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DIFENDERE LA VERA FEDE

Giovanni Paolo II racconta i suoi PREDECESSORI

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    Caterina63
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    00 15/12/2008 13:08
    e...prepara il Suo SUCCESSORE

    OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
    IN MEMORIA DI PAOLO VI

    16 settembre 1979

    1. Nel Vangelo d’oggi San Marco riferisce lo stesso avvenimento, descritto da San Matteo nel capitolo 16. Nei pressi di Cesarea di Filippo Gesù interroga i discepoli: “Chi dice la gente che io sia?” (Mc 8,27). Dopo le diverse risposte, prende la parola Pietro e dice “Tu sei Cristo” (Mc 8,29) (che vuol dire “il Messia”). Nel Vangelo di Matteo la risposta è: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Poi segue la benedizione, rivolta a Pietro a motivo della sua fede, e la promessa che incomincia con le parole: “Tu sei Pietro” (pietra, roccia) (Mt 16,18). Testo sublime, che tutti conosciamo a memoria.


    Nella redazione di Marco invece, immediatamente dopo la confessione di Pietro “Tu sei il Cristo”, Gesù passa all’annuncio della sua morte: “Il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire... poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare” (Mc 8,31). E allora Pietro, come leggiamo, “si mise a rimproverarlo” (Mc 8,32). Secondo Matteo questo rimprovero suonò: “Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai” (Mt 16,22). Pietro non vuole che Cristo parli della passione e morte. Non è capace di accettarle con il suo cuore che ama in maniera umana. Chi ama vuole preservare la persona amata dal male, perfino nel pensiero, perfino nell’immaginazione. Tuttavia, Cristo rimprovera Pietro, severamente lo rimprovera. Questo rimprovero che troviamo nell’odierno Evangelo di Marco è ancora più significativo nel testo di Matteo, per il contrasto con le parole precedenti, con cui Cristo aveva benedetto Pietro ed annunziato il suo primato nella Chiesa. È proprio il primato che non permette di sottrarsi al mistero della Croce, non permette di allontanarsi, neanche di un pollice, dalla sua realtà salvifica.


    2. Ci siamo riuniti oggi nella Basilica di San Pietro per commemorare il primo anniversario della morte del Papa Paolo VI. Lo abbiamo già fatto nel giorno stesso dell’anniversario: il 6 agosto, nella festa della Trasfigurazione del Signore, in quella casa, a Castel Gandolfo, nella quale un anno fa egli concluse la sua giornata terrena. Oggi lo facciamo in modo solenne nella Basilica Vaticana, dove già da più di un anno riposano, nelle grotte, le spoglie mortali del grande Papa. La sua grandezza trova il fondamento nel mistero della croce di Cristo. Come Successore di Pietro, egli accettò quella benedizione e tutto il contenuto della promessa messianica che era stata pronunciata nella regione di Cesarea di Filippo, ed accettò, in tutta la sua pienezza, il mistero della croce. Ha portato questa croce non soltanto nelle sue mani, camminando, tutti gli anni, sulle orme della “via Crucis” nel Colosseo romano. L’ha portata dentro di sé, nel suo cuore, in tutta la sua missione: “...non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo” (Gal 6,14).

    Queste parole dell’Apostolo, il cui nome egli aveva assunto nell’anno 1963 all’inizio del pontificato, sono state confermate da tutta la sua vita.

    Paolo VI: apostolo del Crocifisso, così come lo fu Paolo Apostolo. E così, come Paolo Apostolo, egli avrebbe potuto completare quella sua confessione del vanto nella croce di Cristo, dicendo “per mezzo della quale il mondo per me è stato crocifisso, come io per il mondo” (Gal 6,14). E forse tali parole costituiscono una chiave essenziale per la comprensione della vita di Paolo VI, così come l’hanno costituita per la comprensione della vita e della missione di San Paolo.


