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Papa Benedetto XVI e la liturgia

BOLOGNA, sabato, 28 febbraio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la relazione pronunciata dal prof. Davide Ventura sul tema “Papa Benedetto XVI e la liturgia - Importanza e centralità della liturgia", intervenendo il 22 febbraio scorso a Bologna, presso la chiesa di S. Maria della Pietà, in occasione del III anniversario dell’apertura della causa di beatificazione del Servo di Dio Tomas Josef M. Tyn O.P. [SM=g1740734]



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Importanza e centralità della liturgia


Che la liturgia sia un tema che sta a cuore a Papa Benedetto XVI è cosa ampiamente dimostrata dalla mole e dalla frequenza dei suoi interventi in tale materia in questi primi anni del suo pontificato. Innumerevoli sono ormai i discorsi, le allocuzioni, le catechesi rivolte a tale soggetto, che ritorna poi con insistenza anche nei documenti “maggiori”, dalle encicliche al recente motu proprio “Summorum Pontificum”. Questi interventi, avvenuti in tempi a noi prossimi e “sotto i riflettori” del pontificato, sono abbastanza noti, anche se non risulterà inutile rivolgere loro uno sguardo d’assieme. Meno note ai più sono forse invece le tante opere che il Papa ha scritto riguardo alla liturgia prima della sua elezione, come teologo – insieme a svariate interviste e discorsi. Tutto questo materiale manifesta una totale continuità con il suo attuale magistero, e si svolge con una potenza di pensiero e una profondità di analisi che lascia ammirato il lettore. Inoltre, per il loro essere meno “irrigiditi” dei documenti magisteriali, di norma relativamente brevi e mirati a circostanze particolari, gli scritti dell’allora Cardinal Ratzinger sono di grande aiuto per manifestarne pienamente il pensiero nella sua ispirazione di fondo. Senza pretendere di sostituire una lettura delle opere in questione (che è al contrario fortemente raccomandata), queste pagine mirano a prendere in esame alcune direttive fondamentali del pensiero liturgico del Papa basandosi sulle sue parole, scritte o pronunciate sia prima che dopo la sua elezione; e questo per aiutare a meglio orizzontarsi anche nelle controversie che tale insegnamento ha occasionalmente suscitato – come sempre capita quando il sale del Vangelo si rifiuta ostinatamente di perdere il suo sapore.

Perché mai un tale posto centrale per la liturgia? Non hanno piuttosto ragione quegli ambienti ecclesiali che tendono a relegarla in secondo piano, come se si trattasse di un semplice elemento formale – una questione in fondo poco importante di usi e di abitudini?

Non per il Papa. Nel libro-intervista Rapporto sulla fede così si esprime l’allora cardinale: "Dietro ai modi diversi di concepire la liturgia ci sono, come di consueto, modi diversi di concepire la Chiesa, dunque Dio e i rapporti dell'uomo con Lui. Il discorso liturgico non è marginale: è stato proprio il Concilio a ricordarci che qui siamo nel cuore della fede cristiana".



Il punto non è banale: se il fine dell’uomo è conoscere, amare e servire Dio, allora diviene del tutto essenziale il modo in cui ci si pone di fronte a Lui per riceverne i doni sacramentali, per espiare le proprie cadute, per rendere grazie della salvezza offerta in Cristo. La vita cristiana è un rapporto personale con il Padre che chiama a sé i suoi figli; è dunque fondamentalmente dialogo. Questo dialogo può ben essere privato e individuale; ma per essere realmente tale ha comunque bisogno di essere sorretto e quasi immerso in quel perenne canto d’amore della Sposa per il suo Sposo che è la liturgia pubblica della Chiesa. E questo canto ha ritmi e tonalità tutti propri, che divengono essi stessi contenuto, e non meramente forma. Lex orandi, lex credendi, dicevano i cristiani dei primi secoli: i modi e le forme del pregare – inteso come pregare pubblico, liturgico – determinano i contenuti del credere. E, storicamente, è innegabile che i cambiamenti avvenuti nella lex orandi accompagnano e segnalano invariabilmente parallele mutazioni delle accentuazioni e della comprensione dei contenuti di fede.



