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Il 6 gennaio 1852 per volontà di Papa Pio IX nasceva la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra

Anche le catacombe, a volte, hanno bisogno di riposo



di Carlo Carletti

Il 6 gennaio 1852, con biglietto inviato al cardinale Costantino Patrizi, vicario generale (protocollo n. 32288), Pio IX istituiva ufficialmente la Commissione di Archeologia Sacra "per la più efficace tutela e sorveglianza dei cemeteri e degli antichi edifici cristiani di Roma e del suburbano, per la sistematica e scientifica escavazione ed esplorazione degli stessi cemeteri, per la conservazione e custodia di quanto dagli scavi si venisse ritrovando o si fosse riportato alla luce"; per il suo funzionamento ordinario la nuova istituzione veniva dotata della somma annuale di "scudi milleottocento".

Legittimazione e ratifica di quanto, seppure in via sperimentale, era già esistente e funzionante dal 5 luglio 1851 per iniziativa del gesuita Giuseppe Marchi (1795-1860), già conservatore dei sacri cimiteri, e del "padre fondatore" degli studi sulle catacombe, Giovanni Battista de Rossi (1822-1894), che aveva già suggerito e sollecitato con più di "qualche insistenza" Pio IX ad istituire una stabile commissione con competenze specifiche per le indagini archeologiche nelle catacombe. De Rossi, come di fatto imponevano prassi e circostanze, si era servito dei canali di comunicazione mediata di cui poteva disporre:  "Pregai allora alcuni prelati della chiesa romana e gli eminentissimi cardinali Antonelli Segretario di Stato e Patrizi Vicario di Sua Santità affinché chiamassero l'attenzione del sovrano Pontefice sopra le escavazioni sotterranee, che tanto bene promettevano" (La Roma sotterranea cristiana, i, Roma 1864, pp. 72-73).
 




Papa Mastai Ferretti valutò questa fase sperimentale come un esame positivamente superato, anche perché aveva potuto osservare direttamente le straordinarie evidenze che stavano emergendo negli scavi delle catacombe di Domitilla e di Callisto - come riportato con dovizia di particolari in un cronaca sul "Giornale di Roma" del 5 giugno 1852 - e nel contempo prendere atto sul campo delle non comuni capacità che caratterizzavano la già matura personalità scientifica di de Rossi il quale fin dall'inizio si andò configurando come anima e mente della Commissione di cui fu ininterrottamente Segretario dal 1874 fino alla morte (1894). Tutti o quasi i risultati delle indagini nelle catacombe passarono attraverso la sua penna, come si può leggere nei numerosissimi articoli scritti per il "Bullettino di archeologia cristiana" - da lui fondato nel 1864 - nonché nei tre monumentali volumi de La Roma sotterranea, la prima sintesi scientifica sul "fenomeno catacomba" dalle origini al loro definitivo abbandono (VIII-IX secolo).

La collaborazione tra la sensibilità e la preveggenza di Pio IX e la non comune statura scientifica di de Rossi - "genio italico" lo definì un grandissimo suo contemporaneo come Theodore Mommsen - costituì una svolta storica non solo per la ricerca archeologica in senso stretto ma anche, e soprattutto, per l'evoluzione del concetto stesso di catacomba:  non più o non più soltanto il luogo che aveva accolto corpi di martiri, ma un monumento complesso che nella molteplicità dei suoi elementi documentari si proponeva agli occhi dello storico come un archivio originale - non mediato né selettivo - della vita della Chiesa antica.
La nascita della Commissione pose definitivamente fine ad una pratica che, avviatasi all'indomani delle prime grandi scoperte di Antonio Bosio (1575-1629), fin dalle sue prime manifestazioni per il vigore e la determinazione con cui venne perseguita e per i protagonisti che direttamente o indirettamente ne furono partecipi poteva far presagire un percorso senza ritorno:  il riferimento è al fenomeno della "estrazione dei corpi santi", una sinistra denominazione che, giudicata con il senno del poi, esprime eloquentemente il concetto di una operazione traumatica subita dalle catacombe e dalle povere salme in esse conservate. L'insensibilità e la non adeguata preparazione degli archeologi dei secoli XVII e XVIII congiunta alla crescente polemica contro la Riforma, avevano fatto emergere la convinzione che nei cimiteri sotterranei cristiani si conservassero migliaia e migliaia di corpi santi.
 
