00 12/10/2017 09:06

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI ALL'INCONTRO PROMOSSO DAL 
PONTIFICIO CONSIGLIO PER LA PROMOZIONE DELLA NUOVA EVANGELIZZAZIONE

Aula del Sinodo
Mercoledì, 11 ottobre 2017

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Signori Cardinali,
cari fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio,
Signori Ambasciatori,
illustri Professori
fratelli e sorelle,

vi saluto cordialmente e ringrazio Mons. Fisichella per le cortesi parole rivoltemi.

Il venticinquesimo anniversario della Costituzione apostolica Fidei depositum, con la quale san Giovanni Paolo II promulgava il Catechismo della Chiesa Cattolica, a trent’anni dall’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, è un’opportunità significativa per verificare il cammino compiuto nel frattempo. San Giovanni XXIII aveva desiderato e voluto il Concilio non in prima istanza per condannare gli errori, ma soprattutto per permettere che la Chiesa giungesse finalmente a presentare con un linguaggio rinnovato la bellezza della sua fede in Gesù Cristo. «E’ necessario – affermava il Papa nel suo Discorso di apertura – che la Chiesa non si discosti dal sacro patrimonio delle verità ricevute dai padri; ma al tempo stesso deve guardare anche al presente, alle nuove condizioni e forme di vita che hanno aperto nuove strade all’apostolato cattolico» (11 ottobre 1962). «Il nostro dovere – continuava il Pontefice – non è soltanto custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell’antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell’opera che la nostra età esige, proseguendo così il cammino che la Chiesa compie da quasi venti secoli» (ibid.).

Custodire” e “proseguire” è quanto compete alla Chiesa per sua stessa natura, perché la verità impressa nell’annuncio del Vangelo da parte di Gesù possa raggiungere la sua pienezza fino alla fine dei secoli. E’ questa la grazia che è stata concessa al Popolo di Dio, ma è ugualmente un compito e una missione di cui portiamo la responsabilità, per annunciare in modo nuovo e più completo il Vangelo di sempre ai nostri contemporanei. Con la gioia che proviene dalla speranza cristiana, e muniti della «medicina della misericordia» (ibid.), ci avviciniamo pertanto agli uomini e alle donne del nostro tempo per permettere che scoprano l’inesauribile ricchezza racchiusa nella persona di Gesù Cristo.

Nel presentare il Catechismo della Chiesa Cattolicasan Giovanni Paolo II sosteneva che «esso deve tener conto delle esplicitazioni della dottrina che nel corso dei tempi lo Spirito Santo ha suggerito alla Chiesa. E’ necessario inoltre che aiuti a illuminare con la luce della fede le situazioni nuove e i problemi che nel passato non erano ancora emersi» (Cost. ap. Fidei depositum, 3). Questo Catechismo, perciò, costituisce uno strumento importante non solo perché presenta ai credenti l’insegnamento di sempre in modo da crescere nella comprensione della fede, ma anche e soprattutto perché intende avvicinare i nostri contemporanei, con le loro nuove e diverse problematiche, alla Chiesa, impegnata a presentare la fede come la risposta significativa per l’esistenza umana in questo particolare momento storico. Non è sufficiente, quindi, trovare un linguaggio nuovo per dire la fede di sempre; è necessario e urgente che, dinanzi alle nuove sfide e prospettive che si aprono per l’umanità, la Chiesa possa esprimere le novità del Vangelo di Cristo che, pur racchiuse nella Parola di Dio, non sono ancora venute alla luce. E’ quel tesoro di “cose antiche e nuove” di cui parlava Gesù, quando invitava i suoi discepoli a insegnare il nuovo da lui portato senza tralasciare l’antico (cfr Mt 13,52).

L’evangelista Giovanni offre una delle pagine più belle del suo Vangelo quando riporta la cosiddetta “preghiera sacerdotale” di Gesù. Prima di affrontare la passione e la morte, Egli si rivolge al Padre manifestando la sua obbedienza nell’aver compiuto la missione che gli era stata affidata. Le sue parole sono un inno all’amore e contengono anche la richiesta che i discepoli siano custoditi e protetti (cfr Gv 17,12-15), Nello stesso tempo, comunque, Gesù prega per quanti nel futuro crederanno in Lui grazie alla predicazione dei suoi discepoli, perché anch’essi siano raccolti e conservati nell’unità (cfr Gv 17,20-23). Nell’espressione: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3), si tocca il culmine della missione di Gesù.