In un’altra opera, l’allora cardinale riprende lo stesso tema richiamando l’atteggiamento a suo parere superficiale con cui da più parti venne accolto l’invito del Concilio Vaticano II a un rinnovamento della liturgia: “Poté sembrare a molti che la preoccupazione per una forma corretta della liturgia fosse una questione di pura prassi, una ricerca della forma di Messa più adeguata e accessibile agli uomini del nostro tempo. Nel frattempo si è visto sempre più chiaramente che nella liturgia si tratta della nostra comprensione di Dio e del mondo, del nostro rapporto a Cristo, alla Chiesa e a noi stessi. Nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa. Così la questione liturgica ha acquistato oggi un’importanza che prima non potevamo prevedere” (J. Ratzinger, Cantate al Signore un canto nuovo, p. 9).


In un altro luogo ancora lo stesso concetto viene espresso con drastica concisione: “Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia” (J. Ratzinger, La mia vita, p. 112).



Ma nel pensiero del Papa l’importanza della liturgia si estende persino al di là dei limiti della Chiesa, per costituire un elemento fondamentale della vita e dell’ambiente umano: “Il diritto e la morale non stanno insieme se non sono ancorati nel centro liturgico e non traggono da esso ispirazione. […] Solo se il rapporto con Dio è giusto anche tutte le altre relazioni dell’uomo – quelle degli uomini tra di loro e dell’uomo con le altre realtà create – possono funzionare” (J. Ratzinger, Introduzione allo spirito della liturgia, p. 16). È un testo estremamente impegnativo, e verrebbe la tentazione di metterlo in dubbio se le circostanze dei nostri tempi non ne confermassero così clamorosamente la validità. Ma dove risiede il fondamento di questa influenza del culto liturgico sulla vita umana in generale? Il futuro Papa risponde nel seguito del testo citato: “L’adorazione, la giusta modalità del culto, del rapporto con Dio, è costitutiva per la giusta esistenza umana nel mondo: essa lo è proprio perché attraverso la vita quotidiana ci fa partecipi del modo di esistere del «cielo», del mondo di Dio, lasciando così trasparire la luce del mondo divino nel nostro mondo. […] (Il culto) prefigura una vita più definitiva e, in tal modo, dà alla vita presente la sua misura. Una vita in cui manca tale anticipazione, in cui il cielo non è più abbozzato, diverrebbe plumbea e vuota”. Si tratta di una visione di notevole potenza: per il Papa la liturgia della Chiesa diviene il canale privilegiato del governo divino sulla terra, e possiede di per sé una potenza demiurgica che plasma sul suo modello gli eventi mondani, facendosi “misura” alla “vita presente”. La liturgia è il cielo sulla terra; essa perciò deve parlare la lingua del cielo – questo è il motivo per cui non si tratta di cercare la forma “più adeguata e accessibile agli uomini del nostro tempo”, come riportato sopra.



Il valore del messale antico e il “Motu proprio” Summorum Pontificum
Paghiamo subito il necessario tributo all’attualità, e fra le tante questioni aperte legate alla liturgia soffermiamoci su quella che il magistero del Papa ha più di recente affrontato – e che ha suscitato le maggiori reazioni anche nell’opinione “laica”. È noto ai più che nel 1970 Papa Paolo VI promulgò il nuovo messale elaborato negli anni precedenti dalla commissione incaricata dell’attuazione della riforma liturgica avviata per impulso del concilio Vaticano II. Tale messale conteneva in effetti sostanziosi cambiamenti rispetto a quello fino ad allora in vigore, edito a sua volta da Giovanni XXIII nel 1962. Quest’ultimo non era in effetti altro che l’ultima revisione minore di un tipo liturgico che risaliva con continuità alla riforma effettuata dal Concilio di Trento (il cosiddetto messale di Pio V). A sua volta, Pio V aveva nel XVI secolo semplicemente rivisto e riproposto un repertorio di testi liturgici che si era tramandato con minimi cambiamenti durante tutto il Medio Evo, risaliva nella sua sostanza a Gregorio Magno (VI secolo), e conteneva parti che risalivano alla più remota antichità cristiana.



E qui si dà il problema: mentre, come si è visto, il messale romano ha conosciuto fino al 1962 – lungo diciassette secoli di storia – solo modifiche graduali e non particolarmente sostanziali, di un tratto nel 1970 venne introdotta una forma liturgica che si discostava in modo significativo da tale immemorabile tradizione. Contestualmente all’introduzione del nuovo si ebbe nella pratica la proibizione dell’uso del messale tradizionale, cosa che provocò vivaci reazioni in molti ambienti, fino a divenire una delle maggiori motivazioni dietro allo scisma promosso da Mons. Lefebvre.