Nessuna attenzione fu rivolta ad un dato storico ineccepibile che quantomeno avrebbe dovuto consigliare maggiore cautela e rispetto. Infatti, l'abbandono definitivo delle catacombe avviatosi nel corso dei secoli VIII e IX per l'insicurezza sempre crescente delle aree suburbicarie, aveva già indotto alcuni pontefici a procedere alla traslazione delle reliquie venerate:  i martiri lasciarono le sedi originarie - cymeteria seu cryptae - per essere accolti nelle chiese urbane. A sigillo reale e simbolico di questo passaggio epocale può essere assunta l'iscrizione di Papa Pasquale I (817-824) esposta nella chiesa di Santa Prassede, che certifica la traslazione di 2300 corpi santi:  temporibus s(an)cti ac ter beatissimi et apostolici d(omini) n(ostri) Paschalis | papae, infraducta sunt veneranda s(an)c(t)orum cor|pora in hanc s(an)c(t)am et venerabilem basilicam | beatae Chr(isti) virginis Praxedis - segue per quarantaquatto righe l'elenco dei resti mortali traslati (Monumenta epigraphica Christiana, i, In Civitate Vaticana 1943, tavola XXIX, 1).

La convinzione che tutte le catacombe, quasi di necessità, conservassero una turba piorum - come avrebbe detto Damaso - rimase inalterata e anzi si andò rafforzando ed estendendo:  bisognava soltanto ricercare criteri identificativi almeno formalmente plausibili. Furono individuati già all'inizio del XVII nei cristogrammi, nelle sagittae, nelle palmulae spesso tracciate sulle iscrizioni e, soprattutto, nella presenza dei cosiddetti "vasi di sangue", in realtà null'altro che vasetti o fiale contenenti essenze odorose. L'elaborazione di questo armamentario e l'uso concreto che se ne fece indica con il massimo dell'evidenza "in quale ambiente, con quali idee e con che pratica si procedeva a quelle ricognizioni" (G. B. de Rossi, Sulla questione del vaso di sangue. Memoria inedita con introduzione storica e Appendici di documenti inediti per cura del padre Antonio Ferrua S. I., Città del Vaticano 1944, p. XV). In questo orizzonte, come deriva estrema si segnala il singolare trattatello (De coemeteriis ad Eminent.m et R.m. D. Card.m Ginettum S. D. N. Urbani viii Vic.m Hieronymi Bruni Commentarius) scritto nel 1632 dall'oratoriano Girolamo Bruni su espressa committenza del cardinale Marzio Ginetti di Velletri (1590-1670):  secondo i calcoli del Bruni il numero complessivo dei martiri deposti a Roma raggiungeva l'incredibile cifra di 64.000.000, "resultabit num. 64.000.000 idest sex centies quadragies centina milia, quod vulgo dicimus sexaginta quattuor milione" da questa moltitudine - aggiungeva con serietà - tolto il numero dei confessori, "adhuc remanebit martyrum poene infinitus exercitus".

I criteri per il riconoscimento dei corpi santi, seppure attenuati negli aspetti più deteriori, trovarono ratifica e ufficiale legittimazione nel celebre decreto del 10 aprile 1668 (Sacra Congregatio indulgentiis sacrisque reliquis praeposita) nel quale si stabiliva che la palma e il vaso con il sangue dei martiri "pro signis certissimis habenda esse" (Decreta authentica Sacrae Congretationis Indulgentiis sacrisque reliquiis pareposita, edita iussu et auctoritate sanctissimi D. N. Leonis PP. XIII, Ratisbonae 1883).

Il vaso di sangue, fino al tempo del de Rossi e della costituzione della Commissione di Archeologia Sacra, fu considerato come primario e indiscutibile criterio identificativo e a nulla erano valsi i dubbi sollevati da studiosi di alto livello come il padre bollandista Daniel Papenbroch (1628-1714), Thierry Ruinart (editore degli Acta martyrum sincera, Parigi 1689), Jean Mabillon (1632-1707) nonché il grande Louis-Sébastien Lenain de Tillemont che con il suo giudizio anticipò alcune delle acquisizioni cui poi pervenne de Rossi, rilevando che la realtà storica - la vraie marque - di un martire, in termini monumentali, può trovare autorevole conferma soprattutto attraverso la testimonianza delle antiche iscrizioni (Mémoires pour servir à l'histoire écclesiastique, V, 1698, art. II):  queste autorevoli cautele, alle quali non fu riservato ascolto alcuno, furono anzi stigmatizzate come malevole e sospette.

