00 15/12/2008 09:02
I fondamenti biblici della "Spe salvi"



L'umanesimo cristiano
speranza della modernità


di Cesare Bissoli
Pontificia Università Salesiana

Per una lettura della Spe salvi che metta in evidenza i suoi fondamenti biblici, occorre far riferimento a tre aspetti particolarmente significativi:  l'approccio esistenziale alla Parola di Dio, il tipo di presenza e di impiego della Bibbia, i motivi biblici centrali.
 
Il lettore attento, percorrendo i diversi paragrafi dell'enciclica, nota immediatamente che il riferimento alla Parola di Dio non assume affatto il ruolo di citazione edificante. Ci si trova presi nel binomio, tanto suggestivo quanto necessario, di "speranza e vita", e ciò dentro un serrato confronto tra due umanesimi, quello cristiano e quello moderno. Ne risulta un rigoroso esercizio ermeneutico che garantisce una corretta e fruttuosa comprensione sia della Scrittura sia della condizione dell'uomo a cui la Parola di Dio si rivolge.

Si pensi a questo proposito al valore portante di Ebrei, 11, 1 e di Efesini, 2, 12, che fanno da perno all'enciclica. Soltanto in questo modo infatti la Bibbia può dare risposte serie, perché viene interpellata su domande serie. E tali sono quelle sulla speranza, dove sono coinvolti in maniera intensa il pensiero biblico e il pensiero umano, più esplicitamente Dio e l'uomo. Si può applicare qui quanto dice la recente Nota dottrinale su alcuni aspetti dell'evangelizzazione, a cura della Congregazione per la Dottrina della Fede:  "Ogni incontro (del Vangelo) con una persona o una cultura concreta può svelare delle potenzialità del Vangelo poco esplicitate in precedenza, che arricchiranno la vita concreta dei cristiani e della Chiesa" (n. 6).
Assai numerosi sono i riferimenti biblici.

A partire da Romani, 8, 24, che dà il titolo alla "Spe salvi" ("salvati nella speranza"), le citazioni sono una settantina:  la stragrande maggioranza di esse è tratta dal Nuovo Testamento, in particolare dalla Lettera agli Ebrei, da varie lettere paoline (segnatamente dalla prima e seconda ai Corinti e dalla Lettera agli Efesini), dal quarto vangelo. L'Antico Testamento, che fa da asse portante alla riflessione sulla Lettera agli Ebrei, compare soprattutto, nella parte finale dell'enciclica, con citazioni dei salmi in relazione soprattutto al binomio sofferenza-speranza.

Il Papa non ha inteso presentare una teologia biblica della speranza sotto tutti gli aspetti, ma come già nel libro su Gesù di Nazaret, al centro sta la riflessione su alcuni nodi ritenuti centrali nel disegno globale del tema speranza-salvezza. Sono nodi biblici, teologici e antropologici, approfonditi alla luce della grande tradizione, segnatamente con il contributo dei Padri della Chiesa, in cui facile principe è sant'Agostino.
In una visione di insieme si può riscontrare che il Papa non usa un linguaggio astratto, non fa la teoria della speranza, ma riflette sul mondo delle persone che hanno o non hanno speranza, che mostrano di essere in difficoltà (o in pace) con la vita perché in difficoltà (o in pace) con la speranza. È quella dinamica interpersonale tra Dio e l'umanità, accennata all'inizio, che il Papa alimenta con il ricorso alla Bibbia, sviluppato in cinque momenti:  prima viene l'esempio storico di persone credenti nel Dio di Gesù Cristo che hanno esperienza positiva di speranza; poi è richiamato il paradigma normativo di un cammino di speranza che ingloba il popolo intero della Bibbia; in seguito si ricorda il fatto drammatico, pur esso storico, di un mondo di persone "senza speranza e senza Dio nel mondo", secondo l'espressione di Efesini, 2, 12; fa seguito l'illuminazione biblica che anima il non facile apprendistato a vivere nella speranza che tocca al cristiano nel tempo; conclude una testimone biblica eccezionale della speranza, Maria di Nazaret. Per ragioni di spazio ci fermiamo sui primi tre momenti.

