, crisi salutare, perché? Perché una cultura che presume di misurare tutto e manipolare tutto finisce per produrre anche una demoralizzazione collettiva del senso, una demoralizzazione dell’amore, una demoralizzazione anche del bene.

Questa demoralizzazione ci toglie la voglia di fare. Una presunta “verità”, che si limita a registrare il mondo, registra anche la sua indifferenza agli opposti e li consegna, senza redenzione, al flusso del tempo e al destino del niente. In questa sua forma – ammantata di scientificità, ma anche molto insensibile e molto amorale – la moderna ricerca della verità è stata tentata di congedarsi totalmente dalla passione per la giustizia. Non crede più al suo destino, alla sua promessa, al suo riscatto.

Per la nostra cultura moderna, che alla conoscenza esatta delle cose vorrebbe consegnare praticamente tutto, l’apparizione di questa nuova ragione cinica – che somma conoscenza e irresponsabilità – è un contraccolpo durissimo. Infatti, la conoscenza che ci esonera dalla moralità sembra dapprima una fonte di libertà, di energia, ma ben presto si trasforma in una paralisi dell’anima.

Qoelet, con la sua ironia, smaschera già questa tentazione fatale di una onnipotenza del sapere – un “delirio di onniscienza” – che genera un’impotenza della volontà. I monaci della più antica tradizione cristiana avevano identificato con precisione questa malattia dell’anima, che improvvisamente scopre la vanità della conoscenza senza fede e senza morale, l’illusione della verità senza giustizia. La chiamavano “accidia”. E questa è una delle tentazioni di tutti, anche dei vecchi, ma è di tutti. Non è semplicemente la pigrizia: no, è di più. Non è semplicemente la depressione: no. Piuttosto, l’accidia è la resa alla conoscenza del mondo senza più passione per la giustizia e per l’azione conseguente.

Il vuoto di senso e di forze aperto da questo sapere, che respinge ogni responsabilità etica e ogni affetto per il bene reale, non è innocuo. Non toglie soltanto le forze alla volontà del bene: per contraccolpo, apre la porta all’aggressività delle forze del male. Sono le forze di una ragione impazzita, resa cinica da un eccesso di ideologia. Di fatto, con tutto il nostro progresso, con tutto il nostro benessere, siamo davvero diventati “società della stanchezza”. Pensate un po’ a questo: siamo la società della stanchezza! Dovevamo produrre benessere diffuso e tolleriamo un mercato scientificamente selettivo della salute. Dovevamo porre un limite invalicabile alla pace, e vediamo susseguirsi guerre sempre più spietate verso persone inermi. La scienza progredisce, naturalmente, ed è un bene. Ma la sapienza della vita è tutta un’altra cosa, e sembra in stallo.

Infine, questa ragione an-affettiva e ir-responsabile toglie senso ed energie anche alla conoscenza della verità. Non è un caso che la nostra sia la stagione delle fake news, delle superstizioni collettive e delle verità pseudo-scientifiche. È curioso: in questa cultura del sapere, di conoscere tutte le cose, anche della precisione del sapere, si sono diffuse tante stregonerie, ma stregonerie colte. È stregoneria con certa cultura ma che ti porta a una vita di superstizione: da una parte, per andare avanti con intelligenza nel conoscere le cose fino alle radici; dall’altra parte, l’anima che ha bisogno di un’altra cosa e prende la strada delle superstizioni e finisce nelle stregonerie. La vecchiaia può imparare dalla saggezza ironica di Qoelet l’arte di portare alla luce l’inganno nascosto nel delirio di una verità della mente priva di affetti per la giustizia. Gli anziani ricchi di saggezza e di umorismo fanno tanto bene ai giovani! Li salvano dalla tentazione di una conoscenza del mondo triste e priva di sapienza della vita. E anche, questi anziani riportano i giovani alla promessa di Gesù: «Beati quelli che hanno fame e sete di giustizia, perché saranno saziati» (Mt 5,6). Saranno loro a seminare fame e sete di giustizia nei giovani. Coraggio, tutti noi anziani: coraggio e avanti! Noi abbiamo una missione molto grande nel mondo. Ma, per favore, non bisogna cercare rifugio in questo idealismo un po’ non concreto, non reale, senza radici – diciamolo chiaramente: nelle stregonerie della vita.

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Saluti

APPELLO

Ho il cuore affranto per la strage nella scuola elementare in Texas. Prego per i bambini, per gli adulti uccisi e per le loro famiglie. È tempo di dire basta al traffico indiscriminato delle armi. Impegniamoci tutti, perché tragedie così non possano più accadere.

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto le Suore Missionarie della Carità, il Centro Italiano femminile di Caserta, l’Azienda sanitaria Napoli 3 Sud, la Scuola San Giuseppe al Trionfale in Roma.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli.

La festa, ormai vicina, dell’Ascensione del Signore mi offre lo spunto per un saluto a voi tutti. Gesù Cristo, ascendendo al cielo, lascia un messaggio ed un programma per tutta la Chiesa: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli... insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato» (Mt 28, 19-20). Far conoscere la parola di Cristo e testimoniarla con gioia sia l’ideale e l’impegno di ciascuno nella rispettiva condizione di vita.

A tutti la mia benedizione.








[Modificato da Caterina63 01/06/2022 13:21]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)