Con queste premesse non era evidentemente difficile trovare reliquie di martiri e farne circolare nell'ecumene cristiano una quantità innumerevole. La altrimenti ignota Aurelia Theodosia nati(one) Ambiana - cioè originaria della zona dell'attuale Amiens - ricordata in un'iscrizione - non anteriore al IV secolo avanzato - trovata il primo aprile (sic) 1842 nel cimitero di Sant'Ermete (Inscriptiones Christianae Urbis Romae, X, 27032), fu elevata alla dignità del martirio:  i cittadini di Amiens ne accolsero trionfalmente le reliquie e la relativa iscrizione, che furono deposte in una sontuosa cappella della cattedrale. Allo stesso modo una sepoltura ancora intatta ritrovata nel maggio del 1802 nel cimitero di Priscilla fece nascere il culto di una santa Filomena:  i segni (frecce e palme) tracciati sui margini dell'iscrizione che copriva la sepoltura (ibidem, VIII, 23243), insieme a un vaso di sangue rinvenuto all'interno della tomba, erano "indicatori" più che probanti per ampliare il martirologio:  reliquie e iscrizione furono recapitate in gradito omaggio alla chiesa di Mugnano del Cardinale a Nola.

In questa atmosfera quasi naturalmente si sviluppò un'ulteriore deriva:  quella della creazione ex novo di iscrizioni, funzionali a incrementare la schiera - già foltissima - degli eroi della fede. La palma di campione in questa attività va certo assegnata all'abate Giacomo Crescenzi che nel corso della metà del XVII secolo, produsse una serie di iscrizioni false tanto ingenue e banali da apparire ridicole:  quelle ad esempio - anacronisticamente scritte in latino - che avrebbero testimoniato la dignità del martirio per i papi Felice i (269-274) e Gaio (283-296) (ibidem, I, supplemento, 1915, editore Gatti, p. 3), il cui epitaffio autentico, redatto in greco, fu peraltro ritrovato da de Rossi intorno al 1870 nel suo originario contesto monumentale, il cimitero di Callisto (ibidem, IV, 10584). Al Crescenzi, tra l'altro, era anche sfuggito che nella seconda metà del terzo secolo la lingua ufficiale della Chiesa di Roma era ancora il greco. La gestione materiale di tutte le operazioni connesse alla "estrazione dei corpi santi", dopo un primo periodo di sostanziale assenza di regole definite, dal 1737 al 1850 fu affidata al custode della lipsanoteca del Vicariato e collateralmente (ma con minore incidenza operativa) al sagrista pontificio.

I due uffici agivano di fatto in concorrenza, disponendo ciascuno di una propria squadra di "cavatori":  "Il lavoro consisteva essenzialmente nella ricerca di corpi santi(...) che poi venivano distribuiti in tutto il mondo come oggetti di culto. Se ne trovavano tanti e se ne distribuivano ancor di più, perché grande era la fame di siffatte reliquie e c'era sempre modo di compensare bene la "domanda"" (Antonio Ferrua, I primordi della Commissione di Archeologia Sacra, in "Archivio della Società Romana di Storia Patria", 91, 1968, p. 252).

Al custode della lipsanoteca e al sagrista pontificio può almeno essere riconosciuto il merito della redazione dei verbali - che servivano come base per le autentiche - in cui venivano registrati luogo e data delle "estrazioni" nonché i testi delle iscrizioni:  questi dati (Acta custodiae sanctorum martyrum ab a. 1737 ad a. 1850, exstant in Lipsanotheca card. Vicarii Urbis; Regestum Sacrarii pontificii ab a. 1780 ad a. 1814) in mancanza di meglio si sono infatti rivelati un importante sussidio documentario per gli editori delle Inscriptiones christianae urbis Romae.
Questa collettiva infatuazione, se fosse rimasta nella sfera della teoria e del libero confronto, non avrebbe provocato gran danno se non quello della memoria storica di una sfrenata e in fondo irrispettosa deriva devozionale. Ma nella realtà si rivelò foriera di gravi e irreversibili alterazioni per le catacombe e naturalmente per la stessa conoscenza storica del culto dei martiri.