    3. La croce, così come insinuano nella liturgia odierna il profeta Isaia e poi il Salmo 114 (115), ha una sua dimensione interiore, e Paolo VI ha conosciuto questa dimensione interiore della croce. Eppure, non gli furono estranei gli “insulti” e gli “sputi” (cf.Is 50,6) che ha subìto come maestro e servitore della verità. Eppure, alla sua anima non furono estranee quella “tristezza e angoscia” (Sal 115,3) di cui parla il salmista. Tristezza e angoscia, che nascono dal senso di responsabilità per i più santi valori, per la grande causa che Dio affida all’uomo, possono essere superate soltanto nella preghiera; possono essere superate soltanto con la forza della fiducia senza limiti: “Buono e giusto è il Signore, il nostro Dio è misericordioso. Il Signore protegge gli umili: ero misero ed egli mi ha salvato” (Sal 115,5-6). Paolo VI era l’uomo di tale profonda, difficile – e proprio per questo – incrollabile fiducia. E proprio grazie ad essa, egli la pietra, la roccia sulla quale, in questo eccezionale periodo di grande cambiamento dopo il Concilio Vaticano II, si costruiva la Chiesa.


    Alle prove interiori ed esteriori della Chiesa rispondeva con quella incrollabile fede, speranza e fiducia, che facevano di lui il Pietro dei nostri tempi. La grande saggezza e l’umiltà hanno accompagnato questa fede e questa speranza e le hanno rese proprio così ferme e inflessibili.


    4. Ci insegnava con la parola e con le opere quella fede salvifica, di cui in modo tanto convincente parla oggi, nella seconda lettura, San Giacomo: “la fede, se non ha le opere, è morta in se stessa” (Gc 2,17).


    Ci insegnava, dunque Paolo VI, la fede viva; insegnava a tutta la Chiesa la vita della fede a misura della nostra epoca. Che cosa altro, se non tale insegnamento della fede viva legata alle opere sono le sue grandi encicliche, in particolare la Populorum Progressio e, in un’altra dimensione, la Humanae Vitae? Oggi lo si capisce forse meglio che non una diecina di anni fa. La coerenza fra la fede e la vita deve trapelare da ogni opera. Deve manifestarsi in ogni campo del nostro agire.


    5. Sarebbe difficile non far risuonare, in occasione dell’odierno ricordo del grande Papa, la sua voce, non far ascoltare le sue parole, sempre così piene di fede e di carità.

    “Dinanzi... alla morte, al totale e definitivo distacco dalla vita presente, sento il dovere di celebrare il dono, la fortuna, la bellezza, il destino di questa stessa fugace esistenza: Signore, ti ringrazio che mi hai chiamato alla vita, ed ancor più che, facendomi cristiano, mi hai rigenerato e destinato alla pienezza della vita... Ora che la giornata tramonta, e tutto finisce e si scioglie di questa stupenda e drammatica scena temporale e terrena, come ancora ringraziare te, o Signore, dopo quello della vita naturale, del dono, anche superiore, della fede e della grazia, in cui alla fine unicamente si rifugia il mio essere superstite?... Chiudo gli occhi su questa terra dolorosa, drammatica e magnifica, chiamando ancora una volta su di essa la divina Bontà” (Paolo VI, Testamentum, 30 giugno 1965: Insegnamenti di Paolo VI, XVI [1978] 590).


    6. Ascoltandole oggi, a poco più di un anno dalla sua morte, abbiamo ancora negli occhi quella dipartita. Se ne va affaticato e lascia dietro di sé una grande eredità. La morte lo stacca dai problemi di questa terra, dal ministero di questa Sede. Sembra dire, come un tempo ha detto Pietro: “Signore... comanda che io venga da te” (Mt 14,28). E il Signore lo lascia venire da lui.

    Noi tutti che partecipiamo a questo sacrificio eucaristico, per raccomandare all’Eterno Padre l’anima di Paolo VI, ringraziamo per tutto ciò che ha fatto e per tutto ciò che egli è stato per la Chiesa.

    “Beato te, Simone figlio di Giona” (Mt 16,17).

    I miei incontri con Paolo VI

    di KAROL WOJTYLA

    Un inedito del futuro Giovanni Paolo II. La testimonianza dell'allora Arcivescovo di Cracovia, data in lingua polacca alla Radio Vaticana il 21 agosto 1978, pochi giorni dopo la morte di Papa Montini. La memoria di un rapporto di fedeltà e di amicizia che ha accompagnato la vita dell'attuale Pontefice


