00 15/12/2008 10:23
SANTA MESSA NELLA PARROCCHIA DI SANTA MARIA CONSOLATRICE

OMELIA DI PAOLO VI

Domenica, 1° marzo 1964



Dopo un amabile saluto al Signor Cardinale Pro Vicario, a Monsignor Vice Gerente, che ha testé officiato la sacra funzione, ai due Vescovi Ausiliari, Mons. Pecci e Mons. Giovanni Canestri, ben conosciuto a Casal Bertone, per esserne stato il parroco; ricordati, inoltre, gli altri ecclesiastici, il Santo Padre si dirige ai carissimi fedeli, e, come prima impressione, ritiene di poter leggere sui loro volti una domanda: il Papa è venuto nella nostra parrocchia; che cosa penserà di noi, della nostra chiesa?

ENCOMIO A UNA POPOLAZIONE FEDELE

Pur avendo notizia, come è ovvio, dell’intera zona, è questa la prima volta che il Santo Padre può sostare nel quartiere, e con vivo compiacimento tiene ad esprimere la sua profonda soddisfazione per la grandiosità che si possa qui parlare di uno speciale ritorno della grande parola programmatica di Cristo, registrata in uno dei momenti più significativi del Vangelo, allorché, rivolgendosi a Pietro, il Maestro Divino esclamò: «. . . Su questa pietra costruirò la mia Chiesa». Di fronte alla imponenza del nuovo tempio col suo stile moderno e pur consono ai precetti antichi dell’architettura romana, si risale alle origini, anzi agli anni anteriori alla costruzione. Venne effettuata all’indomani d’un periodo di grandi tristezze e dolorosi eventi. Il territorio di Casal Bertone era incluso in quello della finitima parrocchia di S. Lorenzo al Verano: e come non ricordare la tragica giornata del 19 luglio 1943, quando il Papa di oggi potè accompagnare il predecessore Pio XII di v. m., immediatamente accorso dopo un esteso bombardamento sui centri ferroviari di Roma, e sulle zone circostanti? È sempre viva la memoria di quelle ore terribili, per la sofferenza di molte famiglie, la distruzione di tante case e il grave danno ad insigne monumento; ma è del pari indimenticabile il conforto recato da Pio XII, il quale indicò ai colpiti la via della incrollabile fiducia, e proprio accanto a un cumulo di rovine fumanti, levando le braccia al cielo, invitò tutti a recitare con lui il Pater noster.

In quella medesima zona, dunque, devastata dagli orrori della guerra, è sorto un nuovo quartiere, quasi una città a sé stante, con quanto essa richiede per la sua vita, sia materiale che civica.

PIETRE VIVE DELLA CHIESA DI DIO

Perciò l’Augusto Pontefice vuole indirizzare un suo saluto all’intera popolazione, e ai caratteristici gruppi di residenti. Sono, in primo luogo, numerosi ferrovieri: a questi diletti figliuoli il più sentito augurio del Padre, Esso si estende, pure, alle altre categorie di lavoratori, a cominciare dai tranvieri, i postelegrafonici, gli impiegati sia nei servizi municipalizzati della Città sia in quelli dello Stato, con l’invocare dal Signore ogni prosperità per le varie famiglie, delle quali i numerosi bimbi esultanti nella piazza attestano le migliori speranze.

Insieme col saluto, uno speciale elogio del Padre per i diletti abitanti di Casal Bertone. Risulta chiaro che essi non si soffermano dinanzi alla città materiale, all’edificio ecclesiastico; ma attendono, con slancio, a costruire la Chiesa spirituale, consci della parte che a tutti noi spetta in questa immensa società visibile, ma soprattutto invisibile e misteriosa, eppur tanto reale e presente nel mondo. L’ambivalenza del termine, per l’edificio sacro e per la comunità dei credenti, è da questi pienamente compresa. I cari fedeli sanno di comporre la Chiesa, di formarne le pietre vive, di partecipare al mistico Corpo di Cristo. Perciò il Santo Padre è lieto di incontrarsi con loro, di salutarli con il più vivo affetto e di esprimere compiacimento a colui che sta al centro di tanta vitalità: il parroco. Egli prosegue i meriti dei predecessori, entrambi promossi alla dignità vescovile: Mons. Carlo Maccari e Mons. Giovanni Canestri, che tanto hanno lavorato per una evidente e salda compagine spirituale.

Questa felice premessa è confermata dal numero e dalla consistenza delle associazioni cattoliche, le cui molte bandiere attestano la nobile gara di uomini, donne, giovani, fanciulli, delle ACLI e di altri sodalizi. A tutti una speciale benedizione del Papa, proprio perché dimostrano di capire la eccelsa entità religiosa e sociale che è la Chiesa.

La Chiesa - tutti lo sappiamo - è un fatto religioso, di rapporto cioè fra l’anima e Dio; e tale rapporto non può attuarsi all’infuori di un vincolo sociale. Il Signore non ci salva da soli: bensì in comunità, in società, attraverso il ministero di un fratello, che si chiama il sacerdote.

IL SACERDOTE FRATELLO MAGGIORE E MINISTRO DI GRAZIA

La religione nostra è religione articolata socialmente. Con vero compiacimento il Santo Padre osserva che la comunità parrocchiale, a cui ora rivolge la sua parola, è formata in maniera rispondente a precisa organizzazione, con la fedeltà costituzionale al volere di Cristo. È, infatti, guidata dal parroco; sono con lui diversi sacerdoti che lo coadiuvano, ed altri ancora che qui vengono ad esercitare il sacro ministero. Ebbene, questo gruppo di persone responsabili, investite dei poteri, delle chiavi del Signore, dispensatori della grazia di Dio, riceve ora dal Papa, per primo, il ringraziamento e la lode; poiché questi sacerdoti Gli sono fratelli e collaboratori.