Il documento pubblicato da Benedetto XVI il 7 luglio scorso, dal titolo “Summorum Pontificum”, mette finalmente ordine definendo la situazione giuridica, che era divenuta alquanto ambigua, della liturgia tradizionale di fronte a quella riformata. Vale la pena, vista la storica importanza del documento, scorrere i suoi contenuti fondamentali. In primo luogo il Papa dichiara che il precedente messale non è mai stato abrogato. Non si tratta perciò di una “reintroduzione”, bensì del riconoscimento di una perenne validità che l’introduzione del nuovo messale del 1970 non ha affatto menomato.

Al contrario, dopo alcune osservazioni storiche che ne lodano l’antichità e la continuità di uso durante tutta la storia della Chiesa latina, il Papa definisce il rapporto fra i due Messali con le seguenti parole: “Il Messale Romano promulgato da Paolo VI è la espressione ordinaria della «lex orandi» della Chiesa cattolica di rito latino. Tuttavia il Messale Romano promulgato da San Pio V e nuovamente edito dal B. Giovanni XXIII deve essere considerato come espressione straordinaria della stessa «lex orandi» e deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico. Queste due espressioni della «lex orandi» della Chiesa non porteranno in alcun modo a una divisione nella «lex credendi» della Chiesa; sono infatti due usi dell’unico rito romano. Perciò è lecito celebrare il Sacrificio della Messa secondo l’edizione tipica del Messale Romano promulgato dal B. Giovanni XXIII nel 1962 e mai abrogato, come forma straordinaria della Liturgia della Chiesa”.



Dopo questa capitale affermazione, il Papa prosegue definendo che ogni sacerdote può usare del messale tradizionale nelle sue Messe private, a cui possono di propria volontà associarsi anche altri fedeli. Gli istituti di vita consacrata sono poi liberi di celebrare, saltuariamente o anche abitualmente, con il vecchio messale. Gruppi stabili di fedeli all’interno delle parrocchie possono a loro volta chiedere al parroco di celebrare per loro con il messale del 1962. Il parroco è invitato ad “accogliere volentieri” le loro richieste; qualora sia personalmente impossibilitato (e – si suppone – per validi e non pretestuosi motivi), la richiesta deve passare al Vescovo diocesano. “Il Vescovo è vivamente pregato di esaudire il loro desiderio. Se egli non può provvedere per tale celebrazione, la cosa venga riferita alla Pontificia Commissione «Ecclesia Dei». Il vescovo che vuole soddisfare a tali richieste di fedeli laici, ma per varie cause ne è impedito, può affidare la questione alla Pontificia Commissione «Ecclesia Dei», che gli darà consiglio ed aiuto”. Se la situazione lo consiglia, il Vescovo può raggruppare le richieste con la costituzione di una “parrocchia personale”.



Si comprende chiaramente l’intenzione del Papa: la Messa tradizionale, essendo tuttora in vigore, costituisce un diritto dei fedeli; le loro richieste (purché non fatte per spargere discordia…) di accedere a tale forma liturgica vanno esaudite: a livello parrocchiale, ove possibile, ovvero diocesano. In nessun caso tale richiesta può essere semplicemente ignorata – l’autorità stessa della Santa Sede, tramite la Pontificia Commissione “Ecclesia Dei”, se ne fa garante.

Viene poi riconosciuto che i membri del clero, obbligati alla recita quotidiana del breviario, possono adempiere a tale obbligo mediante il breviario pubblicato da Giovanni XXIII.



Estremamente ricca di contenuto è anche la lettera inviata dal Papa a tutti i vescovi in concomitanza con l’uscita del Motu proprio. Vi si dice che, all’atto della pubblicazione del nuovo messale di Paolo VI, vi era chi pensava che l’uso della forma più antica sarebbe sparita da sé. Questo non è però avvenuto, e l’attaccamento all’uso antico è rimasto proprio “nei Paesi in cui il movimento liturgico aveva donato a molte persone una cospicua formazione liturgica e una profonda, intima familiarità con la forma anteriore della Celebrazione liturgica”. Non si tratta perciò necessariamente, secondo il Papa, di una forma di ribellione contro l’autorità della Chiesa, anzi “… molte persone, che accettavano chiaramente il carattere vincolante del Concilio Vaticano II e che erano fedeli al Papa e ai Vescovi, desideravano tuttavia anche ritrovare la forma, a loro cara, della sacra Liturgia”. E non si tratta solo di anziani: “È emerso chiaramente che anche giovani persone scoprono questa forma liturgica, si sentono attirate da essa e vi trovano una forma, particolarmente appropriata per loro, di incontro con il Mistero della Santissima Eucaristia”.