Conoscere Dio, come ben sappiamo, non è in primo luogo un esercizio teorico della ragione umana, ma un desiderio inestinguibile impresso nel cuore di ogni persona. E’ la conoscenza che proviene dall’amore, perché si è incontrato il Figlio di Dio sulla nostra strada (cfr Lett. enc. Lumen fidei, 28). Gesù di Nazareth cammina con noi per introdurci con la sua parola e i suoi segni nel mistero profondo dell’amore del Padre. Questa conoscenza si fa forte, giorno dopo giorno, della certezza della fede di sentirsi amati, e per questo inseriti in un disegno carico di senso. Chi ama vuole conoscere di più la persona amata per scoprire la ricchezza che nasconde in sé e che ogni giorno emerge come una realtà sempre nuova.

Per questo motivo, il nostro Catechismo si pone alla luce dell’amore come un’esperienza di conoscenza, di fiducia e di abbandono al mistero. Il Catechismo della Chiesa Cattolica, nel delineare i punti strutturali della propria composizione, riprende un testo del Catechismo Romano; lo fa suo, proponendolo come chiave di lettura e di applicazione: «Tutta la sostanza della dottrina e dell’insegnamento dev’essere orientata alla carità che non avrà mai fine. Infatti, sia che si espongano le verità della fede o i motivi della speranza o i doveri della attività morale, sempre e in tutto va dato rilievo all’amore di nostro Signore. Così da far comprendere che ogni esercizio di perfetta virtù cristiana non può scaturire se non dall’amore, come nell’amore ha d’altronde il suo ultimo fine» (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 25).

In questo orizzonte di pensiero mi piace fare riferimento a un tema che dovrebbe trovare nel Catechismo della Chiesa Cattolica uno spazio più adeguato e coerente con queste finalità espresse. Penso, infatti, alla pena di morte. Questa problematica non può essere ridotta a un mero ricordo di insegnamento storico senza far emergere non solo il progresso nella dottrina ad opera degli ultimi Pontefici, ma anche la mutata consapevolezza del popolo cristiano, che rifiuta un atteggiamento consenziente nei confronti di una pena che lede pesantemente la dignità umana. Si deve affermare con forza che la condanna alla pena di morte è una misura disumana che umilia, in qualsiasi modo venga perseguita, la dignità personale. E’ in sé stessa contraria al Vangelo perché viene deciso volontariamente di sopprimere una vita umana che è sempre sacra agli occhi del Creatore e di cui Dio solo in ultima analisi è vero giudice e garante. Mai nessun uomo, «neppure l’omicida perde la sua dignità personale» (Lettera al Presidente della Commissione Internazionale contro la pena di morte, 20 marzo 2015), perché Dio è un Padre che sempre attende il ritorno del figlio il quale, sapendo di avere sbagliato, chiede perdono e inizia una nuova vita. A nessuno, quindi, può essere tolta non solo la vita, ma la stessa possibilità di un riscatto morale ed esistenziale che torni a favore della comunità.

Nei secoli passati, quando si era dinnanzi a una povertà degli strumenti di difesa e la maturità sociale ancora non aveva conosciuto un suo positivo sviluppo, il ricorso alla pena di morte appariva come la conseguenza logica dell’applicazione della giustizia a cui doversi attenere. Purtroppo, anche nello Stato Pontificio si è fatto ricorso a questo estremo e disumano rimedio, trascurando il primato della misericordia sulla giustizia. Assumiamo le responsabilità del passato, e riconosciamo che quei mezzi erano dettati da una mentalità più legalistica che cristiana. La preoccupazione di conservare integri i poteri e le ricchezze materiali aveva portato a sovrastimare il valore della legge, impedendo di andare in profondità nella comprensione del Vangelo. Tuttavia, rimanere oggi neutrali dinanzi alle nuove esigenze per la riaffermazione della dignità personale, ci renderebbe più colpevoli.

