00 15/12/2008 08:52
 
Dicembre 2007
LA PAROLA DEL PAPA






«Lei che ha conservato la speranza»

Queste le parole di Benedetto XVI per il tradizione omaggio
all’Immacolata in piazza di Spagna lo scorso 8 dicembre: «Maria Immacolata nella sua concezione verginale ha percorso il suo pellegrinaggio terreno sorretta da una fede intrepida, una speranza incrollabile e un amore umile e sconfinato, seguendo le orme del suo figlio Gesù. Gli è stata accanto con materna sollecitudine dalla nascita al Calvario, dove ha assistito alla sua crocifissione impietrita dal dolore, ma incrollabile nella speranza. Ella ha poi sperimentato la gioia della risurrezione, all'alba del terzo giorno, del nuovo giorno, quando il Crocifisso ha lasciato il sepolcro vincendo per sempre e in modo definitivo il potere del peccato e della morte.

«Maria, nel cui grembo verginale Dio si è fatto uomo, è nostra Madre! Dall’alto della croce infatti, Gesù [...], ce l’ha donata come madre e a Lei ci ha affidati come suoi figli. Mistero di misericordia e di amore, dono che arricchisce la Chiesa di una feconda maternità spirituale. Volgiamo il nostro sguardo verso di Lei e, implorando il suo aiuto, disponiamoci a far tesoro di ogni suo materno insegnamento. Questa nostra celeste Madre non ci invita forse a fuggire il male e a compiere il bene seguendo docilmente la legge divina iscritta nel cuore di ogni cristiano? Lei, che ha conservata la speranza pur nel sommo della prova, non ci chiede forse di non perderci d’animo quando la sofferenza e la morte bussano alla porta delle nostre case? non ci chiede di guardare fiduciosi al nostro futuro? Non ci esorta la Vergine Immacolata ad essere fratelli gli uni degli altri, tutti accomunati dall’impegno di costruire insieme un mondo più giusto, solidale e pacifico?

«Ancora una volta la Chiesa addita al mondo Maria come segno di sicura speranza e di definitiva vittoria del bene sul male. Colei che invochiamo "piena di grazia" ci ricorda che siamo tutti fratelli e che Dio è il nostro Creatore e il nostro Padre. Senza di Lui, o ancor peggio contro di Lui, noi uomini non potremo mai trovare la strada che conduce all’amore, non potremo mai sconfiggere il potere dell’odio e della violenza, non potremo mai costruire una stabile pace.


«Accolgano gli uomini di ogni nazione e cultura questo messaggio di luce e di speranza: lo accolgano come dono dalle mani di Maria, Madre dell’intera umanità [...]. Animati da filiale confidenza, Le diciamo: "Insegnaci, Maria, a credere, a sperare e ad amare con Te; indicaci la via che conduce alla pace, la via verso il regno di Gesù. Tu, Stella della speranza, che trepidante ci attendi nella luce intramontabile dell’eterna Patria, brilla su di noi e guidaci nelle vicende di ogni giorno, adesso e nell’ora della nostra morte. Amen!" ».


All’Angelus del giorno seguente, il Papa ha legato l’Immacolata alla chiamata alla santità (Ef 1,4), rivolgendo un pensiero anche ai giovani: «Che grande dono avere per madre Maria Immacolata! Una madre splendente di bellezza, trasparente all’amore di Dio. Penso ai giovani di oggi, cresciuti in un ambiente saturo di messaggi che propongono falsi modelli di felicità. Questi ragazzi e ragazze rischiano di perdere la speranza perché sembrano spesso orfani del vero amore, che riempie di significato e di gioia la vita. [ ]. Non poche esperienze ci dicono purtroppo che gli adolescenti, i giovani e persino i bambini sono facili vittime della corruzione dell’amore, ingannati da adulti senza scrupoli i quali, mentendo a se stessi e a loro, li attirano nei vicoli senza uscita del consumismo: anche le realtà più sacre, come il corpo umano, tempio del Dio dell’amore e della vita, diventano così oggetti di consumo; e questo sempre più presto, già nella preadolescenza. Che tristezza quando i ragazzi smarriscono lo stupore, l’incanto dei sentimenti più belli, il valore del rispetto del corpo, manifestazione della persona e del suo insondabile mistero! A tutto questo ci richiama Maria, l’Immacolata, che contempliamo in tutta la sua bellezza e santità».




