00 24/09/2009 16:44

3 - Interpretazione dei suddetti testi -

Per non incorrere nel pericolo d'interpretazioni soggettive ai danni della Sacra Scrittura che, proprio perché tale e come tale affidata alla Chiesa, sfugge nettamente ai limiti del soggetto, m'affido ai criteri più volte determinati dal Magistero ecclesiastico, nonché alla sua dottrina. Ciò non comporta un'adesione indiscussa a tutto quanto si legge nella Dei Verbum del Vaticano II, sia perché ciò che di dogmatico il Vaticano II espose, appartiene per sua stessa confessione al magistero precedente, sia perché alcune novità della Dei Verbum lascian alquanto insoddisfatti. Essa, pur senza dichiararlo esplicitamente, rinunzia di fatto alla dottrina classica dell'assoluta inerranza biblica e limita l'inerranza stessa alla sola "verità salutare"
(18).

Se si pensa che l'inerranza assoluta della Sacra Scrittura non è soltanto una tra le varie premesse d'ogni lavoro esegetico, ma è anche una verità della fede cattolica, a più riprese almeno implicitamente confermata dal Magistero ecclesiastico e dalla tradizione scolastica
(19), s'intravede per quale motivo abbia poco sopra definito non soddisfacenti alcune novità della Dei Verbum; esse suscitano - a dir il vero - non poche perplessità. Per uscire dalle quali, sarà bene che l'esegeta cattolico si lasci guidare dai capisaldi del Magistero, in special modo dalla "Providentissimus Deus" di Leone XIII e dalla "Divino afflante Spiritu" di Pio XII: l'una infatti stabilisce un'esatta nozione d'ispirazione biblica, nozione che chiamerei teologica in quanto ripugna alla dissociazione della fede dall'ispirazione stessa e dall'inerranza; l'altra mette in evidenza e richiama la varietà dei generi letterari presenti nella Scrittura, le regole per la loro interpretazione ed il senso letterale che ne discende(20).

La tendenza odierna è, invece, per il superamento dei due accennati capisaldi, dando, proprio per questo, la fondata impressione di staccarsi direttamente dall'ambito autenticamente cattolico. Si tratta d'un ambito determinato non da scelte soggettive, ma dalla fedeltà alla linea segnalata dal Magistero.

A tale linea è certamente fedele il Vaticano II, specie con la sua formulazione d'un criterio indiscutibile: "in lumine fidei - sub Ecclesiae Magisterii ductu"
(21). Questo, e non la tendenza sopra accennata, sarà dunque anche il mio criterio.

Prima però di riprender il discorso sul significato dei passi neotestamentari riguardanti il mondo ebraico, mi permetto - per i non addetti ai lavori - qualche parola sui sensi biblici. Anzitutto, due son quelli relativi a tutta la Scrittura in quanto umano-divina: il senso letterale e quello tipico. Padri, Dottori, Sommi Pontefici e tutti gli Autori classici invitano alla ricerca del senso letterale attraverso testo-contesto-passi paralleli-scienze ausiliarie, come quello che maggiormente chiarisce il pensiero d'un determinato passaggio. Il senso tipico è quello dell'Antico Testamento che allude al Nuovo e lo prepara. Fondamentale per determinare con chiarezza l'intenzione divina, quale fu percepita dall'agiografo sotto ispirazione, è il senso letterale in tutte le sue forme e figure stilistiche (metafore, parabole, allegorie, simboli); non appartengono, ovviamente, ad esso il c.d. senso accomodatizio - vi ricorre talvolta la Liturgia - nonché i non-sensi ed i controsensi, in quanto offensivi della verità rivelata(22).

La conseguenza da trarre è che anche i passi del Nuovo Testamento non favorevoli al mondo ebraico debbano esser interpretati in senso letterale: la qual cosa comporta un'interpretazione delle parole secondo il loro valore, stabilito o ricuperato:

a. attraverso l'esame interno del testo e del suo contesto;

b. attraverso la filologia, la semantica, la storia, l'archeologia, l'orientalistica, cioè con l'ausilio di tutte le scienze ausiliarie,

c. ferma però restando la base dogmatico-teologica d'ogni interpretazione neotestamentaria, cioè l'origine apostolica e la storicità dei quattro Evangeli.