Qui non siamo in presenza di contraddizione alcuna con l’insegnamento del passato, perché la difesa della dignità della vita umana dal primo istante del concepimento fino alla morte naturale ha sempre trovato nell’insegnamento della Chiesa la sua voce coerente e autorevole. Lo sviluppo armonico della dottrina, tuttavia, richiede di tralasciare prese di posizione in difesa di argomenti che appaiono ormai decisamente contrari alla nuova comprensione della verità cristiana. D’altronde, come già ricordava san Vincenzo di Lérins: «Forse qualcuno dice: dunque nella Chiesa di Cristo non vi sarà mai nessun progresso della religione? Ci sarà certamente, ed enorme. Infatti, chi sarà quell’uomo così maldisposto, così avverso a Dio da tentare di impedirlo?» (Commonitorium, 23.1: PL 50). E’ necessario ribadire pertanto che, per quanto grave possa essere stato il reato commesso, la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona.

«La Chiesa nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto perpetua e trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, e tutto ciò che essa crede» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum, 8). I Padri al Concilio non potevano trovare espressione sintetica più fortunata per esprimere la natura e missione della Chiesa. Non solo nella “dottrina”, ma anche nella “vita” e nel “culto” viene offerta ai credenti la capacità di essere Popolo di Dio. Con una consequenzialità di verbi, la Costituzione dogmatica sulla divina Rivelazione esprime la dinamica diveniente del processo: «Questa Tradizione progredisce […] cresce […] tende incessantemente alla verità finché non giungano a compimento le parole di Dio (ibid.).

La Tradizione è una realtà viva e solo una visione parziale può pensare al “deposito della fede” come qualcosa di statico. La Parola di Dio non può essere conservata in naftalina come se si trattasse di una vecchia coperta da proteggere contro i parassiti! No. La Parola di Dio è una realtà dinamica, sempre viva, che progredisce e cresce perché è tesa verso un compimento che gli uomini non possono fermare. Questa legge del progresso secondo la felice formula di san Vincenzo da Lérins: «annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate» (Commonitorium, 23.9: PL 50), appartiene alla peculiare condizione della verità rivelata nel suo essere trasmessa dalla Chiesa, e non significa affatto un cambiamento di dottrina.

Non si può conservare la dottrina senza farla progredire né la si può legare a una lettura rigida e immutabile, senza umiliare l’azione dello Spirito Santo. «Dio, che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri» (Eb 1,1), «non cessa di parlare con la Sposa del suo Figlio» (Dei Verbum, 8). Questa voce siamo chiamati a fare nostra con un atteggiamento di «religioso ascolto» (ibid., 1), per permettere alla nostra esistenza ecclesiale di progredire con lo stesso entusiasmo degli inizi, verso i nuovi orizzonti che il Signore intende farci raggiungere.

Vi ringrazio per questo incontro e per il vostro lavoro; vi chiedo di pregare per me e vi benedico di cuore. Grazie.



Pena di morte, il Papa chiede un cambio nel Catechismo

Il Papa ricorda i 25 anni del del Catechismo della Chiesa Cattolica e chiede che venga modificato l'articolo 2267 che non esclude la pena capitale in particolari casi come unica via per difendere da un aggressore ingiusto. "In passato la Chiesa ha assunto una posizione non conforme al Vangelo".

Ieri pomeriggio nell’Aula nuova del sinodo, il Papa è intervenuto per ricordare i 25 anni dalla promulgazione del Catechismo della Chiesa Cattolica. Francesco ha sottolineato l’importanza del dire le cose di sempre con un linguaggio adatto agli uomini del tempo. Ma soprattutto, ha sottolineato l’orizzonte della misericordia e, ha detto, «in questo orizzonte di pensiero mi piace fare riferimento a un tema che dovrebbe trovare nel Catechismo della Chiesa Cattolica uno spazio più adeguato e coerente con queste finalità espresse».

LA PENA DI MORTE E’ INAMISSIBILE

«Penso, infatti, alla pena di morte. Questa problematica non può essere ridotta a un mero ricordo di insegnamento storico senza far emergere non solo il progresso nella dottrina ad opera degli ultimi Pontefici, ma anche la mutata consapevolezza del popolo cristiano, che rifiuta un atteggiamento consenziente nei confronti di una pena che lede pesantemente la dignità umana». Ad oggi il tema della pena di morte è affrontato al n° 2267 del Catechismo, laddove si dice che «l’insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude, supposto il pieno accertamento dell’identità e della responsabilità del colpevole, il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani»; se fossero sufficienti mezzi incruenti, ovviamente l’autorità deve ricorrere a questi.

