DIFENDERE LA VERA FEDE

Mons. N. Bux: La riforma Liturgica e il Concilio Vaticano II

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    Caterina63
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    00 30/03/2009 19:15

    Bux: La riforma liturgica del Concilio Vaticano II.

    da RS

    Un amico ci invia entusiasta la relazione di Don Bux tenuta ieri sera a Monopoli in occasione della settimana di formazione liturgica.


    "Siamo stati tutti felicissimi dell'esito dell'incontro di ieri sera: chiesa gremitissima, fedeli che hanno ascoltato per due ore (!) la relazione tenuta a braccio, fedeli tutti attentissimi; una curiosita': c'erano presenti anche un nutrito gruppo di fedeli che fanno parte del Rinnovamento dello Spirito anche questi a molto attenti e curiosi a sentire cose nuove per loro, come orientamento del sacerdote, lingua latina nella liturgia, bellezza estetica, rito gregoriano ecc. questo é vero confronto e dialogo! Speriamo di riuscire a formare anche qui a Monopoli un gruppo stabile di fedeli e soprattutto di riuscire a convincere il nostro parroco a celebrare il venerando Rito Antico, o quantomeno a trovare un sacerdote disposto a celebrarlo!" (R.R.)



    di Nicola Bux

    1. La sacra liturgia secondo il Concilio

    La Chiesa è una realtà divino-umana, permanentemente rivolta al mistero di Gesù Cristo presente in mezzo a lei: intenta nella liturgia terrena che imita quella celeste. La distanza dal prototipo obbliga la Chiesa al rinnovamento di se stessa. E’ questo spirito che è all’origine anche della riforma liturgica del concilio. In essa innanzitutto risalta la natura e l’importanza della liturgia cattolica, il cui fine è la gloria e l’adorazione del Signore. Essa è il ‘luogo’ dell’incontro con le tre Persone divine, è l’incontro di Cristo con noi: la preghiera che egli, unito al corpo ecclesiale, rivolge al Padre è la voce della Sposa[1]; soprattutto "è l’opera della redenzione "[2] , atto del pellegrinaggio terreno [3] .

    Capiamo da questi tratti essenziali che la liturgia non può replicare le mode del mondo, perché è una novità assoluta: il culto cristiano è Cristo nella sua divino-umanità ,[4] che ha introdotto nel mondo l’inno di lode al Padre [5]. Perciò in essa egli è presente [6]: lo Spirito rende possibile il suo sacrificio, in quanto egli, risorto, è entrato nel tempo una volta per sempre.Come dice la liturgia bizantina egli è
    "l’offerente e l’offerto, il recipiente e il dono", Perché "niente nel suo essere o agire è passato per sempre, eccetto le modalità storiche della sua manifestazione" [7]
    Bisogna pensare a questo quando si parla di ‘escatologia’ nella liturgia e della presenza reale da adorare nei Doni eucaristici. E’ in lui stesso, l’Unico, l’unicità dell’atto di culto della parola e dell’eucaristia [8].

    La memoria di Cristo si fa ogni domenica e ogni giorno dell’anno, sicché la liturgia
    "non è una rappresentazione fredda e priva di vita degli eventi del passato o un semplice e vuoto ricordo di un tempo passato. Ma piuttosto Cristo stesso sempre vivente nella sua Chiesa" [9]

    E’ questo l’esercizio del suo sacerdozio [10] grazie allo Spirito che espande l’energia divina, la grazia [11]; così la presenza di Cristo cambia nel suo essere l’uomo, toccando e santificando tutti i momenti della vita [12], unendo gli uomini e proponendo la Chiesa quale segno di salvezza che raccoglie i dispersi [13]. Dunque, si capisce meglio la celebre frase che la liturgia è “fonte e culmine”.


    2.La parte immutabile della liturgia

    Il più antico racconto delle apparizioni del Risorto a più di cinquecento persone(1 Cor 15,36) mostra che la Chiesa è convocazione; il termine assemblea per non essere equivocato in senso democratico, deve essere completato: essa è convocata da Cristo; la “chiamata da ogni parte”, ek- klesis, è l’etimologia della parola Chiesa.

    E’ proprio essa, la Chiesa, l’opera della redenzione; perciò esige una coscienza, una consapevolezza d’esserne parte per poter prender parte alla liturgia; ne consegue la necessità della formazione dei fedeli e in particolare del clero [14], a cominciare dall’iniziazione, passando per il catechismo fino al seminario; questo è anche lo scopo dell’adattamento delle forme liturgiche. Se la formazione punta sulla consapevolezza sorgiva di essere corpo ecclesiale, la partecipazione diventa attiva e fruttuosa [15], fino ad offrire al Signore l’offerta di noi stessi perché ci faccia diventare offerta eterna [16]. Siccome la partecipazione non può prescindere dall’itinerario sacramentale [17] ad un tempo “fonte e culmine” della vita cristiana, essa deve tendere alla perfezione che è la comunione [18] e ne stabilisce le condizioni, innanzitutto la fede. Educare alla partecipazione significa educare alla fede, cioè a rispondere alla grazia divina, sia in modo individuale che ecclesiale (cfr 1 Gv 1,1-4); la fede individuale riposa nel corpo ecclesiale.

    La liturgia cristiana è fatta innanzitutto da persone, poi da segni; noi con Cristo la costituiamo e attraverso i sacramenti ne siamo trasformati: il battesimo che ci rende per gli altri acque purificatrici e olio che sana e fortifica; l’eucaristia che ci cambia e ci fa diventare Cristo l’uno per l’altro e testimonianza per il mondo che non ancora lo conosce [19] . Così egli diventa visibile in noi(Gal 2,20). Dalla fede vissuta nel sacramento, viene la moralità del cristiano.

    Tutto questo costituisce la "parte immutabile di istituzione divina" [20] , che la restaurazione o riforma della liturgia sempre attuata nei secoli, non tocca e che, quanto alle forme rituali, deve essere preceduta da accurata investigazione [21] . Ma si deve constatare, insieme ad autorevoli studiosi come Jungmann, Gamber, Bouyer, Inos Biffi, che tale auspicio è stato disatteso.

    Un esempio: la costituzione liturgica raccomanda che "i riti non abbiano bisogno di molte spiegazioni" [22] , invece si assiste a liturgie dove l’eloquenza dei segni è subissata da una colluvie di parole e didascalie che impediscono ai primi di parlare al cuore del fedele. Un altro esempio: si invita a ristabilire ciò che è caduto in disuso: penso all’uso del latino, espressione della parte immutabile della liturgia, pur nel rispetto della varietà, al gregoriano e ai suoi libri da rieditare [23] . La musica sacra è un compito ministeriale [24], perché è ‘sacra’, cioè ha una oggettività che prescinde dal gusto soggettivo anche se se ne serve. Proprio per garantirla la Chiesa si riserva il diritto di essere arbitra delle forme artistiche [25] e di valutare ciò che può essere ammesso.

    L’uso della lingua parlata non è necessariamente sinonimo di comprensione. Né comprendere vuol dire rendersi maestri, ma lasciarsi coinvolgere da essa. Noi non capiremo mai totalmente la liturgia, non solo perché essa è il mistero di Cristo, ma perché è essa che comprende noi. E’ il cuore che deve intelligere e ciò è molto più profondo del capire nozioni, riti e simboli nei loro aspetti biblici o antropologici e così via. Oltre l’intelligenza e il cuore, per entrare in essa ci vuole anche immaginazione, memoria, e tutti i cinque sensi, come si è anzi detto, devono entrare in gioco, non solo l’udito, quasi non ci sia più niente da vedere. Più che di spiegazione la liturgia ha bisogno d’essere vissuta con la fede.

    Per conoscere la liturgia bisogna entrare in relazione col mistero di Cristo e farsi toccare: tutto questo è ‘partecipare’. Non è necessario comprendere tutto ma lasciarsi prendere anima e corpo.Proprio qui è il significato del “simbolo” sacramentale: esprimere l’invisibile che è indicibile attraverso il sensibile. E’ ben diverso da un segno che rinvia ad altro, il simbolo contiene la realtà spirituale e guida alla contemplazione dell’invisibile.Per entrare, anche psicologicamente, ci vuole tempo affinché tutto l’essere sia coinvolto, soprattutto la fede.

    E ci vuole il tempo liturgico che, ritornando come le stagioni, permette al tempo salvifico di correre linearmente verso il compimento, coinvolgendo grazie al sacramento il cosmo e la storia. Senza tutto questo la liturgia diventa talmente disincarnata che è normale che la gente preferisca compiere gesti in un santuario in cui si può almeno fare il giro della statua e toccarla, accendere il cero, deporre i fiori; così disincarnata che è normale che ci si rivolga verso culti esoterici.


    3. Guardare alla Croce per essere rivolti al Signore

    Nella liturgia noi ‘entriamo’ in adorazione, non la creiamo; la creatività liturgica è possibile solo se ci si sintonizza su questa frequenza della fede, senza della quale la liturgia non ha senso. Essa viene dall’alto, in questo senso la Chiesa la fa, ma ispirata dalla Scrittura e dalla Tradizione.

    La liturgia si serve non la si asserve. Si entra conversi ad Dominum per ascoltare, obbedire e accogliere la risposta, specialmente nei sacramenti. L’attore unico della liturgia è Gesù Cristo, non noi che siamo solo ospiti, altrimenti sarebbe un teatro. Essa è la sua epifania, il prolungamento dei suoi misteri dalla nascita alla risurrezione; essa è una realtà mistica nella misura in cui coinvolge anche la mia nascita, la mia vita, la mia morte. La liturgia educa l’uomo attraverso Cristo maestro e la Chiesa madre, cioè lo introduce al significato della realtà e alla sua irriducibile positività, pur sullo sfondo drammatico del duello col Maligno.

    Definir la liturgia culmine e fonte l’endiadi celebre della Sacrosanctum Concilium (n 10) resta incomprensibile senza la presenza di Gesù Cristo, che è venuto nel mondo per stare con noi tutti i giorni fino alla fine. Se però chiediamo a laici impegnati, a presbiteri e a vescovi la definizione di liturgia, non risponderanno citando la prima, bensì la seconda. Sembra che teologi e liturgisti nel post-concilio abbiano dimenticata la prima definizione che il concilio dà di liturgia. Invece è grazie a quella che la definizione «culmine e fonte» utilizzata anche da Benedetto XVI in Sacramentum caritatis (nn. 3, 17, 70, 76, 83, 93) ha il suo senso. Ma bisogna anche chiedersi perché la prima definizione sia stata fatta cadere. Forse perché la seconda si presta più facilmente all’idea che la liturgia sia fatta da noi ... con tutte le conseguenze! Il Vaticano II avrebbe avallato tale idea?

    Trattando dell’ecclesiologia della Lumen gentium, Ratzinger cardinale dice che il Vaticano II, scegliendo di trattare della liturgia prima di ogni altra cosa, aveva dato l’inquadramento generale ai suoi decreti. Parlare di liturgia, infatti, significa parlare di Dio: “All’inizio vi è l’adorazione e quindi Dio”. Quindi è impensabile far passare un concetto principalmente umano di liturgia, cioè la sua organizzazione, come la vera intenzione del concilio.

    L’etimologia ci ricorda che la parola greca ekklesia viene dal verbo kaleo e dall’ebraico corrispondente qahal. La liturgia della chiesa non è una riunione spontanea di popolo che celebra e festeggia a suo modo la divinità, non una congregazione organizzata dai fedeli - secondo qualche liturgista, anche la parola latina celebrare avrebbe sullo sfondo il verbo greco kaleo – ma è convocata da Dio:
    “La chiesa deriva dall’adorazione, dalla missione di glorificare Dio…L’ecclesiologia ha a che fare per sua natura con la liturgia…Nella storia del dopo concilio la costituzione sulla liturgia non fu certamente più compresa da questo fondamentale primato dell’adorazione, ma piuttosto come un libro di ricette su ciò che possiamo fare con la liturgia…Quanto più però noi la facciamo per noi stessi, tanto meno attraente essa è, perché tutti avvertono chiaramente che l’essenziale va sempre più perduto” [26]

    All’inizio della riforma non si mise in discussione la croce sull’altare o in alto, in modo che lo sguardo del prete da una parte e dei fedeli dall’altra potessero soffermarsi su di essa. Poi pian piano si è teorizzato che poteva essere spostata ad un lato; infine è finita alle spalle del sacerdote – sovente insieme al tabernacolo - e non è più oggetto di attenzione; questo accade mentre il filorientalismo moltiplica le icone ai lati dell’altare nella speranza che siano più venerate. Vuol dire che si sente ancora l’esigenza di aiutare i fedeli a soffermarsi sull’immagine.

    Poi, la celebrazione odierna mette il prete al centro con la sua sede: è diventata una liturgia versus presbyterum, non più versus Deum! Il sacerdote è diventato più importante della croce, dell’altare e del tabernacolo! Impariamo dalla liturgia orientale e dalla messa antica ritenuta clericale, in cui la cattedra del vescovo e la sede del celebrante stanno a destra e a sinistra dell’altare, in modo da non dare le spalle e da permettere di guardare lo stesso altare e la croce, insieme il grande segno di Cristo, e nello stesso tempo di essere in testa all’assemblea dei fedeli. Senza fare grandi lavori tutto questo si può attuare, in particolare la croce deve tornare al centro dell’altare o sopra di esso, come Benedetto XVI ha ripreso a fare nelle celebrazioni da lui presiedute. Solo Cristo può essere al centro degli sguardi di tutti (cfr Lc 4,21). Se i segni valgono qualcosa!

    La sacra liturgia ha bisogno della nostra umiltà: “Ti preghiamo umilmente”. L’umiltà è la vera misura della liturgia e di conseguenza di noi stessi, perché siamo creature e bisognosi di tutto. Così intesa l’umiltà è verità. Non è la vera adorazione quella fatta in spirito e verità? E’ alla verità che tende l’intelletto. La mediazione tra Dio è il popolo è del tutto sottomessa a quella di Gesù Cristo, non il momento dell’autorealizzazione. Perciò il sacerdote deve avere coscienza di non poter mettere in primo piano se stesso e tanto meno le sue opinioni, ma solo Cristo.

    Il senso vero di pròestos, incomprensibile con la parola ‘presidente’, è stare davanti agli altri e in tal senso prae-sedens. Dalla Didascalia siriaca si deduce che il vescovo stava davanti o in testa alla comunità che guardava l’altare verso oriente, tant’è che gli si chiede, nel caso entrasse un povero, di cedergli il posto, cosa che non avrebbe potuto fare se fosse stato seduto di fronte e su un trono.Ancora una volta questo vuol dire umiltà (cfr Sacramentum caritatis, 23).


    4. La liturgia riproposta ad ogni generazione

    Se quanti amano o scoprono la precedente tradizione liturgica devono anche convincersi “del valore e della santità del nuovo rito”, tutti gli altri dovrebbero riflettere sul fatto che
    “nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso” [27]
    Le parole di Benedetto XVI richiamano queste altre:
    “se da una parte constatiamo con dolore che in alcune regioni il senso, la conoscenza e lo studio della liturgia sono talvolta scarsi o quasi nulli, dall’altra notiamo con molta apprensione che alcuni sono troppo avidi di novità e si allontanano dalla via della sana dottrina e della prudenza. Giacché all’intenzione e al desiderio di un rinnovamento liturgico, essi frappongono spesso principi che, in teoria o in pratica, compromettono questa santissima causa, e spesso la contaminano di errori che toccano la fede cattolica e la dottrina ascetica”
    Chi le ha scritte è Pio XII, nell’introduzione dell’enciclica Mediator Dei. La logica è la medesima: la tradizione è necessaria e l’innovazione ineluttabile, ed entrambe sono nella natura del corpo ecclesiale come del corpo umano. Non si oppongono ma sono complementari e interdipendenti. Pertanto non ha senso essere ad oltranza innovatori o tradizionalisti. Semmai bisogna incontrarsi e confrontarsi senza pregiudizio e con grande carità.


    Note

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    [1] Sacrosanctum Concilium, 84.
    [2] Ivi, 1,2,104.
    [3] Ivi, 8.
    [4] Ivi, 5-6.
    [5] Ivi, 83.
    [6] Ivi, 7a.
    [7] R.Taft, Che cosa fa la liturgia? Verso una soteriologia della celebrazione liturgica. Alcune tesi, 129(maggio-giugno 1993), p 14.
    [8] Sacrosanctum Concilium, 56.
    [9] Pio XII, Mediator Dei; DS 3855.
    [10] Sacrosanctum Concilium, 7b.
    [11] Ivi, 10b.
    [12] Ivi, 61.
    [13] Ivi, 2.
    [14] Ivi, 14.
    [15] Ivi, 11,14.
    [16] Ivi, 12,48,105.
    [17] Ivi, 61.
    [18] Ivi, 55.
    [19] Taft , Cosa fa la liturgia, Op.cit., p 15,12.
    [20] Sacrosanctum Concilium, 21.
    [21] Ivi, 23.
    [22] Ivi, 34 ; anche 35,3 e 59.
    [23] 50, 36,1, 37,116, 117.
    [24] Ivi, 112.
    [25] Ivi,122.
    [26] L’ecclesiologia della costituzione Lumen gentium, in La Comunione nella Chiesa, Cinisello B. 2004, p 132-133.
    [27] Ivi.