Alla luce di ciò, è a dir poco strano il modo sbrigativo e solo apparentemente storico-scientifico di chi, dinanzi al ripetuto "quem vos crucifixistis, vos interemistis", se n'esce con la trovata d'una mentalità antiebraica che avrebbe contraddistinto i primi cristiani, e non è nemmeno sfiorato dall'evidenza d'un testo, dal quale trasuda la mentalità anticristiana che portò alla crocefissione di Cristo. Del resto, tutt'era stato previsto dallo stesso Gesù: "...Filius hominis tradetur principibus sacerdotum et Scribis, et condemnabunt eum morte, et tradent eum Gentibus ad illudendum et fagellandum- et crucifigendum" (Mt 20,18-19).

I responsabili della crocefissione son qui segnalati ancor prima ch'essa venga messa in atto:

1. i grandi sacerdoti e gli Scribi, cioè i capi del popolo ebraico, il quale consegnerà loro Gesù perché venga condannato a morte;

2. i Gentili, vale a dire il rappresentante dell'impero romano, Pilato, ed i suoi soldati.

Sulla diversa colpevolezza di questi due gruppi, è ancora Gesù a far luce: "Qui me tradidit tibi - dice a Pilato - maius peccatum habet" (Gv 19,11). Ora, dal racconto evangelico emergono, senza possibilità d'errore, i responsabili di codesta consegna: Caifa e tutte le autorità ebraiche, sostenute dalla folla esacerbata (Gv 11,49-53; 18,14), nonché Giuda iscariota, che di fatto eseguì la consegna (Gv 18,2.5; cf 6,71; 13,2.11.21)(23).

Analizzando, dunque, i contesti, se ne deduce che, seppur condivisa con quella d'altri soggetti (Giuda ed i Romani)(24), la responsabilità degli Ebrei è fuori discussione: non solo "i grandi sacerdoti e gli anziani persuasero il popolo a chiedere (la salvezza di) Barabba e la morte di Gesù" (Mt 27,20), ma la folla stessa, qui chiamata "popolo-Xaòg", urla che "il sangue di Lui ricada su di noi ed i nostri figli" (Mt 27,25)(25). E quando Pilato "se ne lava le mani" e si dichiara "innocente" del sangue di Cristo, rimette ogni decisione alla discrezione degli Ebrei: "Pensateci voi" (Mt 27,24). Il loro verdetto è allora "Crucifigatur"(Mt 27,23)!

L'interpretazione letterale, attenta a tutte le sfumature del testo e del suo contesto immediato e remoto, non può esser altro che univoca: la responsabilità ebraica della crocefissione non è certo inferiore rispetto a quella romana ed a quella personale di Giuda.

Ciò nonostante, specie dopo che Nostra aetate rifiutò formalmente l'espressione "popolo deicida" e l'accusa di deicidio contro il popolo ebraico, s'è assistito alle grandi manovre per attenuar o addirittura negare le gravi responsabilità di questo popolo.
Come se il quarto Evangelista fosse il solo ad insistere sulle dette responsabilità, s'è preteso di vedere il racconto del quarto evangelista nell'ottica delle sue categorie spirituali e di leggerlo quindi secondo i suggerimenti del senso tipico. Ed un primo suggerimento sarebbe quello di veder simboli e sensi traslati in tutto quello che riguarda le responsabilità ebraiche della crocefissione di Cristo26. Cioè, in pratica una destoricizzazione del testo, con un benservito se non all'origine apostolica dell'intero messaggio neotestamentario, almeno alla storicità di quella parte del quarto Evangelo che riguarda il popolo ebraico ed i suoi capi nel decidere l'esecuzione capitale di Cristo. Come se, quanto a storicità e senso letterale, non si disponesse dell'evidenza critica nei Sinottici e negli Atti, e ciò non trovasse conferma anche nell'epistolario paolino.

È possibile, pertanto, cioè tenendo presenti i testi "incriminati" ed i criteri esegetici con cui è doveroso interpretar il Libro Sacro, pervenire ad ineludibili conclusioni. I fatti son noti: dopo l'ultima Cena, durante la quale Cristo suggella con il suo Sangue, sacramentalmente reso presente e disponibile, l'Alleanza nuova predetta dai profeti (Mt 26,26-28; 1Cr 11,23-25), si sottopone alla tremenda notte della sua agonia nell'Orto degli Olivi (Gv 18,1-27 e luoghi paralleli). Qui vien arrestato dalle orde scomposte di Giuda, il traditore prezzólato dai capi ebraici. In quella medesima notte, sul far dell'alba, si riunisce ufficialmente il Sinedrio e condanna Gesù come bestemmiatore; s'era infatti autoproclamato Figlio di Dio (Mt 26,63-66; Gv 10,33; Act 7,56).