Con le parole pronunciate ieri da Papa Francesco si chiede chiaramente di andare oltre l’attuale formulazione. «Qui non siamo in presenza di contraddizione alcuna con l’insegnamento del passato», ha detto il Papa, «perché la difesa della dignità della vita umana dal primo istante del concepimento fino alla morte naturale ha sempre trovato nell’insegnamento della Chiesa la sua voce coerente e autorevole». E’ il paradigma della difesa della vita durante tutto l’arco dell’esistenza, già spiegato durante la recente apertura delle attività della Pontificia Accademia per la Vita e ripetuto più volte dal suo presidente, membro storico della comunità di S. Egidio, monsignor Vincenzo Paglia.

Secondo Francesco, la Chiesa nel passato ha assunto una posizione non conforme al Vangelo nell’essere permissiva nei confronti della pena di morte, sebbene non abbia mai considerato tipologie di reati che richiedessero tale pena, ma era orientata a questa possibilità solo quando «questa fosse l’unica via praticabile per difendere efficacemente dall’aggressore ingiusto la vita di esseri umani».

«Assumiamo le responsabilità del passato, e riconosciamo che quei mezzi erano dettati da una mentalità più legalistica che cristiana», dice Francesco. E aggiunge: «La preoccupazione di conservare integri i poteri e le ricchezze materiali aveva portato a sovrastimare il valore della legge, impedendo di andare in profondità nella comprensione del Vangelo».

Anche Benedetto XVI aveva auspicato uno sforzo per l’abolizione della pena di morte. Lo aveva fatto nel 2011, rivolgendosi, ai partecipanti a un meeting organizzato dalla comunità di S. Egidio, da sempre impegnata in questa istanza. Quello di Benedetto XVI era un appello perché vi fossero «iniziative politiche e legislative promosse in un numero crescente di paesi per eliminare la pena di morte e continuare sostanziali progressi compiuti per conformare il codice penale sia alla dignità umana dei carcerati che all'efficace mantenimento dell'ordine pubblico». Nessun riferimento al progresso della dottrina o alla storia della chiesa, cosa che, invece, Francesco ha fatto proprio ieri per «far emergere non solo il progresso nella dottrina ad opera degli ultimi Pontefici, ma anche la mutata consapevolezza del popolo cristiano, che rifiuta un atteggiamento consenziente nei confronti di una pena che lede pesantemente la dignità umana».

LA DOTTRINA PROGREDISCE

Dopo sei anni di lavoro nell’ottobre del 1992 con la costituzione apostolica Fidei depositum, a trent’anni dall’apertura del Vaticano II, usciva, appunto, il Catechismo della Chiesa Cattolica perché fosse un punto di riferimento della dottrina e della morale in tutto l’orbe. C’era bisogno di un punto di riferimento perché il post concilio, come più volte ripetuto dai papi, non fu esente da rischi e sbandamenti.

Paolo VI, poi Giovanni Paolo II e soprattutto Benedetto XVI, hanno messo in guardia contro un'interpretazione della dottrina in rottura con il passato. Lo sviluppo deve avvenire in modo omogeneo e in continuità. Sul tema del “progresso” della dottrina è intervenuto anche Francesco.

«La Tradizione è una realtà viva», ha detto ieri il Papa, «e solo una visione parziale può pensare al “deposito della fede” come qualcosa di statico. La Parola di Dio non può essere conservata in naftalina come se si trattasse di una vecchia coperta da proteggere contro i parassiti! No. La Parola di Dio è una realtà dinamica, sempre viva, che progredisce e cresce perché è tesa verso un compimento che gli uomini non possono fermare».

SAN VINCENZO DI LERINO

Quando si tratta di sviluppo della dottrina è ricorrente la citazione a San Vincenzo di Lerino (V secolo), monaco francese che nel suo Commonitorium primum diceva che il dogma della religione «progredisce, consolidandosi con gli anni, sviluppandosi col tempo, approfondendosi con l’età». Questa citazione l’ha fatta Francesco ieri, a cui possiamo aggiungere la preoccupazione che ha più volte richiamato Benedetto XVI, che come cardinale ha presieduto i lavori che hanno condotto alla redazione del Catechismo.

E’ il concetto di « rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa», tale per cui «è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino». Come direbbe lo stesso San Vincenzo di Lerino «anche nella stessa chiesa cattolica ci si deve preoccupare molto che ciò che noi professiamo sia stato ritenuto tale ovunque, sempre e da tutti».