    Si ringrazia R.R. per il prezioso contibuto.[SM=g1740722] [SM=g1740721]

    [SM=g1740733]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 01/04/2009 22:11

    Dal sito blog messainlatino.it e per "parcondicio"[SM=g1740733] pubblichiamo volentieri la risposta della FSSPX a mons. Nicola Bux


    FSSPX: Lettera aperta a don Nicola Bux

    Sulla Rivista Ufficiale del Distretto italiano della Frat. S. Pio X, La Tradizione Cattolica, 2009, 1, p. 7 ss., leggibile a questo link, è pubblicata una lunga "lettera aperta" a mons. Bux, in pratica un commento al suo libro sulla Riforma liturgica di Papa Benedetto ed una riposta, negativa, al programma della riforma della riforma. Premettiamo che la nostra opinione propende più per la tesi di Bux, ossia della necessaria coesistenza e mutuo arricchimento dei due riti, e per ragioni innanzitutto pratiche più che teoretiche: perché è irrealistico pensare che la riforma liturgica postconciliare, per infelice che sia, possa essere cancellata; essendo quindi, inevitabilmente, destinata a durare, l’unica possibilità praticabile è cercare di emendarla nei limiti del possibile, con gradualità e pazienza. Quel che cerca di fare il Papa, tra i mille ostacoli che vediamo anche noi. Ma nonostante un parziale dissenso sulle conclusioni, che saranno sicuramente oggetto di dibattito anche tra i nostri colti commentatori, apprezziamo molto nella lettera l’analisi chiara e approfondita, e inevitabilmente critica, degli elementi salienti che contraddistinguono il nuovo rito rispetto all’antico. Abituati da lustri a sentire superficialmente esaltare la riforma liturgica come fosse stata l’uscita dalla schiavitù dell’Egitto, è illuminante sentir ricordare quali tesori liturgici avevamo perduto.



    Rev.do don Nicola Bux,

    ci è sembrato doveroso prendere in seria considerazione la sua ultima pubblicazione La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione, che appare come la continuazione dell’appello che lanciò sull’Osservatore Romano il 18 novembre dello scorso anno, quando invitò a «confrontarsi senza alcun pregiudizio» sulla liturgia. Da allora i suoi sforzi sono sempre andati nella direzione di offrire un contributo di verità per uscire dalla crisi liturgica (e dottrinale) che sta attraversando la Chiesa cattolica. È un appello che non si può lasciar cadere, perché finalmente, dopo anni di riduzione al silenzio di quanti non fossero d’accordo con la vulgata liturgica, una voce autorevole, a seguito di quella del Sommo Pontefice, esce dagli schemi patrocinati sembra dalla corte celeste: almeno da Sant’Anselmo e Santa Giustina. Lei è un uomo di spirito: siamo certi che saprà sorridere, senza vedere in questa battuta alcuna polemica.

    Il primo grande merito del suo libro: aver portato all’attenzione del grande pubblico, rinunciando a stile e dimensioni accademiche, i dissensi intestini alla riforma liturgica, particolarmente accennando all’opposizione del Cardinale Ferdinando Antonelli ai diktat di Bugnini. La liturgia è oggi «un campo di battaglia», per usare una sua espressione, perché tale è stata fin dall’inizio della sua riforma. Il secondo merito e non lo affermiamo per una mera captatio benevolentiae è racchiuso nei capitoli primo (La sacra e divina liturgia), secondo (A chi ci avviciniamo con il culto divino) e sesto (Come incontrare il mistero), che costituiscono una bella e profonda introduzione all’essenza dello spirito liturgico. Sono questi dei capitoli che ogni sacerdote ed ogni fedele dovrebbe leggere e meditare. E non possono che allietare le considerazioni sull’essenziale verticalità della liturgia, da riguadagnare anche a partire dalla vexata quaestio del versus liturgico, quell’orientamento verso oriente tutt’uno con l’orientamento verso la croce, per significare nuovamente la centralità di Nostro Signore Gesù Cristo e del Suo Sacrificio. Ora, lei riconosce, ed il suo libro ne è chiara testimonianza, che il Rito tridentino ha saputo incarnare in modo eccellente l’autentico spirito liturgico; tuttavia una delle sue tesi di fondo è che anche «la riforma liturgica nel suo insieme, comprese le parti già attuate, possono essere riesaminate alla luce del vero spirito della liturgia» (p. 59). Lei auspica dunque un movimento degli estremi verso il centro: «Se quanti amano o scoprono la precedente tradizione liturgica devono anche convincersi del valore e della santità del nuovo rito , tutti gli altri dovrebbero riflettere sul fatto che nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura» (pp. 45-46). È su questo punto che vorremmo soffermarci e confrontarci, partendo dalle sue affermazioni e cercando di seguirne la logica interna, che ci porterà però ad una conclusione diversa dalla sua, riconoscendo nel contempo che la sua conclusione sia naturale per un buon cattolico, al quale ripugna a ragione l’idea di una rottura nello sviluppo della liturgia. Ma sono i fatti, che lei ha mostrato e che noi semplicemente riproporremo e arricchiremo, sono i fatti dunque a mostrare il vero volto del nuovo rito. Ed una precisazione previa è d’obbligo: non prenderemo in esame gli abusi illegali, come le messe rock, o quelle stile pic-nic o altre pagliacciate di questo genere. Non ci soffermeremo troppo nemmeno sugli abusi legalizzati, ossia la Comunione ricevuta in piedi, sulla mano, l’uso esclusivo della lingua volgare, etc. Sappiamo bene che tutto questo non è contemplato nel Novus Ordo, ma è frutto di aggiustamenti successivi e di un dinamismo liturgico che pretende essere sempre vivo e operante. Tuttavia anche questi elementi devono essere considerati come il frutto della riforma liturgica, così come è stata concepita e di fatto realizzata da Bugnini & C. Rimandiamo al seguito della lettera per argomentare quest’ultima affermazione, grave senz’altro, ma non frutto di fantasia né di pregiudizio.

    Il principio guida

    Nelle nostre considerazioni ci facciamo guidare dalla sua brillante spiegazione del termine riforma: «Si sa che non c’è contenuto senza forma; da quando Dio si è fatto uomo, non c’è verità che non abbia una forma che lo richiami. Ri-forma vuol dire migliorare la forma o cambiarla? Non sembra univoco il senso. Secondo i Padri della Chiesa è da rinnovare sempre. Ma la riforma non può essere intesa nel senso di una ricostruzione secondo i gusti del tempo. La riforma, secondo Michelangelo, è quella dell’artista che libera l’immagine dal materiale da cui è ostruita; l’immagine è già presente nel marmo e non c’è che da eliminare le incrostazioni che si sono depositate nei secoli. Riforma è togliere ciò che offusca affinché divenga visibile la forma nobile, il volto della Chiesa e insieme con essa anche il volto di Gesù Adottato per la liturgia il termine riforma può essere accettabile o meno: accettabile se la forma corrisponde al contenuto, non se la forma indica un altro contenuto» (p. 49). In questo brano c’è tutto: riformare significa fare in modo che la forma esprima il contenuto nel modo migliore possibile, tenendo fermo che tale contenuto non è a disposizione dei gusti del tempo. Il volto della Chiesa e di Gesù Cristo non sono vendibili sul mercato dei gusti e delle sensibilità storiche. Il suo principio guida è perfettamente sulla scia di quello che diede Pio XII nella meravigliosa enciclica Mediator Dei: «La gerarchia ecclesiastica ha sempre usato di questo suo diritto in materia liturgica disponendo ed ordinando il culto divino ed arricchendolo di sempre nuovo splendore e decoro a gloria di Dio e per il vantaggio dei fedeli. Non dubitò inoltre salva la sostanza del sacrificio eucaristico e dei sacramenti di mutare ciò che non riteneva conforme, aggiungere ciò che meglio sembrava contribuire all’onore di Gesù Cristo e della Trinità augusta, e all’istruzione e stimolo salutare del popolo cristiano». Non abbiamo nessuna remora a sottoscrivere questo testo; noi riconosciamo alla gerarchia il diritto di intervenire in materia liturgica e tale riconoscimento è stato da noi mostrato nei fatti. Quella di san Pio V non fu una riforma? Anche gli stessi interventi più recenti in materia liturgica, quali quelli da lei stesso ricordati, fino al messale del 1962, sono stati da noi accolti con filiale obbedienza. Il problema non è dunque nella liceità della riforma liturgica, ma nella riforma specifica che è seguita al Concilio e si è concretizzata nel messale di Paolo VI. Questa riforma non è in linea con il principio guida ammesso sia da noi che da lei e pertanto non può essere paragonata alle altre riforme che l’hanno preceduta. Non possiamo concordare quando, richiamandosi alla lettera del Santo Padre che ha accompagnato il Motu Proprio Summorum Pontificum, lei afferma che il messale del 1962 e quello di Paolo VI sono «due stesure conseguenti, come altre volte è avvenuto nei secoli, allo sviluppo dell’unico rito, infatti chi conosce la storia dei libri liturgici sa che in occasione della loro ristampa sono stati emendati e arricchiti di formulari per messe, benedizioni ecc.» (p. 62). Non possiamo essere d’accordo, perché non possiamo negare la realtà, quella realtà che lei stesso ha richiamato in più punti del suo libro e che ora intendiamo ripercorrere.

    «Una riforma decisamente radicale»

    Citiamo dal suo libro: «Purtroppo il messale di Paolo VI non contiene tutto quello di Pio V - se si sta alle edizioni nelle lingue nazionali - inoltre lo ha mutato in più punti aggiungendo nuovi testi» (p. 72). E poco oltre: «È vero che il papa Paolo VI intendeva restaurare semplicemente il rito di san Pio V ovvero la liturgia di san Gregorio, ma, purtroppo gli esperti in una prima fase presero il sopravvento fabbricando un’altra cosa. Quando il Papa se ne accorse, abbiamo visto cosa accadde; intanto, come si suol dire, i buoi erano scappati dalla stalla. Proprio questo svarione ha prodotto la frattura perché ha svelato che non tutto era andato per il verso giusto» (pp. 72-73). Ecco, appunto. Quello che Paolo VI corresse è in definitiva il noto paragrafo 7 dell’Institutio generalis del 1969, forse a seguito del Breve esame critico degli eminentissimi cardinali Ottaviani e Bacci o di un intervento presso Paolo VI del Cardinal Journet. Certamente si trattò di una correzione importante; ma a cosa servì cambiare quella definizione di Messa se si lasciò inalterato il nuovo messale che di quella definizione è l’espressione? Il summenzionato Breve esame critico non rivolse la propria denuncia solo verso quel punto dell’Institutio, ma verso il Novus Ordo «sia nel suo insieme come nei particolari», affermando che si trattava di «un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa»(1). I buoi erano ormai scappati, come lei ci ricorda, ed il messale di Paolo VI è il frutto di questa fuga che non è stata fermata in tempo. È tempo di mostrare che la forma del nuovo messale non corrisponde al contenuto cattolico, ma ad un altro contenuto e dunque, seguendo il principio guida che lei ci ha fornito, non si è trattato di una riforma ma di una rivoluzione. In un’intervista(2) rilasciata da Andrea Rose, Canonico titolare della cattedra di Namur (Belgio) e consultore del Consilium ad exequendam constitutionem de sacra liturgia, il cui segretario era mons. Annibale Bugnini, abbiamo la conferma che la mente della riforma liturgica fu proprio Bugnini: «Ciò che so, è che mons. Martimort non era molto d’accordo con lui [Bugnini]. Egli lo criticava tutte volte che era assente. Mi diceva: "Questo Bugnini fa ciò che vuole!". Un giorno mi ha detto: "Sapete, Bugnini ha fatto una buona scuola media". Era questo il giudizio di Martimort su Bugnini. All’inizio credevo che esagerasse, ma poi mi sono reso conto che aveva ragione. Bugnini non aveva alcuna profondità di pensiero. Fu una cosa grave designare per un posto simile una persona che era come una banderuola. Ma si rende conto? La cura della liturgia lasciata a un pover’uomo come quello, un superficiale». Ed aggiunge: «Bugnini era sempre dal Papa, per informarlo. Un giorno, era all’inizio, quando i problemi non erano ancora così gravi, ero in piazza San Pietro col Padre Dumas. Abbiamo incontrato Bugnini, che ci ha indicato le finestre dell’appartamento di Paolo VI, dicendo: "pregate, pregate perché ci sia conservato questo Papa!". E questo perché egli manovrava Paolo VI. Andava da lui per fargli rapporto, ma gli raccontava le cose come piaceva a lui. Poi ritornava, dicendo: "Il Santo Padre desidera così, il Santo Padre desidera cosà". Ma era lui che, sottobanco...». Affermazioni pesanti, certamente, ma che collimano con quelle del Cardinale Antonelli da lei riportate e che rivelano principalmente il peso determinante che ebbe Bugnini nella compilazione del nuovo messale. Ma Bugnini non era certamente il solo; il Cardinale Antonelli non fa mistero che il clima che prevaleva nel Consilium era tutt’altro che rassicurante: spirito di critica ed insofferenza verso la Santa Sede, razionalismo, nessuna preoccupazione per la vera pietà, impreparazione teologica Non stupisce allora il risultato, che ha solo la maschera di un ritorno alle fonti liturgiche, come rivela ancora don Rose: «Certuni, nel Consilium, volevano il ritorno alla tradizione principale quando faceva loro comodo. Francamente, che si potessero effettuare delle piccole riforme, d’accordo, ma ciò che si è fatto è stato decisamente radicale». La riforma detta di Paolo VI non ha precedenti nella storia liturgica; nemmeno la riforma di Lutero, a detta di Mons. Klaus Gamber, fu così radicale: «La nuova organizzazione della liturgia, e soprattutto le profonde modifiche del rito della messa sorte sotto il pontificato di Paolo VI, e sono anzitempo divenute obbligatorie sono state molto più radicali della riforma liturgica di Lutero - almeno in ciò che riguarda il rito esteriore - ed hanno tenuto meno conto della sensibilità popolare»(3).

    La Messa, vero e proprio sacrificio e la transustanziazione

    Dicevamo che la forma deve esprimere il contenuto. Le proponiamo una rapida ricognizione della riforma liturgica per verificare se la forma del Novus Ordo corrisponde ai contenuti fondamentali della dottrina sul santo Sacrificio della Messa. «L’augusto sacrificio dell’altare non è, dunque, una pura e semplice commemorazione della Passione e Morte di Gesù Cristo, ma è un vero e proprio sacrificio, nel quale, immolandosi incruentamente, il sommo Sacerdote fa ciò che fece una volta sulla croce, offrendo al Padre tutto Se stesso, Vittima graditissima»(4). Il Messale di San Pio V richiama incessantemente questo aspetto, tanto fondamentale in quanto esso esprime l’essenza della Santa Messa. E lo fa principalmente nell’Offertorio e nel Canone.