Grande, perciò, è la gratitudine del Pastore Supremo, sincero il suo affetto, totale la comprensione, con cui Egli saluta i sacerdoti che qui compiono l’ufficio che sarebbe del Vescovo, dimostrandosi, in ogni momento e per tutti, padri, maestri, ministri della grazia e degli altri doni divini. Di conseguenza, il Santo Padre ripete la esortazione già detta in precedenti incontri: ci tenete che la vostra parrocchia sia viva, esemplare, feconda, santa? Vogliate bene ai vostri sacerdoti; cercate di comprenderli, di alleviare le loro fatiche: accogliete con entusiasmo i loro ordini e desideri; sia perenne il colloquio tra il parroco e i fedeli. Proprio la fiducia, la familiarità, la solidarietà che intercedono tra il pastore e il gregge racchiudono il segreto di ben rispondere al pensiero e all’azione di Cristo in mezzo a noi.

Gerarchica, adunque, la Chiesa. Ma ognuno rifletta: i sacerdoti sono i padroni oppure i servi dei fedeli? Sono nelle parrocchie - è triste riferirsi a una cattiva espressione, purtroppo assai spesso ascoltata - per sfruttare o per servire? La risposta è di limpida evidenza. Sono mandati da Dio proprio per servire, per il bene dei singoli e della comunità. Hanno lasciato tutto, allo scopo di dedicarsi alla grande vocazione. Nessuno poteva avanzare titolo o merito per esigere che un prete rinunciasse a ogni cosa nella vita per recarsi, ove l’obbedienza destina, a servire le anime. Ebbene, questo miracolo si compie. Perché? Per estendere la Ecclesia, la società dei santi; per raccogliere, custodire, accrescere gruppi e gruppi di persone atte a ricevere la grazia di Dio. In quale forma? Quella della più sentita fraternità. La Chiesa ha due dimensioni: una gerarchica, che potrebbe dirsi verticale, di paternità; l’altra di fraternità, di comunità voluta dal Signore. E tale la vera parrocchia, dove tutti sono figli, fratelli: tutti si conoscono e si vogliono bene; lavorano quasi in cooperativa di mutuo soccorso spirituale, impegnati a edificare e costruire, nella santità e nella fedeltà a Cristo Signore, la sua Chiesa viva. Si vogliono bene; sanno che questo è il precetto fondamentale.

LA CARITÀ PRIMA E INSOSTITUIBILE LEGGE

Come si chiama questa forza coesiva, atta a tenere insieme il corpo parrocchiale, il corpo ecclesiastico, l’umanità desiderosa d’essere unita in Cristo? Lo sanno tutti: si chiama la carità. Portentoso dono, ineffabile virtù! Promana da Dio; perché è l’amore suo comunicato agli uomini, e si diffonde da individuo a individuo. Scende dal Cielo, quale fiume regale e benefico, la bontà di Dio che ama gli uomini e li invita, come per impulso interiore, a volersi bene anche tra loro. È la grande legge costitutiva della Chiesa. Se, teoricamente, la carità è facile ad enunciarsi, bella a declamarsi, comune a professarsi, nella pratica, invece, è molto esigente e difficile. Eppure non solo è possibile e sempre attuabile, ma è proprio il grande distintivo, idoneo ad indicare il grado della vita ecclesiastica. Sono uniti i fedeli nell’amore, nella carità di Cristo? Di certo questa è una parrocchia vitale; qui c’è la vera Chiesa; giacché è rigoglioso, allora, il fenomeno divino-umano che perpetua la presenza di Cristo fra noi. Sono i fedeli insieme, unicamente perché iscritti nel libro dell’anagrafe o sul registro dei battesimi? sono aggregati solo perché si trovano, la domenica, ad ascoltare la Messa, senza conoscersi, facendo magari di gomito gli uni contro gli altri? Se così è, la Chiesa non risulta, in quel caso, compaginata; il cemento, che di tutti deve formare la reale, organica unità, non è ancora operante.

LAVORARE PER UNA SOCIETÀ DI SANTI

Bisogna vivere la carità, agire nella carità. Questo il ricordo che il Santo Padre vuole lasciare della sua visita. Vedendo già bene iniziata e promettente la spirituale fioritura, Egli esorta: vogliatevi bene, vogliatevi bene; cercate di amarvi. Oh come sarebbe davvero stupendo se queste nostre parrocchie romane dimostrassero bene quel che deve essere la società ecclesiastica! E cioè: gente, dapprima sconosciuta, gruppi diversi per costume, educazione, origine, età, professione ecc., che, trovandosi in chiesa, si rivelano e si sentono altrettanti nuclei di fratelli. Diventano amici, si dànno la mano l’uno con l’altro, si perdonano le offese, non parlano male del prossimo, e cercano, invece, ove c’è un ammalato, di assisterlo, ove un disoccupato, di soccorrerlo, dove un bambino, di educarlo, ovunque, in una parola, c’è un’azione buona da compiere a vantaggio del prossimo, aver subito cuore e impegno per dire: ecco che Cristo ci chiama. I bisogni dei nostri fratelli sono altrettanti appelli rivolti a noi per sperimentare se veramente ci vogliamo bene, se veramente siamo cristiani.