Se questa liturgia, così antica e venerabile, non è mai stata giuridicamente abrogata, da cosa nasce la sua pressoché totale sparizione, specialmente considerando che già Papa Giovanni Paolo II aveva pubblicato durante il suo pontificato atti che chiedevano ai vescovi di provvedere affinché le legittime richieste di celebrare secondo tale forma venissero più largamente accolte? Più che da Roma, il problema è evidentemente sorto dagli episcopati nazionali, “anzitutto perché spesso i Vescovi, in questi casi, temevano che l’autorità del Concilio fosse messa in dubbio”. Così, mentre i documenti di Giovanni Paolo II avevano lasciato ai vescovi un largo margine applicativo, Benedetto XVI conclude che “è sorto un bisogno di un regolamento giuridico più chiaro che, al tempo del Motu Proprio del 1988 non era prevedibile; queste Norme intendono anche liberare i Vescovi dal dover sempre di nuovo valutare come sia da rispondere alle diverse situazioni”.

“Roma locuta, causa soluta” dicevano gli antichi: Roma ha parlato, la causa è risolta. Oggi, purtroppo, questo è lontano dall’essere un fatto scontato; ma che Roma abbia parlato chiaro, questo nessuno potrà metterlo in dubbio.



L’applicazione della riforma liturgica


Il Vaticano II ha richiamato in molti documenti la necessità di un rinnovamento liturgico, che accogliesse le acquisizioni migliori di un movimento liturgico che aveva saputo nei decenni precedenti investigare i tesori storici della Chiesa per trovare il modo di restituire al loro originario splendore forme rituali che il tempo aveva ricoperto di un velo di polvere. Se poi, come osserva il Papa nel documento citato, proprio persone di “cospicua formazione liturgica” hanno preso partito di non seguire le forme liturgiche emerse dall’auspicato rinnovamento liturgico, è segno che qualcosa non ha funzionato. Sentiamo di nuovo il Papa nella citata lettera di accompagnamento al Motu proprio: “Questo avvenne anzitutto perché in molti luoghi non si celebrava in modo fedele alle prescrizioni del nuovo messale, ma esso addirittura veniva inteso come un’autorizzazione o perfino come un obbligo alla creatività, la quale portò spesso a deformazioni della Liturgia al limite del sopportabile. Parlo per esperienza, perché ho vissuto anch’io quel periodo con tutte le sue attese e confusioni. E ho visto quanto profondamente siano state ferite, dalle deformazioni arbitrarie della Liturgia, persone che erano totalmente radicate nella fede della Chiesa”.



Papa Benedetto parla quindi di “deformazioni arbitrarie”; si tratta, secondo questa analisi, di applicazioni errate sopraggiunte più tardi, e non del messale di Paolo VI in sé. Circa quest’ultimo, in più riprese nei suoi scritti il Papa ammonisce quelli che lo ritengono esso stesso una deformazione della tradizione ecclesiale ed espressione di una teologia eterodossa. Non a caso preferisce non parlare di due riti, ma di “due forme di uno stesso rito”: forma extraordinaria, l’antico messale; forma ordinaria il nuovo; e “non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum”.

La stessa cosa l’allora cardinale Ratzinger la aveva dichiarata più estesamente in un discorso del 24 ottobre 1998: “Si può dire questo: che viene spesso ampliata la libertà che il nuovo Ordo Missae lascia alla creatività, e che la differenza fra liturgie che si celebrano secondo i nuovi libri, così come vengono di fatto messe in pratica e celebrate nei diversi luoghi, è spesso più grande di quella tra l'antica e la nuova liturgia, quando l'una e l'altra vengono celebrate in conformità con le prescrizioni dei libri liturgici. Il cristiano medio, privo di una cultura liturgica specialistica, ha difficoltà a distinguere tra una Messa cantata in latino secondo il vecchio messale ed una cantata in latino secondo quello nuovo. La differenza fra una celebrazione liturgica che si attiene fedelmente al messale di Paolo VI e la realtà di celebrazioni in lingua corrente, con tutte le possibili libertà di partecipazione e di creatività, quella differenza sì che può essere enorme!”.