Anzitutto partendo dalla verità, pur essa del tutto personale e personalizzante, che base oggettiva della speranza è la redenzione operata da Dio in Cristo, il Papa comincia la sua esposizione riportando fatti concreti:  al convincente episodio della schiava Bakhita (n. 3) congiunge, come fondamento rivelato, quello di un altro schiavo, Onesimo, di cui parla la Lettera a Filemone (n. 4). Entrambi sono fruitori di speranza grazie alla riconosciuta signoria liberatrice di Cristo, qualificato con il binomio di filosofo (è il psicagogo antico, guida dell'anima) e pastore (n. 6).

Questa redenzione, feconda di speranza, conosce un paradigma rassicurante e normativo, che biblicamente ha il suo perno in Ebrei 11.
È un testo biblico, purtroppo ignorato o considerato una speculazione teologica circa il sacerdozio e il sacrificio di Cristo. In realtà, in questa lettera, Gesù è visto come sacerdote che fa da capo e guida di un popolo in cammino verso la terra promessa, tanto attesa e cercata. Il passo di Ebrei, 11, 1, su cui il Papa si ferma con una rigorosa esegesi, è un elaborato concettuale che interpreta le ragioni per cui il pellegrinaggio del popolo di Dio è vero ed è sostenibile:  "La fede è hypòstasis delle cose che si sperano; prova delle cose che non si vedono". La fede è "sostanza", cioè un dato oggettivo (non un semplice sentimento soggettivo come pensava Lutero), che garantisce in noi fin da oggi ciò che ci sarà dato domani, e diventa per tale motivo prova e certezza di tale futuro.

"La fede attira dentro il presente il futuro, così che quest'ultimo non è più il puro "non ancora"". Il popolo di Dio non cammina nel vuoto o nel vago. "Il presente viene toccato dalla realtà futura e così le cose future si riversano in quelle presenti e le presenti in quelle future" (n. 7). Sempre nell'ambito di Ebrei, 11, il Papa mette in chiaro con parole molto forti la ferita fatta alla speranza cristiana, per averla "privatizzata" individualisticamente, estinguendo in qualche periodo storico quella carica sociale che le è propria, essendo speranza di un popolo che, in quanto tale, è portatore di una speranza condivisa, il raggiungimento della "città di Dio" (cfr 11, 10. 16; 12, 22; 13, 14), espressione massima di una salvezza comunitaria (cfr n. 14).

Vi insiste il Papa sempre indicando passi della Lettera agli Ebrei e aggiungendo due altri motivi biblici luminosi:  citando 1 Timoteo, 2, 6, ci ricorda che Gesù ha dato se stesso in riscatto per tutti. Cui si aggiunge 2 Corinzi, 5, 15, con il commento:  "Vivere per lui significa lasciarsi coinvolgere nel suo "essere per"" lungo la sua vicenda terrena (n. 28). Non si ha speranza per sé se non la si ha per gli altri e con gli altri, dandone i segni, come buoni compagni di viaggio.

Siamo finalmente al terzo momento drammatico di un mondo di persone "senza speranza e senza Dio nel mondo". Il pensiero di Benedetto XVI traspare dall'insistenza nel citare Efesini, 2, 12, che troviamo come filo rosso dall'inizio alla fine dell'enciclica:  ai numeri 2, 3, 5, 23, 27, 44 per ben sei volte. Ivi Paolo ricorda agli Efesini che prima del loro incontro con Cristo erano "senza speranza e senza Dio nel mondo" (n. 2). Il Papa vi vede come in filigrana il cammino storico di persone nel tempo della modernità. In un severo bilancio, nota il fallimento della "grande speranza" di cui l'uomo ha bisogno, a motivo di progetti soltanto umani e conclude:  "L'uomo ha bisogno di Dio, altrimenti resta privo di speranza. Visti gli sviluppi dell'età moderna, l'affermazione di San Paolo citata all'inizio (cfr Efesini, 2, 12) si rivela molto realistica e semplicemente vera" (n. 23). "Chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza, senza la grande speranza che sorregge tutta la vita (cfr Efesini, 2, 12). "Un mondo senza Dio è un mondo senza speranza" (Efesini, 2, 12)" (n. 44).