  • CATECHISMO

Pena di morte, in principio è legittima

Torniamo al discorso del Pontefice di mercoledì scorso tenuto ai partecipanti all'incontro promosso dal Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione e citiamo di esso la parte concernente la pena di morte:
«Questa problematica non può essere ridotta a un mero ricordo di insegnamento storico senza far emergere non solo il progresso nella dottrina ad opera degli ultimi Pontefici, ma anche la mutata consapevolezza del popolo cristiano, che rifiuta un atteggiamento consenziente nei confronti di una pena che lede pesantemente la dignità umana. Si deve affermare con forza che la condanna alla pena di morte è una misura disumana che umilia, in qualsiasi modo venga perseguita, la dignità personale. E’ in sé stessa contraria al Vangelo perché viene deciso volontariamente di sopprimere una vita umana che è sempre sacra agli occhi del Creatore e di cui Dio solo in ultima analisi è vero giudice e garante. Mai nessun uomo, "neppure l’omicida perde la sua dignità personale" (Lettera al Presidente della Commissione Internazionale contro la pena di morte, 20 marzo 2015) […] A nessuno, quindi, può essere tolta non solo la vita, ma la stessa possibilità di un riscatto morale ed esistenziale che torni a favore della comunità. […] Purtroppo, anche nello Stato Pontificio si è fatto ricorso a questo estremo e disumano rimedio, trascurando il primato della misericordia sulla giustizia. Assumiamo le responsabilità del passato, e riconosciamo che quei mezzi erano dettati da una mentalità più legalistica che cristiana. La preoccupazione di conservare integri i poteri e le ricchezze materiali aveva portato a sovrastimare il valore della legge, impedendo di andare in profondità nella comprensione del Vangelo. Tuttavia, rimanere oggi neutrali dinanzi alle nuove esigenze per la riaffermazione della dignità personale, ci renderebbe più colpevoli. Qui non siamo in presenza di contraddizione alcuna con l’insegnamento del passato, perché la difesa della dignità della vita umana dal primo istante del concepimento fino alla morte naturale ha sempre trovato nell’insegnamento della Chiesa la sua voce coerente e autorevole. […] E’ necessario ribadire pertanto che, per quanto grave possa essere stato il reato commesso, la pena di morte è inammissibile perché attenta all’inviolabilità e dignità della persona».

In sintesi il Papa ci sta dicendo che gli ultimi pontefici avevano già iniziato ad insegnare una dottrina diversa sulla pena di morte rispetto a quella tradizionale, che la pena capitale lede il bene indisponibile della vita, che non permette un riscatto morale, che è contraria alla dignità personale, allo spirito del Vangelo e dunque alla fede cattolica.

Nessuno di questi giudizi pare condivisibile. In prima battuta per valutare la bontà di un’azione occorre far riferimento al suo oggetto morale cioè al fine prossimo perseguito: l’oggetto morale dell’irrogazione della pena di morte è buono perché è “difendere la collettività”: l’azione materiale “uccisione” dal punto di vista morale deve essere intesa come difesa del bene comune, non come “omicidio” o “vendetta”. Solo l’uccisione diretta e volontaria dell’innocente è sempre un male: questo è ciò che insegna il Magistero. La pena capitale trova dunque la sua liceità morale nel fatto che noi tutti abbiamo il dovere morale di difendere noi stessi prima che la vita degli aggressori: «l’uomo è tenuto di più a provvedere alla propria vita che alla vita altrui» (Tommaso D’Aquino, Summa Theologiae, II-II, q. 64, a. 7 c.).

Come un soggetto privato può lecitamente uccidere l’aggressore al fine di difendersi se non vi sono altre soluzioni che permettono di tutelare la propria o altrui vita, così l’ordinamento giuridico – nella previsione di quasi certe reiterazioni del reato o di reati di uguale gravità - può ricorrere alla pena capitale se è l’unico modo per difendere l’incolumità dei cittadini. Così Tommaso D’Aquino: «Ecco perché, nel caso che lo esiga la salute di tutto il corpo, si ricorre lodevolmente e salutarmente al taglio di un membro putrido e cancrenoso. Ebbene, ciascun individuo sta a tutta la comunità come una parte sta al tutto. E quindi se un uomo con i suoi peccati è pericoloso e disgregativo per la collettività, è cosa lodevole e salutare sopprimerlo, per la conservazione del bene comune; infatti, come dice S. Paolo: ‘Un po' di fermento può corrompere tutta la massa’» (Summa Theologiae, II-II, q. 64, a. 2 c.). E’ proprio il dovere di tutelare la preziosità intrinseca delle persone di una collettività, cioè la loro dignità – argomento usato da Francesco per censurare la pena di morte – che giustifica quest’ultima.

