Queste le parole conclusive del Pontefice: "La gigantesca Cupola s'inarca esattamente sul sepolcro del primo Vescovo di Roma, del primo Papa: sepolcro in origine umilissimo, ma sul quale la venerazione dei secoli posteriori, con meravigliosa successione di opere, eresse il massimo Tempio della Cristianità" ("Acta Apostolicae Sedis", 43, 1951, pp. 51-52); in questo stesso contesto Pio XII riconosceva con obiettività che i resti di ossa umane ritrovati nella zona della tomba non potevano essere identificati con sicurezza con le reliquie dell'Apostolo. Non diversa nella sostanza, ma più sfumata, la sintesi ultima esposta nelle Esplorazioni (i, p. 144 b): "La tomba stessa dimostrava, con la sua consistenza strutturale, la sua età veneranda e la sua lunga esistenza: dall'umile avello, che doveva una volta occupare il misterioso quadrato stretto tra le tombe circostanti, al monumentale "trofeo" a doppio piano additato da Gaio". Ma - va rilevato - sia le Esplorazioni sia il Radiomessaggio pontificio del 1950 tacciono del più importante reperto epigrafico rinvenuto durante gli scavi: l'esiguo frammento di intonaco proveniente dal cosiddetto muro Rosso (la struttura cui si addossa il trofeo di Gaio) che reca la scritta greca Petr[os] en i[ - - - ]: l'unica testimonianza epigrafica rinvenuta nel campo P con la esplicita menzione del nome dell'Apostolo, certamente circoscrivibile tra la seconda metà del ii secolo (data di erezione del muro Rosso) e la seconda metà del III secolo, quando fu realizzato il muro dei graffiti: ne curò l'edizione - con inspiegabile ritardo - Ferrua soltanto nel 1969 (Saecularia Petri et Pauli, Città del Vaticano, 1969, pp. 131-135).
A un anno di distanza dal Radiomessaggio pontificio, il 19 dicembre 1951, veniva finalmente presentato a Pio XII il primo esemplare della relazione degli scavi che lo stesso Pontefice, con motivata insistenza aveva in più circostanze sollecitato: una monumentale pubblicazione in due tomi curata dai quattro "osservatori interessati" B. M. Apolloni Ghetti, A. Ferrua s. i., E. Josi, E. Kirschbaum s. i. con prefazione di monsignor L. Kaas e appendice numismatica di C. Serafini (Esplorazioni sotto la Confessione di s. Pietro in Vaticano, i-ii, Città del Vaticano 1951). Nel corso dell'udienza Pio XII poteva prendeva atto con soddisfazione della versione integrale dei risultati conseguiti i quali, come si legge nel servizio de "L'Osservatore Romano" (20 dicembre 1951), si erano rivelati "superiori a quanto scientificamente si poteva attendere in un'impresa che, fin dai primi giorni del suo pontificato, Egli promosse e costantemente volle attuare, nonostante le gravi difficoltà tecniche di ogni genere e gli ostacoli derivanti dagli anni tormentati del conflitto mondiale".
Con la pubblicazione delle Esplorazioni si era concluso il primo fondamentale capitolo delle indagini, ma di lì a poco se ne aprì un altro. Vi era almeno un aspetto problematico non compiutamente risolto, quello dell'assenza o del non riconoscimento da parte degli archeologi del nome di Pietro tra i graffiti del muro G ai quali era stato dato sufficiente spazio nelle Esplorazioni (i, pp. 129-130; II, tav. LVII a, b; LVIII a, b), senza però provvedere - come forse si sarebbe dovuto - alla elaborazione di una adeguata edizione critica. Tale aspetto - è ovvio - si andava direttamente a connettere con l'altro implicito nelle conclusioni sopra ricordate delle Esplorazioni, laddove i quattro incaricati delle indagini per definire cronologia e morfologia della tomba petrina usano le espressioni - in realtà cautelative - di "età veneranda" e di "misterioso quadrato stretto tra le tombe".
E non a caso già nel 1952 Ferrua in una breve memoria su La storia del sepolcro di san Pietro ("La Civiltà Cattolica", 103, 1952, i, pp. 15-29) prendeva nella sostanza le distanze dalle conclusioni delle Esplorazioni, circoscrivendo nella seconda metà del ii secolo, e più precisamente nell'età di Marco Aurelio (161-180), il riferimento cronologico più alto individuabile nell'area della memoria petrina: una indicazione - non a caso - che si rivelava perfettamente sincronica sia con il trofeo di Gaio sia - significativamente - con l'emergenza a Roma dell'episcopato monarchico nella persona del vescovo Vittore (189-199). Quanto poi alla struttura e alla morfologia del primitivo locus che avrebbe accolto le spoglie apostoliche, Ferrua, fotografando con ineccepibile onestà intellettuale la realtà per quella che era - e della quale chiunque oggi può prendere atto - affermava: "Come fosse questa primitiva sepoltura del Principe degli Apostoli più non possiamo dirlo con esattezza.