Questa affermazione, netta e reiterata, che la differenza fra il vecchio e il nuovo “ordo Missae” non è sostanziale, e che si tratta anzi di due forme dello stesso rito, può piacere o meno – si tratta in ogni caso del parere del Papa, espresso in modo piuttosto formale in atti di elevato valore magisteriale. Prestiamo dunque a tale parere il religioso assenso che esso richiede, e passiamo ad esaminare quali siano le deformazioni “al limite del sopportabile” di cui si parla, avvertiti dalle stesse parole del Papa che “… resta da vedere sino a che punto le singole tappe della riforma liturgica dopo il Vaticano II siano state veri miglioramenti o non, piuttosto, banalizzazioni; sino a che punto siano state pastoralmente sagge o non, al contrario, sconsiderate” (J. Ratzinger, Rapporto sulla fede, pp. 123-124).



La liturgia non è prodotto umano


Nel “mirino” del Papa, sia prima che dopo la sua elezione, c’è in primo luogo il concetto di “creatività liturgica”: è parso infatti spesso, in questi ultimi decenni, che ogni comunità, ogni singolo sacerdote, fossero chiamati a “inventare” le forme del culto secondo la propria sensibilità. In una intervista del 5 settembre 2003 l’allora cardinale dichiara: “In generale, ritengo che la riforma liturgica non sia stata applicata bene, perché si trattava di una idea generale. Oggi la liturgia è una cosa della comunità. La comunità rappresenta se stessa, e con la creatività dei preti o di altri gruppi si creano le loro liturgie particolari . Si tratta più della presenza delle loro esperienze ed idee personali, che dell’incontro con la Presenza del Signore nella Chiesa; e con questa creatività e questa auto-presentazione della comunità sta scomparendo l’essenza della liturgia. Con l’essenza della liturgia noi possiamo superare le nostre proprie esperienze e ricevere ciò che non deriva da esse, ma che è un dono di Dio. Così penso che dobbiamo restaurare non tanto certe cerimonie, ma l’idea essenziale della liturgia - capire che nella liturgia non rappresentiamo noi stessi, ma riceviamo la grazia della presenza del Signore nella Chiesa del cielo e della terra. E mi sembra che l’universalità della liturgia sia essenziale”.

Le ultime righe sono fondamentali: nel pensiero costante del Papa, la liturgia è data dall’alto. Poi certo, questo dono passa attraverso mediazioni umane (ciò che costituisce la Chiesa come comunità profetica), ma rimane tutt’altro che un prodotto umano; e visto il suo carattere di culto pubblico, esso è e deve rimanere universale.



Nel libro “Introduzione allo spirito della liturgia”, p. 17-18, troviamo espresso in modo molto forte lo stesso concetto. Parlando della nascita del culto del popolo di Dio sul Sinai, ma pensando all’oggi, il cardinal Ratzinger scrive: “L’uomo non può «farsi» da sé il proprio culto; egli afferra solo il vuoto, se Dio non si mostra. Quando Mosè dice al faraone: «noi non sappiamo con che cosa servire il Signore» (Es 10,26), nelle sue parole emerge di fatto uno dei principi basilari di tutte le liturgie. […] la vera liturgia presuppone che Dio risponda e mostri come noi possiamo adorarlo. Essa implica una qualche forma di istituzione. Essa non può trarre origine dalla nostra fantasia, dalla nostra creatività, altrimenti rimarrebbe un grido nel buio o una semplice autoconferma”. Questo carattere non arbitrario del culto emerge per contrasto in modo drammatico nell’episodio del vitello d’oro. “Questo culto, guidato dal sommo sacerdote Aronne, non doveva affatto servire un idolo pagano. L’apostasia è più sottile. […] non si riesce a mantenere la fedeltà al Dio invisibile, lontano e misterioso. Lo si fa scendere al proprio livello, riducendolo a categorie di visibilità e comprensibilità. In tal modo il culto non è più un salire verso di lui, ma un abbassamento di Dio alle nostre dimensioni. […] L’uomo si serve di Dio secondo il proprio bisogno e così si pone in realtà al di sopra di lui. […] Questo culto diventa così una festa che la comunità si fa da sé; celebrandola, la comunità non fa che confermare se stessa. Dall’adorazione di Dio si passa a un cerchio che gira intorno a se stesso […] La storia del vitello d’oro è un monito contro un culto realizzato a propria misura e alla ricerca di se stessi […]. Ma alla fine resta anche la frustrazione, il senso di vuoto. Non c’è più quell’esperienza di liberazione che ha luogo lì dove avviene un vero incontro con il Dio vivente”.