Ricordate - conclude l’Augusto Pontefice - la parola solenne di Cristo. Vi riconosceranno veramente per miei discepoli, autentici seguaci e fedeli, se vi amerete gli uni gli altri; se ci sarà questo calore di affetti, di sentimenti; se vibrerà la simpatia voluta più che vissuta, creata da noi, più che spontanea, con quella larghezza di cuore, e quella capacità di generare il Cristo in mezzo a noi, derivanti, appunto, dal sentirci uniti in Lui e per Lui.

Vogliatevi bene, diletti figliuoli della parrocchia di Santa Maria Consolatrice di Casal Bertone. Portate l’invito, l’augurio del Padre alle vostre famiglie. Si propaghi nel quartiere un’onda di amore cristiano, e perfezioni la vostra comunità, qui già bene stabilita e vigorosa. Ogni circostanza, ogni evento concorrano a questo insuperabile bene, e quindi a consolazione e gioia anche della vita presente; pegno sicuro che non mancherà la vita futura per ciascuno di voi.



fonte:
http://www.vatican.va/holy_father/pa...640301_it.html


VISITA PASTORALE ALLA PARROCCHIA ROMANA
SANTA MARIA CONSOLATRICE

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI (in gran parte il Papa ha parlato a braccio ed è riportato ora nel testo a seguire)

IV Domenica di Avvento, 18 dicembre 2005



Cari fratelli e sorelle,

è per me realmente una grande gioia essere qui con voi questa mattina e celebrare con voi e per voi la Santa Messa. Questa mia visita a Santa Maria Consolatrice, prima parrocchia romana in cui mi reco da quando il Signore ha voluto chiamarmi ad essere Vescovo di Roma, è infatti per me in un senso molto vero e concreto un ritorno a casa. Mi ricordo molto bene di quel 15 ottobre 1977, quando presi possesso di questa mia chiesa titolare. Parroco era Don Ennio Appignanesi, viceparroci erano Don Enrico Pomili e Don Franco Camaldo. Il cerimoniere che mi era stato assegnato era Mons. Piero Marini. Ecco, tutti siamo di nuovo qui insieme! Per me è realmente una grande gioia.

Da allora in poi il nostro reciproco legame è divenuto progressivamente più forte, più profondo. Un legame nel Signore Gesù Cristo, di cui in questa chiesa ho celebrato tante volte il Sacrificio eucaristico e amministrato i Sacramenti. Un legame di affetto e di amicizia, che ha realmente riscaldato il mio cuore e lo riscalda anche oggi. Un legame che mi ha unito a tutti voi, in particolare al vostro parroco e agli altri sacerdoti della parrocchia. E’ un legame che non si è allentato quando sono diventato Cardinale titolare della Diocesi suburbicaria di Velletri e Segni. Un legame cha ha acquisito una dimensione nuova e più profonda per il fatto di essere ormai Vescovo di Roma e vostro Vescovo.

Sono poi particolarmente lieto che la mia visita odierna – come Don Enrico ha già detto – si compia nell’anno in cui celebrate il 60° anniversario dell’erezione della vostra parrocchia, il 50° di ordinazione sacerdotale del nostro carissimo parroco Mons. Enrico Pomili, e finalmente i 25 anni di episcopato di Mons. Ennio Appignanesi. Un anno dunque nel quale abbiamo speciali motivi per rendere grazie al Signore.

Saluto ora con affetto proprio lo stesso Mons. Enrico, e lo ringrazio per le parole tanto gentili che mi ha rivolto. Saluto il Card. Vicario Camillo Ruini, il Card. Ricardo Maria Carles Gordò, titolare di questa chiesa, e quindi mio successore in questo Titolo, il Card. Giovanni Canestri, già vostro amatissimo parroco, il Vicegerente, Vescovo del Settore Est di Roma, Mons. Luigi Moretti; abbiamo già salutato Mons. Ennio Appignanesi, che è stato vostro parroco, e Mons. Massimo Giustetti, che fu vostro vicario parrocchiale. Un saluto affettuoso ai vostri attuali vicari parrocchiali e alle religiose di Santa Maria Consolatrice, presenti a Casalbertone fin dal 1932, preziose collaboratrici della parrocchia e vere portatrici di misericordia e di consolazione in questo quartiere, specialmente per i poveri e per i bambini. Con i medesimi sentimenti saluto ciascuno di voi, tutte le famiglie della parrocchia, coloro che a vario titolo si prodigano nei servizi parrocchiali.

* * * *

Vogliamo adesso brevemente meditare il bellissimo Vangelo di questa quarta Domenica d’Avvento, che è per me una delle più belle pagine della Sacra Scrittura. E vorrei – per non essere troppo lungo – riflettere solo su tre parole di questo ricco Vangelo.

La prima parola che vorrei meditare con voi è il saluto dell’Angelo a Maria. Nella traduzione italiana l’Angelo dice: “Ti saluto, Maria”. Ma la parola greca sottostante, “Kaire”, significa di per sé “gioisci”, “rallegrati”. E qui c’è una prima cosa che sorprende: il saluto tra gli ebrei era “Shalom”, “pace”, mentre il saluto nel mondo greco era “Kaire”, “rallegrati”. E’ sorprendente che l’Angelo, entrando nella casa di Maria, saluti con il saluto dei greci: “Kaire”, “rallegrati, gioisci”. E i greci, quando quarant'anni anni dopo hanno letto questo Vangelo, hanno potuto qui vedere un messaggio importante: hanno potuto capire che con l’inizio del Nuovo Testamento, a cui questa pagina di Luca faceva riferimento, si era avuta anche l’apertura al mondo dei popoli, all’universalità del Popolo di Dio, che ormai abbracciava non più soltanto il popolo ebreo, ma anche il mondo nella sua totalità, tutti i popoli. Appare in questo saluto greco dell’Angelo la nuova universalità del Regno del vero Figlio di Davide.