    Rispondendo alla richiesta della Radio Vaticana, desidero basare il presente ricordo del defunto Santo Padre Paolo VI su quegli incontri che ho avuto la gioia di vivere dall'anno 1962 durante il mio episcopato, e in seguito durante il cardinalato. Considero, infatti, ciascuno di quegli incontri come una data importante nella mia vita; da ciascuno sono uscito arricchito e fortificato, e ognuno di essi resterà per sempre impresso nella mia memoria.
    Il primo di questi incontri ebbe luogo durante la prima sessione del Concilio, quando il Santo Padre Paolo VI era ancora il cardinale Giovanni Battista Montini, arcivescovo di Milano. Mi rivolsi a lui per una questione molto particolare. In qualità di Vicario capitolare della Diocesi di Cracovia, presentavo la richiesta di avere in dono delle campane, avanzata dalla parrocchia di San Floriano di Cracovia e dal suo parroco. Ciò non significa che i parrocchiani di San Floriano non potessero procurarsi delle nuove campane per la chiesa dalla quale erano state portate via durante la guerra e l'occupazione tedesca. Si trattava piuttosto di un simbolo, di un segno di unità tra le chiese.


    Il cardinal Montini lo capì subito e diresse la conversazione sui suoi ricordi personali della Polonia, dove aveva soggiornato quando lavorava alla nunziatura di Varsavia, e dove una volta fu testimone della rimessa in opera di campane un tempo asportate, durante la guerra mondiale, e poi deposte su un grande prato. Intervennero allora i rappresentanti delle parrocchie interessate e riconobbero ciascuno le sue campane.


    Seregno-Cracovia

    Quel ricordo fu come un'illustrazione del nostro racconto, della richiesta che la parrocchia di San Floriano rivolgeva a Milano. Le campane furono, infatti, donate dalla parrocchia di Seregno dell'Arcidiocesi di Milano, e nell'aprile del 1965 potemmo consacrarle a Cracovia.
    Gli incontri con Paolo VI divennero più frequenti e regolari da quando mi chiamò a far parte del Collegio cardinalizio. Quasi ogni volta che venivo a Roma, e quindi in media due volte all'anno, avevo la gioia di essere ricevuto in udienza e parlare col Santo Padre. Ma ricordo particolarmente l'incontro prima della convocazione al Collegio dei Cardinali. Era l'aprile del 1967. Non dimenticherò mai ciò che disse allora il Papa parlando della preparazione del documento che uscì un anno dopo come enciclica Humanae vitae. Poiché facevo parte di una commissione di specialisti alla cui sessione, nel giugno 1966, purtroppo non avevo potuto partecipare, avevo inviato al Santo Padre il mio parere per iscritto.
    Paolo VI avviò subito la conversazione su quell'argomento, e poi aggiunse: «Se si trovasse in Polonia, a Cracovia, qualche persona che per quella difficile questione desiderasse offrire le sue preghiere a Dio, e soprattutto le sue sofferenze: mi sta molto a cuore». Di queste persone se ne trovarono molte. Ma io allora compresi quale fosse il peso del problema davanti al quale si trovava Paolo VI, come supremo Maestro e Pastore della Chiesa.

    Udienze e visite
    Le udienze avevano carattere diverso. Per la maggioranza erano udienze private, nelle quali potevo conversare da solo col Santo Padre, ma c'erano anche udienze collettive. Partecipai varie volte alle udienze che Paolo VI accordava al Consiglio per i Laici - Consilium pro Laicis: ne facevo parte in qualità di consultore. Iune, cioè l'udienza del Consiglio della segreteria generale del Sinodo dei Vescovi. Infine l'udienza collettiva dei Vescovi polacchi. Con particolare commozione ricordo l'udienza del novembre 1973, durante la quale assieme al Cardinale Primate e al nuovo Metropolita di Wroclaw, ai Vescovi residenziali di Opole, Gorzów, Szczecin, Koszalin, Gdansk, Warmia, abbiamo espresso il nostro ringraziamento per l'istituzione definitiva di un'organizzazione ecclesiale regolare nei territori polacchi occidentali e settentrionali.

    Un'altra udienza collettiva dell'Episcopato polacco, a cui ho partecipato, ebbe luogo nel novembre dello scorso anno, in occasione della visita dei Vescovi ordinari di tutta la Polonia ad limina apostolorum. Paolo VI aveva appena compiuto gli ottant'anni alla fine di settembre. Gli abbiamo consegnato doni, dei quali si è dimostrato sempre molto riconoscente. Erano doni che testimoniavano la vitalità della cultura cattolica in Polonia. Ricordo con quale attenzione osservò i manoscritti di Karol Hubert Rostworowski e del metropolita di Cracovia Adam Stefan Sapieha, che gli offrimmo in quella occasione.