La pena di morte è poi giustificata da un altro motivo che si aggiunge al precedente. Ogni persona è titolare di diritti fondamentali, tra cui la vita. La titolarità di questi diritti però può essere persa a motivo delle nostre azioni: vedi la libertà personale a seguito di un crimine. E’ come se dentro di noi ci fosse una parete in cui sono infissi i diritti fondamentali. Azioni assai malvagie che scegliamo di compiere hanno il potere di abbattere questa parete e quindi di far cadere a terra i diritti in essa infissi. Chi uccide si spoglia da sé del proprio diritto alla vita e lo Stato va a rettificare questa situazione morale. Così Pio XII: «Anche quando si tratta dell’esecuzione capitale di un condannato a morte lo Stato non dispone del diritto dell’individuo alla vita. È riservato allora al pubblico potere di privare il condannato del bene della vita, in espiazione del suo fallo, dopo che col suo crimine, egli si è già spogliato del suo diritto alla vita» (Discorso al I Congresso di Istopatologia del Sistema Nervoso, 13/09/1952, n. 28). A motivo delle nostre azioni degradiamo la nostra dignità morale, non quella naturale che è inscalfibile (l’omicida rimane persona). E’ un po’ come degradarsi a rango di bestie e le bestie non hanno diritti. Così di nuovo l’Aquinate: «Col peccato l'uomo abbandona l'ordine della ragione: egli perciò decade dalla dignità umana […] degenerando in qualche modo nell'asservimento delle bestie […] Perciò sebbene uccidere un uomo che rispetta la propria dignità sia cosa essenzialmente peccaminosa, uccidere un uomo che pecca può essere un bene, come uccidere una bestia» (Summa Theologiae, II-II, q. 64, a. 2, ad 3).

Questo è un primo motivo per affermare che, contrariamente a quanto dichiarato dal Papa, la pena di morte non è contraria alla dignità morale della persona (d’altronde anche la carcerazione sopprime un bene indisponibile come quello della libertà e quindi potrebbe essere intesa, a torto, come lesiva della dignità del recluso).

Perché la pena di morte esprima realmente l’oggetto morale “difesa” occorre però che sia proporzionata a questo fine. Cosa significa? Primo: che esista una reale pericolosità sociale intesa come certezza o alta probabilità che il reo commetterà nuovamente crimini contro la vita o beni simili. La mera possibilità di future aggressioni non giustifica il fine difensivo, non giustifica la pena di morte perché il reo è ormai innocuo (il presente punto si lega al percorso rieducativo del reo che vedremo dopo). Secondo: extrema ratio. Se c’è un altro modo per contenere l’aggressività del reo occorre perseguire quella soluzione. In caso contrario la pena di morte non esprimerebbe più il fine “difendere la comunità”, bensì sarebbe espressione di “omicidio di Stato” oppure di “vendetta”: dalla difesa passeremmo all’offesa. Inoltre sanzioni differenti quali la carcerazione permetterebbero al reo di aver più tempo per emendarsi.

Così il Catechismo della Chiesa cattolica: “L'insegnamento tradizionale della Chiesa non esclude […] il ricorso alla pena di morte, quando questa fosse l'unica via praticabile per difendere efficacemente dall'aggressore ingiusto la vita di esseri umani. Se, invece, i mezzi incruenti sono sufficienti per difendere dall'aggressore e per proteggere la sicurezza delle persone, l'autorità si limiterà a questi mezzi, poiché essi sono meglio rispondenti alle condizioni concrete del bene comune e sono più conformi alla dignità della persona umana. Oggi, infatti, a seguito delle possibilità di cui lo Stato dispone per reprimere efficacemente il crimine rendendo inoffensivo colui che l'ha commesso, senza togliergli definitivamente la possibilità di redimersi, i casi di assoluta necessità di soppressione del reo ‘sono ormai molto rari, se non addirittura praticamente inesistenti» (Evangelium vitae, n. 56)” (n. 2267).

