La beatificazione – la prima mai tenuta in Giappone – sarà celebrata il 24 novembre del 2008 proprio a Nagasaki dal prefetto della congregazione delle cause dei santi, cardinale José Saraiva Martins, come inviato speciale di Benedetto XVI.
I 188 martiri giapponesi che saranno beatificati l'anno prossimo sono classificati nelle carte del processo canonico come “padre Kibe e i suoi 187 compagni”. Sono stati uccisi a causa della loro fede tra il 1603 e il 1639.
Pietro Kibe Kasui nacque nel 1587, nell'anno in cui il maresciallo della corona a Nagasaki, lo shogun Hideyoshi, emise un editto che ingiungeva ai missionari stranieri di lasciare il paese. Dieci anni dopo cominciarono le persecuzioni.
A quell'epoca in Giappone si contavano circa 300 mila cattolici, evangelizzati prima dai gesuiti, con san Francesco Saverio, e poi anche dai francescani.
Nel febbraio 1614 un altro editto impose la chiusura delle chiese cattoliche e il confinamento a Nagasaki di tutti i sacerdoti rimasti, stranieri e locali.
Nel novembre dello stesso anno i sacerdoti e i laici che guidavano le comunità furono costretti ad andare in esilio. Kibe riparò prima a Macao e poi a Roma.
Fu ordinato sacerdote il 15 novembre 1620 e, dopo aver completato il noviziato a Lisbona, pronunciò i primi voti da gesuita il 6 giugno 1622.
Tornato in Giappone fra i cattolici sottoposti a crudele persecuzione, nel 1639 fu catturato a Sendai assieme ad altri due sacerdoti. Torturato per dieci giorni di fila, rifiutò di abiurare. E fu martirizzato a Edo, l'attuale Tokyo.
Uno dei suoi 187 compagni di martirio, per la maggior parte laici, fu Michele Kusurya, detto il “buon samaritano di Nagasaki”. Salì la “collina dei martiri”, poco fuori la città, cantando dei salmi. Morì, come molti, legato al palo e bruciato a fuoco lento.
Un altro dei prossimi beati fu Nicola Keian Fukunaga. Morì gettato in fondo a un pozzo di fango, dove fino all'ultimo pregò a voce alta, chiedendo perdono “per non aver portato Cristo a tutti i giapponesi, a cominciare dallo shogun”.
Altri martiri furono uccisi inchiodati su croci o tagliati a pezzi, con inaudite crudeltà che non risparmiavano donne e bambini. Oltre che dalle uccisioni, la comunità cattolica fu falcidiata dalle apostasie di quelli che abiuravano per paura. Eppure non fu annientata. Una parte si celò nella clandestinità e conservò la fede fino all'arrivo, due secoli dopo, di un regime più libero.
Lo scorso settembre la diocesi di Takamatsu ha dedicato un simposio a un altro ancora dei 188 martiri che saranno beatificati nel 2008, il gesuita Diego Ryosetsu Yuki, discendente di una famiglia di shogun.
Uno dei relatori, il professor Shinzo Kawamura della Università Sophia dei gesuiti di Tokyo, ha mostrato che la forza indomita con cui tanti cattolici di quell'epoca resistettero alle torture e affrontarono il martirio proveniva anche dallo spirito comunitario con cui essi si sostenevano a vicenda, nella fede. In parte avevano preso come modello le comunità buddiste di Jodo Shinshu, della Terra Pura. “Furono le kumi, le comunità dei kirisitan, dei cristiani, il terreno sul quale fiorirono i 188 martiri. La Chiesa di quell'epoca in Giappone era una vera Chiesa di popolo”.