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La questione dell’infallibilità


Lo Spirito che Gesù ha lasciato alla sua Chiesa in modo permanente è "Spirito di verità" (Gv. 14, 17), e vi sono casi in cui si ha una certezza assoluta, per esempio quando il pronunciamento del Magistero si presenta nella forma di un giudizio definitivo, cioè quando si ha una definizione: se vi fosse errore, tutta la Chiesa cadrebbe in errore.

D’altra parte, come succede per l’insegnamento umano, non tutto il Magistero della Chiesa è impartito con la stessa autorità: vi sono insegnamenti definitivi e insegnamenti provvisori, o impartiti con minore sicurezza e impegno. Dio vuole salvare gli uomini proprio attraverso l’infermità umana. Stando così le cose, come ci si deve comportare se non si può essere sempre sicuri? Si deve avere fiducia, la fiducia teologale nel fatto che, al di là di qualche sdrucciolone accidentale, il cammino della Chiesa porta infallibilmente alla meta.


D’altra parte, riflettendo, si può notare come la stessa vita quotidiana in società sarebbe impossibile senza fiducia: si va dal medico, dall’avvocato e si fa quanto dicono di fare, non perché si comprendono appieno le loro indicazioni, ma perché ci si fida di loro; se si dovesse verificare sempre tutto e sottoporre tutto al vaglio della propria esperienza e della propria scienza, la vita diventerebbe un peso insopportabile. Anche la vita "profana" sarebbe qualcosa di assolutamente superiore alle forze del singolo, ma la materia in esame si situa in un campo ben più elevato: "Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono nel cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano" (1 Cor. 2, 9). In proposito si dà pure una garanzia ben più grande. Quindi il problema vero davanti al Magistero, quello più pratico, non sta nel chiedersi se è o se non è infallibile, ma se la persona che mi parla è o non è inviata da Gesù e quindi da lui assistita: "Chi ascolta voi ascolta me". Perciò il fedele non deve verificare tutte le volte, puntigliosamente, se quanto gli viene detto è infallibile o meno — non è sempre facile stabilirlo neanche per gli specialisti —, ma se chi gli parla è inviato da Gesù, se gli parla con autorità e, eventuabnente, se è proprio in comunione con il Papa.


Non esiste neppure un confine troppo netto e assolutamente rigoroso fra quanto è infallibile e quanto non è infallibile: a volte è molto difficile dire con certezza se un determinato insegnamento lo è o non lo è. Infatti un insegnamento, e un insegnamento tradizionale, è una realtà vitale, ricca di sfumature, per cui vi possono essere casi in cui ci si avvicina molto a una certezza assoluta, ma non tutto, nell’esercizio del Magistero, è giudizio definitivo. Il modo ordinario in cui si dà è quello dell’insegnamento, e un insegnamento è costituito da molti giudizi, da diverse affermazioni variamente articolate, tanto più articolate quanto più l’insegnamento è ampio, concerne anche realtà contingenti o si dispiega nel tempo. Più il carattere dell’intervento è puntuale, più è preciso, per cui un giudizio è un intervento puntuale che cerca, di sua natura, precisione dogmatica e rigore giuridico. Con ogni evidenza, le modalità del giudizio e dell’insegnamento vanno lette diversamente, e in questo sta tutta la differenza che intercorre fra il Magistero ordinario e quello straordinario.


È un grave errore, condannato dalla Chiesa, ridurre l’infallibilità al Magistero straordinario. Sarebbe anche qualcosa di ridicolo: negli ultimi cento anni, per esempio, si dà, con assoluta certezza, cioè con un consenso sufficientemente ampio di probati auctores, una sola definizione del Magistero straordinario, il dogma dell’Assunzione di Maria Santissima in cielo, contenuta nella costituzione apostolica Munificentissimus Deus, del 1° novembre 1950. Se così fosse non avrebbe poi tutti i torti lo storico del diritto canonico Brian Tierney a ironizzare sulla teologia neoscolastica dell’infallibilità con il suo noto "assioma": "Ogni pronunciamento infallibile è certamente vero, ma nessun pronunciamento è certamente infallibile..." (8). Ma questo errore è per certo meno grave di quell’altro che riduce il motivo dell’assenso al Magistero alla sua infallibilità. Quando i due errori si sommano — e uno slittamento in questo senso si è massicciamente verificato nella teologia contemporanea —, si giunge a togliere al Magistero stesso ogni reale incidenza nella vita di fede della Chiesa e nella teologia. Se il Magistero si riduce a dare al fedele garanzie saltuarie, a singhiozzo, con ritmi di cento anni, non si vede che rapporto possa avere con quella fede di cui "il giusto vive" e di cui deve vivere quotidianamente. La critica antinfallibilistica recente — quella espressa, per esempio, da Hans Küng, da Brian Tierney, da August Bernhard Hasler — è venuta quasi a portare a compimento un processo, a dare il colpo di grazia a una costruzione che, poggiando sui due colossali equivoci segnalati, era già ampiamente fatiscente.