    1. La sostituzione dell’Offertorio.

    L’Offertorio ha precisamente la funzione di anticipare non l’effetto della consacrazione, ma il suo significato, richiamando così il sacerdote ed i fedeli all’offerta di loro stessi, in unione alla Vittima divina. Il tutto nell’antichità veniva espresso con la sola presentazione del pane e del vino e la santificazione delle oblate. Nei secoli questo significato si è tradotto in una molteplicità di riti. San Pio V, nell’intento di unificare e regolare le cerimonie del culto pubblico, scelse quelle formule che meglio esprimevano il gesto dell’offerta, significato nel sollevare la patena ed il calice. Nel nuovo Offertorio non è rimasto più nulla di tutto questo, neppure il nome Offertorio, sostituito da Presentazione dei doni ; ed effettivamente la nuova formulazione non ha nulla a che vedere con l’intenzione offertoriale. Se ne accorse lo stesso Paolo VI, ma non apportò alcuna modifica. Egli fece notare che le formule «sono due belle espressioni eucologiche, ma che non hanno alcuna intenzionalità oblativa, se si tolgono i due incisi [proposti dal Papa, n.d.A.]: quem tibi offerimus , quod tibi offerimus; non sono, senza di essi, formule dell’offertorio. Perciò sembra che tali due incisi diano valore specifico d’offerta al gesto e alle parole». Ma, a riprova della dittatura di Bugnini e del Consilium, il Papa aggiunse: «Tuttavia si rimette la decisione circa la loro permanenza o la loro soppressione al giudizio collegiale del Consilium»(5). Dunque anche Paolo VI è concorde con noi nel dire che l’Offertorio del Novus Ordo semplicemente non è un offertorio L’aggiunta delle due formule suggerite dal Papa ha finito per aggravare la situazione: pane e vino sono offerti a Dio in luogo dell’unica offerta a Lui gradita, quella del Corpo e del Sangue del suo Figlio, e l’uomo si dichiara capace di offrire a Dio i frutti del proprio lavoro; l’Eucaristia come sacrificio non è contemplata nelle due formule di presentazione dell’ostia e del vino, che invece rinviano subito l’attenzione sull’Eucaristia come sacramento («perché diventi per noi cibo di vita eterna»; «perché diventi per noi bevanda di salvezza»). L’elemento sacrificale risulta così non negato, ma certamente posto in ombra, a grave danno della fede di chi celebra e di chi assiste. L’Offertorio romano è stato devastato con delle pseudo-motivazioni, che manifestano l’assenza di formazione teologica e sensibilità liturgica da parte di molti membri del Consilium. È ancora don Andrea Rose a dirci come andarono i fatti: «Coloro che si sono occupati della Messa sono stati ancora più radicali di quanto lo fummo noi nell’Ufficio Divino. Basta vedere come è stato quasi eliminato l’Offertorio. Dom Capelle non voleva alcun Offertorio. Si parla come se il sacrificio fosse già compiuto. Si rischia di credere che tutto è stato già fatto , diceva. Non si rendeva conto che tutte le liturgie contengono una anticipazione come quella, Ci si pone già nella prospettiva del compimento. Domanda: Non si tratta della mancanza di una prospettiva finalista? Risposta: Sì, e allora si è finito col sopprimere tutto, tutto quello che era preghiera nell’Offertorio, perché, si diceva, non si tratta ancora del sacrificio. Ma, insomma, qui siamo di fronte a delle posizioni molto razionaliste! Una mentalità da scolaresca! Domanda: Nella sua esperienza pastorale ha notato che i fedeli avessero creduto che le oblate fossero già state consacrate? Vale a dire: ha constatato la concretizzazione dei pericoli sottolineati da dom Capelle? Risposta: Ma no, ma no. Mai! E poi, basta guardare come si svolgono i riti orientali. Là è la stessa cosa. E sarebbe interessante comparare tutte queste cose».

    2. Dal Canone alle Preghiere eucaristiche

    Si è riuscito a far di peggio per quanto riguarda le Preghiere eucaristiche. Accanto al Canone, riproposto nella Preghiera eucaristica I, ma con delle variazioni significative che vedremo più avanti, sono state poste altre anafore (quattro, più due dette della riconciliazione). Tutte queste preghiere sono state fatte a tavolino, compresa la seconda, che del Canone di Ippolito ha si è no l’ispirazione. E per quale profondo motivo teologico? Per porre fine «a secoli di fissismo»(6)! Lei ha ragione quando dice che «la liturgia è un processo vitale, non il prodotto di erudizione specialistica» (p. 50). Ora, le nuove Preghiere eucaristiche sono precisamente il frutto delle mani di una commissione che, secondo il giudizio del Cardinale Antonelli da lei riassunto, era caratterizzato dall’«incompetenza di molti, sete di novità, discussioni affrettate, votazioni caotiche pur di approvare al più presto» (p. 50). È sensato, secondo lei, mettere fine al Canone (perché di fatto il Canone non è più canone, norma) che raccoglie oltre 1500 anni di tradizione liturgica, che, secondo il Concilio tridentino, è «talmente puro da ogni errore, da non contenere niente che non profumi di grande santità e pietà e non innalzi a Dio la mente di quelli che lo offrono»(7), perché nelle adunanze del Consilium «c’era chi sottolineava le difficoltà che l’attuale Canone comportava per la nuova epoca e mentalità moderna»(8)? C’è un altro rilievo da fare: Bugnini affermò che nelle tre Preghiere eucaristiche aggiunte, «per quanto possibile, si è evitato di ripetere concetti, parole e frasi del canone romano»(9). Ma allora che cosa si esprime in quelle preghiere eucaristiche? Se il Canone raccoglie ed esprime la tradizione liturgica sul Santo Sacrificio, armonizzando meravigliosamente l’impetrazione, il ringraziamento, la supplica, l’espiazione, che cosa resta nelle altre Preghiere eucaristiche?

    3. L’abominazione nel luogo sacro: la modifica della formula di consacrazione

    C’è un altro aspetto, che interessa anche la Preghiera eucaristica I e che colpisce direttamente l’azione sacrificale della consacrazione. Si tratta della modifica della forma della consacrazione; anche in questo caso, Bugnini agì di testa sua, contrariamente all’indicazione del Papa, che chiese di lasciare immutato il Canone e di aggiungere altre due o tre anafore da usare in alcuni tempi(10). In primis, quella che veniva chiamata consacrazione, nel nuovo messale è divenuta il racconto dell’istituzione ; ed il nuovo titolo ci fornisce, purtroppo, l’autentica chiave di lettura delle modifiche della formula consacratoria. L’aggiunta delle parole: «Prendete e mangiatene tutti» e «Prendete e bevetene tutti», che nel Messale di san Pio V sono chiaramente distinte dalla vera e propria formula di consacrazione sia per il punto fermo che le segue che per la differenza dei caratteri tipografici, permettono di considerare la consacrazione più come memoriale narrativo che come vero e proprio sacrificio reso presente esattamente per mezzo della formula pronunciata dal sacerdote. Anche l’«hunc praeclarum calicem» è divenuto semplicemente «il calice»; ma mentre nel primo caso si sottolinea l’azione in persona Christi, per cui quel calice dell’ultima cena è questo calice, nel secondo caso questa sottolineatura è omessa, favorendo ancora una volta lo stile narrativo. Lei sa bene come nella liturgia ogni parola, usata o non usata, ogni gesto, ogni silenzio hanno un valore e veicolano un’idea teologica. Bugnini & C. sono passati come un uragano, mettendo sottosopra una formula consacratoria che mai nessuno aveva osato alterare. Veramente qualcuno l’aveva mutata: i protestanti; e se si va a prendere il loro testo di racconto della Cena, essi hanno precisamente il medesimo testo presente nel nuovo Messale. È veramente incredibile la presunzione di Bugnini quando afferma che la formula consacratoria presente nel Canone «è per se stessa gravemente incompleta dal punto di vista della teologia della messa»(11)! Non meno incredibili sono le motivazioni addotte per la rimozione del «mysterium fidei» dalla formula consacratoria, prima dell’acclamazione dell’assemblea: «non è biblica; si trova solo nel canone romano; è di origine e significato incerti; gli stessi periti discutono sul senso preciso di queste parole. Anzi, alcuni le intendono in senso addirittura pericoloso perché la traducono: segno per la nostra fede; interrompe la frase e ne rende difficile il senso e la traduzione»(12). E invece quel «mysterium fidei» posto immediatamente dopo la consacrazione del vino, ha un valore enorme, perché afferma che è appena avvenuta l’immolazione, per mezzo della doppia consacrazione, che è il mistero dei misteri della nostra santa fede. C’è poi l’aggiunta delle acclamazioni dell’assemblea, secondo tre differenti formulari. A parte l’inopportunità di inserire in questo punto un’acclamazione, che interrompe la sacralità del silenzio, occorre notare che le prime due formule («Annunciamo la tua morte...», e «Ogni volta che mangiamo...») sono davvero molto pericolose, perché spostano l’attenzione dei fedeli alla «seconda venuta del Cristo alla fine dei tempi proprio nel momento in cui Egli è veramente, realmente e sostanzialmente presente sull’altare»(13), allorché si parla dell’«attesa della tua venuta». Inoltre la formula «Ogni volta che mangiamo...» è del tutto inadeguata e nociva al senso del sacrificio appena compiuto. Infatti non sottolinea che è la consacrazione ad «annunciare (nel senso di rendere presente) la tua morte, Signore», bensì il «mangiare il pane e bere il calice». Questa acclamazione ha un sapore fortemente protestante.


    continua........................


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    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 01/04/2009 22:21
    4. Ancora modifiche

    A tutte queste modifiche si aggiungano anche l’eliminazione della quasi totalità dei segni di croce fatti dal celebrante sulle oblate, sulle e con le specie consacrate, per indicare che le specie che si hanno davanti sono realmente la Vittima di cui si parla. Le genuflessioni sono state ridotte da sei a due e sono state tolte quelle tanto importanti che il sacerdote fa appena terminate le parole di consacrazione del pane e del vino. Non è più presente nemmeno la preservazione delle dita del sacerdote dopo la consacrazione e la loro purificazione nel calice, il che affievolisce ancora di più il senso della presenza sostanziale di Cristo in ogni frammento eucaristico. Sono state omesse anche le precise e riverenti prescrizioni nel caso in cui l’Ostia consacrata abbia a cadere. La purificazione dei vasi sacri può essere posticipata E si potrebbe continuare. È chiaro che la nuova forma non esprime più in modo adeguato l’essenza sacrificale della Messa e la presenza sostanziale di Nostro Signore. Non diciamo che neghi questi aspetti, ma certamente non li significa più in modo adeguato, aprendo così la strada a ciò che di fatto è avvenuto e che è denunciato da lei stesso.

    La glorificazione di Dio

    E dopo l’essenza della Messa, passiamo a considerarne le finalità, la prima delle quali è senza dubbio la glorificazione della SS.ma Trinità per mezzo di Nostro Signore Gesù Cristo. La liturgia ha principalmente e sostanzialmente una dimensione verticale e tutto il rito deve esprimere e favorire questo orientamento. Nel nuovo messale la finalità ultima della liturgia (e di ogni cosa) è quasi scomparsa. Il Gloria Patri nell’antifona all’Introito è stato omesso; il Gloria in excelsis Deo è recitato meno frequentemente; solo la Colletta termina con la formula trinitaria («Per il nostro Signore Gesù Cristo...»), mentre le altre orazioni concludono semplicemente con «Per Cristo nostro Signore»; la medesima conclusione è stata tolta anche dopo le tre preghiere che preparano alla Santa Comunione e dopo il Libera nos Domine che segue il Pater noster; la bellissima preghiera dell’Offertorio Suscipe, Sancta Trinitas, bellissimo compendio della finalità del santo Sacrificio è abolita; il Prefazio della SS.ma Trinità non è più recitato tutte le domeniche ma solo il giorno della Solennità della SS.ma Trinità; è stato rimosso anche il Placeat tibi, Sancta Trinitas, al termine della Messa. Anche in questo caso siamo di fronte ad una vera e propria devastazione che priva i sacerdoti ed i fedeli di quell’abituale riferimento alla gloria della SS.ma Trinità, che è il fine della vita e di tutte le cose.

    La propiziazione e l’espiazione

    «L’aspetto più evidente di questa rielaborazione [delle orazioni, n.d.A.] è la quasi totale soppressione delle espressioni relative al peccato e al male (peccata nostra, imminentia pericula, mentis nostrae tenebrae), e di quelle relative alla necessità di redenzione e perdono (puriores, mundati, reparatio nostra, purificatis mentibus)»(14). È la necessaria conseguenza del principio di Bugnini, riportato più sopra, di rivedere ciò che non è conforme ai tempi moderni. L’idea di essere peccatori, profondamente debitori verso Dio, meritevoli dei Suoi castighi, radicalmente incapaci di riparare da noi stessi il debito contratto dai nostri peccati è quanto di meno accettato dall’uomo di sempre, e particolarmente quello moderno. E così i tagli fioccano! Prima vittima è l’implorazione «Deus tu conversus vivificabis nos» nelle preghiere ai piedi dell’altare, seguita dalle due orazioni che il sacerdote recita quando è salito all’altare (Aufer a nobis e Oramus te, Domine), nelle quali domanda a Dio di allontanare le proprie iniquità e perdonare i propri peccati. Il Confiteor non è più recitato dal sacerdote profondamente inchinato e dai fedeli in ginocchio, entrambe espressioni di umiltà e supplica. Con l’abolizione dell’Offertorio, sono sparite anche le due suppliche di accettazione dell’offerta immacolata «pro innumerabilibus peccatis et offensionibus et negligentiis meis», come pure l’espressione «tuam deprecantes clementiam». Il gesto di stendere le mani sull’ostia ed il calice, che indica il gesto del Sommo Sacerdote che caricava dei nostri peccati la vittima che stava per essere immolata, nelle Preghiere eucaristiche del nuovo Messale viene associato all’invocazione dello Spirito Santo, smarrendo così il significato espiatorio del Sacrificio di Cristo. Anche i riti appena precedenti la Santa Comunione, che aiutano il sacerdote ed i fedeli a ravvivare disposizioni interiori di contrizione sono stati sensibilmente modificati. Per entrambi il Domine non sum dignus oltre alla variazione del testo è stato ridotto da tre ad uno soltanto, laddove invece la ripetizione permette una sempre maggior consapevolezza della propria indegnità dinanzi a tanto mistero.

    La sacralità

    Anche su questo aspetto ci sarebbe molto da dire. Ci basti in questa lettera trarre qualche spunto da quanto lei scrive in quel bel primo capitolo sulla Sacra e divina liturgia: «Il sacro nella messa antica è presente e si esprime anche nei segni di croce e nelle genuflessioni. Nel silenzio dei fedeli durante la preghiera eucaristica, non gridata ma pronunciata submissa voce a voler così significare anche il gesto di sottomissione e di umiliazione, dinanzi a Dio, della nostra voce» (p. 23). E poi aggiunge profonde considerazioni sulla lingua sacra. Lei sa come tutto questo è sparito. Se c’è un rimprovero generale che si può fare alla Messa riformata è che essa vuol far capire troppo. Il leitmotiv è che tutti devono capire tutto e subito. Il sacerdote deve sempre parlare ad alta voce, i fedeli devono parlare, le letture devono essere moltiplicate, la lingua deve essere capita, ecc. E c’è sempre meno spazio per il silenzio ed il canto sacro, le due espressioni somme della preghiera e dell’adorazione. «Razionalità nella liturgia e nessuna pietà»(15): era questa l’accusa precisa che muoveva il Cardinal Antonelli. Nulla di più vero. Su questo aspetto ci sarebbero veramente molte considerazioni da fare, a partire dai paramenti, i vasi sacri, gli edifici, il canto, la lingua, gli atteggiamenti del corpo, etc.

    Il sacerdozio

    Una delle vittime privilegiate della riforma liturgica è il sacerdozio (e conseguentemente l’identità degli stessi sacerdoti e la fedeltà alla loro vocazione). Le annotazioni precedentemente fatte sullo slittamento in senso narrativo della formula di consacrazione incidono fortemente sull’intenzione del sacerdote che le pronuncia. Anche a causa delle carenti indicazioni rubricali circa la posizione, il tono della voce, ecc., il sacerdote è sempre meno condotto ad intendere la celebrazione come actio sacrificalis operata in persona Christi. Il suo ruolo di insostituibile e necessario mediatore e sacrificatore è stato poi posto in ombra dalla riforma liturgica sia per la rimozione di alcuni elementi, che ben sottolineano la differenza essenziale tra il sacerdote e l’assemblea dei fedeli, sia per l’eccessiva e imprecisa insistenza sul sacerdozio comune. Per quanto riguarda il primo aspetto - l’unico che esamineremo - si veda quello che si è verificato con l’atto penitenziale. Il Confiteor, laddove non è sostituito dai formulari alternativi, viene recitato comunemente dal sacerdote e dai fedeli, senza alcuna distinzione; il sacerdote da Pater, diventa uno dei fratres. Inoltre è stata omessa la formula di assoluzione, atto esclusivamente sacerdotale, che anche i protestanti tolsero nella loro messa riformata. Anche nelle nuove Preghiere eucaristiche non si afferma più la distinzione tra il sacrificio offerto dal sacerdote a cui si associano i fedeli («pro quibus tibi offerimus vel qui tibi offerunt»), ma dice in generale «ti offriamo», oppure nella Preghiera eucaristica III si parla di «un popolo che da un confine all’altro della terra offra al tuo nome un sacrificio perfetto».

    La formula di Comunione del sacerdote è divenuta meno specifica ed è unita a quella dei fedeli. Da due orazione si è passati ad una; il sacerdote poi insieme ai fedeli recita per una sola volta «O Signore, non sono degno» (tralasciamo per brevità la modifica della formula) e quindi si comunica con le sole formule «Il Corpo [vel Sangue] di Cristo mi custodisca per la vita eterna». Quindi amministra subito la comunione dei fedeli. In tal modo si distingue sempre di meno il fatto che la comunione del Sacerdote è necessaria per il compimento del Sacrificio, mentre quella dei fedeli, certamente importante, non è essenziale. Nella nuova impostazione la comunione del sacerdote è semplicemente prima di quella dei fedeli, mentre dovrebbe risultare come parte strutturale e conclusiva del Sacrificio, poiché è la consumazione della Vittima divina.