Siamo stati creati LIBERI, ma il Peccato Originale ci tarpò questa libertà che non è fare quello che ci pare, ma LIBERI PER STARE MEGLIO.....

          


Spe salvi (30 novembre 2007)

scrive il Papa:

La fede conferisce alla vita una nuova base, un nuovo fondamento sul quale l'uomo può poggiare e con ciò il fondamento abituale, l'affidabilità del reddito materiale, appunto, si relativizza. Si crea una nuova libertà di fronte a questo fondamento della vita che solo apparentemente è in grado di sostentare, anche se il suo significato normale non è con ciò certamente negato. Questa nuova libertà, la consapevolezza della nuova « sostanza » che ci è stata donata, si è rivelata non solo nel martirio, in cui le persone si sono opposte allo strapotere dell'ideologia e dei suoi organi politici, e, mediante la loro morte, hanno rinnovato il mondo.

Essa si è mostrata soprattutto nelle grandi rinunce a partire dai monaci dell'antichità fino a Francesco d'Assisi e alle persone del nostro tempo che, nei moderni Istituti e Movimenti religiosi, per amore di Cristo hanno lasciato tutto per portare agli uomini la fede e l'amore di Cristo, per aiutare le persone sofferenti nel corpo e nell'anima. Lì la nuova « sostanza » si è comprovata realmente come « sostanza », dalla speranza di queste persone toccate da Cristo è scaturita speranza per altri che vivevano nel buio e senza speranza.

Lì si è dimostrato che questa nuova vita possiede veramente « sostanza » ed è una « sostanza » che suscita vita per gli altri. Per noi che guardiamo queste figure, questo loro agire e vivere è di fatto una « prova » che le cose future, la promessa di Cristo non è soltanto una realtà attesa, ma una vera presenza: Egli è veramente il « filosofo » e il « pastore » che ci indica che cosa è e dove sta la vita.

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La libertà dell'Uomo e la Speranza verso la quale PER NATURA TENDE, sembra dire il Papa, è il nucleo centrale per cui l'uomo vive...
Un uomo senza Speranza è una Persona che NON vive, e la speranza è quella realtà che rende l'Uomo LIBERO NELLA RICERCA.....ricerca interiore ed esteriore a dare risposta alle domande che lo animano.....

Per ora mi fermo qui...leggiamo questa Enciclica meditandola magari davanti al Tabernacolo, in adorazione e in ascolto...

Fraternamente CaterinaLD
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Vogliamo essere veramente segno di contraddizione?

Altro non vi dico (…) Non vorrei più parole, ma trovarmi nel campo della battaglia, sostenendo le pene, e combattendo con voi insieme per la verità infino alla morte, per gloria e lode del nome di Dio, e reformazione della Santa Chiesa…”
(Santa Caterina da Siena, Lettera 305 al Papa Urbano VI ove lottò fino alla morte per difendere l’autorità del Pontefice)


La parusìa nella "Spe salvi"