La condanna è formalmente ineccepibile: una volta stabilita la veridicità dell'accusa, la condanna diventava un adempimento dovuto. Poiché Pilato, al quale spettava il diritto di vita e di morte, poteva rimaner poco convinto da un delitto di "lesa maestà divina" - e di fatto se ne uscì con un "vedetevela voi" (Mt 27,24) per trarsi fuori dalle strettoie del discorso teologico o semplicemente religioso -, il Sinedrio, con abilità luciferina, portò l'attenzione del procuratore romano sul piano politico, insinuando a carico di Gesù la colpa di "lesa maestà imperiale" (Lc 23,2). Vista insufficiente anche codesta insinuazione, l'attenzione fu concentrata sulla vera ed unica causale: Gesù è un bestemmiatore, soggetto come tale al giudizio del supremo tribunale ebraico, che Pilato, secondo la legge romana, deve rigorosamente rispettare.

Se non che Pilato non solo non riconosce alcuna colpevolezza in Gesù, ma, al contrario, si convince sempre più della sua innocenza e cerca di salvarlo. Giuridicamente parlando, il suo comportamento non è affatto esemplare: rimette Gesù al giudizio di Erode, poi ne propone l'alternativa con il malfattore Barabba, infine pensa di placare l'odio giudaico contro l'innocente decretandone la flagellazione. Il Sinedrio e la plebaglia né s'accontentano né demordono. Pilato, allora, ancor meno correttamente, fa propria la condanna già formulata dalle autorità ebraiche (Mt 27,24-25), ma se ne lava le mani.

Sempre dal punto di vista giuridico, non han rilevanza gli strani prodigi che accompagnano la crocefissione di, Cristo e scuotono non poche coscienze (Mt 27,51-54). L'ha tutta, invece, il fatto che, alle tre del pomeriggio del venerdì dopo l'ultima Cena, in mezzo a due ladroni, "lesus... iterum clamans voce magna, emisit spiritum" (Mt 27,50).

La condanna e l'esecuzione, basate sull'accusa di "blasphemia", portano una chiara impronta di provenienza ebraica. Nostra aetate 41f tenta però di sollevar il popolo ebraico da ogni responsabilità. Vi si legge, sì, un piccolo riconoscimento, introdotto da una proposizione concessiva - "Etsi auctoritates Judaeorum cum suis asseclis mortem Christi urxerunt" - , ma il seguito è tutto a discolpa degli Ebrei: "quae in passione eius perpetrata sunt, nec omnibus indistinte Judaeis tunc viventibus, nec Judaeis hodiernis imputari possunt". La proposizione concessiva, nonostante la sua solida base neotestamentaria, perde quasi tutto il suo valore storico in conseguenza della proposizione principale, che dichiara innocenti gli Ebrei d'allora e di oggi. Seguono anche altre dichiarazioni che riguarderanno il prossimo paragrafo, e che, per il momento, non prendo in esame.

Accennando alla larga base neotestamentaria, mi riferivo ai testi sopra riportati ed esaminati. Nessuno poteva, né può ignorarli; nemmeno il decreto conciliare Nostra aetate. Esso, però, volle indebolirne o negarne la forza testimoniale. Da qui la distinzione tra gli Ebrei d'allora e quelli d'oggi, tutti ugualmente discolpati. C'è qui un'incongruenza neanche troppo latente: se "auctoritates" sintetizza le espressioni neotestamentarie già incontrate, come "principes sacerdotum et seniores populi", chi se non il popolo è sottinteso in "cum suis asseclis"? E vero che, solo in regime democratico, dietro la sentenza d'un tribunale c'è tutto il popolo, in nome del quale quel tribunale opera; ma il popolo non è affatto assente neanche nell'operato del tribunale teocratico d'Israele che condanna Gesù per bestemmia. Le autorità stesse, infatti, s'appellano al popolo, lo interrogano, lo sobillano, lo coinvolgono nell'uccisione di Cristo e ne precostituiscono le gravissime responsabilità storiche. Pertanto, la distinzione tra gli Ebrei d'ieri e quelli d'oggi avrebbe un senso, se alludesse agli Ebrei che allora rifiutarono Cristo e quelli che oggi l'hanno riconosciuto e lo confessano. Non c'è senso, invece, nell'aver fatto d'ogni erba un fascio.