Era venuta meno anche la tradizione secolare - profondamente radicata nella cultura sia pagana sia cristiana - della intangibilità della sepoltura, recepita nella teoria e nella prassi legislativa come res sacra:  un principio che era stato "religiosamente" osservato da Costantino e Damaso, come dire dai fondatori della ricognizione e della monumentalizzazione delle tombe dei martiri. Di fronte alla irreversibilità dei danni prodotti dai cercatori di corpi santi de Rossi non seppe trattenere una sdegnata reazione:  "Non trovo parole bastanti a lamentare tanta negligenza, e la jattura inestimabile di monumenti, di memorie e di osservazioni, che a veruno mai non sarà dato di compensare. Imperocché in que primi lavori di sterramento le vie sotterranee coi loro sepolcri cadevano vergini e intattissime sotto le mani devastatrici degli escavatori(...) Io confesso, che mi freme l'animo al pensare come la cripta di Damaso, quella di Balbina, la cripta del martire Ippolito sono state all'età denostri avi rinvenute, frugate dai fossori e forse irreparabilmente devastate; e che un Gaetano Marini lo seppe e non stimò doverne cercare pur una superficiale notizia.

In tanto oblio erano caduti la grande impresa del Bosio e i suoi dotti insegnamenti" (La Roma sotterranea i, pp. 49, 61).
Con la creazione della Commissione di Archeologia Sacra iniziava un'epoca nuova che, in virtù dell'opera di de Rossi e dei suoi successori, poteva ormai agire come un'istituzione specificamente deputata alla tutela, alla conservazione e alla indagine archeologica nelle catacombe.
Questo profondo mutamento di rotta fu lucidamente percepito da Pio XI, quando nel motu proprio dell'11 dicembre 1925, dopo aver premesso che "nei primi mesi del Nostro Pontificato ricorrevano il settantesimo anniversario della Istituzione della Commissione ed il centesimo della nascita del de Rossi, vero innovatore della scienza archeologica cristiana" (p. 2), attribuì alla Commissione il significativo titolo di "pontificia" dotandola di un nuovo regolamento che ne fissava in termini più definiti competenze e funzioni.

L'intervento di Pio XI precede di quattro anni un ulteriore mutamento, questa volta relativo allo statuto del monumento-catacomba nei riguardi dei rapporti tra la Santa Sede e l'Italia:  come qualsiasi altro monumento esistenti nel sottosuolo del territorio nazionale, anche le catacombe venivano rivendicate al patrimonio archeologico dello Stato, ma nondimeno venivano concesse in "disponibilità" alla Santa Sede che si impegnava a curarne conservazione e tutela. È quanto definito nell'articolo 33 del concordato tra la Santa Sede e l'Italia l'11 febbraio del 1929 (legge n. 810 del 27 maggio 1929), poi ripreso e parzialmente modificato nell'articolo 12 comma bis delle Inter Sanctam Sedem et Italiam Conventiones initae diebus 18 februarii et 15 Novembris 1984 ("Acta Apostolicae Sedis" 87, 1985, p. 530) che reca testualmente:  "La Santa Sede conserva la disponibilità delle catacombe cristiane esistenti nel suolo di Roma e nelle altri parti del territorio italiano con l'onere conseguente della custodia, della manutenzione e della conservazione, rinunziando alla disponibilità delle altre catacombe.

Con l'osservanza delle leggi dello Stato e fatti salvi gli eventuali diritti di terzi, la Santa può procedere agli scavi occorrenti e al trasferimento delle sacre reliquie".

L'elemento nuovo, rispetto all'articolo 33 del concordato del 1929, è nella definizione di "catacombe cristiane" attribuita ai monumenti dati in disponibilità alla Santa Sede; ciò evidentemente ha comportato l'espunzione dalla "disponibilità" delle tre catacombe ebraiche della via Appia e di Villa Torlonia che, di conseguenza, a partire dal 1984 rientrano nella tutela e nelle competenze della Soprintendenza ai beni archeologici di Roma. In ragione di queste premesse, la Pontificia Commissione di Archeologia Sacra opera con il ruolo e tutte le prerogative di un organo di tutela statale e, in questa direzione, osserva le relative disposizioni di legge, sia nell'ambito della indagine archeologica sia, soprattutto, in relazione a tutti quegli interventi, spesso molto complessi nella progettazione e nella esecuzione, relativi alle operazioni di conservazione, di consolidamento, di restauro.