Ma è opportuno rilevare subito che le parole dell’Angelo sono la ripresa di una promessa profetica del Libro del Profeta Sofonia. Troviamo qui quasi letteralmente quel saluto. Il profeta Sofonia, ispirato da Dio, dice ad Israele: “Rallegrati, figlia di Sion; il Signore è con te e prende in te la Sua dimora". Sappiamo che Maria conosceva bene le Sacre Scritture. Il suo Magnificat è un tessuto fatto di fili dell’Antico Testamento. Possiamo perciò essere certi che la Santa Vergine capì subito che queste erano parole del Profeta Sofonia indirizzate a Israele, alla "figlia di Sion", considerata come dimora di Dio. E adesso la cosa sorprendente che fa riflettere Maria è che tali parole, indirizzate a tutto Israele, vengono rivolte in special modo a lei, Maria. E così le appare con chiarezza che proprio lei è la "figlia di Sion" di cui ha parlato il profeta, che quindi il Signore ha un'intenzione speciale per lei, che lei è chiamata ad essere la vera dimora di Dio, una dimora non fatta di pietre, ma di carne viva, di un cuore vivo, che Dio intende in realtà prendere come Suo vero tempio proprio lei, la Vergine. Che indicazione! E possiamo allora capire che Maria cominci a riflettere con particolare intensità su che cosa voglia dire questo saluto.

Ma fermiamoci adesso soprattutto sulla prima parola: “gioisci, rallegrati”. Questa è la prima parola che risuona nel Nuovo Testamento come tale, perché l’annuncio fatto dall'angelo a Zaccaria circa la nascita di Giovanni Battista è parola che risuona ancora sulla soglia tra i due Testamenti. Solo con questo dialogo, che l'angelo Gabriele ha con Maria, comincia realmente il Nuovo Testamento. Possiamo quindi dire che la prima parola del Nuovo Testamento è un invito alla gioia: “gioisci, rallegrati!”. Il Nuovo Testamento è veramente "Vangelo", la “Buona Notizia” che ci porta gioia. Dio non è lontano da noi, sconosciuto, enigmatico, forse pericoloso. Dio è vicino a noi, così vicino che si fa bambino, e noi possiamo dare del “tu” a questo Dio.

Soprattutto il mondo greco ha avvertito questa novità, ha avvertito profondamente questa gioia, perché per loro non era chiaro se esistesse un Dio buono o un Dio cattivo o semplicemente nessun Dio. La religione di allora parlava loro di tante divinità: si sentivano perciò circondati da diversissime divinità, l'una in contrasto con l'altra, così da dover temere che, se facevano una cosa in favore di una divinità, l'altra poteva offendersi e vendicarsi. E così vivevano in un mondo di paura, circondati da demoni pericolosi, senza mai sapere come salvarsi da tali forze in contrasto tra di loro. Era un mondo di paura, un mondo oscuro. E adesso sentivano dire: “Gioisci, questi demoni sono un niente, c’è il vero Dio e questo vero Dio è buono, ci ama, ci conosce, è con noi, con noi fino al punto di essersi fatto carne!" Questa è la grande gioia che il cristianesimo annuncia. Conoscere questo Dio è veramente la "buona notizia", una parola di redenzione.

Forse noi cattolici, che lo sappiamo da sempre, non siamo più sorpresi, non avvertiamo più con vivezza questa gioia liberatrice. Ma se guardiamo al mondo di oggi, dove Dio è assente, dobbiamo constatare che anch’esso è dominato dalle paure, dalle incertezze: è bene essere uomo o no? è bene vivere o no? è realmente un bene esistere? o forse è tutto negativo? E vivono in realtà in un mondo oscuro, hanno bisogno di anestesie per potere vivere. Così la parola: “gioisci, perché Dio è con te, è con noi", è parola che apre realmente un tempo nuovo. Carissimi, con un atto di fede dobbiamo di nuovo accettare e comprendere nella profondità del cuore questa parola liberatrice: “gioisci!”.

Questa gioia che uno ha ricevuto non può tenersela solo per sé; la gioia deve essere sempre condivisa. Una gioia la si deve comunicare. Maria è subito andata a comunicare la sua gioia alla cugina Elisabetta. E da quando è stata assunta in Cielo distribuisce gioie in tutto il mondo, è divenuta la grande Consolatrice; la nostra Madre che comunica gioia, fiducia, bontà e ci invita a distribuire anche noi la gioia. Questo è il vero impegno dell’Avvento: portare la gioia agli altri. La gioia è il vero dono di Natale, non i costosi doni che impegnano tempo e soldi. Questa gioia noi possiamo comunicarla in modo semplice: con un sorriso, con un gesto buono, con un piccolo aiuto, con un perdono. Portiamo questa gioia e la gioia donata ritornerà a noi. Cerchiamo, in particolare, di portare la gioia più profonda, quella di avere conosciuto Dio in Cristo. Preghiamo che nella nostra vita traspaia questa presenza della gioia liberatrice di Dio.