    La forma della ri-forma

    Alla luce di tutte queste ed altre modifiche (come la soppressione della Chiesa trionfante, il biblicismo dell’attuale Lezionario, etc.) non ci si può esimere dal chiedersi che cosa sia rimasto della dottrina cattolica sul Santo Sacrificio della Messa. Si resta ancor più attoniti allorché si con- fronti il Novus Ordo con le modifiche delle liturgie protestanti e gianseniste. Di fronte alla realtà dei fatti non possiamo seguire la sua indicazione per cui «la riforma liturgica non deve essere messa in dubbio...» (p. 68). È invece doveroso per la custodia del tesoro più prezioso che Nostro Signore ci ha lasciato, per la conservazione del Sacerdozio cattolico ed infine per la salvaguardia e l’incremento della fede e pietà dei fedeli, che si abbia il coraggio di rivedere una riforma che dimostra di essere fallita. Lei ha affermato un po’ eufemisticamente: «Se non si può dire che la riforma liturgica non sia decollata, di certo ha volato basso, Dunque, restano ombre da dissipare sul come fu fatta. Si era andati oltre le intenzioni del concilio? Perciò, si faccia tregua nella battaglia: ora l’usus antiquior della messa è tornato a mo’ di specchio accanto al nuovo. Se alcune nuove forme rituali sono sembrate un cedimento allo spirito del mondo, un pacato approfondimento e una revisione o restituzione delle antiche potrà allontanare ogni timore» (p. 59). Se è veramente così, se cioè c’è stato bisogno di far ritornare la Messa tridentina perché la nuova potesse ritrovare la sua identità, ciò significa semplicemente che la riforma ha fallito. Non è stata ri-forma nel senso da lei e da noi auspicato, ma è stato il conferimento di una nuova forma alla Messa, una forma che costituisce «un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa»(16). Non è mai capitato nella storia della liturgia che un Messale riformato dovesse rifarsi al precedente per poter recuperare l’autentico spirito liturgico. Noi celebriamo con il Messale del 1962 e sebbene abbiamo in somma stima le precedenti edizioni, non abbiamo bisogno di riferirci ad esse come ad uno «specchio accanto al nuovo», perché il Messale del 1962 ha conservato lo stesso spirito - e anche la lettera! - dei precedenti. Con tutto ciò non vogliamo affermare che sia eretico chi celebra secondo il nuovo rito; ma quel che è chiaro è che esso favorisce uno spirito ed una pietà che non sono autenticamente cattoliche. Piano piano si assorbe una mentalità che non è più cattolica. E se può essere possibile che chi celebra la Messa secondo il Novus Ordo o vi assiste riesca a conservare uno spirito cattolico, è però realistico ammettere che ciò avviene non grazie a quella Messa, ma nonostante essa. In altri termini se anche la fede cattolica può essere mantenuta nell’intimo, il rito liturgico non ne è più l’espressione esterna. È un po’ come quando si entra nelle nuove chiese di pessima architettura: teoricamente in esse si può pregare, ma è bene chiudere gli occhi... Non c’è nulla in queste chiese che aiuta l’anima ad elevarsi, la mente a raccogliersi, il cuore a scaldarsi di fuoco soprannaturale. Per questo motivo non possiamo essere d’accordo con lei quando afferma che «chi celebra secondo l’uso antico deve evitare di delegittimare l’altro uso, e viceversa. Quindi non è ammesso un diniego a celebrare il nuovo per partito preso, non sarebbe segno di comunione rifiutarsi, per esempio, di concelebrare con un vescovo che intendesse farlo secondo il nuovo messale...» (p. 64). Non possumus! Davvero è impossibile coniugare questa riforma con la tradizione; e sottolineiamo ancora il dimostrativo, perché non è lo sviluppo storico che neghiamo, non è la saggezza dell’et-et cattolico in quella meravigliosa sintesi tra «rinnovamento e tradizione, innovazione e continuità, attenzione alla storia e consapevolezza dell’Eterno...» (p. 10), messo in luce da Vittorio Messori nella Prefazione. Non è questo.

    Non è forse vero che il Patrono della nostra Fraternità, cioè san Pio X, è stato uno dei più grandi riformatori (anche in ambito liturgico) della storia della Chiesa? Quello che noi non possiamo accettare è che questo et-et sia dato hegelianamente, come sintesi di contraddittori, in una identità tra il reale ed il razionale. «Salvare i fenomeni»! Era questo, secondo la profonda lettura di Taylor(17), l’imperativo della filosofia di Hegel: salvare razionalmente la storia ed i suoi momenti, affermando idealisticamente che ognuno di essi è tappa di uno stadio ulteriore. E così Hegel perde l’essenza delle cose, smarrisce il criterio di verità o falsità. «Salvare la riforma» sembra essere il motto di quel nuovo movimento liturgico che lei auspica nell’ultimo capitolo. Ma non si era detto di confrontarsi sulla liturgia «senza alcun pregiudizio»?

    Rev.do don Bux, tiriamo le fila di questa lunga lettera, anzitutto con un invito alla speranza. Per lei e per noi. Non è impossibile uscire da questa situazione e forse su questo lei sarà d’accordo con noi; Nostro Signore non abbandona mai chi cerca la Sua gloria ed il bene delle anime. Ma forse non sarà sulla nostra stessa linea d’onda, allorché le confessiamo che siamo certi che il ritorno al sacro non si farà cercando di mettere insieme il Vetus ed il Novus Ordo.

    Umanamente può sembrare l’unica via percorribile per non provocare rotture, a scandalo della fede di tanti credenti già largamente provata. Ma non è così. La situazione liturgica nella Francia del XVIII ed inizio del XIX secolo non era meno drammatica della nostra. L’anarchia liturgica era all’ordine del giorno e si diffondevano riti fai da te , con lo scopo più che nobile di ritrovare l’autentico spirito liturgico.

    Dom Prosper Guéranger, il grande abate di Solesmes, dopo aver presentato l’incredibile situazione di quel momento così conclude: «Tale era dunque lo sconvolgimento di idee nel diciottesimo secolo che vide dei prelati combattere gli eretici e nello stesso tempo, per uno zelo inspiegabile, attaccare la tradizione nelle sacre preghiere del messale; confessare che la Chiesa ha una voce propria, e far tacere questa voce per dare la parola a qualche dottore senza autorità. Tale fu la sciocca tracotanza dei nuovi liturgisti, che non si proponevano niente meno, e ne convenivano, che di ricondurre la Chiesa del loro tempo al vero spirito di preghiera; di purgare la Liturgia dagli elementi poco puri, poco esatti, poco misurati, piatti, difficili da capire correttamente, che la Chiesa, nei pii moti della sua ispirazione, aveva sventuratamente prodotto ed adottato. Per il più giusto di tutti i giudizi, tale era la barbarie entro la quale erano caduti i francesi riguardo al culto divino, essendo stata distrutta l’armonia liturgica, che la musica, la pittura, la scultura, l’architettura, che sono le arti tributarie della Liturgia, la seguirono in una decadenza che non ha fatto altro che accrescersi negli anni»(18).

    Tale era dunque la situazione, che ha una rassomiglianza impressionante con la nostra. E come si uscì da questa situazione? Con il rito romano di sempre, puro e semplice. Lei chiede una "tregua" sulla liturgia ora che il Rito tradizionale "è ritornato a casa"; tuttavia pur cogliendo il suo intento ci sembra che su questa ipotetica tregua gravi ufficialmente proprio uno di quei pregiudizi che lei invita ad evitare: quello di far soffrire al Messale del 1962 condizioni di inferiorità rispetto al messale di Paolo VI.

    Le facciamo notare che, mentre oggi si parla di forma "ordinaria" e "straordinaria", perfino Mons. Gamber, molti anni or sono, nel libro già citato (che poté godere della prefazione di quattro illustri prelati: Mons. Nyssen, i Cardinali Stickler e Oddi e l’allora Cardinal Ratzinger) proponeva una tregua in termini diversi (e in un certo senso opposti) ai suoi: «La forma della messa attualmente in vigore non potrà più passare per rito romano in senso stretto, ma per un rito particolare ad experimentum. Solo l’avvenire mostrerà se questo nuovo rito potrà un giorno imporsi in modo generale e per un lungo periodo. Si può supporre che i nuovi libri liturgici non resteranno per molto tempo in uso, perché gli elementi progressisti della Chiesa nel frattempo avranno certamente sviluppato nuove concezioni riguardo l’ organizzazione della celebrazione della messa»(19).

    In ogni caso restiamo profondamente convinti che il Rito tridentino, con l’impianto dottrinale su cui si fonda, che esprime e che veicola non possa che evidenziare la sostanziale incompatibilità del rito di Paolo VI con la dottrina cattolica. Riteniamo che i due riti possano coesistere solo se non se ne coglie l’opposta valenza dottrinale, oppure se ci si basa su una filosofia che coniuga i contraddittori; una liturgia infatti presuppone sempre, attraverso e al di là dei segni che utilizza, una precisa dimensione dottrinale e spirituale che non può essere in alcun modo dissociata dal rito stesso. Celebrare in un modo, credendo in qualcosa di diverso non è normale e in ultima analisi non sarebbe nemmeno onesto.

    Illustriamo la cosa con un esempio semplice e alla portata di chiunque. Come può un medesimo sacerdote offrire sullo stesso altare "La Vittima Immacolata" e il "pane frutto della terra e del lavoro dell’uomo", credendo e facendo credere che le due espressioni si equivalgano? Come può la medesima istituzione fare suoi due segni così manifestamente opposti illudendosi di spiegare l’uno attraverso l’altro senza perdere ulteriormente la propria identità e senza aumentare ulteriormente la confusione dei semplici? Che ci sarebbe in comune tra questo nuovo linguaggio liturgico e il sì sì-no no evangelico?

    Non c’è in noi alcun dubbio che chiunque si accosti senza pregiudizi al Messale romano tradizionale possa ripetere l’esperienza che ebbe dom Guéranger, quando per la prima volta, da semplice prete, si accostò accidentalmente al rito romano, egli che di quel rito fino ad allora era tutt’altro che simpatizzante: «Malgrado la mia poca simpatia per la liturgia romana, che d’altronde non avevo mai studiato seriamente, mi sentii subito penetrato dalla grandezza e dalla maestà dello stile impiegato in questo messale. L’uso della Sacra Scrittura, così grave e così pieno d’autorità, il profumo di antichità che emana questo libro, i suoi caratteri rosso e nero, tutto ciò mi trascinava a capire che stavo scoprendo dentro questo messale l’opera ancora vivente di questa antichità ecclesiastica per la quale ero appassionato. Il tono dei messali moderni mi parvero allora sprovvisti d’autorità e di unzione, avvertendo l’opera di un secolo e di un paese e nel contempo di un lavoro personale»(20). È l’esperienza che auguriamo di cuore a Lei e a tutti i confratelli del mondo!
    Con stima.


    Note

    (1) Lettera a Paolo VI dei Cardinali Ottaviani e Bacci, 1.
    (2) L’intervista, pubblicata in lingua francese da Courrier de Rome del giugno 2004, è integralmente consultabile sul sito www.unavox.it.
    (3) K. Gamber, La Réforme liturgique en question, 1992, p.42.
    (4) Pio XII, Mediator Dei, 20 novembre 1947.
    (5) M. Barba, La riforma conciliare dell’«Ordo Missae», Roma, 2002, p. 214.
    (6) A Bugnini, La riforma liturgica (1948-1975), Roma, 1997, p. 443.
    (7) Concilio di Trento, Sessione XXIII, 17 settembre 1562, Decreto e canoni sulla Messa, c. IV:
    (8) M. Barba, La riforma conciliare …, cit., p. 137.
    (9) A Bugnini, La riforma liturgica…, cit., p. 446.
    (10) Cfr. ibid., p. 444.
    (11) ibid., p. 448.
    (12) ibid., pp. 448-449.
    (13) Breve esame critico del Novus Ordo Missae, Le formule consacratorie.
    (14) L. Bianchi, Liturgia. Memoria o istruzioni per l’uso?, Milano, 2002, p. 59.
    (15) N. Giampietro, Il Card. Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della riforma liturgica dal 1948 al 1970, Roma, 1988, p. 234.
    (16) Lettera a Paolo VI dei Cardinali Ottaviani e Bacci, 1.
    (17) Cfr. C. Taylor, Hegel, Cambridge, 1975, p. 494.
    (18) P. Guéranger, Institution liturgique, t. II, c. XX, pp. 393-394.
    (19) K. Gamber, La Réforme liturgique…, cit., p.76.
    (20) P. Guéranger, Mémoires autobiographiques (1805-1833), Solesmes, 2005, p. 81


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    00 23/04/2009 09:53
    [SM=g1740722] Anche da Zenit si alza la voce della Riforma Bendettiana[SM=g1740721]


    Una nuova rubrica sulla liturgia


    di don Mauro Gagliardi*


    ROMA, mercoledì, 22 aprile 2009 (ZENIT.org).- «Nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa. Così la questione liturgica ha acquistato oggi un’importanza che prima non potevamo prevedere»: così si esprimeva J. Ratzinger nel volume Cantate al Signore un cantico nuovo (p. 9). È in effetti indubitabile che la comprensione della liturgia è diventata oggi uno degli ambiti più importanti per la comprensione della Chiesa e per la sua vera riforma.


    La grande riforma liturgica promossa dal Concilio Vaticano II rappresenta un passaggio epocale nella storia della Chiesa. Negli ultimi quarant’anni la Chiesa cattolica ha riformato interamente il proprio culto, pubblicando ex novo – prima volta nella storia – tutti i propri libri liturgici, provvedendo cioè a darsi una nuova forma del proprio culto. Questo passaggio non è stato e non è indolore, ed è sotto gli occhi di ognuno che non si è raggiunta finora la pace ecclesiale sul tema fondamentale della liturgia e della sua forma.


    L’allora teologo e Cardinale J. Ratzinger ha offerto alla Chiesa un notevole contributo in materia. In un’epoca segnata spesso dall’incertezza, egli ha tracciato una strada alla riflessione sulla liturgia e ha indicato criteri teologici per la celebrazione del culto divino. Ratzinger ha contribuito a comprendere la liturgia in maniera «essenziale», ovvero a partire dalla sua natura di preghiera della Chiesa, preghiera efficace in cui Cristo è presente, irrompendo nel nostro oggi.
     

    Questa comprensione è possibile solo ad alcune condizioni:


    1)   È necessario non separare mai lo studio della liturgia da quello del dogma. [SM=g1740721]
    Solo lo stretto collegamento tra dogma e liturgia può permettere uno sviluppo fruttuoso della teologia e della prassi liturgiche. Se lo studio della liturgia non è soprattutto una teologia liturgica, esso si riduce alle strettezze dei pur dottissimi studi storici e filologici condotti sulle fonti liturgiche, o all’arbitrio di un malinteso adattamento eucologico e pastorale della liturgia che, paradossalmente, si distacca dai risultati di quegli studi, in misura direttamente proporzionale al loro grado di specializzazione.


    2)   La comprensione teologica della liturgia ce la fa intendere, col suo duplice aspetto di culto divino e di santificazione dell’uomo, come reale irruzione di Dio nel mondo. Questo implica anche il carattere cosmico della liturgia. Scriveva il Cardinale: «Il culto cristiano implica l’universalità. È il culto del cielo aperto. Non è mai solo l’evento di una comunità che ha una determinata collocazione spaziale. Celebrare l’eucaristia significa invece entrare nell’adorazione di Dio che abbraccia il cielo e la terra» (Introduzione allo spirito della liturgia, p. 46). La liturgia è allora adorazione, e siccome Cristo è il Logos fatto carne (cf. Gv 1,14), il culto divino della Chiesa non potrà che essere – come insegna san Paolo – logiké latreia o «culto razionale» (Rm 12,1).


    3)   Da ciò consegue che la liturgia non può mai essere semplicemente opera delle nostre mani. Nella sua essenza, noi riceviamo la liturgia da Dio stesso. «La forma del culto non è una questione di concessioni politiche; esso ha in se stesso la propria misura, può essere regolato solo dalla misura della rivelazione, a partire da Dio»; «La vera liturgia presuppone che Dio risponda e mostri come noi possiamo adorarlo» (Introduzione allo spirito della liturgia, pp. 12 e 17). Perciò, la liturgia «non vive delle trovate di qualche singolo o di qualche commissione. Essa è, al contrario, il venire di Dio, il farsi trovare di Dio nel nostro mondo» (ivi, p. 165).


    Questi ed altri criteri offerti alla Chiesa dalla riflessione di Joseph Ratzinger risultano di grande aiuto e di grande attualità. È innegabile che essi non siano stati tenuti sempre presenti, e non solo nella prassi. Certo, non mancano voci che ricordano che oggi sono «ben altri» i problemi che la Chiesa deve affrontare. A costoro rispondeva Ratzinger: «Di fronte alle odierne crisi politiche e sociali, e alle sollecitazioni morali che esse impongono ai cristiani, potrebbe a tutta prima sembrare di scarsa importanza occuparsi di problemi di liturgia e di preghiera. Ma non si può separare dall’adorazione la questione del riconoscimento dei criteri etici e del risveglio delle forze, ambedue necessari per affrontare la crisi. [...] Perciò la cura per la forma appropriata dell’adorazione non è disgiunta dalla preoccupazione per l’uomo, ma ne sta al centro» (La festa della fede, p. 9). [SM=g1740722]


    «L’adorazione, la giusta modalità del culto, del rapporto con Dio, è costitutiva per la giusta esistenza umana nel mondo; essa lo è proprio perché attraverso la vita quotidiana ci fa partecipi del modo di esistere del “cielo”, del mondo di Dio, lasciando così trasparire la luce del mondo divino nel nostro mondo» (Introduzione allo spirito della liturgia, p. 17).


