00 24/09/2009 16:37

«Sugli Ebrei: così, serenamente»
Brunero Gherardini

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Mons. Brunero Gherardini è nato a Prato il 10 febbraio 1925 ed è stato ordinato Presbitero il 29 giugno 1948 a Pistoia per la Diocesi di Prato. Dopo un lungo servizio presso la Santa Sede, prima come officiale dell'allora Sacra Congregazione dei Seminari, poi come professore ordinario d'ecclesiologia nella Facoltà Teologica (di cui è stato anche decano) della Pontificia Università Lateranense, è canonico della patriarcale Basilica di S. Pietro, Consultore della Congregazione delle Cause dei Santi e membro della Pontificia Accademia S. Tommaso d'Aquino. È il postulatore della causa di beatificazione del Beato Papa Pio IX. Dal 2000 dirigo la Rivista internazionale "Divinitas".
Autore del libro: Mons. B. Gherardini: Conc.Ecum Vat. II Un discorso da fare (pref. del vescovo Oliveri)





La questione ebraica si riaccende spesso e non di rado divampa, assumendo toni d'intolleranza intimidatoria e ricattatoria, per colpa di qualche cattolico estremista, o dei c.d. gruppi fondamentalisti, ma anche - e più frequentemente di quel che si creda - per colpa degli stessi Ebrei.

Sull'argomento intervengo con la stessa serenità con cui, a suo tempo, presi posizione favorevole alla tesi di R. Martin-Achard(1) circa «l'universalismo» d'Israele(2), e con lo stesso spirito che, ancor prima, da prete novello, m'inclinò verso un'associazione internazionale di preghiere per il mondo ebraico e successivamente verso l'«Amicizia ebraico-cristiana». Spero che tali precedenti allontanino del tutto dalla mia persona il sospetto della prevenzione.

Ovviamente, non intervengo sulla complessità ed i vari aspetti della questione ebraica: non ne ho la competenza, né dispongo dello spazio necessario per un compito di sì vasto respiro. M'auguro pure che nessuno, ragionevolmente dissentendo da quanto sto per dire, veda nella mia posizione un ennesimo rigurgito d'antisemitismo: sarebbe un non-senso, sia perché semitismo ed antisemitismo attengono all'aspetto razziale della questione - al quale mi sento assolutamente estraneo - sia perché l'interesse teologico, l'unico dal quale son mosso, trascende i limiti della razza e perfino della stessa natura: "Non est Judaeus neque Graecus, non est servus neque liber, non est masculus neque femina" (Gal 3,28).

L'aspetto della questione ebraica che desidero metter a fuoco ha due lati: l'uno si ricollega direttamente alla morte di Cristo, l'altro alla continuità/discontinuità tra sinagoga e Chiesa, o meglio tra religione ebraica e Cristianesimo.

- Gli Ebrei e la morte di Cristo -

Da quando il mondo intero poté assistere al film The Passion di Mel Gibson, è passato del tempo: quel tanto ch'era necessario per parlarne liberi dal forte impatto emotivo che la pellicola ebbe sulle coscienze dei vari spettatori. Tra le reazioni più intransigenti, ed in qualche caso anche scomposte, emersero quelle di provenienza ebraica. La ragione di esse discendeva dalla sostanziale aderenza del film ai dati storici del Nuovo Testamento. E poiché codesti medesimi dati collegano la crocefissione di Cristo alla parte in essa sostenuta dagli Ebrei, dal mondo ebraico si sollevarono, e tuttora si sollevano, alte proteste.

Televisioni giornali e riviste di tutto il mondo, a più riprese, ne misero in evidenza i momenti salienti. In uno di questi era visibile in primo piano un cartello con la seguente scritta: The Passion is a lethal Weapon against Jews
(3).

L'impressione, ampiamente confermata da tali reazioni, è che l'Ebreo d'oggi veda un po' in tutti, dovunque ed in tutte le direzioni attacchi letali all'immagine dell'Ebraismo. È poi un fatto innegabile che si è ben al di là dell'impressione dinanzi all'accusa lanciata contro la pellicola di Mel Gibson dall' "Anti-Defamation League" - un organismo operante ormai dal 1913 all'ombra e per iniziativa della potentissima B'nai B'rîth(4). L'accusa si fonda sulla negazione della storicità degli Evangeli, fonte primaria di Mel Gibson, nonché sul presunto ripudio da parte cattolica sia di Nostra aetate, erroneamente definita enciclica, sia della "dottrina papale degli ultimi decenni"(5).

