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5.1/ La questione della grazia e del libero arbitrio (la giustificazione)

 

da Martin Lutero, Il servo arbitrio. Risposta a Erasmo, Claudiana, Torino, 1993, pp. 78-80 e 416

Per affermazione (tanto per non giocare con le parole) intendo l’aderire costantemente a una dottrina, affermarla, confessarla, difenderla e sostenerla fino in fondo con perseveranza; né, credo, quel termine ha altro significato nei classici latini o nel nostro uso odierno. Inoltre mi riferisco a quelle cose che devono essere affermate, ovvero che ci sono state tramandate per via divina nella Sacra Scrittura. Non c'è del resto bisogno che Erasmo o qualsiasi altro maestro venga a insegnarci che nelle cose dubbie, inutili e non necessarie le affermazioni, le dispute e le contese sono non solo stolte ma addirittura empie; Paolo le condanna infatti in più di un luogo [I Tim. 1,4; II Tim. 2,23; Tito 3,9]. Né, credo, intendi qui riferirti a questo genere di cose, a meno che, come un oratore da strapazzo, tu non voglia alludere a una cosa e trattarne invece un'altra, oppure, per una follia degna di uno scrittore empio, tu ritenga l'articolo del libero arbitrio una questione dubbia o non necessaria.

Si tengano dunque lontano da noi cristiani gli scettici e gli accademici; ci stiano invece vicini coloro che sostengono la fede con un' ostinazione ancora più grande di quella degli stoici. Quante volte, mi chiedo, l'apostolo Paolo sollecita la plerophoría [I Tess. 1,5], cioè la più certa e convinta affermazione della coscienza? Nel capitolo 10 dell'epistola ai Romani la chiama confessione: «Con la bocca si fa confessione per essere salvati» [Rom. 10,10]. E Cristo dice: «Chiunque mi riconoscerà davanti agli uomini, anch'io riconoscerò lui davanti al Padre mio» [Mt. 10,32]. Pietro comanda di rendere ragione della speranza che è in noi [I Pie. 3,15]. Che bisogno c'è di molte parole? Nulla per i cristiani è più noto e familiare dell'affermazione. Togli le affermazioni e hai tolto il cristianesimo. Lo Spirito Santo è dato ai cristiani dal cielo affinché glorifichi Cristo [Giov. 16,14] e lo annunzi fino alla morte; e cos’altro vuol dire fare affermazioni se non morire per la confessione e l'affermazione? Lo Spirito infine fa affermazioni soprattutto per irrompere nel mondo intero e convincerlo del peccato [Giov. 16,8], quasi sfidandolo a battaglia. E Paolo comanda a Timoteo di riprendere e di insistere anche fuor di tempo [II Tim. 4,2]. Che bello spettacolo darà invece quel predicatore che non creda con certezza né affermi con tenacia tutto ciò per cui ammonisce gli altri! Naturalmente lo manderei ad Anticira.

Ma il più stolto di tutti sono di gran lunga io, che perdo tempo e parole in una questione più chiara del sole. Quale cristiano può mai sopportare che le affermazioni siano disprezzate? Questo non significherebbe altro che negare in un sol colpo l'intera religione e pietà, oppure affermare che la religione, la pietà e tutti i dogmi non sono nulla. Come puoi dunque affermare di non aver gusto per le affermazioni e di preferire questa disposizione d’animo a quella opposta? [...]

Ora, essendo un uomo, è facile che tu non intenda correttamente e non esamini con la dovuta attenzione le Scritture o i detti dei padri, sotto la cui guida credi di aver raggiunto la meta. Ciò è ben chiaro quando scrivi di non voler affermare nulla, ma di aver fatto soltanto dei confronti. Chi penetra fino in fondo una questione e la intende correttamente non scrive in questo modo. Io invece in questo libro NON HO FATTO DEI CONFRONTI, MA HO AFFERMATO E AFFERMO; e non voglio lasciare a nessuno il compito di esprimere un giudizio, ma consiglio a tutti di prestare obbedienza. Voglia il Signore, del quale tratta questa discussione, illuminarti e fare di te un vaso a suo onore e gloria. Amen.

dalla relazione tenuta dall’allora cardinale Joseph Ratzinger nella tavola rotonda tenutasi presso la Evangelisch-luterische Christuskirche di Roma il 19 ottobre 1998, pubblicata in Evangelisch-luterische Christuskirche Rom, Roma, 2010, pp. 39-43.