    Credo che sia questa l’esigenza avvertita dallo staff direttivo di ZENIT, quando mi ha chiesto di assumere la responsabilità di una nuova rubrica liturgica. Non sono un liturgista, nel senso che la parola oggi possiede: sono e resto un dommatico, anche se, per passione e per ufficio, studio, insegno ed opero anche nel campo della liturgia, da me intesa soprattutto come «teologia liturgica».


    Alla scuola dell’allora Cardinale Ratzinger, vediamo che oggi è soprattutto di questo che c’è bisogno e perciò, pur con tutte le perplessità del caso, ho accettato la proposta, per ora ad experimentum con cadenza quindicinale. Quello che ci si propone di fare è di offrire ai lettori di ZENIT un servizio di formazione ed informazione sulla liturgia, che permetta loro di scoprire ed approfondire l’essenza, o lo «spirito», della liturgia.


    Non sarò solo: gli articoli verranno prodotti anche da altri studiosi, che si riconoscono in questa visione e avvertono l’importanza del momento che viviamo. I lettori potranno essere protagonisti, inviando commenti e domande.

    Sceglieremo le più significative e, di tanto in tanto, offriremo risposte ai quesiti (anche se questa non è una rubrica del tipo: “Il liturgista risponde”). Sono stati anzi proprio i lettori ad invocare da tempo una rubrica liturgica su ZENIT. Forse tanti avvertono il bisogno di quanto il teologo Ratzinger aveva espresso già nel 1973: «Dopo tutti i trastulli di liturgie autonomamente elaborate, noi avvertiamo l’insorgere della nuova esigenza di un profondo e personale incontro con Dio e di un culto, il quale faccia veramente conoscere la presenza dell’Eterno» (Dogma e predicazione, p. 357). Per questo, cercheremo di andare alla ricerca del vero «Spirito della liturgia».

    -------

    *Don Mauro Gagliardi è Ordinario di Teologia presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma e Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.



    [SM=g1740722] ad maiora, vi seguiremo....


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    00 30/04/2009 15:33

    Bux: "la vera riforma mira a dare a Dio il posto che gli spetta"

    Riprendiamo questa intervista in esclusiva concessa a Fides et Forma da don Nicola Bux.



    di Francesco Colafemmina

    A due anni dalla pubblicazione del Motu Proprio “Summorum Pontificum” si può parlare di un vero e proprio fervore liturgico, teso alla riscoperta dei tesori millenari del culto cattolico. Don Nicola Bux, professore della Facoltà Teologica Pugliese, nonché Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice è un testimone eccellente di questo fervore. Il suo recente saggio dal titolo rivelatore “La Riforma di Benedetto XVI” edito in Italia per i tipi della Piemme è già alla seconda edizione e nuove edizioni in varie lingue sono in corso di pubblicazione.

    Don Bux, come spiega questo successo della “riforma” di Papa Benedetto, come lei stesso l’ha autorevolmente definita? E perché questo termine: “riforma”?

    Il Santo Padre spiegando nella Lettera ai vescovi perché ha ritenuto una “priorità” la remissione della scomunica, scrive: “Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio”. Ora, un canto attribuito a san Paolino da Nola dice: Ubi charitas et amor Deus ibi est. Non dovremo quindi dilatare gli spazi dell’amore perché Dio sia presente nel mondo? Questo il senso del gesto del Pontefice. Ma egli aggiunge che si deve aprire l’accesso “Non ad un qualsiasi dio, ma a quel dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine(cfr Gv 13,1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto”. Ora, non è questo il senso vero della Liturgia? Far incontrare la presenza di Dio all’uomo che cerca la Verità, il suo Mistero presente che precede sempre la nostra esistenza nel mondo? Il Concilio approvò per primo la Costituzione liturgica anche per questa ragione: la Chiesa deve parlar di Dio all’uomo, farglielo incontrare. L’uomo cerca la Bellezza “Veritatis splendor”: la “riforma” se non servisse a ciò sarebbe inutile maquillage per esibire meglio noi stessi. Ma la vera riforma mira a dare a Dio il posto che gli spetta prima di tutto e al centro di tutto. In realtà riforma significa ri-forma (“ritorno alla bellezza”), senza passatismi inutili o idee di restaurazione.

    Tradizione e innovazione sono dunque espressioni da dimenticare?

    Tutt’altro. La migliore definizione della tradizione l’ha data san Paolo:”Ho ricevuto dal Signore quanto vi ho anche trasmesso”(1 Cor 11,23).L’Apostolo si riferisce alla fractio panis, l’eucaristia che è il centro della sacra liturgia. Per questo la liturgia si riceve dalla Tradizione che è fonte della Rivelazione insieme alla Scrittura. Ora, traditio viene da tradere, un verbo di movimento che, per essere tale, implica cambiamento e vita, trasporto di cose antiche e nuove, perché Egli, il Verbo eterno, fa nuove tutte le cose (Ap 21..). Qui la tradizione diventa innovazione che non è una cosa diversa che viene dal mondo, da fuori, ma da dentro, perciò in-novazione, da Colui che è il Vivente. Mons. Piero Marini ha recentemente affermato in una conferenza che sulla tradizione c’è molta confusione. Gli do ragione, anzi, mi piacerebbe che un giorno potessimo colloquiare su questo proprio per contribuire a pacificare gli spiriti, con verità e amore. Noi sacerdoti che serviamo nel Corpo mistico di Gesù Cristo siamo chiamati a dare l’esempio, soprattutto praticando la riconciliazione.


    Negli ultimi mesi le celebrazioni della Messa nella forma straordinaria sembrano essersi diffuse e non sono più riservate a pochi appassionati, bensì promosse da personalità di alto profilo. Solo nelle scorse settimane abbiamo avuto gli splendidi esempi del Card. Canizares Llovera e del Card. Zen che hanno voluto rimarcare la forza liturgica del rito antico. Dunque davvero, come affermava l’allora Cardinal Ratzinger, “Nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa”?

    La ragione d’essere dell’episcopato è nell’essere uno col Capo del collegio, il Santo Padre. Un vescovo che disobbedisce – come un prete che facesse altrettanto col vescovo – è come un membro disarticolato dal corpo e reca scandalo ai fedeli. Quindi, il Prefetto del Culto divino, - al quale va in queste ore in cui è ricoverato al Policlinico Gemelli il mio pensiero e la mia costante preghiera - e gli altri ecclesiastici non fanno altro che il proprio dovere dando l’esempio. Per edificare il Regno e la Chiesa, è più importante l’obbedienza umile o la mia opinione fosse anche teologicamente attrezzata? Il fatto che il Santo Padre non abbia imposto, ma proposto la ripresa della Messa gregoriana – così amo chiamarla con Martin Mosebach perché risale a Gregorio Magno – sta avendo e avrà un effetto trainante ancora più grande. Perché i vescovi temono di tornare indietro? Non voleva la riforma liturgica ripristinare anche l’antico? Cosa di più venerabile della Messa di san Gregorio? Non dovremmo imitare lo scriba evangelico che trae dal tesoro cose nuove e antiche? Abbiamo incentivato musei diocesani ove ammirare le bellezze che prima erano nelle chiese e i concerti per ascoltare le musiche sacre che prima si eseguivano nei riti. Nei musei e ai concerti vanno solo gli appassionati, mentre alla liturgia vanno tutti. Ha senso privare il popolo di ciò che gli spetta, favorendo quasi una Chiesa d’èlite? Piuttosto, vescovi e clero, guardiamo il grande movimento di giovani che si è creato intorno alla messa gregoriana, in crescendo continuo –basta andare su internet- già sono i giovani e non nostalgici. Far finta di non vedere è grave per chi per definizione deve episcopein, osservare attorno, monitorare. Lo rifiuteremo solo perché non è nato da me o non corrisponde alla mia sensibilità? Chi mi conosce, sa che da giovane laico e poi chierico sono stato tra i promotori in diocesi e oltre della riforma liturgica: questa ora continua mettendo insieme nuovo e antico, agganciandosi meglio al dogma: è noto il rapporto di dipendenza tra liturgia e regola di fede. Non a caso un aspetto quasi sempre tralasciato nella polemica è quello relativo alle messe private. Il Motu Proprio infatti contempla l’uso del messale del Beato Giovanni XXIII anche per le messe “senza il popolo”, ovvero quelle che i sacerdoti celebrano privatamente. Ciò dimostra che l’uso del messale antico non è solo collegato ad un discutibile amore per i formalismi e l’aspetto esteriore della celebrazione, bensì ripristina la comunione del singolo sacerdote con tutti i cristiani nello spazio e nel tempo, mettendolo in comunicazione con il passato, con i Santi e con i martiri. Di qui ad esempio la decisione del Card. Zen di celebrare l’ultimo pontificale da Arcivescovo di Honk Hong secondo il rito straordinario. E’ un’esigenza profondamente spirituale. D’altra parte l’universalità della lingua latina dovrebbe essere di stimolo in un mondo globalizzato, affinché la Chiesa, almeno nel rito, si esprima con una sola lingua.

    Sono ancora in molti però a leggere in questa promozione del rito antico una sorta di tradimento dello spirito del Concilio. Crede che il dialogo sia una strada percorribile per sanare le fratture e le reciproche diffidenze?

    Siccome lo spirito del Concilio non può essere diverso dallo Spirito Santo - se lo fosse sarebbe spirito di errore e non di verità, come scrive la 1 Lettera di Giovanni – non si può pensare alcuna frattura e discontinuità tra la messa celebrata in quell’assise e quella poi aggiornata da Paolo VI. Dunque nessun tradimento ma tutta tradizione. Sebbene, se si va a studiare, non tutto quello che Paolo VI aveva prescritto è stato attuato, e quindi attende di esserlo per portare a compimento la riforma liturgica.Per esempio, egli aveva stabilito che i messali nazionali recassero sempre il testo latino a fronte: questo per impedire le traduzioni libere che hanno prodotto e producono non poco sconcerto. A chi si preoccupa e vede in questa riforma un tentativo di erosione del Concilio bisognerebbe ricordare il monumentale discorso del Papa alla Curia Romana del dicembre 2005 che ha superato fermamente questa contrapposizione introducendo l’ermeneutica della continuità . Ad ogni modo è sempre bene ricordare che nella Chiesa c’è libertà di critica se fatta con verità e amore, purché non si voglia censurare o demonizzare chi non la pensa come me. Per questo il Papa ha mostrato ancora una volta la sua lungimiranza, per dimostrare che “nessuno è di troppo nella Chiesa”. Io auspico sempre un confronto sereno e un approfondito e rispettoso dibattito. Pax et concordia sit convivio nostro, dice sant’Agostino.

    Lei ha affermato: “L’uso della lingua parlata non è necessariamente sinonimo di comprensione. Oltre l’intelligenza e il cuore, per entrare in essa ci vuole anche immaginazione, memoria, e tutti i cinque sensi.” Crede che la riscoperta del rito antico possa aiutare a vivere con maggiore partecipazione anche la Messa celebrata nella forma ordinaria?

    Per intenderci, la Sacra Liturgia è l’attrattiva della Bellezza che a sua volta è il percorso ragionevole alla Verità. La Bellezza è lo splendore della Verità. Come ho già detto in altra sede, proviamo con un sillogismo: siccome la sacra e divina liturgia – che include arte e musica sacra – è Bellezza, senza Verità non c’è liturgia, culto a Dio. E’ proprio Gesù che lo ricorda nel vangelo di san Giovanni: “I veri adoratori, adoreranno il Padre in spirito e verità”. Ma per trovare la Verità bisogna conoscere le creature. Questo solo cambia la vita mia e sua. L’ho constatato ancora in tanta gente che ha partecipato con me alle celebrazioni pasquali. Che il rito sia antico o nuovo deve guardare nell’unica direzione possibile, deve essere rivolto al Signore, interiormente ed esteriormente. Se oggi i sacerdoti quando concelebrano si orientano in direzione dell’ambone per ascoltare il Vangelo, perché non potrebbero farlo verso l’altare e la Croce per offrire l’eucaristia? Fare questo aiuta a convertirsi. Seguendo la sacra liturgia, ad un certo punto i riti e i simboli spariranno, svelando il significato; il Mistero penetrerà allora in tutte le direzioni: sarà il cielo sulla terra, la rappresentazione del Paradiso - Copyright © Fidesetforma.blogspot.com

    Fonte Fides et Forma.



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    00 09/05/2009 08:14
    Bellissima iniziativa del Prefetto del Culto Divino nel firmare la prefazione al libro di mons. Bux sulla Riforma di Benedetto XVI...

    riporto da messainlatino  Sorriso

    Card. Cañizares: il motu proprio non serve soltanto a soddisfare i tradizionalisti, ma a far conoscere a tutti un tesoro
     


    Riportiamo di seguito alcuni brani, tra i più significativi, della esplicita e incisiva prefazione del Cardinal Cañizares all'edizione spagnola del bel libro LA RIFORMA LITURGICA del Rev.do don Nicola Bux, presentato a Toledo lo scorso giovedì 30 aprile 2009. Sicuramente alcune affermazioni del porporato sono forti ed impegnative e se da un lato suoneranno come severe "tirate d'orecchio" ai più, per molti serviranno quali attesi incoraggiamenti e sostegni. Non sfuggirà a nessuno come questo autorevole intervento faccia giustizia della ricorrente tesi (ripetuta in assoluta mala fede, tra l'altro, perché nessun 'addetto ai lavori' ignora il pensiero liturgico di Ratzinger) per cui il motu proprio sarebbe una graziosa concessione riservata a lefebvriani e simili, che non avrebbe nulla a vedere coi fedeli ordinari: giacché il timore maggiore in certi ambienti è proprio 'l'apostolato tridentino'.
    Chi volesse gustare il teso per intero, nella versione originale, può andare al lodevole sito spagnolo Secretum meum mihi (sottol. nostre)


    http://blog.messainlatino.it/2009/05/prefazione-del-cardinal-canizares.html


    "Solo pochi mesi sono trascorsi dalla pubblicazione di questo libro per giungere a questa edizione in spagnolo. Ad ogni modo il significato di alcuni eventi, che sono accaduti durante questo tempo, ha grandemente cambiato il clima attorno al tema della liturgia, specialmente dovuto all’atmosfera di controversia che si era creata a seguito della revoca della scomunica dei 4 vescovi consacrati 20 anni fa da Mons. Lefebvre.

    Quel gesto di graziosa misericordia del Santo Padre, al fine di aiutare la loro piena integrazione all’interno della Chiesa, che dimostra, nei fatti, che la Chiesa non rinuncia alla propria tradizione, ha portato che la Messa Tradizionale fosse collegata a problemi disciplinari e, peggio ancora, a problemi politici.

    Conseguentemente, c’è il rischio di una distorsione del più profondo significato del Motu Proprio del 7 luglio 2007, un gesto di straordinario senso di comunione ecclesiale, col quale è stata riconosciuta la totale validità di un rito che ha nutrito la Chiesa per secoli.

    Indubbiamente, un approfondimento ed un rinnovamento della liturgia era necessario. Ma spesso, questo non è stata un’operazione perfettamente riuscita.

    La prima parte della Costituzione “Sacrosantum Concilium” non è entrata nel cuore dei Cristiani. Ci fu un cambio nelle forme, una riforma, ma non un genuino rinnovamento, come fu chiamato dai Padri Conciliari. Qualche cambiamento fu fatto semplicemente per il desiderio di cambiare rispetto ad un passato percepito come totalmente negativo ed obsoleto, concependo la riforma come una rottura, e non come un organico sviluppo della tradizione. Questo creò delle reazioni e delle resistenze sin da subito, con casi di cristallizzazione delle posizioni e delle attitudini che sfociarono a soluzioni estreme, ed anche a fatti concreti che furono puniti secondo le norme canoniche.

    E’ urgente, ad ogni modo, distinguere i problemi disciplinari nati dalle attitudini disobbedienti di un gruppo dai problemi dottrinali e liturgici.

    Se noi crediamo veramente che l’Eucarestia è realmente “la fonte e il culmine della vita cristiana” – come il Vaticano II ci ricorda –non possiamo ammettere che essa sia celebrata in un modo indegno.

    Per molti, accettare la riforma conciliare ha significato celebrare la messa in un modo dissacrante. Quanti preti sono stati chiamati “retrogradi” o “anticonciliari” per il semplice fatto di celebrare in modo solenne o pio, oppure semplicemente con il pieno rispetto delle rubriche!

    E’ un imperativo uscire da questa dialettica. La riforma è stata completata ed è stata vissuta principalmente come un assoluto cambiamento, come se si dovesse creare un abisso tra il “prima” e il “dopo” il Concilio, in un contesto in cui il termine “preconciliare” fosse inteso come un insulto.