Più grave ancora è il tentativo, in atto prima e dopo il decreto conciliare, di non riconoscere realtà di popolo alla massa che grida sulla piazza contro Cristo. Poche centinaia, si dice, non sono il popolo, non lo rappresentano, non ne esprimono la volontà27. Come se il popolo ,fosse la somma di determinati individui. "Ciò che caratterizza in primo luogo un popolo è la condivisione di vita e di valori, che è fonte di comunione a livello spirituale e morale"28. Quanti durante il processo a Cristo gridavano: "sia crocefisso...il suo sangue scenda su di noi e sui nostri figli", non eran certamente tutti gli Ebrei, ma eran gli Ebrei presenti nella Città santa per la festa di Pasqua, abbarbicati fin a rimanerne accecati ai loro valori di razza e di religione, individuati come Ebrei proprio da codesti valori, in nome dei quali si sgolavano dinanzi al Sinedrio ed a Pilato perché Gesù venisse dichiarato reo di morte. Rivendicando l'osservanza dei detti valori, essi stessi si riconoscono popolo ed agiscono come popolo. E quando Caifa, il sommo pontefice di quell'anno, rimprovera ai suoi colleghi di non aver capito nulla non avendo considerato che "expedit ut unus moriatur homo pro populo (?.aoi)" (Gv 11,50), riconosce realtà di popolo a quanti stanno reclamando l'esecuzione capitale di Cristo.

Nostra aetate 4/f vuole che "Judaei neque ut a Deo reprobati neque ut maledicti exhibeantur". Il discorso è d'estrema delicatezza; lo riprenderò unitamente a quello sul popolo deicida nell'ultimo paragrafo. Per ora mi si permetta di richiamare la connessione di Mt 27,25 con Mt 23,31-39 dove Gesù denuncia le gravi responsabilità storiche delle "guide cieche" d'Israele e ne preannuncia le conseguenze: la crocefissione del Salvatore come ultimo anello delle dette responsabilità e l'abbandono della "vostra casa", chiara allusione a Ger 12,7 (22,5; Ez 10,18-19; 11,22-23) che predice l'allontanarsi di Jahvèh da Gerusalemme.

Per concludere, mi sembra innegabile, alla luce del senso letterale di quei testi sacri che ne costituiscono la fonte storica, quanto segue:

a. il popolo ebraico passò dall'"osanna" al "crucifige" sotto l'azione perversa dei suoi capi;

b. questi infatti tutto fecero pur di mandar ad effetto la loro volontà di "perdere" Gesù;

c. lo fecero come "capi" nel rispetto della Legge e quindi dei valori riguardanti l'intero popolo israelitico, il quale ne assecondò gl'intenti;

d. e rimasero, per questo, i primi - anche se non gli unici - responsabili del drammatico evento.

4 - Il popolo dell'Alleanza -

Nonostante il loro coinvolgimento in esso, Nostra aetate 4/b-c attesta non solo gl'inizi della Chiesa dal popolo ebraico, ma anche la continuità tra l'Alleanza antica e la nuova. Chiama infatti i "Christifideles, Abrahae filios secundum finem", dai quali la Chiesa ebbe la "Revelationem Veteris Testamenti" ed ai quali appartiene, secondo l'Apostolo (Rm 9,4-5) "l'adozione a figli, la gloria ed i patti d'Alleanza, la Legge, il culto e le promesse". Dai figli d'Abramo, cui "appartengono i Padri, nacque Gesù secondo la carne".

Il testo, forse per dir troppo in breve, risulta un po' confuso, ma non inintelligibile. La chiave interpretativa dovrebb'esser la distinzione tra "secondo la fede" e "secondo la carne". L'averla spesso dimenticata ha prodotto giudizi infondati e quindi insostenibili, come quello della continuità tra l'antica e la nuova Alleanza. O come quello degli Ebrei destinatari ancor oggi e detentori delle promesse salvifiche.

"Secondo la carne" si dà indubbiamente una continuità di razza tra gli Ebrei antichi e gli attuali; può considerarsi eccezione, secondo la carne, qualche convertito all'ebraismo appartenente ad altre stirpi. Ma anche costui ha diritto, non "secondo la carne", bensì "secondo la fede", ad esser considerato ebreo a tutti gli effetti. La religione ebraica lo costituisce tale(29).