Qui il testo biblico si pone, dunque, come dolorosa profezia, dove non si nega per sé l'esistenza di valori anche in una modernità senza Dio, ma non se ne vede la capacità di essere via che porta alla meta. Non si respira la "grande speranza", quella speranza certa e definitiva che solo Dio può realizzare. Questo antagonismo è stato criticato da certuni. Ma bisogna tener presente la prospettiva teologica dei principi entro cui Ratzinger si muove. Essa non esclude una prospettiva aperta su considerazioni storiche e pastorali più specifiche.

Successivamente il Papa con la Parola di Dio illumina il tirocinio della speranza tramite la preghiera, l'esercizio della speranza, la stessa sofferenza e finalmente in relazione al grande Giudizio finale, concludendo con Maria, stella della speranza.

Buon criterio di lettura sarà avere presente l'ottica esistenziale storica e concreta che deriva dalla comprensione biblica della speranza da parte di Benedetto XVI. Non dimenticheremo, in particolare, il testo di Ebrei, 11, all'interno della totalità della Lettera agli Ebrei, come specchio della nostra identità di popolo di Dio in cammino verso la città futura, un popolo impegnato a prefigurarne il volto oggi in segni di speranza condivisa e solidale, non dimenticando realisticamente sia i testimoni positivi, martiri della speranza, come dei fratelli vietnamiti, sia il respiro corto e fragile di speranze umane emarginando Dio.

Buon compito pastorale è di integrare la forte e giusta proposta del Papa con una teologia biblica più dettagliata della speranza e con una attenta mediazione pedagogica, mai dimenticando che proprio dell'incontro con la Sacra Scrittura è di attingere la "consolazione della speranza" (cfr Romani, 15, 4).




(©L'Osservatore Romano - 16 maggio 2008) 




Pregando per uno sconosciuto, come insegna Dostoevskij
“L'Osservatore Romano” (23-24 maggio 2008).




* * *

di Padre José Luis Plascencia Moncayo*


Perché il Santo Padre ha scelto come tema per la sua seconda enciclica proprio la speranza? Anche se la risposta vera e piena potrebbe venire solo dal Papa stesso, mi sembra che si possano individuare almeno tre possibili ragioni: da una parte vuol invitarci a contemplare l'essenziale della nostra fede cristiana attraverso le tre virtù teologali, o meglio, attraverso il triplice atteggiamento teologale che costituisce l'identità della nostra vita cristiana. Un'altra ragione ci viene offerta dal Sinodo dei vescovi dell'Europa, che ha trovato la sua espressione piena nell'esortazione apostolica Ecclesia in Europa: «L'urgenza più grande» leggiamo nell'introduzione, «consiste in un accresciuto bisogno di speranza, così da poter dare senso alla vita e alla storia».

Non sarebbe strano considerare l'enciclica come una risposta a questo bisogno, tenendo conto della preoccupazione speciale del Santo Padre per la situazione del continente europeo. Inoltre nelle diverse parti dell'enciclica affiora — e non poteva essere altrimenti — il pensiero più personale del Papa: in modo particolare, quello che aveva espresso quaranta anni fa nella sua opera più conosciuta, Introduzione al Cristianesimo, che ha avuto il record, ancora non superato per quello che io so, di diffusione di un libro di teologia: undici edizioni nel suo primo anno. Questa opera straordinaria nasce mentre è giovane professore a Tubinga; di questo periodo lui stesso racconta nella sua autobiografia: «Ernst Bloch insegnava allora a Tubinga (...); quasi contemporaneamente al mio arrivo, nella facoltà evangelica di teologia fu chiamato Jürgen Moltmann, che nel suo affascinante libro Teologia della Speranza ripensava completamente la teologia a partire da Bloch».


Mi piace pensare che questa enciclica costituisca il compimento, nella sua piena maturità, di un sogno della gioventù teologica di Joseph Ratzinger: dire la fede in chiave di speranza. Utilizzando un'immagine molto semplice, vorrei presentare la dimensione teologica come chiave di lettura dell'enciclica, alla maniera di una guida turistica che si legge prima di visitare una città sconosciuta, per orientarsi e poter valutare meglio quello che si visiterà; non può sostituire la visita stessa, ma piuttosto è in funzione di essa. D'altra parte, la guida può anche aggiungere alcuni elementi storici o artistici che permettono di capire meglio quello che poi si vedrà. Anzitutto, il Papa stabilisce un dialogo molto interessante con diverse correnti religiose e, soprattutto, filosofiche e scientifiche, cominciando da un esame della situazione culturale dei primi secoli del cristianesimo. Poi, in particolare, affronta l'età moderna, con Francis Bacon, la Rivoluzione francese, Emmanuel Kant, l'Idealismo tedesco, in particolare Hegel; continua poi soffermandosi, nell'ottocento, su Karl Marx e, nel secolo ventesimo, sul comunismo.