    Le visite ad limina durante i suoi quindici anni di pontificato furono tre: 1967/68, 1972 e 1977. Mi ha sempre stupito come il Papa si preparasse scrupolosamente alle udienze, quanto desiderasse renderle fruttuose, entrare nel problema che gli veniva prospettato, rispondere alle aspettative, instaurare un contatto personale. Il momento più commovente era quando egli stesso cominciava a parlare dei problemi della Chiesa - spesso anche della chiesa in Italia, nella stessa Roma: quando ciò che diceva prendeva la forma di un colloquio confidenziale, quando dava sfogo a ciò che gli pesava, che lo addolorava. L'interlocutore si sentiva allora particolarmente impegnato, partecipando in tal modo a quella sollicitudo omnium Ecclesiarum realmente paolina, alla preoccupazione per tutte le Chiese, per tutti i problemi più urgenti della Chiesa.


    Esercizi "papali"

    Naturalmente il più delle volte il tema delle conversazioni era la situazione e il compito della Chiesa in Polonia, a Cracovia, nell'Arcidiocesi; il Santo Padre riandava volentieri ai propri ricordi: ricordava personalmente il cardinal Sapieha, l'incontro con lui in Polonia e a Roma. Prima di tutto però affrontava i problemi. Era cordiale; spesso prolungava l'udienza anche se gli avevano già fatto segno che il tempo era scaduto. Alla fine distribuiva volentieri i doni: rosari, immaginette. «Questo può sempre dar gioia a qualcuno» diceva. Non si rifiutava mai di ricevere i preti che mi accompagnavano, anche se cercavo di non abusare mai della sua disponibilità.
    Naturalmente il ricordo più forte è legato a quell'incontro eccezionale con Paolo VI, al quale egli stesso mi invitò nella Quaresima del 1976. Si trattava degli esercizi spirituali che predicai nel marzo di quell'anno nella cappella di Santa Matilde nel Palazzo Apostolico per il Santo Padre, i Cardinali e altri suoi collaboratori. Durante le lezioni il Papa, col suo segretario, stava sempre in una piccola cappella laterale, visibile a chi predicava, ma non ai partecipanti al ritiro. Stava in raccoglimento, sotto le reliquie di san Sebastiano. L'ultimo giorno mi ringraziò, ricevendomi in udienza privata appena terminati gli esercizi. Ricordai più tardi che aveva preso appunti del testo delle lezioni.


    Il gelo di Nowa Huta

    Molto si potrebbe dire dei doni che ho ricevuto da lui in occasione dei diversi incontri. Ma ne ricorderò soltanto uno, particolarmente significativo: fu anche quello durante il Concilio. Il Santo Padre si interessò molto al problema della chiesa di Nowa Huta. Ricordo che, quando gli raccontai come quei parrocchiani partecipavano alla Santa Messa a cielo aperto, e spesso sotto la pioggia o al gelo, il mio interlocutore, sentendo quello che gli stavo dicendo in italiano, mi interruppe parlando in polacco: «Il gelo, sì, è una parola che ricordo dai tempi in cui conoscevo meglio la vostra lingua». La conclusione di queste conversazioni fu che lo stesso Paolo VI benedì la prima pietra della chiesa di Nowa Huta - la pietra proveniva dall'antica basilica costantiniana di San Pietro - e fece pervenire una generosa offerta per la costruzione di quella chiesa.


    L'ultimo incontro

    L'ultima volta che vidi Paolo VI fu il 19 maggio di quest'anno, all'udienza del Consiglio del segretariato generale del Sinodo dei Vescovi. Come è noto, il segretario generale era il vescovo Rubin. Poiché avevo la presidenza di quella sessione, ebbi anche l'onore di pronunciare davanti al Papa il discorso informativo sulla problematica della nostra riunione. Non immaginavo che quella sarebbe stata l'ultima volta che incontravo il Papa e gli parlavo. Sapevo che era cagionevole di salute, che le gambe non lo reggevano e faceva fatica a camminare. Ma allo stesso tempo mi stupivo sempre per la sua lucidità e agilità mentale, la precisione, la concisione dei suoi discorsi e l'inesauribile forza di volontà. Quella volta ebbi l'impressione che Paolo VI, nonostante tutti i suoi malanni, sarebbe vissuto ancora e avrebbe continuato a esercitare la sua missione pastorale. Benché qua e là si sentissero voci sulla sua morte, ed egli stesso ne parlasse - aveva quasi ottant'anni -, tuttavia la notizia che mi giunse il pomeriggio del 7 agosto mi colse di sorpresa e fu un duro colpo.