"Secondo la fede" non tutti gli Ebrei posson considerarsi spiritualmente legati alla Chiesa, nel senso inteso da Nostra aetate 4/a, che sottolinea il vincolo "quo populus Novi Testamenti cum stirpe Abrahae spiritaliter coniunctus est".

A parte il fatto che la Chiesa voluta e fondata da Cristo nel segno della cattolicità non può legarsi a nessuna stirpe
(30) senza cessare d'esser se stessa, è doveroso affermare fortemente che l'unico legame esistente tra la Chiesa ed Abramo è "secundum fidem": nasce dalla fede e la esprime. È la fede d'Abramo, da Gesù stesso chiamato "vostro padre" per indicare non la continuità fra Israele e la Chiesa, ma il legame di stirpe tra il capostipite e la sua discendenza; quel "vostro", infatti, restringe il legame alla discendenza carnale, del tutto estranea alla cattolicità della Chiesa. Tuttavia, al di là e al di sopra della stirpe, un legame di fede è dato dal rapporto che lo stesso Abramo stabilì con Cristo: "...exultavit ut videret diem meum; vidit et gavisus est" (Gv 8,56). Questo medesimo legame congiunge ancor oggi in perfetta unità la Chiesa e quei discendenti d'Abramo, i quali accettarono ed accettano Cristo, poiché "qui ex fide sunt, benedicentur cum fideli Abraham" (Gal 3,9). Non quindi i discendenti "secondo la carne", membri di quel popolo che si lasciò gravemente coinvolgere nella crocefissione di Cristo, lo rifiutò come Messia e Figlio di Dio e continua tuttora a rifiutarlo; ma solo i discendenti "secondo lo spirito".

Han quindi perfettamente ragione coloro(31) che distinguon il giudaismo in quello antico ed in quello talmudico postcristiano (o giudaismo rabbinico). Nel primo determinante è non già il fatto razziale ma l'attesa del Messia e la preparazione alla sua venuta; nel secondo è la stirpe che conta e la stessa religione ha connotazioni razziali. Tra l'uno e l'altro si colloca Cristo, Figlio di Dio, incarnatosi per l'umana salvezza, attorno al quale si stringe il "piccolo resto d'Israele" costituito da Maria, dagli Apostoli, dai discepoli e dai primi convertiti: tutti provenienti da Israele, ma ormai al di là d'Israele, essendo i primi credenti in Cristo. È questo l'evento con cui coincide l'esordio della Chiesa; e mentre nel giudaismo rabbinico continua il rifiuto radicale di Cristo, il "piccolo resto" d'ieri e d'oggi mantien il suo legame e la sua continuità con la fede d'Abramo attraverso la Chiesa stessa.

Tre sono allora le questioni che ne discendono:

a. se l'attuale popolo ebraico sia davvero da Dio rifiutato e maledetto;

b. se mantenga ancora le antiche promesse;

c. se sia ancora "il popolo dell'Alleanza ".

Il nocciolo della questione ebraica sta tutto in tali domande, alle quali rispondo per quel tanto che ne so e che mi consente di mantenere la serenità preannunciata nel titolo.

a. Bisogna partire dall'elezione per dar un'adeguata risposta alla prima domanda. La parola (bahar, rad. bhr) richiama il concetto di b'rîth e con esso l'assoluta libertà con cui Dio si sceglie Israele come popolo suo, riversando su di esso la sua misericordiosa e non dovuta hesēdh. In conseguenza dell'elezione, Israele, a differenza d'ogni altro popolo e grazie a circostanze diverse nelle quali lo stesso Jahvèh gli rivela la sua predilezione, diventa il popolo eletto. Prima in Abramo e nella sua posterità (Gn 12,1-3; 22,15-18; 26,4; Es 41,8; Neh 9,7), poi al momento dell'esodo sotto la guida di Mosè (Ex 3,7-10; Dt 6,21-23; Ps 105,26). Il Dt fa capire la natura sovranamente libera di siffatta scelta: non perché sia il popolo più numeroso, essendo anzi il più piccolo (Dt 7,7); non perché sia il più giusto, essendo anzi "di dura cervice" (Dt 9,4-6); ma perché l'amore di Dio è libero. In libertà "Egli ha scelto te" (Dt 7,6) e non viceversa. L'ha fatto per aver al proprio servizio un popolo santo, e santo in forza di tale servizio; un popolo che si diversifichi dagli altri popoli per rinomanza onore e gloria (Dt 26,19) facendo in sé rifulgere la grandezza e la santità d'Jahvèh (Dt 7,-6).