Gravissima è la parte dell'accusa che destituisce gli scritti neotestamentari di validità storica. Ancor più grave è che cattolici più o meno rappresentativi se ne faccian difensori e portavoce. Costoro dimenticano - voglio sperare che non lo faccian di proposito - le conseguenze deleterie che ne deriverebbero sul dogma cattolico in genere, ed in specie sui dogmi dell'incarnazione, della rivelazione e dell'ispirazione biblica(6). Sta di fatto, però, che all'umile confessione si preferisce la deriva del patrimonio dogmatico sopra accennato e con esso, di conseguenza, della stessa fede cattolica. La ragione? Una sola: non urtare la suscettibilità del mondo ebraico.

L'editrice Ancora ha diffuso una Guida alla lettura del film "La Passione secondo Mel Gibson"(7). Nell'introduzione alla quarta parte si legge: "È vero che gli Evangelisti nel raccontare la Passione insistono unilateralmente (il corsivo è mio) sulla responsabilità dei Capi giudaici (c.s.) nella condanna di Gesù e tendono ad assolvere (c.s.) i Romani. Ma la loro posizione risente d'un particolare momento storico. Mentre scrivevano, gli Evangelisti facevano parte d'una comunità che doveva tenersi buoni i dominatori romani, mentre era spesso perseguitata dai Giudei che non vedevano bene l'espandersi della prima comunità cristiana"(8). Un tal modo di ragionare, non privo - e lo si costaterà subito - d'inesattezze storiche in antitesi alla testimonianza delle fonti, è l'eco fedele di quello diffuso ad arte in atmosfera conciliare e postconciliare, al seguito di Nostra aetate. L'ecumenismo parve un'esigenza primaria e divenne un "molok" al quale si sacrificò molto, se non proprio tutto.

Si volle creare e stabilizzare un'atmosfera nuova in vista di più amichevoli rapporti tra Ebraismo e Cristianesimo. Si doveva rimuovere la coltre dei vecchi rancori e dissipar i secolari contrasti, addensatisi subito dopo l'esecuzione capitale di Cristo. A tal fine, una re-interpretazione del testo sacro che ne espungesse o devalorizzasse i riferimenti antigiudaici, parve un'urgenza senz'alternative. Ricordo bene come s'espresse a tale riguardo il card. J. Willebrands - ormai "alla verità", come si dice in Toscana dei defunti - nella sua veste di responsabile dell'organismo vaticano per la riunificazione dei cristiani: andando ben oltre la delimitazione "cristiana" del suo compito istituzionale, s'improvvisò storico ed esegeta biblico, confondendo antisemitismo e giudizio critico nei riguardi d'Israele. Il 14 marzo del 1985, infatti, a Oxford, nel quadro d'un incontro ecumenico, indicò com'espressione della reazione cristiana all'ostilità degli Ebrei contro Cristo e la sua Chiesa le parole del Nuovo Testamento che "hanno avuto conseguenze antisemitiche e contribuito ad una visione negativa dei Giudei e del giudaismo"(9).

Una tale esegesi, figlia naturale della Formgeschichtliche Methode e pertanto sostanzialmente avversa alla storicità ed ispirazione dei testi sacri, fu ripresa in tutti gl'incontri tra Ebrei e Cristiani, per dar una spiegazione storicistica ai passaggi neotestamentari non favorevoli agli Ebrei stessi. Identica spiegazione ritroviamo oggi anche negli atti ufficiali del mondo cattolico. Per l'emozione ch'esso suscitò, molti - immagino - hanno ancora presente il documento Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoa, del 16.03.2005. Il par. 3 di esso è frutto della suddetta esegesi, la quale affiora pure nel par. 5. Vi si leggono, infatti, parole eversive insieme della storia e dei racconti evangelici: "Gruppi esagitati di Cristiani... assalivano... le sinagoghe, non senza subire l'influsso di certe erronee interpretazioni del Nuovo Testamento concernenti il popolo ebraico nel suo insieme... Tali interpretazioni... (che) son circolate per troppo tempo, generando sentimenti d'ostilità nei confronti di questo popolo,... sono state totalmente e definitivamente rigettate dal Concilio Vaticano II"(10).