Verso l'incontro con il Giudice


di Juan Manuel de Prada

"Non continuate ad affliggervi come gli altri che non hanno speranza", ci dice san Paolo (Prima lettera ai Tessalonicesi, 4, 13). Benedetto XVI ricorre nella Spe salvi a questa citazione per ricordarci che è "elemento distintivo dei cristiani il fatto che essi hanno un futuro". Sappiamo, in effetti, che la nostra vita "non finisce nel vuoto"; e questo è il messaggio che noi cristiani dobbiamo proclamare al mondo continuamente, dinanzi alla propaganda della disperazione che sembra essersi convertita in stendardo della nostra epoca. Una disperazione che, in ultima analisi, nasce dalla sensazione che la vita non vale nulla, al di là di alcuni vantaggi materiali e del godimento di alcuni piaceri perituri; e questa sensazione è fatalmente conseguente alla credenza che non esista un'altra vita. Dovremmo domandarci se noi cristiani non ci staremo lasciando trasportare dall'afflizione degli uomini senza speranza. Se il sale diventa insipido, con cosa si potrà salare il mondo?
La  scienza,  ci  ricorda  Benedetto XVI, ha fatto credere illusoriamente all'uomo che avrebbe potuto ristabilire il dominio sul creato, dominio perso a causa del peccato originale. Lo scienziato o il politico vogliono riconquistare l'Eden mediante strumenti puramente umani:  l'adorazione della scienza, la speranza nel progresso e la sfrenata sostituzione della religione con l'ideologia costituiscono la nuova idolatria del nostro tempo. In questo contesto, la fede religiosa si accantona, smette di essere vera sostanza vitale. Particolarmente illuminante risulta la riflessione che Benedetto XVI ci propone a partire dalla discussa traduzione di un versetto della Lettera agli Ebrei (11, 1):  "La fede è fondamento delle cose che si sperano e prova di quelle che non si vedono". La fede, c'insegna il Papa, non deve essere una mera disposizione d'animo, un atteggiamento interiore volto verso il futuro, ma una realtà che è dentro di noi, che porta il futuro al presente, che trasforma e sostiene la nostra vita, che fa cominciare nel nostro presente la vita eterna.
Una fede che non è sostanza vitale è una fede falsificata. Diceva Hilaire Belloc che le eresie moderne, più che negare esplicitamente un dogma in concreto, preferiscono falsificarli tutti. Senza dubbio, uno dei dogmi più falsificati della nostra epoca - falsificato persino dai propri cristiani - è il dogma della seconda venuta di Cristo, o parusìa, che è la base salda della speranza cristiana e anche la sua vetta o culmine. È un dogma che recitiamo fra i quattordici articoli di fede contenuti nel Credo della Chiesa, così centrale come quello della sua prima venuta o Incarnazione:  "Di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti". Un dogma che conosciamo attraverso la stessa predicazione di Gesù contenuta nei sinottici (Luca, 17, 20; Matteo, 24, 23; Marco, 13, 21) e che troviamo ripetuto nelle lettere di Pietro e Paolo, come pure in quella grande profezia escatologica che è l'Apocalisse. Sappiamo che questa seconda venuta di Cristo sarà preceduta da una grande apostasia e da una grande sofferenza; sappiamo che il mondo non continuerà a evolversi indefinitivamente, fino all'esaurimento delle risorse, né finirà per caso o per una catastrofe naturale, ma che lo farà per un intervento diretto del suo Creatore. L'universo - ci ricorda il grande scrittore argentino Leonardo Castellani - non è un processo naturale, ma "un poema drammatico del quale Dio si è riservato l'inizio, l'intreccio e la conclusione, che si chiamano teologicamente Creazione, Redenzione e Parusìa".
Ricordiamo il monito degli angeli nell'Ascensione:  "Uomini Galilei, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che è stato di tra voi assunto fino al cielo, tornerà un giorno allo stesso modo in cui l'avete veduto andare in cielo". Si tratta di un formidabile rimprovero che continua a interpellare i cristiani del nostro tempo. La malattia della nostra fede consiste nel pensare che Dio non tornerà più; o anche nel non pensare che tornerà. Ha sempre richiamato la mia attenzione l'insufficiente presenza del dogma della parusìa nella predicazione dei nostri ministri; e, ancor più, la scarsissima, quasi nulla, consapevolezza che il cristiano comune ha di questa seconda venuta, forse perché ci è stato detto che giungerà preceduta da eventi luttuosi (si sa che è caratteristico della nostra epoca eludere qualsiasi questione molesta o dolorosa). Tuttavia, nell'eludere la questione, noi cristiani non facciamo altro che falsificare la nostra fede; non facciamo altro che affliggerci come uomini senza speranza.
Nell'occultare il processo divino della Storia, ci uniamo alla disperazione della nostra epoca, che promette all'uomo il paradiso sulla terra grazie alle sue forze, ossia mediante l'intervento della scienza e della politica. O, nel migliore dei casi, aderiamo a una certa visione spiritualistica e deliquescente delle cose ultime, sullo stile di quella formulata da Renan, secondo la quale tutti gli uomini che sono stati nel mondo si fonderanno in Dio, facendo parte del suo stesso essere. Tuttavia, di fronte a questa sogno di graduale dissoluzione in Dio - che non è altro che una falsificazione della fede - la speranza della parusìa, quando è sostanza della stessa vita, ci insegna che, alla fine del mondo, noi uomini saremo giudicati, e che non tutti sfoceremo nella Vita, ma anzi in molti cadremo in una "morte seconda" e definitiva. Questa visione del Giudizio intimorisce molti cristiani, che vedono in essa un'espressione lugubre che contraddice la benefica natura divina; mentre in realtà è la sua espressione più luminosa. In effetti, come afferma Benedetto XVI nella Spe salvi, citando - per confutarlo - Teodor W. Adorno, "una vera giustizia, richiederebbe un mondo "in cui non solo la sofferenza presente fosse annullata, ma anche revocato ciò che è irrevocabilmente passato"". Questa revoca della sofferenza passata si può ottenere pienamente solo attraverso la risurrezione della carne, estremo nel quale il dogma cristiano sovverte l'idealismo deliquescente proprio della nostra epoca:  la fede nel Giudizio finale è così la suprema espressione della speranza cristiana, trasformata in sostanza della nostra vita presente. Per la giustizia divina, è possibile revocare la sofferenza passata; e questa revoca la proveremo nella nostra stessa carne.
Naturalmente, ci ricorda Benedetto XVI, in questo atto di giustizia finale interverrà la grazia; ma la grazia "non è una spugna che cancella tutto così che quanto s'è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore". Proprio perché è grazia e giustizia allo stesso tempo, la speranza nel giudizio di Dio è sostanza della nostra fede:  "Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno - ci spiega Benedetto XVI in uno dei passaggi più chiarificatori della sua enciclica - Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia, domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura". Giustizia e grazia sono già state unite mediante l'Incarnazione; e raggiungeranno la loro pienezza nella parusìa. Per questo procediamo pieni di fiducia verso l'incontro con il Giudice, che è anche il nostro avvocato. E questo procedere fiducioso, sostanza della nostra vita, è il miglior antidoto alla disperazione della nostra epoca. Bisogna predicare nuovamente la Parusìa come pietra d'angolo della speranza cristiana; solo così noi cristiani vivremo la fede senza falsificazioni e saremo il sale che sala il mondo.