    Anche questo fenomeno è richiamato alla mente dal Papa nella sua recente lettera ai Vescovi del 10 Marzo 2009: “Qualche volta si ha l’impressione che la nostra società necessiti di un gruppo verso il quale non essere tolleranti, e verso il quale ciascuno possa tranquillamente indirizzare il proprio odio”.

    Per anni questo fu il caso in buona misura del gruppo dei preti e dei fedeli legati alla forma della Messa ereditata e consegnataci dai gruppo trattato spesso “come lebbrosi”, per usare parole dell’allora Cardinal Ratzinger bruscamente.

    Oggi, grazie al Motu Proprio, questa situazione sta sensibilmente cambiando. E ciò sta accadendo in larga parte perché la decisione del Papa è stata presa non solo per soddisfare i seguaci di Mons. Lefebvre, o i fedeli che erano legati, per diverse ragioni, all’eredità liturgica rappresentata dal rito Romano, ma anche, in special modo, per aprire la ricchezza liturgica della Chiesa a tutti i fedeli, rendendo possibile la scoperta dei tesori del patrimonio liturgico della Chiesa a coloro che ancora non li conoscevano.

    Quante volte l’atteggiamento di coloro che li disdegnano è dovuta a nient’altro che alla loro ignoranza!

    Dunque, considerato da quest’ultimo aspetto, il Motu Proprio ha un senso al di là della presenza o assenza di conflitti: anche se non ci fosse stato un solo “tradizionalista” da soddisfare, questa “scoperta” sarebbe stata motivo sufficiente per giustificare il provvedimento del Papa.

    E’ stato anche detto che questa disposizione fosse un “attacco” contro il Concilio, ma questo dimostra un’ignoranza del Concilio stesso, le cui intenzioni di dare a tutti i fedeli l’opportunità di conoscere e apprezzare i molteplici tesori della liturgia della Chiesa fu precisamente l’ardente volontà della grande assemblea: “in fedele obbedienza alla Tradizione, il Sacro Concilio dichiara che la Santa Madre Chiesa conserva tutti i legittimi e riconosciuti riti, tutti di eguali diritto e dignità; che essa auspica la loro preservazione nel futuro e nella loro promozione con ogni sforzo” (S. C., 4).

    Inoltre quelle disposizioni non sono una novità: la Chiesa le ha sempre mantenute e quando occasionalmente non è stato così, le conseguenze erano state tragiche.

    Non solo i riti dell’Oriente sono stati sempre rispettati e conservati, ma anche nell’Occidente le diocesi come Milano, Lione, Colonia, Praga, e vari ordini religioni hanno sempre conservato i loro riti diversi in maniera pacifica, attraverso i secoli. Ma il più chiaro precedente della situazione attuale è senza dubbio l’Arcidiocesi di Toledo. Il Cardinale Cisneros ha fatto di tutto per preservare come “straordinario” nella sua arcidiocesi il rito Mozarabico che era quasi estinto.

    Non solo fece stampare il Messale e il Breviario, ma creò una cappella speciale nella Cattedrale, dove tutt’oggi il rito viene celebrato quotidianamente.

    […] L’attuale compito, come ci dice il libro di Don Nicola Bux, è di dimostrare la coincidenza tra la liturgia dei vari riti che son stati celebrati nel corso dei secoli, e la nuova liturgia, frutto della riforma, o meglio, se questa identità fosse stata attenuata, di riscoprirla.

    […] La nostra generazione si trova di fronte a grande sfide in materia liturgica: aiutare la Chiesa intera al pieno rispetto di quanto indicato nella Costituzione Sacrosanctum Concilium del Vaticano II e nel Catechismo della Chiesa Cattolica (in materia di Liturgia); apprezzare quanto il Santo Padre ha scritto su questi temi, (specialmente nel bellissimo libro “Lo Spirito della Liturgia”) – quando era ancora Cardinale –; arricchire ciascuno di noi grazie al modo con cui il Santo Padre – assistito dall'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche, che è presieduto da Mons. G. Marini, e di cui è membro l’autore di questo libro, come Consultore – celebra la liturgia. Le Celebrazioni papali siano esempio per tutta la Chiesa Cattolica Universale.

    [...]Con la speranza che questo valido libro di don Nicola Bux possa servire a conoscere meglio le intenzioni del Santo Padre e a scoprire la ricchezza dell’eredità ricevuta e, allo stesso tempo, illuminare le nostre azioni, chiediamo al Signore di imparare a interpretare, come disse Paolo VI, i “segni dei tempi”.


    + Antonio Cardinal Cañizares
    Prefetto della Sacra Congregazione del Culto
    Divino e della Disciplina dei Sacramenti
    Arcivescovo Amministratore Apostolico di Toledo
    8 aprile 2009


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    lettera morta

    In questi giorni è ricorso il quarto anniversario della Lettera Circolare
    sulla traduzione in volgare dell'espressione “pro multis” contenuta nella formula della Consacrazione del Prezioso Sangue, nel Canone della S. Messa

    Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti

    Roma, 17 ottobre 2006

    Alle loro Eminenze / Eccellenze
    I Presidenti delle Conferenze Episcopali Nazionali

    Eminenza / Eccellenza,

    Nel luglio del 2005 la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, d'accordo con la Congregazione per la Dottrina della Fede, ha scritto a tutti i Presidenti delle Conferenze Episcopali per chiedere il loro parere autorevole sulla traduzione nelle diverse lingue volgari dell'espressione pro multis nella formula della consacrazione del Prezioso Sangue durante la celebrazione della Santa Messa ( Prot. N. 467/05/L del 9 luglio 2005).

    Le risposte ricevute dalle Conferenze Episcopali sono state studiate dalle due Congregazioni ed è stato inviato un rapporto al Santo Padre.

    Secondo le Sue direttive, questa Congregazione si rivolge ora a Vostra Eminenza / Eccellenza nei seguenti termini:

    1. Un testo corrispondente alle parole pro multis, tramandato dalla Chiesa, costituisce la formula che è stata in uso nel rito romano, in latino, fin dai primi secoli.

    In questi ultimi trent'anni circa, alcuni testi in lingua volgare hanno adottato una traduzione che interpreta [il pro multis]come "per tutti", o equivalente.

    2. Come ha dichiarato la Congregazione per la Dottrina della Fede (Sacra Congregatio pro Doctrina Fidei, Declaratio de sensu tribuendo adprobationi versionum formularum sacramentalium, 25 Ianuarii 1974, AAS 66 [1974], 664), non vi è alcun dubbio circa la validità delle Messe celebrate usando una formula debitamente approvata e contenente una formulazione equivalente a "per tutti". In effetti, la formulazione "per tutti" corrisponderebbe senza alcun dubbio ad una corretta interpretazione dell'intenzione del Signore espressa nel testo. È un dogma di fede che Cristo è morto sulla Croce per tutti gli uomini e le donne (cfr. Gv 11, 52; II Cor 5, 14-15; Tito 2, 11; I Gv 2, 2).

    3. Tuttavia, vi sono molti argomenti a favore di una traduzione più precisa della formula tradizionale pro multis:

    a. I Vangeli Sinottici (Mt 26, 28; Mc 14, 24) fanno specifico riferimento ai “polloi" (termine greco che sta per molti) per i quali il Signore offre il Sacrificio, e questo termine è stato messo in risalto da alcuni esegeti in relazione alle parole del profeta Isaia (53,11-12). Sarebbe stato del tutto possibile nei testi evangelici dire "per tutti" (vedi, per esempio, Lc 12,41); invece, la formula data nel racconto dell'istituzione è "per molti", ed è così che queste parole sono state fedelmente tradotte nella maggior parte delle versioni moderne della Bibbia.

    b. Il rito romano in latino, nella consacrazione del Calice ha sempre detto pro multis e mai pro omnibus.

    c. Le anafore dei vari riti orientali, in greco, in siriaco, in armeno, nelle lingue slave, ecc., nelle loro rispettive lingue contengono parole equivalenti al latino pro multis.

    d. "Per molti" è una traduzione fedele di pro multis, mentre "per tutti" è piuttosto una spiegazione che appartiene propriamente alla catechesi.

    e. L'espressione "per molti", pur restando aperta all'inclusione di ogni persona umana, riflette anche il fatto che la salvezza non è data meccanicamente: senza che la si voglia, o vi si partecipi; al contrario: il credente è invitato ad accettare nella fede il dono che gli è offerto, e a ricevere la vita soprannaturale che è data a coloro che partecipano a questo mistero e lo vivono nella loro esistenza affinché siano annoverati fra i “molti” ai quali il testo si riferisce.

    f. Sulla scia dell’Istruzione Liturgiam authenticam, dovrebbe essere fatto uno sforzo per essere più fedeli ai testi latini delle edizioni tipiche.

    4. Alle Conferenze Episcopali di quei paesi in cui la formula "per tutti" o il suo equivalente è attualmente in uso, si chiede di iniziare presso i fedeli, nei prossimi uno o due anni, la catechesi necessaria su questo argomento, al fine di prepararli all’introduzione di una precisa traduzione in lingua volgare della formula pro multis ( e cioè “per molti”) nella prossima traduzione del Messale Romano che i Vescovi e la Santa Sede approveranno per i loro paesi.

    Con l'espressione della mia alta stima e del mio rispetto, Vi prego di credere, Eminenza / Eccellenza, alla mia devozione in Cristo.

    + Card. Francis Arinze, Prefetto


    -------------------------------------------------------------------------------

    Leggendo la circolare della Congregazione per il Culto Divino a tutti i Presidenti delle Conferenze Episcopali Nazionali (17 ottobre 2006) circa l’uso della corretta espressione “per molti”, invece della errata espressione “per tutti”, nel Canone della S. Messa, viene subito da ringraziare il Santo Padre per un provvedimento tanto opportuno quanto salutare.

    Grazie a Dio, continuando così, sarà possibile recuperare quelle parti della dottrina, della liturgia, della catechesi e della pastorale che in questi anni del post Concilio sono state colpevolmente o dolosamente stravolte.

    Tuttavia, proprio per l’importanza di un documento di tal fatta, riteniamo sia opportuno mettere a fuoco alcuni elementi che lo stesso documento propone in maniera forse inavvertita, mentre invece rivestono molta importanza.

    Al n° 2 è detto che “… non vi è alcun dubbio circa la validità delle Messe celebrate usando una formula debitamente approvata e contenente una formulazione equivalente a “per tutti”. E questo perché l’espressione “per tutti” corrisponderebbe senza alcun dubbio ad una corretta interpretazione dell'intenzione del Signore espressa nel testo.”

    Questa precisazione si presenta come una sorta di excusatio non petita, che la Congregazione sembra sia stata costretta o abbia sentito il dovere di inserire nel testo al fine di venire incontro alle obiezioni certo già sollevate e che verranno sollevate ulteriormente a partire da adesso.
    Essa, peraltro, svolge la funzione di vanificare in parte (o forse anche in toto) il rimanente contenuto del documento.

    Se l’uso di “per tutti” è “senza dubbio” conforme all’intenzione del Signore, così come Egli la esprime nel testo, perché la Congregazione va cercando il pelo nell’uovo ?
    È essa stessa a dirlo, ed è sempre essa stessa a sostenere che è più corretto usare “per molti” invece di per tutti. Proprio perché “per molti” implica la precisazione che “la salvezza non è data meccanicamente: senza che la si voglia o vi si partecipi”, come è detto in questa stessa lettera, al punto “e”.
    A questo si aggiunga che se la Congregazione ha sentito il bisogno di ribadire la “validità delle Messe… ecc.” è sicuramente perché il problema della loro eventuale invalidità si poneva a ragion veduta.

    Non si tratta certo di questioni di poco conto.

    Non solo. Ma come non notare con preoccupazione che questo documento della Congregazione, che ribadisce la corretta dottrina della Chiesa, sia indirizzato, non ai semplici fedeli, ma ai Vescovi e ai Cardinali, che dovrebbero essere i primi ad insegnarla ai fedeli.

    Forse i Vescovi e i Cardinali non sapevano che la “salvezza non è data meccanicamente” ?

    Non è una domanda retorica.

    È una domanda seria.

    Perché dalla risposta potrebbe derivare che: o per 40 anni ai fedeli sia stata insegnata una dottrina equivoca, e proprio tramite il momento culminante del Culto (la Consacrazione nel corso della S. Messa), oppure che la Congregazione oggi si trastulla con una cosa di poco conto.

    E se per 40 anni i Vescovi avessero davvero insegnato, tramite la S. Messa, recitata a voce alta e in volgare, una dottrina equivoca, crede la Congregazione che basti una circolare come questa per riparare il danno provocato ?

    In realtà, non è possibile supporre che i Vescovi non sapessero che il “per tutti” ha una connotazione equivoca e fuorviante, quindi è evidente che hanno, non tanto avallato, quanto “voluto” quella traduzione. Hanno cioè insegnato una dottrina equivoca a ragion veduta.

    E, fino ad oggi, per 40 anni, tale traduzione e il suo uso liturgico conseguente sono stati approvati dalla stessa Congregazione che oggi si lamenta.

    La cosa è davvero grave e avrebbe richiesto un intervento di ben altra portata che la semplice “circolare”. Forse occorrerebbero più encicliche per prendere seriamente in considerazione tutti gli elementi equivoci presenti nella nuova Messa, perché non è certo solo questo il punto in cui si forza e si tradisce la dottrina cattolica.

    Facciamo un solo esempio per tutti.

    Gloria in excelsis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis.

    Tradotto, recitato e cantato con:

    Gloria a Dio nell’alto dei cieli, e pace in terra agli uomini che Dio ama !

    Da dove è venuto fuori questo totale stravolgimento del testo evangelico (Luca, 2, 14) ?

    Gli Angeli, proprio in forza dell’Incarnazione del Verbo, annunciano la pace in terra agli uomini di “buona volontà”, cioè agli uomini la cui volontà, la cui intenzione, è “buona”, cioè conforme alla Volontà di Dio. Tutti gli altri, che non sono di buona volontà, non possono godere della pace che apporta l’Incarnazione del Verbo.

    Scrivere, recitare e cantare, invece, “pace in terra agli uomini che Dio ama”, significa capovolgere l’insegnamento evangelico, stravolgere la dottrina, banalizzare la liturgia.

    Dio ama tutti, è implicito nella sua stessa essenza, Egli è il Sommo Bene, è Amore, ma gli uomini si salvano, ricevono e godono la “pace” non perché Dio li ama, ma perché devono essere loro ad amare Dio: chi non ama Dio non gode di alcuna “pace”.

    È questo che insegna il Vangelo.

    Come si vede ci troviamo al cospetto di un capovolgimento simile a quello del “pro multis”, che non significa “per tutti”.

    Ma questi capovolgimenti, che corrispondono ad una vera e propria sovversione della dottrina, non possono essere addebitati a qualche svista o a qualche particolare lettura esegetica, come per esempio nei famosi “polloi” (il greco “multis”) che per anni ci è stato spiegato fossero le “moltitudini” e quindi i “tutti”.

    No. Questi capovolgimenti rispondono ad una precisa strategia “culturale” (come si usa dire oggi).

    Il Figlio di Dio non può essersi incarnato per la salvezza “di molti” (quelli disposti a seguirlo e a conformarsi alle leggi di Dio),… è inaccettabile.

    Ci troveremmo al cospetto di una vera e propria discriminazione.

    Senza contare la violazione di ogni minima regola di civile convivenza e di democrazia. … Quindi la dottrina insegnata fino a quel punto dev’essere corretta; anche a costo di cambiare le parole in bocca a Nostro Signore.

    Lo stesso dicasi che la “pace” apportata da questa Incarnazione.

    L’amore di Dio è tale, è talmente onnicomprensivo, che non può produrre alcun discrimine. Data l’Incarnazione non può ammettersi alcunché di diverso di una “pace” data a tutti, indipendentemente dalla volontà di ognuno, una “pace” automatica e necessaria, come è automatico e necessario l’amore di Dio. D’altronde, sarebbe assurdo supporre che Dio non ami tutti: e, se li ama tutti, è impossibile che certuni possano ricevere la “pace” e certi altri no.

    Quanto poi al fatto che certe cose sono scritte nei Vangeli, si tratta di un particolare a cui si può ovviare facilmente: se non hanno sbagliato gli Angeli, hanno sbagliato di certo gli estensori dei Vangeli, magari senza accorgersene.

    Ironia a parte, è esattamente questo il contesto “culturale”, religioso, liturgico e dottrinale in cui si cala questa circolare della Congregazione per il Culto Divino. Il contesto cioè composto dalle migliaia di Vescovi, preti, teologi, liturgisti e catechisti. È su questo terreno che vengono gettati i semi della correzione.

    Verranno i frutti ?

    Ce lo auguriamo, e preghiamo per questo, fidando fortemente nell’aiuto di Dio.