A queste righe impressionanti si può obiettare (come di fatto si è da più parti obiettato): ma la comprensibilità della liturgia non è un valore positivo? Se essa è “segno”, il segno non deve necessariamente essere decifrabile dal suo destinatario umano? Nel libro “Il sale della terra”, p. 199, il cardinal Ratzinger risponde: “Nella nostra riforma liturgica c'è la tendenza, a parer mio sbagliata, ad adattare completamente la liturgia al mondo moderno. Essa dovrebbe quindi diventare ancora più breve e da essa dovrebbe essere allontanato tutto ciò che si ritiene incomprensibile; alla fin fine, essa dovrebbe essere tradotta in una lingua ancora più semplice, più «piatta». In questo modo, però, l'essenza della liturgia e la stessa celebrazione liturgica vengono completamente fraintese. Perché in essa non si comprende solo in modo razionale, così come si capisce una conferenza, bensì in modo complesso, partecipando con tutti i sensi e lasciandosi compenetrare da una celebrazione che non è inventata da una qualsiasi commissione di esperti, ma che ci arriva dalla profondità dei millenni e, in definitiva, dall'eternità”. È la condanna del razionalismo teologico, la stessa in fondo che già nel XVI secolo la Chiesa aveva opposto a Lutero: Dio, ragione assoluta, è al di sopra della nostra ragione limitata. E la liturgia, con i suoi simboli sottili, è appunto una delle modalità soprarazionali con cui Dio si comunica all’uomo.



In seguito all’abuso della “creatività” “è andato disperso il proprium liturgico che non deriva da ciò che noi facciamo, ma dal fatto che qui accade Qualcosa che noi tutti insieme non possiamo proprio fare. Nella liturgia opera una forza, un potere che nemmeno la Chiesa tutta intera può conferirsi: ciò che vi si manifesta è lo assolutamente Altro che, attraverso la comunità (che non ne è dunque padrona ma serva, mero strumento) giunge sino a noi" (dal libro-intervista “Rapporto sulla fede”). Continua lo stesso testo: "Per il cattolico, la liturgia è la Patria comune, è la fonte stessa della sua identità: anche per questo deve essere «predeterminata», «imperturbabile», perché attraverso il rito si manifesta la Santità di Dio. Invece, la rivolta contro quella che è stata chiamata «la vecchia rigidità rubricistica», accusata di togliere «creatività», ha coinvolto anche la liturgia nel vortice del «fai-da-te», banalizzandola perché l'ha resa conforme alla nostra mediocre misura”.



Lo sviluppo organico della liturgia


Questo carattere ultramondano della liturgia ne determina due caratteri apparentemente in contrasto fra loro. Da una parte, come si è appena visto, essa è “predeterminata” e “imperturbabile”, sottratta quindi agli arbitri del celebrante della comunità o del celebrante. D’altra parte essa non è fissa in senso assoluto. Come tutte le forme della Chiesa, essa accompagna l’uomo nel suo corso storico; e come mutano le condizioni storiche e culturali dell’uomo, anche essa può mutare, e di fatto è mutata. Ma lo fa in modo “organico”. Il termine è del concilio Vaticano II, che lo introduce normativamente al punto 23 della costituzione Sacrosanctum Concilium: “Non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano organicamente, in qualche maniera, da quelle già esistenti”.

Questo termine significa che la liturgia cresce e si modifica come lo fanno gli organismi vitali, cioè lentamente, senza strappi, e in virtù non di forze esterne ma di un impulso vitale interno (in questo caso rappresentato dallo Spirito Santo). Così come avviene nelle Chiese orientali, e come è sempre avvenuto anche in Occidente fino a tempi recenti, i cambiamenti possono sopraggiungere, ma devono essere interpretabili nel senso della continuità con l’esistente; e il giudizio su di essi non deve soggiacere solo alla Gerarchia: è anche l’uso e l’accettazione dei fedeli che, nei secoli, determina l’accoglimento di una modifica o la soppressione di un’altra.