(©L'Osservatore Romano - 13 giugno 2008)



               



Exclamation La Speranza Cristiana del Purgatorio nell'Enciclica del Papa

......riporto dalla seconda parte del cap. III questo importante ed interessante passaggio dell'Enciclica del Papa..ovviamente le sottolineature sono mie..



44. La protesta contro Dio in nome della giustizia non serve. Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza (cfr Ef 2,12). Solo Dio può creare giustizia. E la fede ci dà la certezza: Egli lo fa. L'immagine del Giudizio finale è in primo luogo non un'immagine terrificante, ma un'immagine di speranza; per noi forse addirittura l'immagine decisiva della speranza. Ma non è forse anche un'immagine di spavento?

Io direi: è un'immagine che chiama in causa la responsabilità. Un'immagine, quindi, di quello spavento di cui sant'Ilario dice che ogni nostra paura ha la sua collocazione nell'amore [
35]. Dio è giustizia e crea giustizia. È questa la nostra consolazione e la nostra speranza. Ma nella sua giustizia è insieme anche grazia. Questo lo sappiamo volgendo lo sguardo sul Cristo crocifisso e risorto. Ambedue – giustizia e grazia – devono essere viste nel loro giusto collegamento interiore.

La grazia non esclude la giustizia. Non cambia il torto in diritto.
Non è una spugna che cancella tutto così che quanto s'è fatto sulla terra finisca per avere sempre lo stesso valore.