È indiscutibile che, se i primi Cristiani o i loro posteri misero a ferro e fuoco le sinagoghe ebraiche, non son degni di memoria storica che non sia un'aperta condanna. Ma che le interpretazioni di testi, oltretutto d'evidenza cristallina, debban considerarsi "erronee" solo perché ne rilevano il contenuto non molto lusinghiero per il mondo ebraico, è ingiustificabile per più d'una ragione.

Anzitutto, non è affatto vero che l'insistenza sulle responsabilità ebraiche della crocefissione di Cristo sia da attribuire "unilateralmente" agli Evangelisti. Chiunque lo sostenga, o è prevenuto o non è informato. Anche un modesto cultore di storia e di filosofia conosce Rabbi Moses Ben Maimon (o Maimonide, 1135-1204), il più rinomato pensatore giudaico del Medioevo, studioso e commentatore accurato del Talmúd(11). E proprio Maimonide, cioè un ebreo (e quale ebreo!) dichiarò apertamente che "gli Ebrei ebbero davvero un ruolo determinante nella morte di Gesù e che ne avevano tutte le ragioni"(12). Son le ragioni che si leggono nel Talmúd, un commento ufficiale, nella sua definitiva configurazione verificatasi attorno al 500 d.C., della Legge mosaica(13); più esattamente, un commento che "si occupa degli innumerevoli aspetti della legge ebraica, ma lascia aperte le conclusioni mandatórie... È in se stesso un rituale, un'opera di sacro intellettualismo"(14). E come tale, della condanna a morte di Cristo ad opera dei capi d'Israele dà la seguente giustificazione, poi ripresa da Rabbi Maimonide: "praticò magia, seduzione e corruzione corruziones"(15).

Non sussiste alcun dubbio, in effetti, sul fatto che le fonti del pensiero ebraico e le sue ufficiali spiegazioni, cioè la Mishnah ed il Talmúd, riconoscono pienamente legittima la condanna a morte di Cristo, in base ai "suoi crimini" d'empietà e di magia; e riconoscono pure inevitabile che, per tali crimini, i capi pronunciassero la detta condanna. Oggi lo rileva anche, con estrema correttezza, D. Klinghoffer, uno scrittore ebreo al di sopra d'ogni sospetto(16).

Chi, pertanto, ha definito "unilaterale" il racconto evangelico che addebita ai capi ebraici la morte in croce di Cristo, rinnega la storia e - ne son certo, in buona fede - accredita il falso.

Chi poi limita codesto addebito ai soli capi, cade in una seconda inesattezza. È vero, infatti, che la responsabilità dell'uccisione di Cristo ricade in buona parte sulla coscienza dei capi d'Israele. È vero, cioè, che "principes sacerdotum et omne consilium quaerebant falsum testimonium contra Jesum" (Mt 26,29; cf 27,1) e che, in una spasmodica ricerca dei capi d'accusa, sobillavano accanitamente la plebaglia contro Gesù e subornavano le autorità romane. Quando poi fu posta l'alternativa tra Gesù e Barabba, "principes sacerdotum et seniores persuaderunt populis ut peterent Barabbam, Jesum vero perderent" (Mt 27,20).

Che dunque "principes sacerdotum et seniores - et omne consilium" - abbian la propria parte di responsabilità e non certo l'ultima, nessuno può onestamente negarlo. Ma non si può negare nemmeno che i capi non furon gli unici responsabili. Ad un certo punto, l'intera popolazione insorse. In realtà, venuto il momento cruciale, s'assiste al coinvolgimento di "tutti" in una responsabilità comune. Gesù, colui ch'era passato in mezzo ai contemporanei facendo del bene a tutti (Act 10,38), viene ora sputacchiato schiaffeggiato deriso flagellato e coronato di spine; lo spettacolo è toccante e potrebbe indurre non pochi alla resipiscenza.

Se non che, mentre "pontifices et ministri clamabant, dicentes: Crucifige, crucifige eum" (Gv 19,6), si leva pure il grido della folla sobillata: "Omnes dicunt: crucifigatur" (Mt 27,22). Quel grido si fa presto parossistico: non questa o quella persona, ma "universus populus dixit: Sanguis eius super nos et super filios nostros" (Mt 27,25)
(17).