E’ per questo motivo che i pontefici recenti hanno chiesto la cancellazione della pena di morte a livello mondiale, non perchè il principio della difesa del bene comune attualizzato in simile sanzione non sia più valido, ma perché constatavano che attualmente nei paesi di tutto il mondo ci sono altri strumenti – esempio la detenzione – più proporzionati al fine difensivo.

La pena di morte poi ingenera effetti positivi che sono quelli propri di ogni altra sanzione. La funzione retributiva: «La pena ha innanzi tutto lo scopo di riparare il disordine introdotto dalla colpa» (CCC n. 2266).  In altri termini la sofferenza del reo va a restaurare il volto della giustizia che lui stesso ha deturpato. E’ un risarcimento che, secondo giustizia equitativa, deve ripagare con il medesimo valore del danno inferto: vita tolta per vita data. Da ciò discende il criterio di proporzionalità: ad un piccolo danno morale corrisponde una lieve pena; ad un grande danno morale una pena di uguale entità (che può riguardare anche la libertà personale, ma non esclude il bene “vita”). La giustizia è dare a ciascuno il suo: la collettività ha diritto alla sofferenza del reo.

Funzione di deterrenza: non si può escludere che la previsione nel codice di tale pena e la sua reale applicazione non esprimano un’efficacia dissuasiva nei confronti dei consociati. Funzione pedagogica-rieducativa: la pena fa riacquistare al reo quella quota di umanità che ha perso. Si obietterà: ma se costui morirà questo argomento non ha più senso. Per far compiere al reo un percorso rieducativo è bene che tra la sentenza di condanna e l’esecuzione passi un certo lasso di tempo che permetta al reo di emendarsi: in tal modo si soddisfa l’esigenza di riscatto morale chiesta dal Papa. Se ciò avviene, la sentenza capitale non avrebbe più ragion d’essere perché l’emenda è avvenuta e dunque la pena, in merito a questo aspetto, ha avuto efficacia. Inoltre come detto sopra la pericolosità sociale verrebbe meno e dunque parimenti verrebbe meno il fine della pena capitale (difesa della collettività). Anche se quest’ultima fosse immediatamente successiva alla sentenza nulla esclude comunque la resipiscenza e il ravvedimento del reo. Questo è un altro motivo per affermare che la pena capitale può contribuire alla ricostruzione della dignità del reo e che esprime in altro senso la virtù della giustizia: la pena è dovuta al reo perché occasione preziosa per lui di ri-umanizzarsi. Se l’emenda non avviene la pena deve essere comunque irrogata: non esplicherà la funzione rieducativa non per difetto della natura della pena, ma per mancanza di volontà del reo, però conserverà comunque la funzione retributiva e dissuasiva e ovviamente la finalità difensiva stante le condizioni prima menzionate.

Passando dal piano della filosofia morale a quello della teologia morale, ricordiamo l’episodio del buon ladrone condannato a morte. Egli ad un certo punto ammette che la sua pena è giusta: in quel momento non avrebbe più ragion d’essere la sua esecuzione perché ha riacquistato la dignità morale perduta e non è più soggetto pericoloso, ma Gesù permette questa ingiustizia per un bene più grande: la morte in croce servirà sul piano spirituale come pena utile per espiare i peccati commessi e quindi per acquistare meriti per entrare in Paradiso. Perciò la pena di morte non è contraria allo spirito del Vangelo, anche perché essendo valida sul piano morale come potrebbe essere in contraddizione con la fede cattolica?

Come abbiamo visto la bontà morale della pena di morte si incardina nel principio di difesa della collettività. Negare quindi validità morale alla pena di morte porta alla negazione anche dell’istituto della legittima difesa personale – che ne costituisce il previo fondamento – e della guerra difensiva (tra l’altro l’applicazione della pena di morte trova efficace espressione soprattutto nei contesti di guerra difensiva in specie civile dove la messa a morte dell’ingiusto aggressore, capo della coalizione avversaria, spesso pone fine al conflitto e quindi è espressione di giusta difesa della nazione). La risultante sarebbe meno tutela per la vita, più garanzie per gli attentati a questa.


[Modificato da Caterina63 13/10/2017 22:43]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)