    Ma intanto non possiamo evitare di far notare che il richiamo con cui si conclude questa circolare (Alle Conferenze Episcopali… si chiede di iniziare presso i fedeli, nei prossimi uno o due anni, la catechesi necessaria su questo argomento,…) ci sembra un po’ anacronistico.

    Davvero si è convinti che gli stessi Vescovi che hanno volutamente insegnato una dottrina equivoca, da adesso, sulla base della circolare, saranno in grado di catechizzare i fedeli spiegando loro che in questi 40 anni si sono sbagliati ?

    Ci sbaglieremo, ma a noi sembra che il meglio che possa accadere è l’apertura di un “dibattito”, dove ognuno finirà col dire la sua, senza che si possa mai giungere a niente di serio.

    D’altronde, sappiamo per esperienza, che neanche la pubblicazione di un’enciclica sull’Eucarestia (Ecclesia de Eucharistia) e di una conseguente istruzione su come evitare le distorsioni e gli abusi nella celebrazione della S. Messa (Redemptionis Sacramentum), sia servito a un granché; a dimostrazione del fatto che è necessario un lavoro di maggiore incisività, un lungo e faticoso processo di decontaminazione innanzi tutto delle menti e dei cuori dei preti, dei religiosi e dei chierici in genere.

    Una circolare come questa sembra davvero una goccia nel mare.

    Tant’è.

    Ma riconosciamo che per fare una cosa grande si deve necessariamente partire con una cosa piccola, sicuramente. E siamo i primi a pregare perché le cose vadano sempre più e sempre meglio nella giusta direzione, per il bene della Chiesa e per la salvezza delle ànime dei fedeli

    Prendiamo atto allora di questa circolare e insieme della volontà di voler porre mano al recupero del vero insegnamento cattolico, e ringraziamo il Santo Padre per questo.

    Da parte nostra, nel nostro piccolo, ci prodigheremo perché si tengano presenti anche i diversi aspetti implicati in una operazione come questa, soprattutto da parte dei laici, che oggi più di ieri hanno il compito di rimanere vigili e critici per la salvaguardia della Tradizione della Santa Chiesa.

    Preghiamo la Santa Vergine perché, come ci ha assistiti in questi 40 anni, continui ad assisterci ancora, aiutandoci ad agire sempre e solo alla maggior gloria di Dio.

    commento tratto da http://www.unavox.it/

    [Modificato da Caterina63 10/09/2011 16:49]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 22/12/2009 19:20
    Mons. N. Bux a Radio Maria alle ore 18,00 ogni 4° martedì del mese


    Sorriso LO STO ASCOLTANDO....fantastico.... Ghigno

    La rubrica di don Bux andrà poi in onda ogni quarto martedì del mese a quell'ora.

    Ottimo....un diacono ha telefonato ringraziando e confessando di non conoscere le tante cose che egli ha spiegato ^__^
    ed ha chiesto un aiuto a come esercitare bene il suo dovere nelle regole...

    stupendo....sta spiegando ad una signora che l'ha chiesto, la differenza tra il termine ambiguo "attualizzazione" (per la Consacrazione) dal termine più corretto: "memoriale" basta che non sia inteso nel senso di RICORDO...
    ^__^

    questo fa comprendere quanto siamo gravemente all'ABC della Liturgia...

    ora sta correggendo un abuso descritto da un altro ascoltatore durante l'offertorio perchè un sacerdote PER SBRIGARSI offre INSIEME IL PANE E IL VINO...
    sta parlando appunto di grave abuso (le offerte vanno offerte SEPARATAMENTE)...abusi gravi a causa della creatività ad INVENTARE la liturgia...


    Bello una signora commossa chiede a quando il ritorno della comunione alla bocca ed in ginocchio?
    ^__^
    sta spiegando come la concessione alla mano sia un INDULTO non la Norma...di conseguenza sono i FEDELI A DOVER ESSERE ISTRUITI...senza imporre nulla, ma PORTANDOLI COME I PICCOLI...
    ^__^

    Ora sta spiegando dal libro Rivolti al Signore di mons. Lang...
    l'errata idea diffusa che Gesù abbia celebrato di fronte agli apostoli...^__^

    LA MESSA NON E' LA COMMEMORAZIONE DELL'ULTIMA CENA, MA E' IL SACRIFICIO DEL CALVARIO, ecco come si spiega la nascita degli errori di oggi a quanti credono che la Messa sia QUELLA CENA...la Messa è IL MEMORIALE DELLA CROCE non dell'Ultima Cena, questa commemorazione dell'ultima cena invece si fa IL GIOVEDI' SANTO, ecco perchè bisogna far ritornare la croce sull'altare come sta facendo il Papa (spiega mons. Bux)....il diffondersi di queste errate definizioni, ha snaturalizzato la Messa con i tanti problemi che poi ne sono derivati

    ^__^

    quando ritornerò dalle feste devo chiedere a padre Livio di mandarmi le registrazioni ^__^

    Buon Natale a tutti, le prospettive sono davvero ottime!

    ACCEDI DA QUI PER ASCOLTARE LA RADIO





    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 13/01/2010 21:28

    Una seconda finalità del Motu Proprio: La "riforma della riforma"

    Vi propongo una interessantissima e attualissima analisi di Paix Liturgique:

    La crescente diffusione dell’opera di Monsignor Nicola Bux intitolata “La Riforma di Benedetto XVI” [1] ci offre l’occasione di uscire dall’ambito ristretto della messa in opera del Motu Proprio Summorum Pontificum per fare il punto sulla “riforma della riforma” intrapresa dal Sovrano Pontefice nel campo liturgico e sulla relazione che dovrebbe stabilirsi progressivamente fra le due forme della liturgia romana.

    Lo scopo primario del Motu Proprio Summorum Pontificum è noto: fare in modo che la messa tradizionale possa essere celebrata in tutte le parrocchie nelle quali se ne faccia domanda. Il MP non si potrà considerare veramente applicato fin quando, nella cattedrale di Milano o di Bari, in quella di Cagliari o di Trieste, non si potrà assistere alla messa domenicale delle 10 celebrata nella forma ordinaria e a quella delle 11 nella forma straordinaria (o viceversa). Per dirla in breve: in materia di applicazione del MP oggi non siamo che agli inizi.

    A –
    Il progetto della “riforma della riforma”

    Un secondo intento all’origine del MP non è immediatamente esplicito ma non per questo è meno evidente sia in ragione di quanto scritto in passato dall’allora Cardinale Ratzinger in materia, sia per via dell’augurio formulato nel testo del 2007: quello di un “arricchimento reciproco” delle due forme che ormai coesistono ufficialmente.

    Relativamente all'arricchimento, possiamo tutti capire che la forma più evidentemente “ricca” è quella che beneficia di una tradizione ininterrotta di dieci secoli (e di ben diciassette secoli per quanto riguarda la sua parte essenziale, il Canone), e il cui valore dottrinale e rituale è per lo meno paragonabile a quello delle altre grandi liturgie cattoliche. Così scrive Nicola Bux nella sua opera: “Gli studi comparativi dimostrano che la liturgia romana era molto più vicina a quella orientale nella forma preconciliare che in quella attuale. [...] Purtroppo, il messale di Paolo VI non contiene tutto quello di Pio V." Sarebbe quindi assurdo voler negare che la forma che deve essere arricchita/trasformata in primo luogo è proprio quella fabbricata frettolosamente quarant’anni fa.

    Si è presa dunque l’abitudine di chiamare “riforma della riforma” questo progetto di arricchimento/trasformazione della riforma di Paolo VI allo scopo di renderla più tradizionale nei suoi contenuti e nella sua forma. Bisognerà però attendere ancora per vederne gli effetti perché, un po’ come il MP, va considerato che la “riforma della riforma” si trova solo al debutto.

    Pensando ai futuri sviluppi di questo processo sono opportune due osservazioni preliminari :

    1. La “riforma della riforma”, come indicato dall’espressione stessa, non riguarda che la riforma di Paolo VI. Non suggerisce infatti in alcun modo che parallelemente si dia l'avvio a una trasformazione della forma tradizionale del rito. Le due forme infatti non sono assolutamente comparabili né dal punto di vista della loro relazione con la tradizione né dal punto di vista della loro struttura rituale. Una modifica del rito tradizionale oggi causerebbe un indebolimento del patrimonio liturgico della Chiesa, cosa che del resto Ratzinger, da Cardinale, aveva a suo tempo prudentemente e chiaramente escluso.[2]
    2. La “riforma della riforma” non ha lo scopo di introdurre, attraverso leggi e decreti, un terzo messale posto a metà strada fra il messale tridentino e quello nuovo - che d'altronde è piuttosto una raccolta di linee guida da interpretare con una certa libertà che un “messale” in senso tradizionale. Il Cardinale Ratzinger ieri, Papa Benedetto XVI oggi, è del tutto contrario all’idea di mettere in opera una serie di riforme autoritarie pari a quella – ma in senso inverso – che è stata la messa in pratica della riforma di Paolo VI. Si tratta piuttosto di intraprendere un progressivo riavvicinamento del messale di Paolo VI al messale tradizionale, cosa che peraltro è facilitata proprio dall'elasticità della liturgia nuova: il suo carattere a-normativo la rende paradossalmente accogliente proprio per un ritorno della norma tradizionale. Ci si può d’altro canto chiedere se, alla fine di questo processo, essa conserverà un’altra ragion d’essere che quella di essere propedeutica alla liturgia tradizionale.

    B – Il libro di Nicola Bux

    L’importanza della pubblicazione di questo libro è collegata anche alla dimensione intellettuale del suo autore. Monsignor Nicola Bux, professore di liturgia e di teologia dei sacramenti presso l’Istituto superiore di Teologia San Nicola di Bari, è consulente della Congregazione per la Dottrina della fede e della Congregazione per le Cause dei Santi e inoltre dell’Ufficio delle celebrazioni liturgiche del Sovrano Pontefice, è consigliere della rivista Communio, nonché autore di numerosi libri (fra i quali "Il Signore dei Misteri. Eucaristia e relativismo", Cantagalli, 2005) e di molteplici articoli (“A sessant’anni dall’Enciclica Mediator Dei di Pio XII, dibattere serenamente sulla liturgia”, L’Osservatore Romano, 18 novembre 2007). E’ inoltre uno dei più influenti sostenitori della riforma della riforma di Paolo VI.

    L’opera di Nicola Bux si inserisce nel nuovo movimento liturgico che coinvolge altri noti sostenitori dell’azione del Papa, tra i quali: Padre Alcuin Reid (The Organic Development of the Liturgy, Saint Michael’s Abbey Press, Londra, 2004), Padre Michael Lang (Rivolti al Signore - L'orientamento nella preghiera liturgica, Cantagalli, 2008), Monsignor Nicola Giampietro (Il Card. Ferdinando Antonelli e gli sviluppi della riforma liturgica dal 1948 al 1970, Studia Anselmiana, Roma, 1998), Monsignor Athanasius Schneider (Dominus Est - Riflessioni di un Vescovo dell'Asia Centrale sulla sacra Comunione, Libreria Editrice Vaticana, 2008), Padre Aidan Nichols (Looking at the Liturgy: A Critical View of Its Contemporary Form, Ignatius Press, 1996) e ancora Don Mauro Gagliardi (Liturgia, Fonte di Vita, Fede&Cultura, 2009). Vanno ricordate ancora le iniziative promosse da Padre Manelli e i Francescani dell’Immacolata, né, beninteso, l’azione quotidiana di importanti prelati come Monsignor Ranjith, Monsignor Burke, il Cardinale Cañizares, ecc.

    Il libro di Monsignor Bux ha inoltre beneficiato di tre prestigiose prefazioni: quella di Vittorio Messori per l’edizione italiana, quella di Monsignor Marc Aillet, Vescovo di Bayonne, per l’edizione francese, e quella del Prefetto della Congregazione per il Culto Divino, il Cardinale Cañizares, per l’edizione spagnola.

    Secondo Nicola Bux, la crisi che ha colpito la liturgia romana è dovuta al fatto che essa non è più incentrata su Dio e sulla Sua adorazione, ma sugli uomini e la comunità. “All'inizio sta l'adorazione. E quindi Dio. [...] La Chiesa si lascia guidare dalla preghiera, dalla missione di glorificare Dio” aveva scritto in proposito Joseph Ratzinger (L'Osservatore Romano, 4 marzo 2000).

    La crisi della liturgia comincia nel momento in cui cessa di essere un’adorazione o si riduce alla celebrazione di una comunità particolare nella quale preti e vescovi, invece di essere dei ministri, dunque dei servitori, divengono dei leader. E’ perché, indica Mons. Bux, oggi “la gente chiede sempre più rispetto per lo spazio personale del silenzio, della partecipazione intima della fede ai sacrosanti misteri e alla preghiera pubblica e solenne della Chiesa".

    Bisogna dunque aiutare un clero confuso nella pratica e nella propria coscienza cultuale a comprendere che la liturgia "è sacra e divina, discende dall’alto come la Gerusalemme celeste". Mons. Bux invita perciò a "ritrovare il coraggio del sacro". Un senso del sacro che rinvia al mistero. A questo proposito sarebbe opportuno fermarsi un attimo su una sua osservazione relativa alla lingua liturgica: "Malgrado la messa in lingua parlata, il numero dei fedeli nelle chiese è molto diminuito: forse anche perché, dicono alcuni, ciò che hanno compreso non è affatto piaciuto"...

    E’ il caso che la Chiesa educhi nuovamente il sacerdote al compimento dei Santi Misteri “in persona Christi” come suo ministro e non come animatore di un’assemblea ormai del tutto ripiegata su se stessa.

    C –
    Il progetto della “riforma della riforma”: procedere con l'esempio più che con le norme.

    Nonostante il peso delle dichiarazioni di Monsignor Bux in particolare e degli "uomini del Papa” in generale, in linea con il pensiero del Santo Padre, in realtà nessuno immagina leggi o decreti per operare una trasformazione radicale autoritaria come invece venne fatto all'epoca Bugnini. Anche se liturgicamente parlando, la Chiesa è oggi molto malata, si preferisce agire con la medicina dolce dell'esempio: l'esempio dato dal Sommo Pontefice in primis, e poi dei vescovi che saranno disposti a fare come lui.

    In questo senso si può osservare che Benedetto XVI favorisce un insieme di azioni correttive che ad un occhio disattento possono non sembrare che dei dettagli. La liturgia non è però che una serie di dettagli: celebrazioni pontificali molto degne, bellezza degli ornamenti della sacrestia di San Pietro riutilizzati dal Cerimoniere Pontificio Monsignor Guido Marini, disposizione del crocefisso centrale e di grandi candelieri sull'altare che attenuano il faccia a faccia teatrale tra il celebrante e i fedeli e, soprattutto, distribuzione della Comunione in ginocchio e sulla lingua.

    A questo punto sta ai vescovi fare altrettanto nelle loro celebrazioni pubbliche. Sappiamo già che il Cardinale Carlo Caffarra, Arcivescovo di Bologna, uno dei teologi più importanti fra i Vescovi italiani, ha emesso il 27 aprile 2009 delle disposizioni con le quali "considerata anche la frequenza in cui sono stati segnalati casi di comportamenti irriverenti nell’atto di ricevere l’Eucaristia" si è deciso che “da oggi nella Chiesa Metropolitana di S. Pietro, nella Basilica di S. Petronio e nel Santuario della B.V. di San Luca in Bologna i fedeli ricevano il Pane consacrato solamente dalle mani del ministro direttamente sulla lingua."

    Da parte loro il Vescovo Schneider e Don Mauro Gagliardi [3] ci ricordano con un certo vigore che la modalità "normale" è quella di ricevere la comunione in bocca, e che la comunione nella mano è una modalità “tollerata” seppure da tempo sia la più diffusa. Questo incoraggiamento è molto importante per la rinascita della fede nella presenza reale di Cristo nell'Ostia consacrata. Lo stesso Monsignor Bux insiste sul fatto che il rispetto del divino e del sacro si esprime attraverso segni di venerazione.

    Ma ci sono altre proposte immaginate dai sostenitori della "riforma della riforma", e fra queste:

    1. Stimolare la riduzione del numero dei concelebranti e anche delle concelebrazioni stesse perchè quando esse diventano troppo frequenti la funzione mediatrice fra Dio e gli uomini di ogni singolo sacerdote viene offuscata.

    2. Fare in modo di ridurre gradualmente la proliferazione delle parti opzionali della Messa (in particolare si fa riferimento alle preghiere eucaristiche, alcune delle quali risultano per lo meno problematiche da un punto di vista dottrinale).

    3. Reintrodurre elementi della forma straordinaria che promuovono il senso del sacro e l'adorazione perchè, spiega Mons. Bux: "L'ars celebrandi consiste nel servire con amore e timore il Signore: per ciò si esprime con baci alla mensa e ai libri liturgici, inchini e genuflessioni, segni di croce e incensazioni di persone e oggetti, gesti di offerta e di supplica, ostensioni dell'evangelario e della santa eucaristia."

    4. E molte altre cose ancora: ricordare che il bacio della pace è un'azione sacra e non un segno di civiltà borghese, reintrodurre l'uso massiccio della lingua liturgica latina, ecc.