È un grido d'una drammaticità sconvolgente. I benefici ricevuti e l'esaltazione del trionfale ingresso in Gerusalemme son di punto in bianco cancellati. La folla non ha più fame e sete della Parola di Dio, né dei miracoli che Dio aveva tante volte operato attraverso Cristo, e non ricorda più d'essere stata anche recentemente da Lui sfamata: improvvisamente ciecamente satanicamente ne invoca la morte ed auspica di venir presto irrorata, insieme con i propri figli, dal sangue di Lui.

Il quadro è d'una trasparenza indiscutibile. Nessuno, perciò, può sentirsi autorizzato a modificarlo tanto nella sostanza, quanto nei particolari. Nessuno, cioè, può parlare d'unilateralità degli Evangeli nel sottolineare le responsabilità giudaiche della morte di Cristo, per la semplice ragione che gli Evangeli si limitano a registrare la notizia di tali responsabilità, comuni ai capi e all'intero popolo ebraico.

C'è una terza inesattezza, al seguito delle precedenti: quella degli Evangeli che scaricano sul mondo ebraico il peso morale dell'esecuzione mortale di Cristo, per metter un velo sulla parte che vi ebbero i Romani. La giustificazione addotta è veramente puerile offensiva ed ingiusta, riguardando uomini,che, intrepidi e a testa alta, "ibant gaudentes...quoniam digni habiti sunt pro nomine Jesu contumeliam pati" (Act 5,41). L'accennata giustificazione concerne un non confessato tentativo di tener buono l'invasore Romano per non urtarne la suscettibilità, come a dire, un accarezzar il lupo per il verso del pelo. Che all'alba del Cristianesimo ci siano stati dei "lapsi" perché incapaci di fronteggiare la prospettiva del martirio, si sa e non è uno scandalo: anche i primi cristiani erano degli uomini e non tutti gli uomini son degli eroi. Ma che gli agiografi neotestamentari, tutti testimoni di Cristo fin allo spargimento del proprio sangue, abbian tentato d'ammansire la giustizia romana, potrebb'esser sostenuto soltanto in base a sicuri documenti. Ci sono? Dove? Quali? È evidente che quando la storia vien ricostruita non quale ci fu consegnata dalle fonti, ma quale si vorrebbe che le fonti ci consegnassero, alla fantasia ed alla prevenzione non ci son limiti.

2 - I testi incriminati

- Innanzi tutto li passerò in rassegna; quindi tenterò di coglierne il senso genuino.

Si tratta dei testi riguardanti le premesse della sentenza capitale a carico di Gesù, nonché la sua esecuzione. Nel prenderli in esame, specie là dove si disponga di testi paralleli, sceglierò l'una o l'altra redazione, non senza segnalarne tutto il contesto per la completezza dell'informazione. Ecco, dunque, i testi relativi alle premesse.

Inizio da Mt 22,15: "Pharisaei consilium inierunt ut caperent eum (Jesum) in sermone". Altrettanto, ma non senza qualche piccola variante, si legge in Mc 12,12; in Lc 20,20; in Gv 8,6. Dal punto di vista letterario, la formula indicante il riunirsi dei capi ebraici con lo scopo di discutere la colpevolezza di Cristo e di condannarlo, compare non una volta sola. E chiarissimo è il suo senso. La predicazione di Gesù, ora direttamente ora indirettamente, aveva colpito in pieno petto specialmente i Farisei. Questi, che non eran certamente degli stupidi, s'eran resi conto d'esser il bersaglio preferito del biondo Rabbi Nazareno e per tale motivo corsero ai ripari: un pretesto, colto dalle sue stesse labbra, per accusarlo. Oltretutto, non era la prima volta che si comportavan in tal modo; Mc 3,6 lo documenta chiaramente, e s'era appena agl'inizi della vita pubblica di Gesù: "Pharisaei statim cum Herodianis consilium faciebant adversus eum quomodo eum perderent". La conferma viene da Mt 12,14: "consilium faciebant adversus eum, quomodo perderent eum".