La seconda parola che vorrei meditare è ancora dell’Angelo: “Non temere, Maria!”, egli dice. In realtà, vi era motivo di temere, perché portare adesso il peso del mondo su di sé, essere la madre del Re universale, essere la madre del Figlio di Dio, quale peso costituiva! Un peso al di sopra delle forze di un essere umano! Ma l’Angelo dice: “Non temere! Sì, tu porti Dio, ma Dio porta te. Non temere!” Questa parola “Non temere” penetrò sicuramente in profondità nel cuore di Maria. Noi possiamo immaginare come in diverse situazioni la Vergine sia ritornata a questa parola, l'abbia di nuovo ascoltata. Nel momento in cui Simeone le dice: “Questo tuo figlio sarà un segno di contraddizione, una spada trafiggerà il tuo cuore”, in quel momento in cui poteva cedere alla paura, Maria torna alla parola dell’Angelo, ne risente interiormente l'eco: “Non temere, Dio ti porta”. Quando poi, durante la vita pubblica, si scatenano le contraddizioni intorno a Gesù, e molti dicono: “E’ pazzo”, lei ripensa: “Non temere", e va avanti. Infine, nell’incontro sulla via del Calvario e poi sotto la Croce, quando tutto sembra distrutto, ella sente ancora nel cuore la parola dell'angelo; “Non temere”. E così coraggiosamente sta accanto al Figlio morente e, sorretta dalla fede, va verso la Resurrezione, verso la Pentecoste, verso la fondazione della nuova famiglia della Chiesa.

“Non temere!”, Maria dice questa parola anche a noi. Ho già rilevato che questo nostro mondo è un mondo di paure: paura della miseria e della povertà, paura delle malattie e delle sofferenze, paura della solitudine, paura della morte. Abbiamo, in questo nostro mondo, un sistema di assicurazioni molto sviluppato: è bene che esistano. Sappiamo però che nel momento della sofferenza profonda, nel momento dell’ultima solitudine della morte, nessuna assicurazione potrà proteggerci. L'unica assicurazione valida in quei momenti è quella che ci viene dal Signore che dice anche a noi: “Non temere, io sono sempre con te”. Possiamo cadere, ma alla fine cadiamo nelle mani di Dio e le mani di Dio sono buone mani.

Terza parola: al termine del colloquio Maria risponde all’Angelo: “Sono la Serva del Signore, sia fatto come hai detto tu”. Maria anticipa così la terza invocazione del Padre Nostro: “Sia fatta la Tua volontà”. Dice “sì” alla volontà grande di Dio, una volontà apparentemente troppo grande per un essere umano; Maria dice “sì” a questa volontà divina, si pone dentro questa volontà, inserisce tutta la sua esistenza con un grande “sì” nella volontà di Dio e così apre la porta del mondo a Dio. Adamo ed Eva con il loro “no” alla volontà di Dio avevano chiuso questa porta. “Sia fatta la volontà di Dio”: Maria ci invita a dire anche noi questo “sì” che appare a volte così difficile. Siamo tentati di preferire la nostra volontà, ma Ella ci dice: “Abbi coraggio, dì anche tu: ‘Sia fatta la tua volontà’, perché questa volontà è buona. Inizialmente può apparire come un peso quasi insopportabile, un giogo che non è possibile portare; ma in realtà non è un peso la volontà di Dio, la volontà di Dio ci dona ali per volare in alto, e cosi possiamo osare con Maria anche noi di aprire a Dio la porta della nostra vita, le porte di questo mondo, dicendo “sì” alla Sua volontà, nella consapevolezza che questa volontà è il vero bene e ci guida alla vera felicità. Preghiamo Maria la Consolatrice, la nostra Madre, la Madre della Chiesa, perché ci dia il coraggio di pronunciare questo “sì”, ci dia anche questa gioia di essere con Dio e ci guidi al Suo Figlio, alla vera Vita.

Amen!

fonte
www.vatican.va





 
VISITA ALLA PARROCCHIA DI SANT’ANNA IN VATICANO

Alle ore 10 di questa mattina il Santo Padre Benedetto XVI si è recato in visita alla Parrocchia di Sant’Anna in Vaticano.

Qui il Papa ha presieduto la Celebrazione Eucaristica nel corso della quale, dopo la proclamazione del Santo Vangelo, ha pronunciato l’omelia che riportiamo di seguito:

OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle,

Il Vangelo ora ascoltato comincia con un episodio molto simpatico, molto bello ma anche pieno di significato. Il Signore si reca alla casa di Simon Pietro ed Andrea e trova ammalata con febbre la suocera di Pietro; la prende per mano, la solleva e la donna è guarita e si mette a servire. In questo episodio appare simbolicamente tutta la missione di Gesù. Gesù venendo dal Padre si reca nella casa dell’umanità, sulla nostra terra e trova un’umanità ammalata, ammalata di febbre, di quella febbre che sono le ideologie, le idolatrie, la dimenticanza di Dio. Il Signore ci dà la sua mano, ci solleva e ci guarisce. E lo fa in tutti i secoli; ci prende per mano con la sua parola, e così dissipa le nebbie delle ideologie, delle idolatrie. Prende la nostra mano nei sacramenti, ci risana dalla febbre delle nostre passioni e dei nostri peccati mediante l’assoluzione nel sacramento della riconciliazione. Ci dà la capacità di alzarci, di stare in piedi davanti a Dio e davanti agli uomini. E proprio con questo contenuto della liturgia domenicale il Signore si incontra con noi, ci prende per mano, ci solleva e ci sana sempre di nuovo con il dono della sua parola, il dono di se stesso.