Ma un buon numero di circostanze concorrono nel farci pensare che non fosse una tomba appariscente, neanche munita di un cippo di travertino con la sua iscrizione, cosa che solo si poteva fare in un terreno di proprietà ben dichiarata". Quello vaticano era infatti ager publicus, cioè terreno demaniale, lasciato sostanzialmente incolto e praticamente terra di tutti e di nessuno; in linea di principio per erigervi qualsiasi struttura occorreva una regolare concessione dello Stato; "ma è facile - osserva ancora Ferrua - che qualsiasi poveraccio vi poteva nascondere sotterra un cadavere senza troppi rigiri negli uffici dei curatores operum publicorum".
Questo complesso di problemi, in parte rimasti aperti, indusse la professoressa Margherita Guarducci, per il tramite dell'allora sostituto della Segreteria di Stato monsignor Giovanni Battista Montini, a richiedere nel 1952 a Pio XII un supplemento di indagini: si trattava di riprendere lo studio dei graffiti e di collazionare dati e conclusioni esposte nella Relazione con le evidenze materiali venuti alla luce nel decennio 1939-1949. Da queste nuove ricerche, affidate per le competenze archeologiche ai professori Adriano Prandi e Domenico Mustilli, furono esclusi - come era logico attendersi - i quattro "osservatori interessati". I risultati uscirono - sotto mentite spoglie - nel 1963 con un titolo sostanzialmente "criptato" che nulla faceva trasparire né del suo effettivo contenuto né delle conclusioni cui s'era pervenuti: La tomba di san Pietro nei pellegrinaggi dell'età medioevale (Todi 1963). É lecito supporre che le risultanze cui pervenne Prandi suscitassero qualche delusione, poiché, sulla base di una rigorosa rilettura dei dati archeologici, si era chiarito che nulla di quanto era emerso nel campo P poteva anticiparsi all'età di Marco Aurelio: era quanto già plausibilmente sospettato da molti autorevoli studiosi sia laici, sia cattolici, sia protestanti (Antonio Ferrua, Alfons Maria Schneider, Armin von Gerkan, Paul Lemerle, Erik Peterson, Henri-Irénée Marrou, Oscar Cullmann, Theodor Klauser). Questo dato - è superfluo sottolinearlo - rendeva ancor più solida la storicità del "trofeo di Gaio" nella sua reale valenza di prototipica memoria petrina, esito non già di una "memoria culturale" - mitica - ma consapevole e immediato indotto di una "memoria storica", veicolata cioè attraverso non più di tre generazioni rispetto al periodo della presenza di Pietro a Roma e della sua morte (circa 64-68) epì tòn Batikanòn (in Vaticano), come aveva affermato il presbitero Gaio.
Quanto allo studio dei graffiti del muro G, le quinquennali indagini di Margherita Guarducci rivolte all'individuazione del nome di Pietro, giunsero alla conclusione che il nome dell'Apostolo c'era ma non si vedeva; o meglio, poteva essere percepito soltanto da una ristretta cerchia di "iniziati", in possesso di speciali "chiavi di accesso" che, attivate attraverso trasfigurazioni letterali, sovrapposizioni e tangenze tra elementi alfabetici appartenenti a iscrizioni e mani diverse, potevano disvelare il nome di Pietro, peraltro non menzionato per esteso ma solo evocato in forma "abbreviata", vale a dire nel monogramma PE.
Questa ipotesi di lettura veniva a proporsi in totale e clamorosa controtendenza con quanto documentato nella Memoria Apostolorum sulla via Appia, dove, tra il 258 e la prima età costantiniana - e dunque in parte contemporaneamente a quanto si andava manifestando nel muro G del Vaticano - furono tracciati 640 graffiti con la esplicita menzione di Pietro e Paolo. In realtà nelle iscrizioni devozionali del muro G i visitatori null'altro invocano che il nome di Cristo attraverso la ripetizione del modulo formulare vivas / vivite in Chr(isto), riferito al nome dello scrivente o della persona che si voleva ricordare, viva o morta che fosse: per esempio Simplici vivas in Chr(isto).
