di PIER GIORDANO CABRA
Quando penso a Giuseppe, resto stupito dalla grandezza del suo cuore. Un cuore normale, ma dilatato all'infinito, nel momento in cui, accanto ai suoi desideri, ha fatto spazio al desiderio infinito del suo Creatore.
Giuseppe è uomo giusto perché vede in modo giusto la realtà. Per Giuseppe è giusto che Colui che lo ha fatto gli possa dire quello che debba fare. È giusto che colui che ha intessute tutte le fibre del suo cuore, gli dica come debba amare, in che cosa consiste l'amore.
E Dio ha fatto di lui un maestro eloquente dell'arte di amare. Eloquente, perché, lui taciturno, ha detto una sola grande decisiva parola che riassume tutto l'amore possibile, in cielo e sulla terra, la dolce e forte parola "Gesù", pronunciandola quando ha imposto quel nome, come gli era stato detto dall'angelo.
Una sola parola e tutta la vita al suo servizio. Una sola parola detta, Gesù, che vuol dire salvatore. E Giuseppe ha salvato quel piccolo salvatore, tanto fragile, dimenticando se stesso, lavorando, fuggendo, proteggendolo.
Una sola Parola, da far crescere nel mondo, ricevendola nella sua casa, curando nel quotidiano la sua crescita silenziosa, oscura, inavvertita. Una sola Parola, che con grande stupore realizzerà la profezia del "Servo del Signore", accolto dalla carissima sposa Maria, dichiaratasi umile serva del Signore. Giuseppe accogliendo Maria e Gesù è il primo "servo dei servi di Dio", un servo e solo un servo, felice d'esserlo perché sa quanto sia sublime il suo compito. Un servo e solo un servo, che rientra nell'ombra quando il suo compito è terminato, silenziosamente come silenziosamente è vissuto.
Un servo che trova la sua gioia e la sua gloria nello svolgere il suo compito di far crescere Gesù nel mondo, restando nel silenzio perché cresca la Parola, nell'oscurità perché cresca la Luce, nell'umile servizio perché l'umile servizio è il sigillo più autentico dell'Amore.
Possa io lasciarmi illuminare dalla tua silenziosa ed eloquente lezione, o Giuseppe, mio maestro nell'arte di amare, in un mondo nel quale urge strappare dal fango dove è stata gettata la grande parola "amore", inflazionata e stravolta, per ripulirla dagli svilimenti e dalle incrostazioni, ridandole tutto il suo splendore divino e il suo fascino umano. Perché, tu Giuseppe, non hai detto "Signore, Signore", ma hai fatto la volontà del Padre che è nei cieli.
Perché alcuni maschi tendono ancora alla fuga
Padri si diventa
GIULIA GALEOTTI
Oggi sembra che si stiano finalmente riscoprendo i padri, mai in realtà troppo relegati ai margini della scena. Romanzi, saggi, film, canzoni e discorsi politici vanno cogliendo il ruolo centrale che anche la paternità - specie nella sua dimensione di "grande vuoto" - svolge nello sviluppo umano. Nel suo libro In difesa dei padri (Castelvecchi 2010), la psicanalista francese Simone Korff-Sausse riferisce che studi recenti hanno scientificamente attestato l'esistenza del padre pre-natale. Il feto ne sente la voce, distinguendola da quella della madre, il che "introduce subito una percezione esterna, e quindi l'inizio della discontinuità e dell'alterità". Tra gli innumerevoli progressi fatti, resta però una domanda: perchè in alcuni uomini persiste ancora una certa ritrosia ad assumere pienamente e consapevolmente il ruolo paterno?
Sulla ricerca del padre è incentrato il racconto autobiografico di Vania Colasanti, Ciao, sono tua figlia. Storia di un padre ritrovato (Marsilio 2011, pagine 110, euro 16), in cui l'autrice narra la sua ricerca del genitore che l'aveva abbandonata a otto mesi, una ricerca che, superando i rancori ed evitando le recriminazioni, l'ha portata ad accettare, per ciò che è, quell'uomo così a lungo immaginato. E lo fa senza dare facili giudizi, ma assumendo comunque un'ottica chiara. Raccontando la necessità di conoscere le proprie origini, Vania Colasanti fa i conti con l'assenza di suo padre, con il primo deludentissimo incontro a sedici anni, con un rapporto poi faticosamente costruito, con il prima e il dopo, con il vuoto e con il pieno. È un incontro che le ha permesso di ritrovare i suoi fratelli, ed è questo, forse, quello che risulta il vero arricchimento nella vita di tutti. L'uomo semina e fugge; la sua prole lotta per ritrovarsi. "Una nuova famiglia, allargata, perché ti abbiamo fatto spazio, perché ti abbiamo fatto entrare".