Anche se non si può attribuire a ogni e singolo pronunciamento del Magistero ordinario la stessa infallibilità di una definizione — questo, d’altra parte, vanificherebbe la stessa differenza fra Magistero straordinario e ordinario —, tuttavia appare ovvio che, quando un insegnamento è di tutta la Chiesa, non si può pensare che, "globalmente preso", non contenga la verità di Gesù. Così come quando uno stesso insegnamento si protrae a lungo nella Chiesa, viene ribadito e confermato spesso, senza interruzioni, nel corso del tempo, non si può più pensare che non rifletta la Rivelazione divina, senza ipso facto smettere di considerare l’insegnamento autentico, quello degli "inviati", come la regola del proprio credere, per sostituirvi il proprio pensiero personale. Pensare una cosa del genere equivarrebbe a vanificare tutta l’economia della trasmissione della Rivelazione voluta da Dio: "Ecco, io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del tempo". Un caso del genere è certamente quello costituito dall’enciclica Humanae vitae, pubblicata da Papa Paolo VI il 25 luglio 1968. Si è discusso, e si discute accanitamente, attorno alla sua infallibilità. Ma, se non si vuole restare indebitamente attaccati alle parole e cadere in una lis de verbis, in una "questione di parole", il problema non è poi così difficile: se, affermando che l’enciclica Humanae vitae non è in sé infallibile, si vuol sottolineare che non si tratta di Magistero straordinario, lo si può agevolmente concedere, ma se si intende sostenere che l’insegnamento in essa contenuto, in quanto riflesso di un Magistero di tutta la Chiesa costante e ininterrotto nei secoli, può essere discusso, allora ciò è aberrante e conduce a conseguenze disastrose, non solo relativamente al problema della contraccezione, rna per rapporto a tutta la vita di fede della Chiesa.

Le contestazioni


Vengo finalmente al fatto di cronaca. Un certo numero di teologi ha reso di pubblica ragione una serie di manifesti in cui non si contesta tanto questo o quel punto di dottrina dell’attuale Magistero della Chiesa, soprattutto pontificio, ma tutto il suo atteggiamento in questi ultimi anni. Dopo un prologo rappresentato da una presa di posizione molto polemica del moralista Bernhard Häring contro il Magistero morale di Papa Giovanni Paolo Il (9), hanno proseguito teologi tedeschi, olandesi, svizzeri e austriaci pubblicando la cosiddetta Dichiarazione di Colonia (10). Poi è stata la volta di francesi (11) e di spagnoli (12). Infine, dopo alcune avvisaglie che si erano potute cogliere nei commenti molto benevoli ai manifesti dei loro colleghi d’oltralpe, si sono espressi teologi italiani con il cosiddetto Documento dei sessantatrè (13). Senza fare un esame dettagliato dei diversi testi, mi limito ad alcuni punti. Cominciando da quello centrale, ribadisco che non si tratta di una discussione circoscritta a questo o quel punto di dottrina, ma di qualcosa di ben più radicale sia quanto alla forma, cioè quanto al ruolo della teologia e del Magistero nella vita di fede della Chiesa, sia quanto al contenuto, dal momento che si giunge a parlare di "forti spinte regressive" (14) e, in definitiva, di tradimento del Concilio Ecumenico Vaticano II.


Molto si è detto sul "modo" delle diverse prese di posizione, cioè sulla forma di "manifesto" dato in pasto ai mass media. Ma per quanto esso sia importante, ritengo preferibile incominciare dalla "sostanza".