    Ed ecco l'ultimo incontro. Direttamente dall'aeroporto, l'11 agosto, il vescovo Andrzej Deskur mi condusse alla Basilica. Inginocchiato, pregai e contemplai quel volto col quale tante volte avevo dialogato. Gli occhi, sempre così vivi, erano chiusi. Riposava in mezzo alla Basilica, davanti alla confessio di San Pietro, sponsus in sponsae gremio. Ora non converserò più con lui, non discuterò più con lui alcuno dei problemi di cui spesso avevamo parlato. Egli contempla un altro Volto. La morte è rimasta il luogo dell'ultimo raccoglimento nel quale l'ho visto su questa terra.


    (Conferenza pronunciata in lingua polacca alla Radio Vaticana il 21 agosto 1978, pubblicata in: Karol Wojtyla, Przemówienia i wywlady w Radio Watykanskim, Rzym 1987).
    Traduzione di Daria Rescaldani


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    OMELIA DI GIOVANNI PAOLO II
    IN MEMORIA DI GIOVANNI PAOLO I

    28 settembre 1979


    Signori Cardinali, Fratelli e Figli carissimi!

    1. Con l’aiuto delle letture della Liturgia odierna vogliamo rivivere quel giorno di un anno fa, quando Dio richiamò a sé così inaspettatamente Papa Giovanni Paolo I. Non tanto il giorno d’oggi, quanto la notte dal 28 al 29 settembre segna il primo anniversario della morte di questo Successore sulla sede di San Pietro, che appena per trentatré giorni dalla sua elezione poté rimanervi. “Magis ostensus quam datus”: se ne è andato quasi prima che facesse in tempo ad iniziare il suo pontificato. Abbiamo già meditato questa sua inaspettata partenza, visitando il suo paese natale, Canale d’Agordo il 26 agosto, cioè nel giorno in cui, mediante i voti dei Cardinali in conclave, egli era stato chiamato ad essere Vescovo di Roma. Oggi conviene a noi celebrare l’Eucaristia per la prima volta nell’anniversario della sua morte.

    2Ascoltando le letture della Liturgia, per due volte ci troviamo dinanzi all’alternativa della vita, che il cuore umano sembra spesso contrapporre alla morte.

    Marta che si rivolge a Cristo con le parole: “Signore, se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto” (Gv 11,21). Spesso gli uomini dicono presso la salma delle persone care: “Eppure poteva non morire; poteva vivere ancora...”. Certamente anche dopo la inaspettata morte di Giovanni Paolo I molti dicevano, pensavano e sentivano così; “Eppure poteva vivere ancora...; perché se ne è andato così presto?”. Marta, sorella di Lazzaro, passa dal suo umano “eppure poteva..., se tu, Cristo, fossi stato qui...” all’atto della più grande fede e speranza: “Ma anche ora so che qualunque cosa chiederai a Dio, egli te la concederà” (Gv 11,22). Solo a Cristo ci si può rivolgere con tali parole; solo egli ha confermato che ha potere sulla morte umana. Tuttavia, il cuore umano spesso contrappone alla morte – a questa morte che già è diventata un fatto, a questa morte di cui ognuno sa che, in definitiva, è inevitabile – un’alternativa della possibilità della vita: Eppure poteva ancora vivere...

    3. Lasciamo allora che risuoni ancora la voce apostolica di San Paolo in queste nostre meditazioni. Anche egli contrappone la necessità della morte alla possibilità della vita; lo fa, però, in maniera pienamente corrispondente a questa luce della fede, della speranza e della carità, che bruciavano nel suo cuore: “Sono messo alle strette, infatti, tra queste due cose: da una parte, il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo, il che sarebbe assai meglio; d’altra parte, è più necessario per voi che io rimanga nella carne” (Fil 1,23). L’uomo che vive la fede come Paolo, che ama come lui, diventa, in un certo senso, il padrone della propria morte. Questa non lo sorprende mai.

    In qualunque momento venga, sarà accettata sempre come una alternativa di vita, come una dimensione che compie tutto il suo senso. “Per me, infatti, il vivere è Cristo, e il morire è un guadagno” (Fil 1,20). Se Cristo dà alla vita tutto il senso, allora l’uomo può pensare alla morte così. Così può aspettarla! E così può accettarla!