Contro un tale tipo di cielo e di grazia ha protestato a ragione, per esempio, Dostoëvskij nel suo romanzo « I fratelli Karamazov ». I malvagi alla fine, nel banchetto eterno, non siederanno indistintamente a tavola accanto alle vittime, come se nulla fosse stato. Vorrei a questo punto citare un testo di Platone che esprime un presentimento del giusto giudizio che in gran parte rimane vero e salutare anche per il cristiano. Pur con immagini mitologiche, che però rendono con evidenza inequivocabile la verità, egli dice che alla fine le anime staranno nude davanti al giudice. Ora non conta più ciò che esse erano una volta nella storia, ma solo ciò che sono in verità. « Ora [il giudice] ha davanti a sé forse l'anima di un [...] re o dominatore e non vede niente di sano in essa. La trova flagellata e piena di cicatrici provenienti da spergiuro ed ingiustizia [...] e tutto è storto, pieno di menzogna e superbia, e niente è dritto, perché essa è cresciuta senza verità. Ed egli vede come l'anima, a causa di arbitrio, esuberanza, spavalderia e sconsideratezza nell'agire, è caricata di smisuratezza ed infamia. Di fronte a un tale spettacolo, egli la manda subito nel carcere, dove subirà le punizioni meritate [...] A volte, però, egli vede davanti a sé un'anima diversa, una che ha fatto una vita pia e sincera [...], se ne compiace e la manda senz'altro alle isole dei beati » [
36].

Gesù, nella parabola del ricco epulone e del povero Lazzaro (cfr Lc 16,19-31), ha presentato a nostro ammonimento l'immagine di una tale anima devastata dalla spavalderia e dall'opulenza, che ha creato essa stessa una fossa invalicabile tra sé e il povero: la fossa della chiusura entro i piaceri materiali, la fossa della dimenticanza dell'altro, dell'incapacità di amare, che si trasforma ora in una sete ardente e ormai irrimediabile. Dobbiamo qui rilevare che Gesù in questa parabola non parla del destino definitivo dopo il Giudizio universale, ma riprende una concezione che si trova, fra altre, nel giudaismo antico, quella cioè di una condizione intermedia tra morte e risurrezione, uno stato in cui la sentenza ultima manca ancora.

45. Questa idea vetero-giudaica della condizione intermedia include l'opinione che le anime non si trovano semplicemente in una sorta di custodia provvisoria, ma subiscono già una punizione, come dimostra la parabola del ricco epulone, o invece godono già di forme provvisorie di beatitudine. E infine non manca il pensiero che in questo stato siano possibili anche purificazioni e guarigioni, che rendono l'anima matura per la comunione con Dio. La Chiesa primitiva ha ripreso tali concezioni, dalle quali poi, nella Chiesa occidentale, si è sviluppata man mano la dottrina del purgatorio.

Non abbiamo bisogno di prendere qui in esame le vie storiche complicate di questo sviluppo; chiediamoci soltanto di che cosa realmente si tratti. Con la morte, la scelta di vita fatta dall'uomo diventa definitiva – questa sua vita sta davanti al Giudice. La sua scelta, che nel corso dell'intera vita ha preso forma, può avere caratteri diversi. Possono esserci persone che hanno distrutto totalmente in se stesse il desiderio della verità e la disponibilità all'amore. Persone in cui tutto è diventato menzogna; persone che hanno vissuto per l'odio e hanno calpestato in se stesse l'amore. È questa una prospettiva terribile, ma alcune figure della stessa nostra storia lasciano discernere in modo spaventoso profili di tal genere. In simili individui non ci sarebbe più niente di rimediabile e la distruzione del bene sarebbe irrevocabile: è questo che si indica con la parola inferno [
37]. Dall'altra parte possono esserci persone purissime, che si sono lasciate interamente penetrare da Dio e di conseguenza sono totalmente aperte al prossimo – persone, delle quali la comunione con Dio orienta già fin d'ora l'intero essere e il cui andare verso Dio conduce solo a compimento ciò che ormai sono [38].