Ma anche la seconda parte di questo episodio è importante, questa donna appena guarita si mette a servirli, dice il Vangelo. Subito comincia a lavorare, ad essere a disposizione degli altri, e così diventa rappresentanza di tante buone donne, madri, nonne, donne nelle diverse professioni, che sono disponibili, si alzano e servono, e sono anima della famiglia, anima della parrocchia. E qui vedendo il dipinto sopra l’altare, vediamo che non fanno solo servizi esteriori, sant’Anna introduce la grande figlia, la Madonna, nelle Sacre Scritture, nella speranza di Israele, nella quale lei sarebbe stata proprio il luogo dell’adempimento. Le donne sono anche le prime portatrici della parola di Dio del Vangelo, sono vere evangeliste. E mi sembra che questo Vangelo con questo episodio apparentemente così modesto, proprio qui nella chiesa di sant’Anna ci dà l’occasione di dire un grazie sentito a tutte le donne che animano questa parrocchia, alle donne che servono in tutte le dimensioni, che ci aiutano sempre di nuovo a conoscere la parola di Dio non solo con l’intelletto, ma col cuore.

Ritorniamo al Vangelo: Gesù dorme nella casa di Pietro, ma di prima mattina quando ancora è buio, si alza ed esce e cerca un luogo deserto e prega. E qui appare il vero centro del mistero di Gesù. Gesù sta in colloquio con il Padre ed eleva la sua anima umana nella comunione con la persona del Figlio, così che l’umanità del Figlio, unita a Lui, parla nel dialogo trinitario col Padre; e così rende possibile anche a noi la vera preghiera. Nella liturgia Gesù prega con noi, noi preghiamo con Gesù e così noi entriamo in contatto reale con Dio, entriamo nel mistero dell’eterno amore della Santissima Trinità.

Gesù parla con il Padre, questa è la fonte ed il centro di tutte le attività di Gesù; vediamo la sua predicazione, le guarigioni, i miracoli e infine la passione, escono da questo centro, dal suo essere col Padre. E così questo Vangelo ci insegna il centro della fede e della nostra vita cioè il primato di Dio. Dove Dio non c’è, anche l’uomo non è più rispettato. Solo se lo splendore di Dio rifulge sul volto dell’uomo, l’uomo immagine di Dio è protetto da una dignità che poi da nessuno deve essere violata.

Il primato di Dio. Vediamo nel ‘Padre nostro’ come le tre prime domande si riferiscano proprio a questo primato di Dio: che il nome di Dio sia santificato, che il rispetto del mistero divino sia vivo e animi tutta la nostra vita; che ‘venga il regno di Dio’ e ‘sia fatta la sua volontà’ sono due aspetti diversi della stessa medaglia; dove è fatta la volontà di Dio c’è già il cielo, comincia anche in terra un po’ di cielo, e dove viene fatta la volontà di Dio è presente il Regno Dio. Perché il Regno di Dio non è una serie di cose, il Regno di Dio è la presenza di Dio, l’unione dell’uomo con Dio. E verso questo obiettivo Gesù ci vuole guidare.

Centro del suo annuncio è il regno di Dio, cioè Dio come fonte e centro della nostra vita, e ci dice: solo Dio è la redenzione dell’uomo. E possiamo vedere nella storia del secolo scorso, come negli Stati dove Dio era abolito, non solo l’economia è stata distrutta, ma soprattutto le anime. Le distruzioni morali, le distruzioni della dignità dell’uomo sono le distruzioni fondamentali e il rinnovamento può venire solo dal ritorno di Dio, cioè dal riconoscimento della centralità di Dio. In questi giorni un vescovo del Congo in visita ad limina mi ha detto: gli europei ci danno generosamente molte cose per lo sviluppo, ma c’è un’esitazione nell’aiutarci per la pastorale; sembra che considerino inutile la pastorale, che sia importante solo lo sviluppo tecnico-materiale. Ma è vero il contrario – ha detto – dove non c’è parola di Dio lo sviluppo non funziona, e non dà risultati positivi. Solo se c’è la parola di Dio prima, solo se l’uomo è riconciliato con Dio, anche le cose materiali possono andare bene.

Il Vangelo stesso con la sua continuazione conferma questo fortemente. Gli apostoli dicono a Gesù: ritorna, tutti ti cercano. E lui dice: no, devo andare negli altri paesi per annunciare Dio e per scacciare via i demoni, le forze del male; per questo sono venuto. Gesù è venuto – nel testo greco è scritto: "sono uscito dal Padre" – non per portare le comodità della vita, ma per portare la condizione fondamentale della nostra dignità, per portarci l’annuncio di Dio, la presenza di Dio e così vincere le forze del male. Questa priorità egli indica con grande chiarezza: non sono venuto per guarire – anche questo faccio, ma come segno – sono venuto per riconciliarvi con Dio. Dio è il nostro creatore, Dio ci ha dato la vita, la nostra dignità: E lui dobbiamo soprattutto rivolgerci.