Da ultimo esamina la posizione critica della scuola di Francoforte, in particolare con Adorno e Max Horkheimer. Non possiamo qui analizzare nel dettaglio le riflessioni che Benedetto xvi sviluppa in questo interessante dialogo diacronico, nel quale, entro le logiche limitazioni di spazio e di linguaggio, egli offre alcune chiavi di lettura molto indovinate per capire qual è stato il movimento del pensiero occidentale negli ultimi secoli, e soprattutto qual è stato l'atteggiarsi della speranza cristiana di fronte ad esso. È infatti nell'ambito della speranza, più che in quello della fede, che emergono le diverse maniere di intendere l'uomo, il mondo e, nella prospettiva religiosa, Dio stesso. In fondo, la domanda a cui si vuol rispondere la troviamo nel n. 10: «La fede cristiana è anche per noi oggi una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita?». È il linguaggio cristiano soltanto «informativo» o anche, e soprattutto, «performativo»?

Trasforma cioè la nostra vita?.

In questa prospettiva di teologia fondamentale ritroviamo molti elementi della Introduzione al Cristianesimo, in particolare della sua prima parte. Penso, per esempio, alla concezione della verità, «Verum quia faciendum», e agli interrogativi, che qui si pongono, circa la verifica della fede, il rapporto futuro-speranza, l'impegno per trasformare la realtà. Il Papa non fa una riflessione sistematica sulla speranza, ma piuttosto fa una teologia sistematica nell'ottica della speranza: e questo evoca un lavoro analogo, ma in fondo diverso nei contenuti e nel metodo, rispetto a quello del suo collega evangelico di Tubinga citato prima. Indubbiamente, l'enciclica del Santo Padre, per sua natura, non ha le pretese scientifiche di Moltmann nella sua Teologia della Speranza, ma, nella sua brevità, mi sembra più chiara e sistematica.


Se vogliamo pur brevissimamente menzionare alcuni aspetti di questa teologia sistematica nell'orizzonte della speranza, possiamo dire: il Dio in cui crediamo è quella Realtà personale, «Ragione, Volontà, Amore», che noi non abbiamo creato, ma che ha creato noi, e che permette di avere, al di là delle «piccole speranze», una radicale speranza anche oltre la morte, in modo che «chi non conosce Dio, pur potendo avere molteplici speranze, in fondo è senza speranza». Anche il giudizio non è fonte di minaccia o spavento, ma di speranza, e non in maniera individuale, ma comunitaria e universale; il rapporto inscindibile, in Dio, tra la giustizia e la grazia, che ci permette, utilizzando il titolo di un libro di Hans Urs von Balthasar, di «sperare per tutti», ma senza minimizzare il valore di atti e decisioni di questa vita. Il purgatorio non come un luogo o tempo, ma come l'incontro (che può essere di «un istante») con il Signore Gesù, fuoco d'amore che brucia, purifica, e riempie dello stesso amore.

La preghiera per i nostri defunti: mai diventa inutile! A questo riguardo, non posso omettere un brano bellissimo de I Fratelli Karamazov di Dostoevskij, anche per la sua sintonia con il pensier0 del Papa: «Ricordati anche di questo: ogni giorno, anzi, ogni volta che puoi, ripeti dentro di te: “Signore, abbi pietà di tutti quelli che oggi sono comparsi dinanzi a Te”. Perché a ogni ora, a ogni istante, migliaia di uomini finiscono la loro vita su questa terra, e le loro anime si presentano al Signore. E quanti uomini lasciano la terra in completa solitudine, senza che nessuno lo sappia, tristi e angosciati, perché nessuno li piange e nessuno sa neppure che hanno vissuto! Allora, forse, dall'estremo opposto della terra si leva in quel momento la tua preghiera al Signore per la pace di colui che sta morendo, sebbene tu non l'abbia conosciuto affatto, né lui abbia conosciuto te. Come si commoverà la sua anima quando sentirà, nell'attimo in cui sarà giunta davanti a Dio piena di timore, che qualcuno prega anche per lei, che sulla terra è rimasto un essere umano che ama anche lei. E Dio sarà misericordioso con tutti e due; perché, se tu hai avuto tanta pietà di quell'uomo, quanta più ne avrà Lui, che è infinitamente più misericordioso e più amoroso di te! E gli perdonerà per amor tuo».