Appare fuori discussione che, per quella medesima libertà, con la quale Jahvèh elegge, possa anche abbandonare l'eletto, qualora questi non si comporti con la dovuta fedeltà; la hesēdh di Dio (Dt 7,9.12) esige infatti la hesēdh dell'uomo (Dt 6,4; 11.1) e non tollera che venga meno: "Tra tutte le famiglie della terra io non ho conosciuto che voi; ma per tutte le vostre iniquità, io vi punirò" (Am 3,2). Risuona qui l'lo sovrano di Colui che, presceltosi un popolo, non permette ch'esso dimentichi l'amore preferenziale da cui fu innalzato a "popolo di Dio" e trascuri la missione alla quale fu eletto e destinato (Am 4; 9,7-8). Sullo sfondo oscuro di tali trascuratezze ed infedeltà, si staglia il rifiuto da parte di Dio e verso tale rifiuto Geremia, unitamente ad altri profeti, mantiene sveglia l'attenzione dei suoi correligionari. È una spada di Damocle (cf 2Re,23,27) sulla sorte d'Israele che, per la pervicacia delle proprie colpe, da popolo di Dio decade a popolo da Dio condannato e respinto (Gr 6,30; 7,29; 14,19; 31,37), così come Giuda era stato eletto dopo che Efraim era stato rifiutato (Ps 78,67) e la sposa amata ed infedele era stata ripudiata in attesa della sua conversione, secondo il drammatico racconto d'Osea.

Non è stata dunque la Chiesa a parlar arbitrariamente ed infondatamente di rifiuto; essa lo ha letto nella divina rivelazione e ne ha tratto le conseguenze. Né s'è mai soffermata sul momento dei rifiuto stesso, perché la rivelazione stessa le ricordava che l'ira di Dio non è per sempre e che il rifiuto sarebbe stato alla fine seguito da una "nuova elezione di Gerusalemme" (Zac 1,17; 2,16). La Chiesa ha sempre visto in essa la prospettiva del nuovo Israele al quale Is 41, 8 (43,20; 44,2; 45,4) riserva ancora l'antico e significativo titolo: "il mio eletto".

Il ripudio d'Israele, dunque, pur non essendo assoluto, è un dato di fatto; riguarda solo il giudaismo che in Gesù non riconobbe, né riconosce il Messia. Quel rifiuto durerà tanto quanto l'atteggiamento negativo degli Ebrei nei confronti di Cristo. Con "la nuova elezione", tuttavia, resta aperta e luminosa la prospettiva del ricupero(32). Un tale ripudio comporta anche una maledizione? È davvero maledetto quel popolo che fu il popolo dell'elezione? Il popolo benedetto?

Non si parla di maledizione se non sulla base della benedizione. Dio stesso prospetta l'una e l'altra al suo popolo (Dt 11,26-28) non perché sia nella libertà del popolo la scelta della benedizione o della maledizione, ma perché esso conosca che la sua benedizione non è assoluta. E infatti ancorata alla sua fedeltà all'amore di Dio e all'osservanza dei suoi comandamenti (Dt 11,28; 30,15-18). Se ne ha un riflesso neotestamentario, di grande rilievo, in Mt 25,41-46: Dio non si diverte a maledire perché esprime il suo amore nella benedizione, e tuttavia maledice chi rifiuta Cristo.

Chi parla di "popolo maledetto" non dà un segnale d'antisemitismo; il significato di "maledizione" è rigorosamente delimitato al rifiuto di Cristo; del resto la parola è d'uso biblico: in Gn 3,14 è maledetto il serpente; in Gn 4,11, Caino. Spesso colpisce chi va contro Dio e la sua Legge (Nm 22,6; 23,8; 2Re 2,24; Lam 3,65). Se, rovesciando le posizioni, colpisce Dio, costituisce il grado più alto dell'infedeltà dell'uomo (Lv 24,11.15; Job 2,9). II Nuovo Testamento esclude che il liberato dalla maledizione possa a sua volta maledire (Lc 6,28; Mat 5,44; Rm 12,14) , ma è addirittura Colui che ci libera dalla maledizione a farsi per noi maledetto (Gai 3,13). In breve, può certamente apparire di cattivo gusto il dir agli Ebrei che son da Dio maledetti, ma nessuno dovrebbe dimenticare che ciò può esser detto soltanto in ottica biblica, in base a criteri dell'Antico e del Nuovo Testamento ed, in ultim'analisi, in base ad un unico criterio che, esplicito o implicito, riassume tutti gli altri: il rifiuto di Cristo.