Quello della “organicità” del cambiamento è per Benedetto XVI l’unico e vero criterio di legittimità liturgica. “La liturgia non è paragonabile a una apparecchiatura tecnica, a qualcosa che si fa, ma a una pianta, a qualcosa, cioè, di organico, che cresce e le cui leggi di crescita determinano le possibilità di un ulteriore sviluppo” (Introduzione allo spirito della liturgia, p. 161). Nel seguito dello stesso testo il Papa si pone il problema del ruolo dello stesso papato nella definizione dello sviluppo liturgico. Il pontefice, osserva, “ha sempre più chiaramente rivendicato anche la legislazione liturgica”. Ma “quanto più fortemente si imponeva questo primato, tanto più emergeva la questione dell’estensione e dei limiti di tale autorità che, certamente, non è mai stata, in quanto tale, oggetto di riflessione. Dopo il concilio Vaticano II si è ingenerata l’impressione che il papa potesse fare qualunque cosa in materia liturgica, soprattutto se agiva su incarico di un concilio ecumenico. È accaduto così che l’idea della liturgia come qualcosa che ci precede e che non può essere «fatta» a proprio arbitrio sia andata ampiamente perduta nella coscienza diffusa dell’Occidente. Difatti, però, il concilio Vaticano I non ha per nulla inteso definire il papa come un monarca assoluto, ma, al contrario, come il garante dell’obbedienza rispetto alla parola tramandata: la sua potestà è legata alla tradizione della fede e questo vale anche nel campo della liturgia. Essa non è «fatta» da funzionari. Anche il papa può solo essere umile servitore del suo giusto sviluppo e della sua permanente integrità e identità”. Questa sorprendente riflessione prosegue comparando l’esperienza dell’Oriente cristiano con quella occidentale, concludendo che “… la via battuta dall’Occidente, con la sua specificità e lo spazio lasciato alla libertà e alla storia, non può essere in nessun modo condannata in blocco. Ma se si abbandonano le intuizioni fondamentali dell’Oriente, che sono le intuizioni fondamentali della Chiesa antica, si giungerebbe davvero alla dissoluzione dei fondamenti dell’identità cristiana. L’autorità del papa non è illimitata; essa sta al servizio della santa tradizione”. Ci sia consentito di osservare che queste fondamentali righe, se prese sul serio da entrambe le parti, sarebbero probabilmente sufficienti al superamento del fossato creatosi fra la Chiesa romana e quelle ortodosse…



Da questi principi fondamentali, Papa Benedetto XVI trae le logiche conclusioni: la liturgia tradizionale, anche dopo l’introduzione del nuovo messale, non è mai stata abrogata in quanto non abrogabile. “Nel corso della sua storia la Chiesa non ha mai abolito o proibito forme ortodosse di liturgia, perché ciò sarebbe estraneo allo spirito stesso della Chiesa” (dalla conferenza "A dieci anni del Motu proprio Ecclesia Dei", 24 ottobre 1998).

Lo stesso concetto è ripreso, come abbiamo visto, anche dal recente Motu proprio “Summorum pontificum”. Ma, al di là delle pur importanti forme giuridiche, è l’atteggiamento stesso verso la liturgia tradizionale a provocare il corruccio del Papa. “Per una retta presa di coscienza in materia liturgica è importante che venga meno l’atteggiamento di sufficienza per la forma liturgica in vigore fino al 1970. Chi oggi sostiene la continuazione di questa liturgia o partecipa direttamente a celebrazioni di questa natura, viene messo all’indice; ogni tolleranza viene meno a questo riguardo. Nella storia non è mai accaduto niente del genere; così è l’intero passato della Chiesa ad essere disprezzato. Come si può confidare nel suo presente se le cose stanno così? Non capisco nemmeno, ad essere franco, perché tanta soggezione, da parte di molti confratelli vescovi, nei confronti di questa intolleranza, che pare essere un tributo obbligato allo spirito dei tempi, e che pare contrastare, senza un motivo comprensibile, il processo di necessaria riconciliazione all’interno della Chiesa”. (Dio e il mondo. Una conversazione con Peter Seewald, p. 380).



Ma il testo più significativo per una valutazione storica della rottura di continuità avvenuta nel 1970 si trova ne “La mia vita: ricordi, 1927-1977”, p. 110. All’atto della pubblicazione del nuovo messale, dice l’allora cardinale, “rimasi sbigottito per il divieto del messale antico, dal momento che una cosa simile non si era mai verificata in tutta la storia della liturgia. Si diede l'impressione che questo fosse del tutto normale”. L’autore prosegue rammentando una possibile obiezione: anche Pio V, esattamente quattro secoli prima, con l’introduzione del suo messale aveva proibito l’uso dei testi precedenti. Ma si trattava di una circostanza completamente diversa: la diffusione della riforma protestante si era insinuata in molti rituali, approfittando del pluralismo liturgico che aveva caratterizzato la Chiesa medievale, “tanto che i confini tra cosa era ancora cattolico e cosa non lo era più, spesso erano ben difficili da definire”.