Un'ultima appendice alle indagini iniziate nel 1939 si deve ancora alla iniziativa della professoressa Margherita Guarducci che, con zelo e indefesso pluriennale impegno, volse la sua attenzione alla "autentica" - per usare un termine tecnico - delle reliquie di Pietro. L'istanza in sé aveva tutti i crismi della legittimità, ma andava a scontrarsi con una grave inadempienza metodologica: la mancata stesura di quello che con linguaggio tecnico si definisce "giornale di scavo": la minuziosa registrazione di tutto quanto emerge e accade nel corso di una indagine archeologica, giorno per giorno, ora per ora. Di questa lacuna, certo in buona fede e fidandosi con eccessiva disinvoltura della "memoria" individuale, si erano resi responsabili tutti coloro che direttamente e con ruoli diversi avevano partecipato alle indagini archeologiche sotto la Confessione Vaticana e in particolare monsignor Ludwig Kaas che da Pio XII aveva ricevuto il mandato di "responsabile morale" dell'intero progetto.
Il risultato fu che un insieme di frammenti di "povere ossa", forse rinvenute in una cavità del muro G ma non si sa quando, come e alla presenza di chi, trasferite poi in una cassetta di legno, finirono in un oscuro corridoio delle Grotte Vaticane dove giacquero inosservate per dodici anni. Tutto questo avrebbe dovuto sconsigliare qualsiasi tentativo di analisi antropologica che, come era facile attendersi, condusse a un risultato del tutto generico oltre che - se si vuole - irrispettoso della memoria di san Pietro (Margherita Guarducci, Le reliquie di Pietro sotto la Confessione della basilica Vaticana, Città del Vaticano 1965).
Affermare che in quell'insieme osteologico si erano rinvenute parti di ossa probabilmente appartenenti a una persona di sesso maschile, robusta, di circa 60-70 anni, non era molto significativo, dal momento che nel campo P di fronte e a fianco del trofeo di Gaio vi erano alcune sepolture terragne, che prevedono la deposizione delle salme nella nuda terra, e che a diretto contatto "fisico" con l'area petrina vi erano almeno tre recinti funerari (denominati R, R', Q nelle Esplorazioni) con numerosissime sepolture (a incinerazione e a inumazione), svuotate o gravemente danneggiate durante la costruzione del tabernacolo del Bernini e della Cappella Clementina nelle Grotte Vaticane.
Il tutto poi era reso ancora più complicato dalla credenza che riconosceva come reliquia apostolica la testa custodita nella basilica Lateranense e dalla tradizione secondo cui una parte delle reliquie di Pietro, insieme a quelle di Paolo, a partire dal 258, per quadraginta annos, sarebbero state deposte presso la memoria Apostolorum sulla via Appia. In questi anni di fervida attenzione alle reliquie petrine, sarebbe stato forse utile rileggere e rimeditare quanto già Pio XII aveva dichiarato con responsabile lealtà nel già ricordato radiomessaggio del 1950 e cioè che i resti di ossa umane ritrovati nel campo P non potevano essere identificati con sicurezza con le reliquie di Pietro. Allo stesso modo Paolo VI, che pure aveva seguito con partecipe attenzione le vicende connesse alle reliquie, deluse le attese della Guarducci e di coloro che si attendevano dal Papa la più solenne delle "autentiche", e cioè l'autorizzazione alla pubblica venerazione.
Il Pontefice, che pure prelevò nove frammenti di quelle reliquie a Lui presentate come quelle di san Pietro, non mancò di far trasparire qualche cautela, che volle consegnare alla epigrafe fatta incidere sul reliquiario custodito nella sua cappella privata: vi si leggeva B(eati) Petri ap(ostoli) esse putantur.
Ma a contrassegnare la storia delle ricerche sulle testimonianze archeologiche della memoria petrina, già nel 1950 era stata esposta un'altra iscrizione, questa volta commemorativa, collocata sull'architrave della porta d'ingresso alle Grotte Vaticane, aperta sul fianco meridionale della basilica: vi si celebra a futura memoria, nello stile delle dediche imperiali, l'impegno profuso per dieci anni da Pio XII nell'ampliamento e nella esplorazione delle cripte vaticane: Pius XII Pont(ifex) Max(imus) | per decem annorum spatium | hypogea vaticana exploranda cryptasque amplificandas | munifice curavit an. Jub. mcml.
(©L'Osservatore Romano - 24 ottobre 2008)