Persistendo nel loro atteggiamento inquisitorio e preoccupati del fatto che Gesù avesse ridotto al silenzio i Sadducei in tema di risurrezione (Mt 22,23-33; Mc 12,18-27; Lc 20,27-40; Act 23,6.8), continuarono ad interrogarlo mediante un loro legisperito, alla ricerca d'un pretesto accusatorio (Mt 22,34-36; Mc 12,28-31; Lc 20,25-28). Dal canto suo, Gesù dava l'impressione, con disinvolta e coraggiosa parrhesìa, di voler offrire lui stesso il desiderato pretesto: prima infatti invitò le turbe a metter in pratica l'insegnamento degli Scribi e dei Farisei (Mt 23,3: "Omnia quaecumque dixerint vobis, servate et facite"), ma subito aggiunse: "Secundum opera vero eorum, nolite facere": non seguitene l'esempio, non l'incoerenza tra il dire ed il fare, non l'ambizione e l'ipocrisia, non la cecità spirituale, le rapine, le immondezze, le persecuzioni contro i profeti e la loro soppressione (Mt 23,4-39, e numerosi passi paralleli). Le posizioni vennero così ribaltate: l'accusato si fece freddo e deciso accusatore.

Il tramare nell'ombra, però, continuava. Mt 26,3 lo documenta: "Tunc congregati sunt principes sacerdotum et seniores populi in atrium principis sacerdotum, qui dicebatur Caiphas; et consilium fecerunt ut Jesum dolo tenerent et occiderent. Dicebant: non in die festo, ne forte tumultus fieret in populo" (Mc 14,1.2; Lc 22,1.2; 20,18).

Da rilevare quel "dolo" del testo mattaico: in esso son riconoscibili i tratti della cospirazione, poi esaltati dal tradimento: un apostolo mercanteggia il Maestro con i principi dei sacerdoti e pattuisce le modalità della consegna, presto esattamente rispettate (Mt 26,14-16; Mc 14,10.11; Lc 22,3-6). Da rilevar pure quanto sia insistente e reiterata l'indicazione dei capi ebraici: l'attenzione è tutta proiettata verso il loro comportamento. Che, peraltro, in qualche caso sa anche dissimularsi. Quando, nel Tempio, Gesù rivendica l'origine divina della sua dottrina, chiede ai Giudei: "quid me quaeritis interficere"? Essi gli danno dell'indemoniato ed osservano: "quis te quaerit interficere"? (Gv 7,20) E rinnoveranno l'accusa d'indemoniato anche in seguito (Gv 8,48.52; 10,20).

Da Mt 26,57-58 si vien a sapere che, arrestato Gesù, la turba lo condusse da Caifa "principem sacerdotum, ubi Scribae et seniores convenerant". Ciò significa che il collegio giudicante s'era ufficialmente ed istituzionalmente riunito. Mancando però l'oggetto del giudizio, "quaerebant falsum testimonium contra Jesum, ut eum morti traderent" (Mt 26,59). Lo scopo ch'era stato ripetutamente dichiarato, fu ancor una volta la molla dalla quale le trame dei capi venivan mosse: si voleva la morte di Cristo. A tal fine, anche due soli falsi testimoni eran più che sufficienti (Mt 26, 61). La seduta si chiuse con una scena drammatica: dopo che Cristo s'era autoproclamato Figlio di Dio, "princeps sacerdotum scidit vestimenta sua, dicens: blasphemavit; quid adhuc egemus testibus? ...audistis blasphemiam: quid vobis videtur? At illi respondentes dixerunt: reus est mortis" (Mt 26,65-66; Mc 14,52ì3-72; Lc 22,54-71; Gc 18,12-27). Non si trattò affatto d'una farsa. Per la mentalità ebraica e per la Legge, Gesù, proclamandosi Dio, era davvero un bestemmiatore meritevole della pena capitale. II tribunale poté solo trarne le conseguenze.