Se all'inizio abbiamo parlato del rapporto della speranza con la fede, adesso troviamo il suo compimento pieno nell'amore. «Soltanto l'amore è degno di speranza» scriveva Urs von Balthasar; la speranza trova il suo oggetto «degno» soltanto se si spera nell'amore; anzi, nell'Amore con la maiuscola, che è il Dio di Gesù Cristo. «Questa grande speranza può essere solo Dio» leggiamo nell'enciclica, «ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine (...) E il suo Amore è per noi la garanzia che esiste ciò che solo vagamente intuiamo e, tuttavia, nell'intimo aspettiamo: la vita che è veramente vita». Ma anche è presente la direzione inversa: dove l'amore è il soggetto della speranza. Qui possiamo ricordare san Paolo: «L'amore spera tutto» (I Corinzi, 13, 7), e aggiunge Søren Kierkegaard: «...e perciò non resta mai confuso»: e lo spiega in maniera straordinaria nelle pagine della sua opera più importante, Atti dell'Amore. In particolare, il Papa presenta questa dimensione nel rapporto con gli altri: chi ama è l'unico che può sperare per gli altri, per tutti.


L'amore apprende ed esercita la sua speranza in diversi «luoghi», come li chiama il Santo Padre: la preghiera, l'azione e la sofferenza, che permettono di vivere alcuni atteggiamenti tipici di chi crede-spera-ama: la con-solazione (il credente mai si sente solo, e cerca di fare in maniera che nessuno si senta così); la vulnerabilità e la com-passione.


*Università Pontificia Salesiana

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Una lettura della «Spe salvi» dal continente della speranza

Per costruire il presente
bisogna guardare alle realtà ultime




di Lina Boff
Pontificia Università Cattolica di Rio de Janeiro

La Spe salvi evoca immediatamente i concetti fondamentali di fede e speranza che sono disseminati e permeano tutti i documenti del Concilio Vaticano ii. La riflessione contenuta nell'enciclica dà infatti continuità al magistero conciliare e ravviva in tutti i cristiani, e nei cattolici in particolare, concetti ormai assimilati dalla teologia cattolica. Essi - ci ricorda Benedetto xvi - devono tuttavia essere tradotti abitualmente nella vita quotidiana dei cristiani per rendere credibile il vangelo davanti a una umanità alla ricerca di senso.

Non intendo naturalmente forzare il proposito dell'insegnamento della Spe salvi e neanche lo spirito con cui è stata concepita. La lettura che segue è quella di una donna consacrata, teologa in un continente specifico quale è l'America Latina, considerato continente della speranza e, in un certo modo, in sintonia con quello europeo per le sue radici cristiane, poiché facciamo parte della migrazione storica a cui tanti popoli hanno partecipato portando contributi propri su questioni vitali. È la lettura di una docente di teologia sistematica, che ha vissuto da giovane nell'Amazzonia e che ha seguito da vicino il processo del concilio Vaticano ii, attraverso il vescovo della prelatura di Acre e Purus (oggi diocesi di Rio Branco). Il contesto e il vivere concretamente in mezzo a un popolo ospitale e aperto all'accoglienza di tutte le razze e culture con le loro credenze e religioni - a partire dalle radici cristiane della colonizzazione, nel senso ampio e obiettivo - parlano del profondo sentimento di comunione e di unità con il Papa, per quello che rappresenta non solo per la fede della Chiesa, ma anche per il mondo in generale. Lo dimostra la sua visita in occasione della quinta Conferenza dell'episcopato latinoamericano.
 
Il rispetto e l'ammirazione per il Papa visto quale fratello di cammino e padre nella fede, portano questo popolo a entrare in dialogo con lui. Benedetto xvi è venuto infatti fra noi per parlare di verità esistenziali importanti di cui nessuno parla.