b. Nell'attuale condizione di popolo ripudiato, è lecito allora affermare che Israele mantien ancora le antiche promesse? che è ancora titolare dell'Antica Alleanza? Nostra aetate 4/b non si pronunzia chiaramente; si limita a dire che Dio, "ex ineffabili misericordia sua, antiquum Foedus finire dignatus est" con Israele, il popolo da Lui eletto, dal quale la Chiesa ebbe poi la rivelazione veterotestamentaria. Un po' più chiaramente s'esprime in 41d, dove, pur ricordando l'opposizione ebraica a Cristo, non ha dubbi sul fatto che "Judaei Deo, cuius dona et vocatio sine poenitentia sunt, adhuc carissimi manent propter patres". Questa giustificazione fa pensare alla continuità delle promesse e dell'Alleanza: quei lontani padri che ebbero da Dio le une e l'altra, son per gli Ebrei d'oggi la garanzia sicura del loro coinvolgimento nelle stesse promesse e nella stessa Alleanza che resero ieri i Padri e rendono oggi i figli "a Dio carissimi". Tuttavia, ciò che rimase tra le righe del decreto conciliare, venne presto reso esplicito da interventi di teologi cattolici e di responsabili dei rapporti tra Chiesa cattolica e mondo ebraico. Perfino la Liturgia del Venerdì Santo, facendo piazza pulita di quel "pro perfidis Judaeis" nel quale i destinatari avvertivano un senso offensivo, l'ha semplificato in "pro Judaeis", aggiungendo la preghiera ch'essi possan "in sui (Dei) nominis amore et in sui foederis fidelitate proficere".

Qui l'Alleanza è un dato di fatto, innegabile; si chiede che la fedeltà ad essa da parte ebraica non solo non venga mai meno, ma cresca. E perché l'orizzonte ideale della nuova Liturgia poss'apparire ancora più terso, la preghiera ricorda le "promissiones" concesse da Dio "Abrahae eiusque semini" e si chiude implorando "ut populus acquisitionis prioris ad redemptionis mereatur plenitudinem pervenire".

Quell' "eiusque semini" rivela un'intenzionalità non criptata, vuoi far capire che le promesse d'Jahvèh non si bloccaron sull'Israele della primissima ora, ma s'estendono ai suoi attuali discendenti. Quali? Quelli "secondo la stirpe" o quelli "secondo la fede"? La risposta è ovvia e trasparente nel richiamo alla redenzione. Non avrebbe senso, infatti, quell'"ad redemptionis pienitudinem pervenire", con riferimento ad un popolo che si definisca pervicacemente per il suo rifiuto del Redentore; sarebbe un nonsenso non solo storico-teologico, ma anche semplicemente logico, non essendo possibile che raggiunga la pienezza della redenzione chi si tiene alla larga dalla redenzione stessa.

Mantengo un rispettoso silenzio su discorsi e scritti ufficiali che assicurano la permanenza degli Ebrei nell'Alleanza salvifica, la prima e mai revocata (?) Alleanza, anzi l'unica che, in quanto tale, non sarebbe né antica né nuova, e che, pertanto, è ugualmente via di salvezza per il mondo ebraico e per quello cristiano. La ragione addotta, vale a dire l'irrevocabilità delle promesse e dell'Alleanza, tien conto del fatto che "i doni di Dio sono irrevocabili", ma ignora un altro fatto e cioè che tali doni posson esser rifiutati. Israele li rifiutò rifiutando Cristo e la sua redenzione, continua anzi a rifiutarli, dunque non li possiede, dunque non è "a Dio carissimo" se l'esser cari a Dio presuppone ed esige la piena ed incondizionata adesione al suo progetto salvifico in Cristo.

Mi permetto d'esprimer il mio dissenso, sereno e sommesso ma senza tentennamenti, dai colleghi che, certo in buona fede, han ripreso la tesi d'Israele destinatario ancor oggi delle antiche promesse e titolare dell'Alleanza(33). Nessuno mette in dubbio la realtà scritturisticamente incontestabile d'israele-popolo-delle promesse ed ogni buon teologo conosce l'immutabilità di Dio, il quale "non è un uomo per mentire né un figlio d'Adamo per ritrattarsi" (Nm 23,19). Egli infatti non abbandona nessuno se non ne è abbandonato; ed anche in questo caso è come il padre del figliol prodigo, con le braccia aperte a colui che ritorna al suo cuore di padre.