Il cap. 27 di Mt s'apre portando nuovamente in primo piano "principes sacerdotum et seniores populi adversus Jesum, ut eum morti traderent" (Mt 27,1; Lc 22, 66; Gv 18,28). D'improvviso, però, il tribunale ebraico - quel medesimo tribunale che in Gv 19,7 rivendicherà l'urgenza della Legge, sentenziando: "nos legem habemus et secundum legem debet mori" - riversò sul tribunale romano la responsabilità della sentenza: "Et vinctum adduxerunt eum et tradiderunt Pontio Pilato praesidi" (Mt 27, 2; Lc 23,1; Gv 18,31-32). II tribunale romano, sensibile alla ragion di stato quanto gli Ebrei alla bestemmia, iniziò la sua indagine. Chiese, per bocca del suo presidente, se Gesù fosse re, ponendolo sotto il fuoco incrociato dell'accusa di cui i capi l'imputavano (Gv 10,33: "quia tu, homo cum sis, facis teipsum Deum") e della domanda che Pilato, geloso custode della sovranità romana, gli rivolgeva (Lc 23,3: "Tu es rex Judaeorum"? Gv 19,37) 1 capi, intanto, e la turba dai medesimi sobillata gridavano: "Qui se regem facit, contradicit Caesari!...non habemus regem, nisi Caesarem" (Gv 19,12.15). E Gesù, dopo un pacato "tu dicis" in risposta affermativa alla domanda di Pilato sulla sua regalità, né a lui, né alle grida provocatorie della folla aggiunse una parola. L'attesta Mt 27,14: "Non respondit ei (Pilato) ad ullum verbum"; poco sopra leggiamo: "Et cum accusaretur a principibus sacerdotum et senioribus, nihil respondit" (Mt 27,12).

Non ci volle molto perché Pilato si convincesse dell'innocenza di Gesù, com'egli dichiara apertamente in Gv 18,38 (19,4; Lc 23,22): "Causam (mortis) invenio in eo nullam". Evidenti furon pure i suoi tentativi di liberarlo. Quando però s'accorse della loro inutilità e del tumulto che andava crescendo, "lavit manus coram populo, dicens: innocens ego sum a sanguine iusti huius; vos videritis". In quel momento la folla invocò il sangue di Cristo su di sé ed i propri figli (Mt 27,24-25; 23,35; Act 5,38).

Forse, in Pilato prevalse anche il timore che un'eventuale liberazione di Cristo mettesse in dubbio la sua fedeltà a Cesare; ed alla folla che proprio questo gli rinfacciava, cedette rassegnato. Fece quindi fustigare Gesù e lo consegnò poi nelle mani dei capi e della folla stessa, perché secondo la loro Legge lo mettessero in croce (Mt 27,25-26; Gv 19,15-16).

E così fu.

Dopo il racconto della crocefissione, ha inizio un secondo gruppo di passi neotestamentari, dei quali qualche cenno, a puro titolo esemplificativo, ho anticipato nella parte iniziale di questo scritto: sono quelli riguardanti, direttamente o no, la parte avuta dagli Ebrei nella morte di Gesù.

Appena cominciaron a diffondersi i primi indizi della sua risurrezione, l'insieme del mondo ebraico unitamente ai suoi capi ritornò in primo piano. Alla scoperta del sepolcro vuoto, "quidam de custodibus venerunt in civitatem et nunciaverunt principibus sacerdotum omnia quae facta fuerant" (Mt 28,11). L'Evangelista mette subito in evidenza la doppiezza di quei capi, i quali, per non piegarsi né all'evidenza del sepolcro vuoto, né al racconto delle pie donne che giuravano d'aver visto il Risorto e parlato con Lui, inventarono la storiella del trafugamento del cadavere: "Dicite quia discipuli eius nocte venerunt et furati sunt eum, nobis dormientibus" (Mt 28,12-13). La loro falsità è resa più grave dal denaro ("pecuniam copiosam") con cui la sostennero e dall'apparente zelo con cui richiesero a Pilato una sorveglianza speciale "ne forte veniant discipuli eius et furentur eum" (Mt 27,64). Raffinata doppiezza, che passerà poi emblematicamente nel nome stesso di Fariseo.

Una circostanza fa riflettere. In Gv 7,13 s'avverte l'atmosfera che già prima dell'esecuzione capitale di Cristo s'era largamente diffusa: "Nemo palam loquebatur de illo propter metum Judaeorum". Questo medesimo timore, ad esecuzione compiuta, imprigionò i discepoli nel cenacolo, che i medesimi sprangarono accuratamente sempre "propter metum Judaeorum" (Gv 20,19). Evidentemente, le reticenti esigenze del dialogo eran ancora di là da venire e la paura che il trattamento usato con Cristo fosse esteso anche ai cristiani, per un verso tenne costoro alla larga dagli Ebrei, per un altro non impedì che la ricostruzione storica fosse fedele alla realtà dei fatti.