In primo luogo si deve riconoscere che l'insegnamento dell'enciclica ha reso l'escatologia più vicina a tutte le persone che professano la fede cristiana e cattolica. Perché? Anzitutto perché le ultime realtà proposte dalla dogmatica cattolica sono presentate e enfatizzate nella Spe salvi come realtà vissute nel presente. Poi perché queste realtà sono considerate nella loro dimensione comunitaria e sociale. In terzo luogo perché la portata teologica dei "novissimi" ci spingono all'impegno di vivere la vita eterna a partire dalla chiamata alla santità che Dio Padre ci ha fatto in Cristo Gesù, attraverso la Chiesa. È da questa chiamata che nasce l'impegno per la costruzione di un mondo e di una società nel momento presente nella speranza del Signore della vita piena.

La Spe salvi inizia sottolineando e approfondendo i concetti di fede e di speranza nei fondamenti biblici dei capitoli 10 e 11 della Lettera agli Ebrei (cfr n. 7). Da qui l'espressione "la fede è speranza". Appaiono qui gli elementi escatologici dell'unica speranza nel senso che le realtà considerate ultime della fede cristiana devono essere vissute già nel presente e quindi anticipate. "Se la Lettera agli Ebrei dice che i cristiani quaggiù non hanno una dimora stabile, ma cercano quella futura (cfr Ebrei, 11, 13-16; Filippesi, 3, 20), ciò è tutt'altro che un semplice rimandare a una prospettiva futura:  la società presente viene riconosciuta dai cristiani come una società impropria; essi appartengono a una società nuova, verso la quale si trovano in cammino e che, nel loro pellegrinaggio, viene anticipata" (n. 4).

Questa anticipazione concepita nel senso di "vera presenza" di Cristo, speranza in noi (cfr n. 8), ci schiude l'orizzonte della fede che è la speranza, poiché "la fede è hypòstasis delle cose che si sperano; prova delle cose che non si vedono (Ebrei, 11, 1). La fede che abbiamo "in germe" dentro di noi rende presenti in noi "le cose che si sperano:  il tutto, la vita vera". La fede "attira dentro il presente il futuro, così che quest'ultimo non è più il puro "non-ancora""; ma per il fatto di avere "in germe" la vita eterna dentro di noi - realtà incoativa e dinamica - abbiamo di essa fin da ora una certa percezione (cfr n. 7).

I cristiani appartengono a una società nuova, e nel loro pellegrinaggio cercano la futura "speranza escatologica" che "non diminuisce l'importanza degli impegni terreni, ma anzi dà nuovi motivi a sostegno dell'attuazione di essi" (Gaudium et spes, n. 21). Questi motivi trovano il proprio fondamento in Dio e nell'esperienza della speranza nella vita eterna; sono motivi che danno dignità alla persona umana, rispondono agli enigmi della vita e della morte, della colpa e del dolore, perché solo Dio dà una risposta piena e certa alle grandi domande che l'essere umano si pone e al suo destino (cfr n. 21).

Nell'insegnamento dell'enciclica risalta il linguaggio figurativo che Benedetto xvi utilizza per far capire chiaramente qual è la "nuova speranza" che tutti dobbiamo ricercare (n. 6). Riassumendo, il Papa utilizza le immagini del filosofo e del pastore dei primordi della fede cristiana. Sono figure assorbite e assimilate nel loro contenuto più profondo:  quello del vero pastore che ha assunto la nostra vita e la nostra morte, e che non ci lascia soli, né nella vita né nella morte. Questa nuova speranza è Cristo. Ne consegue che il nostro incontro con Cristo deve essere un incontro performativo, incontro che trasforma veramente la nostra vita, al punto da farci sentire redenti per mezzo della speranza che Egli è.