1.
Nella Dichiarazione di Colonia vi è un’aperta contestazione dell’enciclica Humanae vitae. Non si tratta di un aspetto di dettaglio, circoscrivibile a una singola — per quanto importante — questione morale. La posta in gioco è il valore del Magistero della Chiesa: mettere in discussione l’autorità dell’insegnarnento dell’enciclica di Papa Paolo VI significa, in sostanza, vanificare il Magistero ordinario della Chiesa, cioè il modo abituale, costantemente incidente nella vita concreta della Chiesa stessa, della funzione d’insegnamento divinamente istituita. Da un certo punto di vista, si può perfino dire che il Magistero ordinario è più importante di quello straordinario, poiché il Magistero straordinario enuclea soltanto, in singole particolari situazioni, quanto è già patrimonio del Magistero ordinario della Chiesa e quindi si appoggia tutto su questa modalità di esercizio, che ne costituisce come il fondamento. Fra l’altro, vuol dire togliere ogni valore anche al Concilio Ecumenico Vaticano II, che, com’è noto, non ha voluto impegnarsi in definizioni dogmatiche straordinarie, ma essere solo espressione solenne del Magistero ordinario: perciò il Magistero del concilio è Magistero ordinario esattamente come l’enciclica Humanae vitae. Contestare il Magistero pontificio in nome del Magistero conciliare è aberrante e costituisce una petizione di principio.


2.
Nel documento reso pubblico dai teologi italiani si contesta l’intervento della Chiesa in materia morale o, più semplicemente — come ha voluto precisare uno dei firmatari in un’intervista (15) — la sua eccessiva estensione. Ma chi decide, in ultima istanza, fino a che punto è legittimo spingersi per giudicare la materia morale? In base a quale criterio oggettivo si possono tracciare confini? Si invoca apertamente il dettato conciliare riguardante la gerarchia delle verità (16). Anche il documento dei teologi tedeschi si richiama con enfasi a questa dottrina, ma proprio in tale documento emerge un’ambiguità assai rivelatrice: "Non tutti gli insegnamenti della Chiesa — vi si legge — hanno pari certezza e peso, sotto l’aspetto teologico. Noi ci opponiamo alla violazione di questa dottrina dei gradi teologici di certezza nei confronti della "gerarchia della verità" nella prassi dell’autorizzazione ecclesiastica all’insegnamento" (17). In questo passo vengono messi sullo stesso piano due livelli assolutamente distinti di considerazione, cioè, da un lato, la diversa importanza degli insegnarnenti, dall’altro, il loro diverso grado di certezza. Proprio il Concilio Ecumenico Vaticano II ha chiarito, oltre ogni possibile equivoco, che la dottrina della gerarchia delle verità non ha niente a che vedere con quella degli "articoli fondamentali", propria del protestantesimo secentesco.


La distinzione fra verità principali e verità secondarie non si lascia ricondurre a quella fra verità "obbligatorie" e verità "facoltative", e riguarda non tanto le verità da proporre — il messaggio deve essere integro! — quanto il modo di questa proposizione, cioè il mostrare la dipendenza di verità "periferiche" da verità "centrali". E appunto questo è lo sforzo del Magistero di Papa Giovanni Paolo II in materia: mettere in luce come il disattendere certe norme morali "seconde", implichi la messa in discussione di princìpi fondamentali dell’agire cristiano.

Invocare il principio in questione per "staccare" ciò che è secondario, cioè consequenziale, da ciò che è principale, significa fatalmente staccare il Vangelo dalla vita, favorire un cristianesimo fatto di princìpi astratti, di norme "trascendentali", che non hanno nessun contenuto concreto e lasciano la coscienza "tranquilla", quindi un cristianesimo ridotto a essere soltanto un utile ausiliario della secolarizzazione in atto. Invece, nella Dichiarazione di Colonia, tutto il discorso corre sul filo dell’ambiguità: da una parte si richiama il fatto che non tutte le verità di fede sono da mettersi sullo stesso piano — dottrina ribadita dal Concilio Ecumenico Vaticano II ma nient’affatto nuova, basti pensare all’importanza attribuita da san Tommaso alla nozione di articulus fidei (18) —, dall’altra ci si appoggia sul dato, altrettanto scontato, che non tutto, nell’insegnamento della Chiesa, gode dello stesso grado di certezza. L’elaborazione delle differenti note teologiche — "di fede", "di fede definita", "prossima alla fede", e così via — rientra nel bagaglio della teologia classica. Si tratta però di due cose ben distinte: una verità può essere "secondaria" quanto alla sua collocazione nel complesso armonico delle verità di fede ed essere certissima per la sua proposizione ferma da parte del Magistero della Chiesa.

Certamente la verità dell’assunzione di Maria al cielo in anima e corpo non si situa "al centro" del credo cattolico, tuttavia essa sta sicuramente al vertice dei gradi di certezza teologici in quanto dogma solennemente definito.
Il passaggio dall’uno all’altro punto di vista si consuma all’insegna dell’ambiguità: così le verità "seconde" diventano "Detailsfragen", "punti di dettaglio", che "non possono arbitrariamente esser fatti passare come strumenti per definire la congruenza o meno all’integrità della fede" (19).

continua...............

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)