Nello sbarrato cenacolo, dunque, s'eran nascosti i Dodici, unitamente a Maria e alle pie donne, "perseverantes unanimiter in oratione" (Act 1,14). In occasione della Pentecoste successiva alla morte e risurrezione di Gesù, ripieni di Spirito Santo usciron all'aperto. In Gerusalemme, con gli Ebrei c'eran "viri religiosi ex omni natione quae sub caelo est" (Act 2,5); essi avevano ascoltato gli Apostoli ciascuno nella propria lingua (Act 2,8). Rivolto direttamente agli Ebrei, Pietro non nascose la verità dei fatti dietro parole di comodo; fu perentorio: "Jesum Nazarenum...per manus iniquorum affligentes, interemistis" (2,22.23). Con la consapevolezza del testimone oculare, continuò: "Hunc Jesum resuscitavit Deus, cuius omnes nos testes sumus...certissime sciat ergo omnis domus Israel, quia Dominum eum et Christum fecit Deus, hunc Jesum, quem vos crucifixistis" (Act 2,29.32.36).

Contrariamente a quanto oggi avviene, i destinatari delle parole di Pietro né le rifiutarono, né s'inalberarono, ma umilmente chiesero che cosa dovessero fare: fu un implicito riconoscimento delle proprie responsabilità. "Poenitentiam agite - rispose subito Pietro - et baptizetur unusquisque vestrum in nomine Jesu Christi in remissionem peccatorum vestrorum: et accipietis donum Spiritus Sancti. Vobis enim est repromissio, et filiis vestris, et omnibus qui longe sunt, quoscumque advocaverit Dominus Deus noster" Act 2,37-39. Sulla questione della "repromissio" dovrò ritornar in seguito; per ora, sarà sufficiente leggerne attentamente testo e contesto.

Pietro aveva appena risanato lo zoppo che chiedeva l'elemosina presso la Porta Speciosa del Tempio (Act 3,1-10), quando arringò la gente colà riunitasi, dicendo: "Viri Israelitae, ... Deus...glorificavit filium suum Jesum, quem vos tradidistis et negastis ante faciem Pilati, iudicante illo dimitti. Vos autem sanctum et justum negastis et petistis virum homicidam donari vobis : auctorem vero vitae interfecistis, quem Deus suscitavit a mortuis, cuius nos testes sumus...Poenitemini igitur et convertimini, ut deleantur peccata vestra" (Act 3,13-15.19; Mt 27,20.21.22). II giorno dopo, i principi dei sacerdoti, gli anziani del popolo e gli Scribi di Gerusalemme vollero indagare ancora sul miracolo verificatosi presso la Porta Speciosa; sotto l'azione dello Spirito Santo, Pietro fece loro osservare che ciò era avvenuto "in nomine Domini nostri Jesu Christi Nazareni, quem vos crucifixistis, quem Deus suscitavit a mortuis...Hic est lapis qui reprobatus est a vobis aedificantibus" (Act 3,5-11).

Il testo che segue modifica alquanto l'orizzonte, passando dall'incriminazione degl'Israeliti per la morte di Cristo al coinvolgimento di vari responsabili: Erode e Ponzio Pilato, i quali in occasione della condanna di Cristo divennero amici, i Gentili, la popolazione israelitica (Act 427; Lc 23,12). Evidentemente l'enumerazione dei responsabili, anziché toglier il carico di responsabilità dalle spalle d'ognuno, lo sottintende e vi si richiama.

Dopo di che gli Apostoli vennero incarcerati e per intervento divino liberati. I capi ebraici riuniron il tribunale per decider il da farsi e protestarono perché gli Apostoli li consideravan responsabili della morte cruenta di Cristo: "vultis inducere super nos sanguinem hominis istius". Pietro e gli Apostoli, invece, rinnovaron l'accusa: "Deus patrum nostrorum suscitavit Jesum, quem vos interemistis suspendentes in ligno". Dopo l'accusa, il richiamo e l'evangelizzazione: "Hunc principem et salvatorem Deus exaltavit dextera sua ad dandam poenitentiam Israeli et remissionem peccatorum". Ma gli Ebrei non recedevano: "Haec cum audissent, dissecabantur et cogitabant interficere illos...(Apostoli) ibant gaudentes a conspectu concilii, quoniam digni habiti sunt pro nomine Jesu contumeliam pati" (Act 5,17-19.30-33.41-42).