In questa situazione di emergenza, nell’impossibilità di controllare una per una tutte le innumerevoli varianti locali, Pio V impose di adottare il Messale romano, sicuramente ortodosso, a tutte le chiese locali i cui rituali non potessero vantare una antichità di almeno due secoli. Svariati usi liturgici, come quello mozarabico in Spagna o quello ambrosiano a Milano, rimasero dunque intatti accanto a quello romano. Alcuni riti ortodossi finirono sicuramente vittime di questa prescrizione, ma non intenzionalmente: l’intenzione del papa fu quella di supporre che qualunque rituale nato dopo il 1370 fosse a forte rischio di deviazione dall’ortodossia, e fu in base a questa presupposizione che essi vennero aboliti. “Non si può quindi affatto parlare di un divieto riguardante i messali precedenti e fino a quel momento regolarmente approvati”, prosegue il testo. “Ora, invece, la promulgazione del divieto del messale che si era sviluppato nel corso dei secoli, fin dal tempo dei sacramentali dell'antica Chiesa, ha comportato una rottura nella storia della liturgia, le cui conseguenze potevano solo essere tragiche. Come era già avvenuto molte volte in precedenza, era del tutto ragionevole e pienamente in linea con le disposizioni del Concilio che si arrivasse a una revisione del messale, soprattutto in considerazione dell'introduzione delle lingue nazionali. Ma in quel momento accadde qualcosa di più: si fece a pezzi l'edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con il materiale di cui era fatto l'edificio antico e utilizzando anche i progetti precedenti. Non c'è alcun dubbio che questo nuovo messale comportasse in molte sue parti degli autentici miglioramenti e un reale arricchimento, ma il fatto che esso sia stato presentato come un edificio nuovo, contrapposto a quello che si era formato lungo la storia, che si vietasse quest'ultimo e si facesse in qualche modo apparire la liturgia non più come un processo vitale, ma come un prodotto di erudizione specialistica e di competenza giuridica, ha comportato per noi dei danni estremamente gravi. In questo modo, infatti, si è sviluppata l'impressione che la liturgia sia «fatta», che non sia qualcosa che esiste prima di noi, qualcosa di «donato», ma che dipenda dalle nostre decisioni. Ne segue, di conseguenza, che non si riconosca questa capacità decisionale solo agli specialisti o a un'autorità centrale, ma che, in definitiva, ciascuna «comunità» voglia darsi una propria liturgia. Ma quando la liturgia è qualcosa che ciascuno si fa da sé, allora non ci dona più quella che è la sua vera qualità: l’incontro con il mistero, che non è un nostro prodotto, ma la nostra origine e la sorgente della nostra vita”.



Si scorge in questo lungo testo che il punto fondamentale non è, come si è detto, la natura del nuovo rituale, per sé perfettamente ortodosso, bensì la soppressione (mediante abuso di autorità) di quello tradizionale, cosa che ha generato una artificiale contrapposizione fra un “vecchio” da eliminare frettolosamente e un “nuovo” prodotto a tavolino da una commissione di esperti.



Esiste un’altra obiezione: per alcuni, l’essenza della riforma liturgica sarebbe determinata non tanto dalla rottura della tradizione, ma al contrario dal tentativo di ricondurre il rito a una sua “primitiva purezza”, disincrostandolo dalle aggiunte accumulate nei secoli. Al capitolo nono del citato “Rapporto sulla fede”, l’allora cardinal Ratzinger risponde a tale “archeologismo romantico di certi professori di liturgia, secondo i quali tutto ciò che si è fatto dopo Gregorio Magno sarebbe da eliminare come un'incrostazione, un segno di decadenza. A criterio del rinnovamento liturgico non hanno posto la domanda: «Come deve essere oggi?», ma l'altra: «Come era allora?». Si dimentica che la Chiesa è viva, che la sua liturgia non può essere pietrificata in ciò che si faceva nella città di Roma prima del Medio Evo. In realtà, la Chiesa medievale (o anche, in certi casi, la Chiesa barocca) hanno proceduto a un approfondimento liturgico che occorre vagliare con attenzione prima di eliminare. Dobbiamo rispettare anche qui la legge cattolica della sempre migliore e più profonda conoscenza del patrimonio che ci è stato affidato. Il puro arcaismo non serve, così come non serve la pura modernizzazione”.

continua.............


[Modificato da Caterina63 28/02/2009 23:48]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)