La questione, biblicamente storicamente teologicamente, è questa.

Essa vede al centro della storia del popolo eletto il dato incontestabile dell'Alleanza e delle promesse, prima ai patriarchi, poi a David, infine, quando cioè Israele non ha più dignità di popolo, avendo perso re, tempio, onore e capitale, alla Gerusalemme nuova, "madre d'una discendenza innumerevole" (Is 54,3; 60,4) e "casa di preghiera per tutt'i popoli" (Is 56,7). Quando ciò si verifica, Israele non è più monolitico: l'Israele che accoglie e continua la fede d'Abramo, è da questa destinato a collegarsi con una discendenza senza fine e ad esser casa di preghiera per tutt'i popoli: la sua fede in Cristo l'assimilerà alla "creazione nuova" e gli darà di questa il respiro universale. Al contrario, l'Israele che chiude le porte a Cristo, costituisce il punto di rottura rispetto al passato e all'avvenire. Non avrà "una discendenza innumerevole", non sarà "casa di preghiera per tutt'i popoli", perché non sarà più portatore dell'Alleanza e delle promesse. La sua condizione storica ne è rimasta alterata. Tutto s'è in lui progressivamente modificato ed inaridito. L'eredità che l'arricchiva gli è scivolata di mano; l'Alleanza che lo caratterizzava è stata rivolta ad altri (cf Mt 21,41). Si parla ormai d'un'Alleanza nuova, perché quella antica ha perso valore ed efficacia. Ed a parlarne, non è questo o quel dottore privato, non un antisemita di nuovo o vecchio conio, ma l'autore dell"‘Epistola agli Ebrei", un testo canonico contenente la rivelazione cristiana. Eccolo: "Dicendo autem novum, veteravit prius. Quod autem antiquatur et senescit, prope interitum est" (Ebr 8,13).

Che tale evento si sia ormai verificato, l'attesta Ebr. 8,6 rivelando che la funzione mediatrice di Cristo è tanto più elevata, quanto più nobile ed efficace, perché fondata su nuove e definitive promesse, è l'Alleanza di cui Egli è mediatore. II Sacro Testo ci mette di fronte ad una sostituzione: un'altra economia salvifica al posto della precedente, dichiarata caduca e ormai alla fine. Nuova e definitiva ormai è l'altra (δευτέρας in 9,6 e 10,9)(34).

Se, dunque, il Sacro Testo ha - come ha - ancor un valore, il solo porlo in discussione insospettisce; il trascurarlo, e peggio ancor il riferirsi ad esso per sostener esattamente il contrario di quanto rivela, squalifica chi se ne rende colpevole. E quanto il Sacro Testo rivela, riguarda promesse ed Alleanza che gli Ebrei un giorno ebbero graziosamente da Dio e che non avrebbero mai dovuto rifiutare; cosa che nemmeno oggi dovrebbero fare(35), non essendone capaci. La rinuncia alle antiche promesse ed all'Alleanza è implicita nel rifiuto del loro epilogo in Cristo. Anche per questo, dunque, oltre che per il trasferimento dell'Alleanza da un popolo ad un altro, gli Ebrei secondo la carne non ne son più i legittimi titolari. E non posson, perciò, rinunciare a ciò di cui non dispongono più.

c. Il terzo quesito se il popolo ebraico sia ancor il popolo dell'Alleanza, trova una risposta indiretta in quanto precede. Se si tratta degli Ebrei che costituirono "il resto d'Israele" e lo continuano nel tempo, costoro son ancor il popolo dell'Alleanza: non in quanto razza ebraica e discendenza carnale dal loro capostipite, ma in quanto acquisiti per la fede alla redenzione di Cristo.

Se invece si tratta di quel popolo ebraico che si configura in termini etnico-religiosi secondo l'ebraismo talmudico e postcristiano, continuando a definirsi in base alla sua secolare ripulsa di quel Cristo sul quale già s'appuntavano le antiche promesse, la risposta non può esser che negativa. L'Alleanza antica è stata sostituita e Cristo è il mediatore unico della nuova (cf Ebr 12,24).



CONTINUA.....................

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)