Poco dopo, seguendo il filo narrativo degli Atti degli Apostoli, s'incontra il protomartire Stefano, un intrepido giovane che, al servizio della verità e con la forza di essa, polemizza vigorosamente con gli Ebrei, rievocando le loro responsabilità storiche: "Dura cervice et incircumcisis cordibus et auribus, vos semper Spiritui sancto resistitis, sicut Patres vestri ita et vos. Quem Prophetarum non sunt persecuti Patres vestri"? Il richiamo storico non era fine a se stesso; doveva introdurre l'attenzione dell'uditorio all'ultimo atto di codesta persecuzione, dominato dalla passione e morte di Cristo.

In effetti, "(Patres vestri) occiderunt eos qui praenunciabant de adventu lusti, cuius vos proditores et homicidae fuistis" (Act 7,50-53). Ne seguì non soltanto il martirio di Stefano, ma una "persecutio magna in Ecclesia" (Act 8,2). Gli Ebrei, in effetti, rifiutaron per la prima volta la memoria e la responsabilità della crocefissione di Cristo, disperdendo i cristiani con la speranza che anche il nome e il ricordo di Cristo venissero per sempre dimenticati; ma "qui dispersi erant pertransibant, evangelizantes verbum Dei" (Act 8,4).

Con l'evento sulla via di Damasco, ha poi inizio l'epopea di Paolo.

Rispetto a quello di Pietro, egli formula un kerygma diverso: non più direttamente rivolto ai correligionari ebraici, bensì ai pagani. Cambia il modo di presentare Cristo, non Cristo, non la sua storia, non la sua verità. Pietro, tuttavia, non scompare dalla scena degli Atti. Lo si ritrova presto accanto al Centurione Cornelio, ai suoi parenti ed amici, nell'atto d'evangelizzar loro Gesù e di render testimonianza "omnium quae fecit in regione Judaeorum et Jerusalem, quem occiderunt suspendentes in ligno" (Act 10,39). È una costante: il solo evocare gli Ebrei richiama alla mente dell'Apostolo la responsabilità da loro contratta nel mandar a morte il Signore.

Il pensiero di Paolo è più sfumato, ma sostanzialmente non diverso. Ad Antiochia di Pisidia, tuttavia, le sue parole son chiare: "Nullam causam mortis invenientes in eo, petierunt Pilato ut interficeret eum" (At 13,28). È vero che nel suo epistolario Paolo addita nei nostri peccati la causa proporzionata della morte di Cristo (1 Cor 15,2; Rm 4,25; 5,8.9.10) e mette in risalto lo spirito oblativo di Lui (Ef 5,2.25) nel darsi volontariamente e per puro amore alla morte:"Tradidit semetipsum pro nobis oblationem et hostiam Deo in odorem suavitatis.... dilexit Ecclesiam et seipsum tradidit pro ea"(Ef 5,2.25); "Dilexit me et tradidit semetipsum pro me" (Gal 2,20).

È vero pure che in Rm 8,32 Paolo collega direttamente la morte del Signore alla volontà del Padre "qui etiam proprio Filio suo non pepercit, sed pro nobis omnibus tradidit illum". Tuttavia, per esser egli stesso israelita e della fazione farisaica, conosceva bene come fossero andate le cose. E se questo "come" non è esplicitamente denunziato nel suo epistolario, non significa che abbia voluto dissociarne i suoi ex-correligionari. Lo descrive anzi in una cornice prettamente ebraica: una condanna a morte, inflitta "fuori dalla porta" della città santa (Ebr 13,12), in piena aderenza alle disposizioni della Legge, ad un condannato che per ciò stesso, cioè per la croce, era da Dio maledetto e rinnegato dal suo popolo (Gal 3,13).

C'è poi un'altra ragione per la quale c'è reticenza sulle responsabilità del popolo ebraico: quella croce, che nel paganesimo contrassegnava d'infamia uno schiavo criminale e nell'ebraismo sommergeva nell'ignominia il delinquente, in Paolo diventa lo strumento d'una redenzione cosmica. Gli "arconti" o principi di questo mondo, identificabili nelle potenze angeliche (Ef 1,21; Col. 1,16) che provvedono all'ordine sociale al cui mantenimento è preposto Pilato per i Romani e il sinedrio per gli Ebrei, se avessero conosciuto la sapienza di Dio, che non è umana sapienza, ma il piano eterno della salvezza universale, "numquam Dominum gloriae crucifixissent" (1 Cor 2,6-8).


CONTINUA.........................

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)