Il filo conduttore, istituzionale e culturale, che unisce il motu proprio del 1924 al concordato del 1929 e alla sua revisione del 1984, aveva posto tutte le premesse per l'avvio di una fase di forte rilancio, nel corso del quale la Commissione viene progressivamente proponendosi come soggetto dialogante con il mondo della ricerca archeologica e con le esigenze che venivano sempre più maturando dalla progressiva richiesta di fruizione da parte di un pubblico sempre più vasto.

I decenni che intercorrono tra gli anni Venti e gli anni Novanta possono senz'altro definirsi come la stagione d'oro nella storia della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, non inferiore a quella delle origini dominata dalla grande personalità di Giovanni Battista de Rossi. Chiunque oggi può prendere atto, dalla diretta osservazione dei contesti monumentali e dalle pubblicazioni specialistiche e divulgative, dell'enorme rilevanza dei risultati acquisiti nella tutela e conservazione e, soprattutto, nell'indagine archeologica. Tra i moltissimi risultati possono ricordarsi le scoperte di complessi catacombali prima del tutto ignoti, e dunque miracolosamente sfuggiti alla rapace attività dei cercatori dei corpi santi:  le catacombe di Panfilo (sulla Salaria Vetus), Novaziano (via Tiburtina), Calepodio sulla via Aurelia con la scoperta del luogo di deposizione di Papa Callisto, Aproniano e santi Gordiano ed Epimaco sulla via Latina, Anonima di via Anapo - la prima delle catacombe venuta alla luce a Roma il 31 maggio 1578, di cui poi si smarrì l'ubicazione - e ancora nuove regioni cimiteriali di complessi in parti già noti come quelle del cubicolo di Leone nella catacomba di Commodilla, delle "Agapi nuove" nel cimitero dei santi Marcellino e Pietro - importantissima anche per la sua cronologia proto costantiniana - della regio IV nel coemeterium Maius, dell'area di sant'Eutichio nel cimitero di san Sebastiano che conferma clamorosamente con dati monumentali ed epigrafici quanto fino ad allora documentato solo dal damasiano elogium Eutychi.

Di importanza epocale rimane la scoperta - peraltro del tutto casuale - della catacomba anonima della via Latina:  un piccolo insediamento funerario che, con le sue oltre 150 pitture ad affresco, oltre a costituire un caposaldo nella storia della pittura tardoromana, documenta uno dei tratti culturali tipici della tarda antichità, quello della dialettica tra cultura antica e cristianesimo, come rappresentato dalla compresenza in un medesimo contesto monumentale di soggetti biblici e della mitologia classica.

In tutti questi complessi sono stati innumerevoli gli interventi di conservazione, consolidamento e restauro eseguiti sia sulla plastica funeraria - sarcofagi e elementi architettonici - come per i circa mille esemplari del Museo di Pretestato, sia sulle testimonianze costituzionalmente più fragili come le pitture ad affresco che, come nel caso dei 150 esemplari della catacomba della via Latina, comportò un impegno pluriennale di altissimo impegno, con esiti di cui ognuno può oggi prendere atto.

A monte di questi risultati vi era anche il valore aggiunto - fin dal tempo di Pio IX - costituito dalla presenza nell'ambito stesso della Commissione, appunto di una "commissione" - non è una tautologia - cioè di un insieme di specialisti specifici nel campo dell'archeologia, della topografia, della storia dell'arte, che agivano in qualità di esperti e di consultori e collaboravano con il segretario, il direttore tecnico e gli ispettori.

Vi era poi un altro aspetto che si andò affermando soprattutto a partire dagli anni Sessanta e che contribuì non poco, particolarmente nell'ambito delle tecniche e delle metodologie, alla crescita qualitativa dei progetti di indagine archeologica e della loro realizzazione:  la collaborazione strategica con istituzioni culturali e università italiane e straniere che, solo per ricordare gli interventi più rilevanti, operarono nel complesso dei santi Marcellino e Pietro sulla Labicana - équipe francese - di Sant'Agnese sulla Nomentana - équipe tedesca - nell'area di Papa Cornelio e di Gaio ed Eusebio nella catacomba di Callisto - équipe belga - e, nelle catacombe fuori di Roma, a Massa Martana (Università di Perugia), Cava d'Ossuna (Università di Palermo), Castelvecchio Subequo (Università di Chieti), Ponte della Lama (Università di Bari). Ma la collaborazione più assidua e continuativa nel tempo si instaurò con la più giovane istituzione "sorella" - fondata nel 1924 da Pio XI - del Pontificio Istituto di Archeologia Cristiana, cioè con la scuola di specializzazione che preparava e formava i futuri addetti ai lavori.