Per Lutero, l’esperienza di essere peccatore, la miseria di essere peccatore, di non essere riconciliato con Dio, e l’esperienza che Dio stesso ha dato la riconciliazione, sono state il grande dramma della vita. La prima lo sconvolgeva nell’intimo, l’altra era la reale esperienza della redenzione, sicché egli non sapeva solo attraverso le teorie e i libri di testo teologici che cosa significasse essere redento, essere riconciliato, ma lo sapeva attraverso l’incontro con la Parola di Dio che gli andava incontro.

Per quanto oggi possiamo interpretare bene questi testi dal punto di vista storico, non dobbiamo forse ammettere che siamo molto lontani da una simile esperienza e che è questa la miseria che ci opprime entrambi [cattolici e luterani] e che forse potrebbe avvicinarci ancora di più della valutazione del peso dei singoli termini, che è importante, ma che può anche allontanarsi dalla realtà?

In altre parole: per chi di noi, in realtà, il peccato è miseria della propria vita, per chi il fatto di non essere riconciliato con Dio è la cosa che lo turba di più e con più urgenza? Inversamente, chi considera il messaggio che Dio dona la riconciliazione ciò che dà alla sua vita un nuovo fondamento e un nuovo cammino? Ho l’impressione che tutti noi dobbiamo ammettere una grande mancanza, ammettere che ciò che ci preoccupa e ci muove è di natura completamente diversa.

La nostra preoccupazione e la nostra paura derivano dalla preoccupazione per la conservazione del creato, dal timore dinanzi alla crescente ondata di violenza che non può essere arginata; dallo sgomento per l’incapacità alla pace presente negli uomini, dalla loro incapacità di creare giustizia e di distribuire i beni della terra in modo tale che venga sconfitto il bisogno che sconvolge interi continenti, e che venga superata la sproporzione tra l’abbondanza del ricco Epulone e la miseria del povero Lazzaro che giace davanti alla porta. Sono certamente questioni pressanti, che devono toccarci nel profondo.

Ma se non erro, in realtà abbiamo la sensazione che dobbiamo fare da soli e prendere tutto in mano noi. E mi pare che nella nostra anima sia penetrata, in misura non lieve, una concezione teistica di Dio. Non solo pensiamo, a partire dalle scienze naturali, che Dio ha dato al mondo le sue leggi e ora ne rispetta la dignità – non sarebbe degno di Lui interferire – ma crediamo lo stesso anche riguardo all’uomo. Dio ci ha consegnati a noi stessi e quindi non interviene; in realtà è difficile per noi anche solo immaginare in che modo potrebbe intervenire. Per questo non ci disturba il nostro rapporto insufficiente con Lui, mentre invece ci disturba l’insufficienza del nostro agire.

Questo, a sua volta, se non erro ha come conseguenza che nel messaggio della Chiesa, da entrambe le parti prevale il moralismo e in realtà si parla molto poco di ciò che fa Dio. Entrambe le Chiese, per quanto mi è dato vedere, propongono spiegazioni significative e importanti riguardo ai bisogni dell’umanità, ma in fondo si tratta sempre di appelli morali, rivolti all’attività dell’uomo. Ciò è bene e necessario, ma se lanciamo solo degli appelli morali, per quanto ben ponderati, prima o poi stanchiamo le persone, che potrebbero pensare che quelle cose le saprebbero dire anche altri, talvolta con maggiore competenza. Anche se non se ne rendono conto, nell’intimo esse si aspettano dalla Chiesa una certa vicinanza.

E hanno ragione ad aspettarsi di più, poiché non abbiamo da trasmettere solo l’appello al nostro fare, non solo la chiamata al nostro lavoro, ma anche il messaggio che Dio oggi è attivo e presente nella storia come soggetto, e che le cose possono aggiustarsi davvero solo se lo lasciamo agire. Vorrei spiegarlo meglio citando un verso del quinto capitolo della Seconda Lettera di San Paolo ai Corinzi che continua a colpirmi, quando l’apostolo dice: “In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori [...]. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio” (v. 20).

A questo proposito forse potremmo negare di non essere riconciliati con Dio, potremmo affermare di non fare nulla di particolarmente cattivo, dire che Dio sa come siamo, che la Bibbia dice che Lui sa che siamo carne e dunque non può aspettarsi più di tanto da noi, che in realtà non occorrerebbe che ci riconciliamo con Lui, poiché sa come siamo e per tutto il resto, se necessario, ci pensa Lui. Ma c’è comunque una sorta di non essere conciliati, e questa è proprio la nostra indifferenza, il nostro ritenere che non abbiamo bisogno di Lui, della riconciliazione.