    4. Penetriamo col pensiero le parole delle odierne letture liturgiche e cerchiamo di seguirne il significato. Percepiamo che esse vogliono avviarci alla risposta riguardante quella morte avvenuta, un anno fa, così improvvisamente e che oggi non soltanto ricordiamo ma, in un certo senso, riviviamo. Queste letture vogliono darci la risposta alla domanda: come moriva Giovanni Paolo I?

    Facciamo allora una seconda domanda: Che cosa sarebbe stata questa vita, se non fosse stata interrotta la notte dal 28 al 29 settembre dell’anno scorso? Ed anche a questa domanda troviamo la risposta nel testo di Paolo: “...il vivere nel corpo significa lavorare con frutto” (Fil 1,22). Così, dunque, non soltanto la vita dà la testimonianza alla morte, ma anche la morte alla vita.

    5. E questa testimonianza, che la morte di Giovanni Paolo I ha dato alla sua vita, diventa al tempo stesso il testamento del suo pontificato: “Resterò e continuerò a essere d’aiuto a voi tutti, per il progresso e la gioia della vostra fede” (Fil 1,25).

    Quale è la parola principale di quel testamento? Forse questa che parla della “gioia della fede”. Il Signore ha dato a Giovanni Paolo I trentatré giorni sulla Sede di San Pietro, affinché potesse esprimere questa gioia, questa gioia quasi di bambino.

    Tale gioia nella fede è necessaria, perché possano compiersi le ulteriori parole di questo testamento: che possiamo combattere unanimi per la fede del vangelo (cf. Fil 1,27). Riceviamo, infatti, i due indelebili segni: il segno di Figlio di Dio nel Battesimo, e il segno di confessore, pronto a combattere per la fede del Vangelo nella Cresima. Giovanni Paolo I, successore di Pietro, manifestò nella sua vita ambedue questi segni e li portò ben impressi nella sua anima, davanti alla Maestà di Dio. Come ogni vero cristiano.

    6. Celebriamo l’Eucaristia: la liturgia della morte e della risurrezione di Cristo. Essa diventa particolarmente eloquente, quando la celebriamo in occasione della morte dell’uomo, durante il funerale o nell’anniversario della morte. A questo proposito non posso non ricordare quanto ebbe a dire, interprete dell’universale commozione, il venerato Cardinale Decano durante la mesta cerimonia funebre dell’anno scorso, in Piazza San Pietro; “Ci domandiamo: perché così presto? L’Apostolo ci previene con la nota esclamazione, ammirata e adorante: “Quanto sono imperscrutabili i giudizi di Dio, ed inaccessibili le sue vie!... Chi ha mai potuto conoscere il pensiero del Signore?” (Rm 11,33). Si ripropone così in tutta la sua immane e quasi opprimente grandezza, l’insondabile mistero della vita e della morte (cf. “L’Osservatore Romano”, 6 ottobre 1978, p. 1).

    Di fronte a questo mistero, che per la ragione è davvero impenetrabile e insolubile, all’uomo non giunge dall’uomo nessuna voce di risposta. In ordine ad esso che altro possiamo udire oltre quel che udì Marta dalla bocca di Cristo? “Tuo fratello risusciterà... Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?” (Gv 11,23-25).

    Il Papa defunto rispose a questa domanda con la fede di tutta la Chiesa: Credo nella risurrezione dei morti; credo nella vita del mondo che verrà! Ed in pari tempo confessò con la fede personale della sua vita: “Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia” (Fil 1,20).

    “Io so che il mio Vendicatore è vivo... Dopo che questa mia pelle sarà distrutta,.. vedrò Dio” (Gb 19,25-26).

                             

    [Modificato da Caterina63 15/12/2008 13:13]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 15/12/2008 13:16
     
     


    Ricordo, in particolare, l'allora giovanissimo professor Ratzinger. Accompagnava al Concilio il cardinale Joseph Frings, arcivescovo di Colonia, in qualità di esperto di teologia. Fu successivamente nominato arcivescovo di Monaco da papa Paolo VI, che lo creò cardinale, e partecipò al Conclave che mi affidò il ministero petrino. Quando morì il cardinale Franjo Seper, gli chiesi di succedergli nell'incarico di prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Rendo grazie a Dio per la presenza e l'aiuto del cardinale Ratzinger, che è un amico fidato

    (Giovanni Paolo II, "Alzatevi, andiamo!", Mondadori 2004)







     


    Amici...fino alla fine ed oltre....



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    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)