46. Secondo le nostre esperienze, tuttavia, né l'uno né l'altro è il caso normale dell'esistenza umana. Nella gran parte degli uomini – così possiamo supporre – rimane presente nel più profondo della loro essenza un'ultima apertura interiore per la verità, per l'amore, per Dio. Nelle concrete scelte di vita, però, essa è ricoperta da sempre nuovi compromessi col male – molta sporcizia copre la purezza, di cui, tuttavia, è rimasta la sete e che, ciononostante, riemerge sempre di nuovo da tutta la bassezza e rimane presente nell'anima. Che cosa avviene di simili individui quando compaiono davanti al Giudice?
Tutte le cose sporche che hanno accumulate nella loro vita diverranno forse di colpo irrilevanti? O che cosa d'altro accadrà?

San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, ci dà un'idea del differente impatto del giudizio di Dio sull'uomo a seconda delle sue condizioni. Lo fa con immagini che vogliono in qualche modo esprimere l'invisibile, senza che noi possiamo trasformare queste immagini in concetti – semplicemente perché non possiamo gettare lo sguardo nel mondo al di là della morte né abbiamo alcuna esperienza di esso. Paolo dice dell'esistenza cristiana innanzitutto che essa è costruita su un fondamento comune: Gesù Cristo. Questo fondamento resiste. Se siamo rimasti saldi su questo fondamento e abbiamo costruito su di esso la nostra vita, sappiamo che questo fondamento non ci può più essere sottratto neppure nella morte.

Poi Paolo continua: « Se, sopra questo fondamento, si costruisce con oro, argento, pietre preziose, legno, fieno, paglia, l'opera di ciascuno sarà ben visibile: la farà conoscere quel giorno che si manifesterà col fuoco, e il fuoco proverà la qualità dell'opera di ciascuno. Se l'opera che uno costruì sul fondamento resisterà, costui ne riceverà una ricompensa; ma se l'opera finirà bruciata, sarà punito: tuttavia egli si salverà, però come attraverso il fuoco » (3,12-15). In questo testo, in ogni caso, diventa evidente che il salvamento degli uomini può avere forme diverse; che alcune cose edificate possono bruciare fino in fondo; che per salvarsi bisogna attraversare in prima persona il « fuoco » per diventare definitivamente capaci di Dio e poter prendere posto alla tavola dell'eterno banchetto nuziale.

47. Alcuni teologi recenti sono dell'avviso che il fuoco che brucia e insieme salva sia Cristo stesso, il Giudice e Salvatore. L'incontro con Lui è l'atto decisivo del Giudizio. Davanti al suo sguardo si fonde ogni falsità. È l'incontro con Lui che, bruciandoci, ci trasforma e ci libera per farci diventare veramente noi stessi. Le cose edificate durante la vita possono allora rivelarsi paglia secca, vuota millanteria e crollare. Ma nel dolore di questo incontro, in cui l'impuro ed il malsano del nostro essere si rendono a noi evidenti, sta la salvezza. Il suo sguardo, il tocco del suo cuore ci risana mediante una trasformazione certamente dolorosa « come attraverso il fuoco ».

È, tuttavia, un dolore beato, in cui il potere santo del suo amore ci penetra come fiamma, consentendoci alla fine di essere totalmente noi stessi e con ciò totalmente di Dio. Così si rende evidente anche la compenetrazione di giustizia e grazia: il nostro modo di vivere non è irrilevante, ma la nostra sporcizia non ci macchia eternamente, se almeno siamo rimasti protesi verso Cristo, verso la verità e verso l'amore. In fin dei conti, questa sporcizia è già stata bruciata nella Passione di Cristo. Nel momento del Giudizio sperimentiamo ed accogliamo questo prevalere del suo amore su tutto il male nel mondo ed in noi. Il dolore dell'amore diventa la nostra salvezza e la nostra gioia.

È chiaro che la « durata » di questo bruciare che trasforma non la possiamo calcolare con le misure cronometriche di questo mondo. Il « momento » trasformatore di questo incontro sfugge al cronometraggio terreno – è tempo del cuore, tempo del « passaggio » alla comunione con Dio nel Corpo di Cristo [
39].