Vorrei brevemente – e con questo ritorno alla dottrina della giustificazione – illustrarlo ricorrendo a tre esempi. Il primo è: non abbiamo tempo per Dio! C’è talmente tanto da fare nel mondo che siamo costretti a rimandare la cosa di Dio. Ma se davvero dobbiamo fare tutto, in realtà non basta nemmeno tutto il tempo. Per questo, più vogliamo utilizzare il tempo solo per noi, più velocemente esso fugge.

Solo se accettiamo nuovamente che il grande evento che Dio ha tempo per noi è entrato nel tempo e non esiste solo racchiuso nell’eternità, che Cristo è il tempo che Dio ha per noi, che in Lui Dio ha tempo, se, quindi, accettiamo che possiamo entrare in questo co-tempo di Dio, in questa co-temporaneità, Dio con noi che ha operato in Cristo, allora il tempo diventa strumento e quindi si apre nuovamente al fatto che in esso può avvenire la pace di Dio. E inversamente, ci accorgiamo che, quando questa relazione fondamentale languisce, tutto il resto diventa poco e vuoto e che il nostro moralismo diventa violento e distrugge più di quanto non costruisca.

Per il secondo esempio attingo da Sant’Agostino: in realtà viviamo con il viso rivolto lontano da Dio, crediamo di non dovere guardare in quella direzione, guardare verso il mondo e lontano da Lui. Ma lui ha girato il suo volto verso di noi e ci chiama, affinché noi giriamo il nostro verso di Lui.

E qui, ritengo, dal punto di vista storico emerge chiaramente una cosa: nell’età moderna l’uomo ha distolto sempre più lo sguardo dal volto di Dio, come Adamo, che non voleva essere visto da Lui. Non vuole essere visto perché ritiene di non aver bisogno di un sorvegliante, e non va bene se tutto è sotto gli occhi di Dio, perciò questi occhi non devono proprio esistere.

E infatti, poiché l’uomo è peccatore, può temere lo sguardo di Dio e volerlo allontanare. Ma proprio qui sta la novità portata dal messaggio della giustificazione, che è cristologia applicata in modo semplice: possiamo collocarci sotto gli occhi di Cristo, poiché non sono occhi che ci annientano, come sarebbe giusto, bensì occhi di bontà, che ci accettano e ci trasformano, bontà nella quale il nostro essere imperfetto viene trasformato e nella quale nasce in virtù dell’essere giusto. Penso che sia proprio questo l’aspetto autenticamente cristiano: i temuti occhi di Dio sono diventati occhi che ci lasciano vivere e che ci accolgono nella bontà, senza la quale non potremmo esistere.

Ed ecco il terzo esempio, quello di Pietro che cammina sul mare e sprofonda fintanto che non guarda a Cristo, ma a se stesso. È evidente che se vede solo se stesso, vale solo la sua forza di gravità. Solo quando guarda a Cristo sopravviene l’altra forza di gravità, che lo regge e lo solleva, e che gli dà la capacità di attraversare il mare. Ed è a partire da ciò che comprendo qual è il significato corretto di “simul iustus et peccator”. Con la nostra forza di gravità, inevitabilmente sprofondiamo, cediamo al peccato. E, se ci affidiamo solo a questa forza di gravità, affondiamo. Ma c’è l’altra forza di gravità, e se ci facciamo trascinare da lei, allora siamo salvi, siamo giusti.