Non è difficile intuire che queste molteplici forme di progetti condivisi, tra gli altri risultati, ebbero come ulteriore valore aggiunto quello di contribuire alla formazione di almeno due generazioni di specialisti in archeologia, epigrafica e antichità cristiane:  non a caso sono numerosi i titolari di cattedre universitarie in Italia e in Europa che hanno maturato la loro professionalità anche con la partecipazione ai cantieri di scavo nelle catacombe.

Allo stato attuale, soltanto a Roma, la Santa Sede conserva la disponibilità, e quindi la custodia e la cura, di 67 catacombe distribuite lungo le antiche vie consolari che si dipartivano dalla città:  sei sulla via Aurelia, due sulla Portuense, cinque sulla Ostiense, quattro sull'Ardeatina, quattordici sull'Appia, quattro sulla Latina, cinque sulla Labicana, sei sulla Tiburtina, cinque sulla Nomentana, cinque sulla Salaria nuova, tre sulla Salaria vecchia, una sulla Flaminia.

L'estensione lineare complessiva delle gallerie di questi insediamenti sotterranei supera i 150 chilometri:  una città sepolta che ha finora restituito oltre trentamila iscrizioni latine e greche, 400 contesti pittorici ad affresco, oltre 10.000 esemplari di scultura funerari nonché circa 50.000 oggetti di corredo:  ma, è ovvio, si tratta di dati provvisori suscettibili di continuo incremento, e per le scoperte occasionali - sempre numerose - e per il prossimo rilancio di una progettualità archeologica strategica. Fuori Roma sono in disponibilità della Pontificia Commissione trentaquattro insediamenti catacombali distribuiti tra Toscana, Umbria, Lazio, Abruzzo, Sicilia, Sardegna.

Questo patrimonio - com'è naturale - non è dominio dei soli addetti ai lavori ma, seppure parzialmente - cinque a Roma le catacombe aperte al pubblico - è anche fruibile per il più vasto pubblico dei visitatori che, soltanto a Roma, raggiungono mediamente la non trascurabile cifra di un milione e mezzo all'anno. Un dato che rimanda implicitamente al delicatissimo problema dell'equilibrio tra le due esigenze, ambedue inalienabili, della fruizione e della conservazione:  basti pensare che oltre mezzo milione di persone all'anno percorrono l'Area i di Callisto e la Cripta dei Papi, la più antica delle catacombe romane istituita da Papa Zefirino (199-217) e affidata al futuro successore Callisto.

Un flusso di visitatori di queste dimensioni, specialmente per un insediamento sotterraneo, non può essere indolore:  sarebbe ingenuo e forse irresponsabile negarlo. Aprire al pubblico un'area catacombale impone - è ovvio - impianti elettrici fissi, possibilità di ricambio d'aria e via di fuga, sistemi di sicurezza e di allarme, nonché corrimano, transenne, scale artificiali, pedane:  tutti elementi che, insieme alla presenza dei visitatori, concorrono a modificare l'integrità degli assetti originari e del sempre instabile livello di conservazione.

La Commissione si era già posta nel passato recente questo problema ed aveva iniziato ad elaborare un preliminare progetto di osservazione delle zone più frequentate:  non chiusure indiscriminate, ma turnazioni tra diverse aree cimiteriali strutturalmente idonee alla pubblica fruizione, per consentire - come avviene per i campi di grano - di far "riposare" periodicamente gli ambienti e le strutture più logorate dal passaggio dei visitatori, restituendo loro quel "buio" e quel naturale microclima interno, che rimangono i soli veri antidoti non traumatici contro tutti i fenomeni esterni ed interni che, con diversa incidenza, possono potenzialmente compromettere salvaguardia e conservazione.

Questa complessità di problemi, direttamente o indirettamente connessi alla gestione del monumento-catacomba, era già stata intuita e, in qualche caso, implicitamente prefigurata, da Pio XI che nel motu proprio del 1924 (p. 3) sottolineava, senza reticenze, come la rinnovata Pontificia Commissione dovesse autoimporsi una "delicata e piena responsabilità(...) ben più difficile e gravosa rispetto a quella dei primi esploratori" (p. 3).



(©L'Osservatore Romano - 5-6 gennaio 2009)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)