E come ha detto padre Gioele, la chiesa celebra oggi in Italia la Giornata per la Vita. I Vescovi italiani hanno voluto richiamare nel loro messaggio il dovere prioritario di "rispettare la vita", trattandosi di un bene "indisponibile": l’uomo non è il padrone della vita; ne è piuttosto il custode e l’amministratore. E sotto il primato di Dio automaticamente nasce questa priorità di amministrare, di custodire la vita dell’uomo, creata da Dio. Questa verità che l’uomo è custode ed amministratore della vita costituisce un punto qualificante della legge naturale, pienamente illuminato dalla rivelazione biblica. Esso si presenta oggi come "segno di contraddizione" rispetto alla mentalità dominante. Constatiamo infatti che, malgrado vi sia in senso generale un’ampia convergenza sul valore della vita, tuttavia quando si arriva a questo punto, cioè alla "disponibilità" o indisponibilità della vita, due mentalità si oppongono in maniera inconciliabile. Per esprimerci in termini semplificati, potremmo dire: l’una delle due mentalità ritiene che la vita umana sia nelle mani dell’uomo, l’altra riconosce che essa è nelle mani di Dio. La cultura moderna ha legittimamente enfatizzato l’autonomia dell’uomo e delle realtà terrene, sviluppando così una prospettiva cara al Cristianesimo, quella dell’Incarnazione di Dio.
Ma, come ha affermato chiaramente il Concilio Vaticano II, se questa autonomia porta a pensare che "le cose create non dipendono da Dio, e che l’uomo può adoperarle senza riferirle al Creatore", allora si dà origine a un profondo squilibrio, perché "la creatura senza il Creatore svanisce" (Gaudium et spes, 36). E’ significativo che il documento conciliare, nel passo citato, affermi che questa capacità di riconoscere la voce e la manifestazione di Dio nella bellezza del creato appartiene a tutti i credenti, a qualunque religione appartengano. Ne possiamo concludere che il rispetto pieno della vita è legato al senso religioso, all’atteggiamento interiore con cui l’uomo si pone nei confronti della realtà, se come padrone o come custode. Del resto, la parola "rispetto", deriva dal verbo latino respicere-guardare, e indica un modo di guardare le cose e le persone che porta a riconoscerne la consistenza, a non appropriarsene, ma ad averne riguardo, prendendosene cura. In ultima analisi, se vien tolto alle creature il loro riferimento a Dio, come fondamento trascendente, esse rischiano di cadere in balia dell’arbitrio dell’uomo che può farne, come vediamo, un uso dissennato.

Cari fratelli e sorelle, invochiamo insieme l’intercessione di sant’Anna per la vostra comunità parrocchiale, che saluto con affetto. Saluto in particolare il Parroco, Padre Gioele, e lo ringrazio per le parole che mi ha rivolto all’inizio; saluto poi i confratelli Agostiniani con il loro Priore Generale; saluto Mons. Angelo Comastri, mio Vicario Generale per la Città del Vaticano, Mons. Rizzato, mio Elemosiniere, e tutti i presenti, in modo speciale i bambini, i giovani e quanti abitualmente frequentano questa Chiesa. Su tutti vegli sant’Anna, vostra celeste Patrona, ed ottenga per ciascuno il dono di essere testimone del Dio della vita e dell’amore.

[00184-01.03] [Testo originale: Italiano]

[B0063-XX.01]

fonte: www.vatican.va




 




VISITA PASTORALE ALLA PARROCCHIA ROMANA DI DIO PADRE MISERICORDIOSO, 26/03/2006
img236/8996/papa20ed.jpg

Benedetto XVI per l'occasione ha donato, sul finale, uno scritto di Giovanni Paolo II, una omelia scritta a marzo dell'anno scorso, ma che non fece in tempo a leggere........



OMELIA DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle!

Questa quarta domenica di Quaresima, tradizionalmente designata come "domenica Laetare", è permeata da una gioia che in qualche misura attenua il clima penitenziale di questo tempo santo: "Rallegrati Gerusalemme… Esultate e gioite, voi che eravate nella tristezza". A quest’invito contenuto nell’antifona d’ingresso fa eco il ritornello del Salmo responsoriale: "Il ricordo di te, Signore, è la nostra gioia". Viene spontaneo domandarsi: ma qual è il motivo per cui dobbiamo rallegrarci? Certamente un motivo è l’avvicinarsi della Pasqua, la cui previsione ci fa pregustare la gioia dell’incontro con il Cristo risorto. La ragione più profonda sta però nel messaggio offerto dalle letture bibliche che la liturgia oggi propone. Esse ci ricordano che, nonostante la nostra indegnità, noi siamo i destinatari dell’infinita misericordia di Dio. Dio ci ama in un modo che potremmo dire "ostinato", e ci avvolge della sua inesauribile tenerezza.

E’ quanto emerge già dalla prima lettura, tratta dal Libro delle Cronache (cfr 2 Cr 36,14–16.19–23): l’autore sacro propone una sintetica e significativa interpretazione della storia del popolo eletto, che sperimenta la punizione di Dio come conseguenza del suo comportamento ribelle. Ma anche attraverso i castighi Dio persegue un disegno di misericordia. Sarà la distruzione della città santa e del tempio, sarà l’esilio a toccare il cuore del popolo e a farlo tornare al suo Dio. E allora il Signore, dimostrando l’assoluto primato della sua iniziativa su ogni sforzo puramente umano, si servirà di un pagano, Ciro re di Persia, per liberare Israele. Nel testo ascoltato l’ira e la misericordia del Signore si confrontano in una sequenza dai contorni drammatici, ma alla fine trionfa l’amore. Come non raccogliere dal ricordo di quei lontani eventi il messaggio valido per ogni tempo, compreso il nostro? I disegni di Dio, anche quando passano attraverso la prova e il castigo, mirano sempre ad un esito di misericordia e di perdono.