5.2/ Calvino: la doppia predestinazione

da Hans Urs von Balthasar, Vocazione, Editrice Rogate, Roma, 1981, pp. 15-18;21-22
Ci sono concetti cristiani fondamentali che, a dire il vero, sono sempre stati presenti alla coscienza della cristianità e che tuttavia, in una determinata epoca della sua storia, emergono alla luce in maniera tale da essere scoperti come per la prima volta. Nella Chiesa dell’epoca moderna si sono succeduti tre momenti a mettere in nuova luce il senso della vocazione cristiana secondo la Rivelazione.
1. Nei secoli successivi a Tommaso si sviluppa un senso elementare della libertà di Dio, dal cui beneplacito dipende ogni essere mondano: l’immagine veterotestamentaria di Dio, il Signore che elegge e rigetta, diviene determinante, in una specie di effetto retroattivo, persino per il rapporto del Dio della creazione con il suo mondo. Questa immagine di Dio comunque appare storicamente ancora troppo legata alla dottrina agostiniana della predestinazione (che continua ad avere effetto soprattutto nella Riforma) per poter dar vita, presa in sé, ad una soddisfacente dottrina della vocazione. Essa rimane a far da sfondo a ciò che segue.
2. Ignazio di Loyola – di fronte alla «parola» (biblica) della Riforma come realtà della rivelazione di Dio – porrà il venire salvifico di Dio nella carne interamente sotto il concetto di «chiamata». Per chiarire la natura del Vangelo nella sua essenza, egli fa precedere tutte le meditazioni sulla vita di Gesù da una parabola di chiamata (chiamata di un re ai suoi sudditi ad andare in guerra con lui contro i non credenti) dalla quale, in crescendo, e con l’uso di termini centrali del Nuovo Testamento, viene spiegata la missione di Cristo: se abbiamo preso in considerazione tale chiamata del re temporale ai suoi sudditi, quanto sarà più degno di essere preso in considerazione il fatto di vedere Gesù Nostro Signore, re eterno, e davanti a lui tutto l’universo che Egli, come fa con ciascuno in particolare, chiama dicendo: «È mia volontà conquistare tutto il mondo e tutti i nemici, ed entrare così nella gloria del Padre mio; pertanto chi vuole venire con me, deve lavorare con me perché, seguendomi nella sofferenza, mi segua anche nella gloria. (Eserc. 95». In questo brano risulta evidente:
-che il Vangelo viene inteso come «proclama» per una azione che deve ancora accadere, alla quale sono invitati fin da principio mondo e uomo;
-che qui non si parla della Chiesa, ma da una parte di «tutto l’universo» e dall’altra di «ogni singolo» così che la realtà della chiamata e della vocazione viene a trovarsi in qualche luogo anteriore alla chiesa organizzata;
-che con ciò colui che ascolta questa chiamata e vi risponde (in grande opposizione all’ascoltare–la–parola in Lutero, per il quale la giustificazione compiuta è solo da ascoltare e da credere) viene invitato all’evento della salvezza stessa.
3. Il terzo momento, - quantunque già formulato in Ignazio, ma non ancora messo in rilievo in maniera riflessa dalla Controriforma -, emerge là dove viene rispecchiato il faccia a faccia fra «tutto l’universo» e il «singolo» e soltanto con ciò viene recuperato il senso fondamentale della vocazione biblica.
La vocazione del «singolo» si verifica, secondo il proclama del re eterno, a favore di tutto il mondo, poiché la volontà del re è «conquistare tutto il mondo e tutti i nemici e così – attraverso croce, discesa agli inferi, resurrezione – entrare nella gloria del Padre mio».
Per liberare il senso di questa affermazione dalla ferrea morsa della teologia dell’elezione o della predestinazione agostiniano-calvinistico-giansenista era necessaria la coscienza universale dell’umanità e del mondo propria dell’epoca moderna la quale però, soltanto così, è approdata ad una comprensione della salvezza come, nel concludere la Bibbia, la sviluppano Paolo e Giovanni e, sulle loro orme, i padri greci.

Con l’ingresso definitivo nel campo visivo del piano universale di Dio tanto per la creazione quanto per la sua redenzione, diventa impossibile interpretare la dottrina dell’elezione dell’Antico e del Nuovo Testamento, con la loro chiara preferenza di un singolo rispetto agli altri, se non come un momento all’interno di questo piano universale. Paolo stesso l’ha così intesa, dal momento che ha visto solo tipicamente la dottrina dell’elezione individuale (Rom 9) in base all’elezione d’Israele tra i popoli, e questa a sua volta, nella dialettica di Romani 11, in maniera funzionale per la totalità dei popoli.
Israele è chiamato a favore dei pagani e questa vocazione di Israele diviene modello per una vocazione (chiamare–fuori–da) della Chiesa, la quale avviene a favore del mondo e con ciò diviene anche modello per ogni vocazione personale all’interno della Chiesa, vocazione che mostra, senza eccezioni, la stessa forma ecclesiale: vocazione a favore di coloro che per il momento non sono ancora chiamati.
Questa comprensione biblico-patristica e di nuovo moderna supera definitivamente ogni teologia della predestinazione individuale (la cui forma più consequenziale era la dottrina della doppia predestinazione), secondo la quale l’eletto è principalmente eletto proprio per se stesso, a tal punto che deve arrestarsi rigidamente e con orrore davanti al mistero della mancata elezione (forse persino del rifiuto) degli altri – e siano pure questi altri molti o pochi.
Si può e si deve formulare molto semplicemente: ogni chiamata in senso biblico è tale per amore dei non-chiamati. Questo è vero in maniera centrale per Gesù Cristo che è predestinato e con ciò chiamato (Rom 1,4) a morire e risorgere, prendendo il loro posto, per tutti i condannati. E in Gesù Cristo è al tempo stesso visibile che il Padre proprio per questo lo ama con un amore di predilezione, poiché egli si è fatto funzione della universale volontà salvifica paterna.



[SM=g1740771]  continua..........

[Modificato da Caterina63 11/08/2012 18:57]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)