Il Giudizio di Dio è speranza sia perché è giustizia, sia perché è grazia. Se fosse soltanto grazia che rende irrilevante tutto ciò che è terreno, Dio resterebbe a noi debitore della risposta alla domanda circa la giustizia – domanda per noi decisiva davanti alla storia e a Dio stesso. Se fosse pura giustizia, potrebbe essere alla fine per tutti noi solo motivo di paura. L'incarnazione di Dio in Cristo ha collegato talmente l'uno con l'altra – giudizio e grazia – che la giustizia viene stabilita con fermezza: tutti noi attendiamo alla nostra salvezza « con timore e tremore » (Fil 2,12). Ciononostante la grazia consente a noi tutti di sperare e di andare pieni di fiducia incontro al Giudice che conosciamo come nostro « avvocato », parakletos (cfr 1 Gv 2,1).

48. Un motivo ancora deve essere qui menzionato, perché è importante per la prassi della speranza cristiana. Nell'antico giudaismo esiste pure il pensiero che si possa venire in aiuto ai defunti nella loro condizione intermedia per mezzo della preghiera (cfr per esempio 2 Mac 12,38-45: I secolo a.C.). La prassi corrispondente è stata adottata dai cristiani con molta naturalezza ed è comune alla Chiesa orientale ed occidentale.

L'Oriente non conosce una sofferenza purificatrice ed espiatrice delle anime nell'« aldilà », ma conosce, sì, diversi gradi di beatitudine o anche di sofferenza nella condizione intermedia.

Alle anime dei defunti, tuttavia, può essere dato « ristoro e refrigerio » mediante l'Eucaristia, la preghiera e l'elemosina. Che l'amore possa giungere fin nell'aldilà, che sia possibile un vicendevole dare e ricevere, nel quale rimaniamo legati gli uni agli altri con vincoli di affetto oltre il confine della morte – questa è stata una convinzione fondamentale della cristianità attraverso tutti i secoli e resta anche oggi una confortante esperienza. Chi non proverebbe il bisogno di far giungere ai propri cari già partiti per l'aldilà un segno di bontà, di gratitudine o anche di richiesta di perdono?

Ora ci si potrebbe domandare ulteriormente: se il « purgatorio » è semplicemente l'essere purificati mediante il fuoco nell'incontro con il Signore, Giudice e Salvatore, come può allora intervenire una terza persona, anche se particolarmente vicina all'altra? Quando poniamo una simile domanda, dovremmo renderci conto che nessun uomo è una monade chiusa in se stessa. Le nostre esistenze sono in profonda comunione tra loro, mediante molteplici interazioni sono concatenate una con l'altra. Nessuno vive da solo. Nessuno pecca da solo. Nessuno viene salvato da solo. Continuamente entra nella mia vita quella degli altri: in ciò che penso, dico, faccio, opero. E viceversa, la mia vita entra in quella degli altri: nel male come nel bene. Così la mia intercessione per l'altro non è affatto una cosa a lui estranea, una cosa esterna, neppure dopo la morte. Nell'intreccio dell'essere, il mio ringraziamento a lui, la mia preghiera per lui può significare una piccola tappa della sua purificazione.

E con ciò non c'è bisogno di convertire il tempo terreno nel tempo di Dio: nella comunione delle anime viene superato il semplice tempo terreno. Non è mai troppo tardi per toccare il cuore dell'altro né è mai inutile. Così si chiarisce ulteriormente un elemento importante del concetto cristiano di speranza. La nostra speranza è sempre essenzialmente anche speranza per gli altri; solo così essa è veramente speranza anche per me [
40].

Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente: come posso salvare me stesso? Dovremmo domandarci anche: che cosa posso fare perché altri vengano salvati e sorga anche per altri la stella della speranza? Allora avrò fatto il massimo anche per la mia salvezza personale.


http://www.vatican.va/holy_father/be...-salvi_it.html
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Sublime!!!!!!!!


         
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)