E’ quanto ci ha confermato, nella seconda lettura, l’apostolo Paolo ricordandoci che "Dio, ricco di misericordia, per il grande amore con il quale ci ha amati, da morti che eravamo per i peccati, ci ha fatti rivivere con Cristo" (Ef 2,4-5). Per esprimere questa realtà di salvezza l’Apostolo, accanto al termine misericordia, eleos, utilizza quello di amore, agape, ripreso e ulteriormente amplificato nella bellissima frase di apertura della pagina evangelica che abbiamo ascoltato: "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna" (Gv 3,16). Sappiamo che quel "dare" da parte del Padre ha avuto uno sviluppo drammatico: si è spinto fino al sacrificio del Figlio sulla croce. Se tutta la missione storica di Gesù è segno eloquente dell’amore di Dio, lo è in modo del tutto singolare la sua morte, nella quale si è espressa appieno la tenerezza redentrice di Dio. Sempre, ma particolarmente in questo tempo quaresimale, al centro della nostra meditazione deve dunque stare la Croce; in essa contempliamo la gloria del Signore che risplende nel corpo martoriato di Gesù. E’ la gloria del Crocifisso che ogni cristiano è chiamato a comprendere, a vivere e a testimoniare con la sua esistenza. La Croce è in definitiva il "segno" per eccellenza dato a noi per comprendere la verità dell’uomo e la verità di Dio: tutti siamo stati creati e redenti da un Dio che per amore ha immolato il suo unico Figlio. Ecco perché nella Croce, come ho scritto nell’Enciclica Deus caritas est, "si compie quel volgersi di Dio contro se stesso nel quale egli si dona per rialzare l’uomo e salvarlo – amore, questo, nella sua forma più radicale" (n. 12).



Come rispondere a questo amore radicale del Signore? Il Vangelo ci presenta un personaggio di nome Nicodemo che va di notte a cercare Gesù. Si tratta di un uomo per bene, attirato dalle parole e dall’esempio del Signore, ma che esita a compiere il salto della fede. Avverte il fascino di questo Rabbì così diverso dagli altri, ma non riesce a sottrarsi ai condizionamenti dell’ambiente e resta titubante sulla soglia della fede. Quanti, anche nel nostro tempo, sono in ricerca e attendono un "segno" che tocchi la loro mente e il loro cuore! Oggi come allora l’evangelista ci ricorda che il solo "segno" è Gesù innalzato sulla croce: Gesù morto e risorto. In Lui possiamo comprendere la verità della vita e ottenere la salvezza. E’ questo l’annuncio centrale della Chiesa, che resta nei secoli immutato. La fede cristiana pertanto non è ideologia, ma incontro personale con Cristo crocifisso e risorto. Da questa esperienza, che è individuale e comunitaria, scaturisce un nuovo modo di pensare e di agire: ha origine, come testimoniano i santi, un’esistenza segnata dall’amore.

Cari amici, questo mistero è particolarmente eloquente nella vostra parrocchia, dedicata a "Dio Padre misericordioso". Essa è stata voluta dall’amato mio Predecessore Giovanni Paolo II a ricordo del Grande Giubileo dell’Anno 2000, perché condensasse in maniera efficace il significato di quell’evento spirituale straordinario. Meditando sulla misericordia del Signore, che si è rivelata in modo totale e definitivo nel mistero della Croce, mi torna alla mente il testo che Giovanni Paolo II aveva preparato per l’appuntamento con i fedeli della domenica 3 aprile, domenica in Albis. Nei disegni divini era scritto che egli ci lasciasse proprio alla vigilia di quel giorno, il sabato 2 aprile, e per questo non poté pronunziare quelle sue parole, che mi piace riproporre a voi, cari fratelli e sorelle.
Aveva scritto così:
"All’umanità, che talora sembra smarrita e dominata dal potere del male, dell’egoismo e della paura, il Signore risorto offre in dono il suo amore che perdona, riconcilia e apre l’animo alla speranza. E’ amore che converte i cuori e dona la pace". Ed aggiungeva: "Quanto bisogno ha il mondo di comprendere e di accogliere la Divina Misericordia!" (L’Osservatore Romano, 4 aprile 2005).

Comprendere e accogliere l’amore misericordioso di Dio: sia questo il vostro impegno anzitutto all’interno delle famiglie e poi in ogni ambito del quartiere. Questo auspicio formulo di cuore mentre vi saluto cordialmente, cominciando dai sacerdoti che si occupano della vostra comunità sotto la guida del parroco, Don Gianfranco Corbino, al quale va il mio sincero ringraziamento per essersi fatto interprete dei vostri sentimenti. Estendo poi il mio saluto al Cardinale Vicario Camillo Ruini e al Cardinale Crescenzio Sepe, titolare della vostra chiesa, al Vicegerente e Vescovo del settore est di Roma, e a quanti attivamente cooperano nei vari servizi parrocchiali. So che la vostra è una comunità giovane, con appena dieci anni di vita, che ha trascorso i suoi primi tempi in condizioni precarie, nell’attesa del completamento delle attuali strutture. So pure che le iniziali difficoltà piuttosto che scoraggiarvi vi hanno spinto a un corale impegno apostolico, con una particolare attenzione al campo della catechesi, della liturgia e della carità. Proseguite, cari amici, nel cammino intrapreso, sforzandovi di fare della vostra parrocchia una vera famiglia dove la fedeltà alla Parola di Dio e alla Tradizione della Chiesa diventano giorno dopo giorno sempre più la regola di vita. So poi che questa vostra chiesa, per la sua originale struttura architettonica, è meta di molti visitatori. Ad essi fate apprezzare non soltanto la bellezza dell’edificio sacro, ma soprattutto la ricchezza di una Comunità viva, tesa a testimoniare l’amore di Dio, Padre misericordioso. Quell’amore che è il vero segreto della gioia cristiana, a cui ci invita l’odierna domenica Laetare. Volgendo lo sguardo a Maria, "Madre della santa letizia", chiediamoLe di aiutarci ad approfondire le ragioni della nostra fede, perchè, come ci esorta oggi la liturgia, rinnovati nello spirito e con animo lieto corrispondiamo all’eterno e sconfinato amore di Dio. Amen!

Fonte: www.vatican.va
img70/5572/papa5gf.jpg

img70/4405/papa35wx.jpg

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)