Considerata questa realtà quale fondamento della nostra speranza umana e cristiana, si può parlare della trasformazione di una società e di tutte le società, dall'interno. Tale esperienza ci apre alla vita eterna come "vita beata", la vita che è semplicemente vita, pura "felicità" (n. 11). La vita eterna mira a darci quella gioia che nessuno potrà toglierci (cfr Giovanni, 16, 22), il significato pieno della vita è l'immersione "nell'oceano dell'infinito amore" (n. 12). Chiediamo la vita eterna nel sacramento del Battesimo quando chiediamo la fede, "di cui è parte la corporeità della Chiesa e dei suoi sacramenti" (n. 10). Il concetto di vita eterna supera il dramma della morte e il suo significato per la nostra condizione di persone umane. La vita eterna è vissuta al di là della "temporaneità della quale siamo prigionieri"; può essere "il momento colmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità".

La gioia sembra essere l'istante della vita eterna che è espressa da Gesù nel Vangelo di Giovanni:  "Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia" (16, 22). In poche parole, l'esperienza della resurrezione in Cristo porta con sé questa gioia, la vita eterna, il cielo.

Questo concetto di vita eterna ricorda il settimo capitolo della costituzione Lumen gentium. In quell'insegnamento la vita eterna è il futuro definitivo, escatologico e allo stesso tempo è, in un certo senso, anticipata in immagini:  la Chiesa come "popolo di Dio", come "famiglia", attende la redenzione di tutti i suoi figli e figlie nella resurrezione finale (cfr Romani, 8, 23-25). Mettendo questi due aspetti escatologici - la realizzazione futura delle speranza e la fase di anticipazione parziale - uno accanto all'altro, la costituzione conciliare dice che fin da ora siamo uniti a Cristo:  sia visibilmente, mediante l'appartenenza fedele alla Chiesa, che è il suo Corpo, sia invisibilmente, in quanto segnati dallo Spirito Santo che è garanzia della nostra eredità futura. È bene notare l'enfasi posta sulla dimensione comunitaria nell'esperienza quotidiana delle realtà ultime della nostra vita, realtà che contraddistinguono l'identità cristiana nelle sue diverse espressioni.

Nel corso di tutta l'enciclica si possono cogliere espressioni di questo aspetto tanto importante della fede-speranza. Il Pontefice si ricollega alla teologia di Henri de Lubac:  "Sulla base della teologia dei Padri in tutta la sua vastità, ha potuto mostrare che la salvezza è stata sempre considerata come una realtà comunitaria" (Spe salvi, n. 14).

La testimonianza che attira la nostra attenzione, fra le altre, è la parresìa evangelica di un Papa che pone domande dirette al mondo moderno e al fenomeno della cosiddetta post-modernità, in un momento storico come il nostro, in cui la modernità ha liberato la soggettività umana, al punto che stiamo vivendo un mutamento epocale fortemente segnato dall'assenza di principi basilari della convivenza umana e cristiana e di fondamenti per il sano esercizio della libertà come diritto inalienabile della persona umana.
L'enciclica rivolge una particolare attenzione alla spiegazione dei "novissimi" che parlano delle cose più sicure della nostra vita temporale. Con un linguaggio diretto, riscattando concetti ancora poco articolati con le nuove forme di evangelizzazione - un compito urgente per la teologia attuale - il Papa descrive, a mo' di riflessione, l'esperienza di testimoni che vissero la fede che è speranza, in diverse situazioni della vita temporale (n. 37), veri e propri ambiti di apprendimento e di esercizio della speranza.

Nel presentare in forma pastorale la sofferenza, il giudizio, l'inferno, il purgatorio, la resurrezione della carne, la giustizia che è speranza perché è anche grazia, in un linguaggio figurativo e persino metafisico, accogliamo l'insegnamento dell'enciclica con questa riflessione di vita:  vivere i "novissimi", nelle condizioni e con i limiti del nostro tempo, implica il fondare la nostra fede che è speranza fondata sul mistero di Dio che, nella persona di Gesù Cristo, genera la vita passando per la morte e si fa fonte di vita, attraverso lo Spirito Santo, nella resurrezione.

Accogliere l'insegnamento di queste realtà significa lasciare che Dio ci parli attraverso il mistero pasquale di Cristo, nostra speranza, ma anche della sua presenza profetica nelle persone che, con la forza dello Spirito donato da Gesù Cristo, si sono impegnate nella costruzione di un mondo più umano e hanno vissuto un progetto di grande riconciliazione, per una società dove sia più facile essere fratelli gli uni degli altri e l'amore sia meno oneroso (cfr n. 8).




(©L'Osservatore Romano - 6 giugno 2008)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)