La realtà, nelle sue poliedriche manifestazioni, incrina la tesi di fondo del volume della Korff-Sausse prima citato: tendiamo infatti a pensare che di una difesa molti padri di oggi non abbiano ancora bisogno. Anche perché, procedendo nella lettura del saggio, si ha la conferma di ciò che subito si intuisce, e cioè che i malcapitati dovrebbero essere difesi da terribili arpie, le madri dei propri figli. Il passaggio sui padri dei bimbi malati o disabili, poi, è inaccettabile: i poveri maschi sarebbero assenti perché violentemente cacciati dalle femmine oppressive ed egotiche, quando la realtà ci racconta invece di padri quotidianamente in fuga dalle loro "intollerabili" responsabilità.
Del resto, quando la Korff-Sausse nota che solitamente si parla della buona o cattiva madre, e quasi mai del buono o cattivo padre, viene facile obiettare che, per essere buono o cattivo, il padre deve innanzitutto esserci. E invece, al di là delle leggi e delle mode, spesso molti padri ancora non ci sono. O ci sono episodicamente, superficialmente, nei ritagli di tempo e di spazio. A volte incapaci di fare i padri (per disinteresse, stanchezza o pigrizia), a noi pare invece che ancora oggi alcuni uomini siano i padri-figli alla John Fante, lo scrittore americano (1909-1983) di cui rimane memorabilmente sincera l'esclamazione pronunciata in occasione del funerale paterno.
"Gli amici che s'erano incaricati di portare la bara si facevano ombra sotto un grosso olmo. Il dolore mi prese alla gola come una trota che saltava, e li guardai. Ora che non avevo più il mio, avrei preso uno qualunque di loro perché mi fosse padre. Davvero: qualunque uomo, o magari un cespuglio, un albero, un sasso, purché mi volesse come figlio. Ero anch'io un padre, ma non volevo quel ruolo. Volevo tornare indietro nel tempo, quand'ero piccolo e mio padre girava per casa, forte e rumoroso. (...) Non ci ero tagliato. Ero nato per fare il figlio" (The Brotherhood of the Grape).
E dire che John Fante ci aveva provato quindici anni prima, raccontando nel 1952 la prima gravidanza di sua moglie in Full of life. Solo che piena di vita, era lei, la madre. Fante raccontava scioccato che, mentre Joyce fioriva man mano che la gravidanza procedeva ("i suoi occhi grigi erano incredibilmente luminosi. C'era qualcosa di nuovo che si era aggiunto a quegli occhi. L'assenza della paura"), lui, il futuro padre, si sentiva sempre più disperato, perso e abbandonato. "Quando rimase incinta, non le interessò più leggere le mie cose. Quell'inverno durante il suo quinto mese scrissi un racconto e lei vi rovesciò sopra il caffè - una cosa inaudita, poi lo lesse sbadigliando. Prima del bambino, avrebbe preso il manoscritto, se lo sarebbe portato a letto e vi avrebbe passato ore a potarlo, sistemarlo e a farci delle note in calce. Come una pietra, il bambino si interpose fra di noi. Io ero preoccupato e mi chiedevo se le cose sarebbero mai tornate a essere come prima".
La conclusione cui John Fante giungeva era semplice: "La gravidanza di una donna era un brutto momento per un uomo. La procreazione le dava una forza terribile e lei poteva procedere senza di lui". Full of life è un romanzo che gli uomini dovrebbero leggere. Potrebbe essere un modo per fare chiarezza, con un po' di sana e (a tratti) poetica autoironia, sulle paure che evoca in loro la prospettiva della paternità. Perché i maschi un po' più padri sarebbero probabilmente uomini migliori.
Ma è un romanzo che, probabilmente, anche le donne non dovrebbero disdegnare. Rendere gli uomini co-protagonisti della scena della genitorialità è compito anche nostro.