    Infine, e soprattutto, come non soffermarsi sull'incoraggiamento dato dagli "uomini del Papa" ai sacerdoti di celebrare verso il Signore, almeno durante l'Offertorio e la Preghiera Eucaristica. Già, nel 2003, l'allora Cardinale Ratzinger aveva scritto la prefazione dell'edizione originale inglese del libro di Padre Lang intitolato proprio: "Rivolti al Signore". Da sua parte, Monsignor Bux spiega bene che la novità più "vistosa della riforma liturgica è stata il cambiamento della posizione del sacerdote verso il popolo". Alla luce di queste parole ci si può aspettare legittimamente che la “riforma della riforma” sarà veramente in marcia quando il Papa e i vescovi celebreranno comunemente rivolti verso il Signore.

    D – Il punto più rilevante della “riforma della riforma”

    Nel suo libro, Nicola Bux afferma che la chiave della liturgia nuova, come prodotto delle officine Bugnini - l'autore della riforma liturgica - sta nel suo adattamento al mondo. E' qui che, in sintonia con i sostenitori della “riforma della riforma”, la sua riflessione si fa più radicale: l'essenza della liturgia cattolica è di essere "una critica permanente al mondo, a quel mondo che penetra nella Chiesa spingendola ad appartenergli”.
    Considerando che " la riforma non può essere intesa nel senso di una ricostruzione secondo i gusti del tempo", occorre "distinguere la riforma dalle deformazioni".

    E' per questo che Monsignor Bux cita e commenta il “Breve esame critico”, pubblicato alla fine del Concilio dai Cardinali Ottaviani e Bacci nel quale questi ultimi: "ritenevano [...] che fosse scomparsa la finalità ultima della messa, essere sacrificio di lode alla Santissima Trinità. Così pure la finalità ordinaria, d'essere il sacrificio propiziatorio”. Si dovrebbe infatti essere ciechi per non notare che il nuovo rito della Messa si è ridotto di fatto ad una immanentizzazione del messaggio cristiano: la dottrina del sacrificio propiziatorio, l'adorazione della presenza reale di Cristo, la specificità del sacerdozio gerarchico e, in generale, la sacralità della celebrazione eucaristica vengono espressi in un modo molto meno evidente rispetto al rito tradizionale. Proprio per questo hanno ripreso vigore i tentativi di inserire nuovamente nelle preghiere del messale di Paolo VI quelle che esprimono al meglio il significato sacrificale, vale a dire quelle dell'Offertorio.[4] [Offertorio che, nel cammino nc Carmen Hernandz insegna essere un retaggio pagano]

    Se quindi c'è un punto sul quale possiamo aspettarci un qualche provvedimento in sostegno della “riforma della riforma”, è sicuramente questo: la possibilità di introdurre nella celebrazione ordinaria le preghiere d'offertorio della tradizione romana.

    Nel complesso, se questo disegno prendesse davvero corpo, ci si troverebbe alla fine in una situazione inversa rispetto a quella verificatasi tra il 1965 e il 1969: a quell'epoca di cambiamenti bruschi, in cui tutto mutava nella direzione progressista, potrebbe rispondere un periodo di evoluzione dolce in cui tutto cambierebbe in un senso generale di “risacralizzazione”. [senza quel 'clima', la liturgia introdotta arbitrariamente da un laico, che ha avuto la sua legittimazione -guarda caso- da una "nota laudatoria" di Bugnini del 1974, non avrebbe mai potuto aver posto nella Chiesa]

    Tale attuazione della “riforma della riforma” per una volta sarebbe davvero “riformista” nel senso tradizionale del termine. Procederebbe per "contaminazione", per usare un termine familiare agli storici della religione quando vogliono parlare dell'influenza di una liturgia su un'altra: in questo caso, si tratterebbe della contaminazione della liturgia tradizionale su quella nuova.

    In effetti, si potrebbe addirittura sostenere che la forma straordinaria è forse l'unica possibilità a lungo termine di salvare la forma ordinaria facendo in modo che essa divenga sempre meno ordinaria. La forma moderna potrebbe quindi diventare una sorta di base di partenza per arrivare alla liturgia straordinaria. Si può aggiungere in fine che essa non si troverebbe in concorrenza con la forma straordinaria, ma al contrario potrebbe diventare un mezzo molto favorevole per la sua diffusione e affermazione come forma ufficiale di riferimento.

    [1]. "La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione", Piemme, 12 €. Uscito nel 2008, il libro di Mons. Nicola Bux è già stato tradotto in spagnolo e in francese.

    [2]. Nel 2001, durante le giornate liturgiche di Fontgombault, il Cardinale Ratzinger aveva detto che non c'era alcuna intenzione di modificare il messale tridentino, senza alcun dubbio per molto tempo ancora, soprattutto perché la sua presenza e il suo uso attuale potrebbero servire come stimolo per un'evoluzione del messale nuovo. Questa è ormai chiaramente la linea seguita dalla Congregazione per il Culto Divino e dalla Commissione "Ecclesia Dei" che considerano per esempio che l'introduzione del nuovo l@ezionario è impossibile nel rito tradizionale. L'unico sviluppo possibile del rito tradizionale, secondo i liturgisti romani, sarebbe l'introduzione di alcuni nuovi prefazi.

    [3]. Intervista concessa a zenit.org il 21 dicembre 2009.

    [4]. Si veda, ad esempio, il manifesto che è stato il libro di Padre Paul Tirot, osb: Histoire des prières d'offertoire dans la liturgie romaine du VIIe au XVIe siècle, CLV, 1985.

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 13/01/2010 21:48

    LA RIFORMA DI BENEDETTO XVI - LA LITURGIA TRA INNOVAZIONE E TRADIZIONE


    Sommario del dossier:

    La Liturgia insegna al Popolo di Dio la Bellezza che conduce alla Verità.

    L’importanza della forma da dare nel Tempio di Dio.

    Che cosa c’è al centro dell’essere cristiano.

    Domande semplici che tentano di rispondere ai pericoli che oggi corre il Cristianesimo.

    Il mistero della liturgia.

    Un inno al culto, che avviene “soltanto per, con e in Gesù Cristo… il vero celebrante”.

    Ecclesia non facit saltus.

    La struttura del libro.

    INTERVISTA A DON NICOLA BUX
    Autore del libro “La Riforma di Benedetto XVI - La liturgia tra innovazione e tradizione”: “La Sacra Liturgia ha cambiato la mia vita”

    Il testo integrale del dossier



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    Caterina63
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    00 22/01/2010 13:10
    Le messe di nozze non sono uno spettacolo, ma seguano rispettosamente la liturgia della Chiesa. Evitare stramberie e cose stravaganti. Nei funerali nessun elogio per il defunto. Si pensi alla vita futura, non al passato     
     
    Venerdì 22 Gennaio 2010 da pontifex.roma.it

    Sempre più facilmente, ci accade di assistere a messe noziali per lo meno stravaganti con stranezze ed esuberanze poco consone alla liturgia. Ne abbiamo parlato con Monsignor Nicola Bux, teologo e fine liturgista.



    Don Bux, come devono essere le messe matrimoniali?:
     " la messa di nozze é assolutamente uguale e non cambia rispetto alle altre,pertanto segua il modello canonico e non vedo la ragione per cui debba cambiare".

     Come va fatta?:
    " con scrupolo ed attenzione, evitando stranezze o stravaganze. Ma questo é un discorso già fatto, che coinvolge quella visione della messa che al posto di vedere un sacrificio, ci mette al centro la idea dello spettacolo".

    Dunque risente della idea " festaiola" della messa?:
     " indubbiamente é così. Molto,però, dipende dalla attenzione dei vescovi e dei parroci locali che dovrebbero vigiliare  con scrupolo sui programmi e le celebrazioni. Qualche volta questo non accade. Ovviamente non sarebbe giusto generalizzare e fare diogni erba un fascio".

     Una buona omelia nuziale cme si esegue?:
     " lo ripeto, senza effetti speciali, ma con attenzione alle letture della messa, senza deformraioni della liturgia della quale il sacerdote, anche nella messa di nozze, non é mai signore e padrone".

     Talvolta i sacerdoti se amici di famiglia, si abbandonano a toni troppo confidenziali:
     " se il celebrante o il parroco sono amici degli sposi, un tocco di intimità non guasta ed é comprensibile. La cosa importante é che non si  debordi in cose di cattivo gusto e atti antiliturgici".

     Che fare con i fotografi e  cine operatori che fanno invasioni di altare?:
     " anche questo é rimesso alla dovuta attenzione dei parroci e dei celebranti".

     Pensa che sia giusto che si celebrino matrimoni fuori delle parrocchie di appartenenza?:
    " in questo caso, per evidenti ragioni di rispettiva appartenenza dei coniugi, la chiesa assicura una certa tolleranza. Poi alcune volte per motivi sentimentali i giovani scelgono una chiesa che dice loro qualcosa di particolare in un momento tanto importante della loro vita. Taluno con ragione cerca la bellazza del  luogo, l'importanze é che questa bellezza non sia fine a sé stessa".

     Veniamo alle messe di funerale. Spesso i celebranti fanno veri panegirici del defunto:
     " un errore. Fuori del luogo di culto si facciano tutte le orazioni  sulle virtù del morto, ma non in chiesa che é luogo di culto. Il funerale non deve parlare della vita passata, ma di quella futura. Cambiare, é un abuso anche grave".

    Bruno Volpe
     

     Sorriso
    Fraternamente CaterinaLD

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    00 27/01/2010 22:23

    La riforma liturgica del Concilio Vaticano II non è conclusa


    Intervista a un Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice



    di Miriam Díez i Bosch


    CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 9 gennaio 2009 (ZENIT.org).- La liturgia è chiaramente uno degli ambiti che sta più a cuore a Papa Benedetto XVI il quale, oltre a celebrare esemplarmente la liturgia, ha emanato il Motu Proprio Summorum Pontificum, che ha reinserito a pieno titolo la liturgia tradizionale nell'uso della Chiesa.

    Il tema liturgico suscita anche un vivo dibattito tra gli studiosi, come testimoniano le diverse prese di posizione su un recente volume di Nicola Bux.

    ZENIT ha parlato con don Mauro Gagliardi, Ordinario di Teologia presso l'Ateneo Pontificio “Regina Apostolorum” di Roma e Consultore dell'Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice.

    L'ultimo volume di don Nicola Bux sulla riforma liturgica di Benedetto XVI sta conoscendo un buon successo presso i lettori, ma sta anche suscitando un certo dibattito tra gli specialisti. Prof. Gagliardi, potrebbe darci qualche linea di interpretazione di questo volume?

    Gagliardi: In una mia breve presentazione dell'ultimo libro di Nicola Bux, La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione, Piemme, Casale Monferrato 2008 (cf. Sacrum Ministerium 14 [2008/2], pp. 144-145), esordivo scrivendo: «Il Concilio Vaticano II ha dato l'avvio ad una riforma della liturgia che ha conosciuto diverse fasi e che è ancora in corso. Va interpretato in quest'ottica il bel titolo dell'ultimo libro di don Nicola Bux». Con queste parole notavo implicitamente la sintonia da me avvertita tra lo spirito espresso dal volume del noto studioso pugliese e quanto io stesso avevo sostenuto un anno prima nel mio libro dal titolo Introduzione al Mistero eucaristico. Dottrina – liturgia – devozione, San Clemente, Roma 2007, in cui avevo affermato che la riforma liturgica, avviata con il Concilio Vaticano II (ma in realtà già prima), non sia affatto conclusa, bensì ancora «in fieri». Perciò, in modi e misure diverse, tutti i papi postconciliari vi hanno apportato il proprio contributo: da Paolo VI a Benedetto XVI.

    Naturalmente simile riforma, essendo un lavoro lungo e laborioso – non si dimentichi che essa è cominciata da soli quarant'anni! – comporta un'enorme fatica e soprattutto un'enorme pazienza, come pure la consapevolezza di dover essere sempre vigilanti sulla sua corretta applicazione, ma anche l'umiltà di saper rivedere degli aspetti – persino se universalmente autorizzati, o addirittura promossi dalla vigente normativa – se questi aspetti dovessero essere problematici, o anche solo migliorabili. D'altro canto, chi oggi ritiene che il rito di Paolo VI abbia migliorato quello di San Pio V non afferma anche, più o meno direttamente, che la normativa precedentemente stabilita e vigente doveva essere migliorata? E perché, allora, la normativa che riguarda il Novus Ordo dovrebbe ritenersi perfetta ed intoccabile? In una riforma liturgica ciò che conta non è affermare le proprie idee a tutti i costi, anche contro l'evidenza, bensì aiutare la Chiesa ad adorare sempre meglio la Santissima Trinità. Tutti, infatti, o quasi, convengono nel riconoscere che l'adorazione del Padre per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo è l'essenza e al tempo stesso il fine della sacra liturgia, o culto divino. Essendo questo punto comune pressoché a tutti gli studiosi seri, si vede che bisogna costruire a partire da qui.

    Lei ritiene, dunque, che il recente libro del suo collega don Nicola Bux sia di aiuto a comprendere l'indole teologica della liturgia?

    Gagliardi: Nicola Bux dedica a questo punto basilare, ossia alla comprensione teologica della sacra liturgia, i primi due capitoli del suo libro. Gli altri capitoli si rivolgono, invece, ad analizzare lo stato attuale della riforma liturgica ancora in atto: la situazione concreta, ma anche la storia recente che ha condotto ad essa. Egli riconosce che «è in atto una battaglia sulla liturgia» (p. 45; cf. p. 50). La liturgia è attualmente oggetto conteso tra innovatori e tradizionalisti – anche il sottotitolo del libro fa riferimento a ciò – ed ognuno cerca di tirare l'acqua al suo mulino, sottolineando gli aspetti teologici e giuridici che fanno al caso proprio e insabbiando o "reinterpretando" i dati sfavorevoli alla propria tesi preconcetta. Simile atteggiamento si trova sia nella cosiddetta "destra" che nella cosiddetta "sinistra". Invece, Don Bux avvisa: «Non ha senso essere a oltranza innovatori o tradizionalisti» (p. 46) e mi pare che tutto il suo libro vada inteso in quest'ottica. Innanzitutto va ricordato che si tratta di un libro volutamente sintetico, che getta sul tappeto i temi da discutere, più che fornire lunghi approfondimenti su ciascuno di essi. È un invito alla riflessione, al dialogo, allo studio, anche – se si vuole – al confronto serrato tra le diverse posizioni, ma curando che il confronto sia fondato su argomentazioni e non su pregiudizi di parte. È un libro che si propone di essere equilibrato e di invitare all'equilibrio. «Si tratta di un ammonimento agli uni e agli altri – scrive l'Autore, a proposito di un tema particolare, riferendosi agli innovatori ed ai tradizionalisti – perché ritrovino l'equilibrio» (p. 63). Questo è il tentativo e la proposta che don Bux vuol fare con il suo volume.

    In questo modo entriamo nel vivo dibattito tra gli studiosi, che attualmente assumono posizioni diverse non solo sulla teologia liturgica ma anche sulle concrete disposizioni disciplinari che la Chiesa stabilisce in materia.

    È chiaro che la posizione moderata è sempre la più difficile, sia da esporre che da difendere. Non mancheranno, infatti, attacchi sia da "destra" che da "sinistra". Simile reazione sembra esserci anche nei confronti dell'opera di cui stiamo parlando. Vorrei illustrare questo stato di fatto, chiamando in causa due imminenti recensioni al libro di don Bux. Da una parte, quella di Bernard Dumont, che apparirà a breve nel numero invernale della rivista francese Catholica; dall'altra, quella di Matias Augé, che circola in internet da qualche tempo e, si prevede, verrà prossimamente pubblicata su una rivista italiana. Dumont dà una valutazione tutto sommato favorevole del libro di Bux, ma gli rimprovera di non essere andato fino in fondo con la sua critica alla liturgia attuale (ossia, alla forma ordinaria). Secondo Dumont, infatti, Bux avrebbe fatto dei lievi cenni di critica alla riforma liturgica in sé, ma si sarebbe soffermato soprattutto sulla critica agli abusi, che ovviamente sono deformazioni della riforma e non parte di essa. Egli scrive (la traduzione dal francese è mia): «Nicola Bux [...] ritiene che la prima causa [dell'attuale situazione] è l'applicazione all'ambito liturgico della "svolta antropologica" formulata da Karl Rahner. [...] Questa famosa "svolta" (che – aggiunge Dumont – è piuttosto un capovolgimento, tra l'altro manifestato molto bene dal capovolgimento degli altari, non previsto esplicitamente in origine) ha tuttavia dei forti appoggi giuridici, sui quali converrebbe essere chiari. Perché ci sono degli atti giuridici che hanno permesso o istituito questo capovolgimento, e non solo le pressioni di attivisti o il mimetismo delle équipes di animazione: ma le decisioni di vescovi, le decisioni di dicasteri e consigli della Curia debitamente comandate, e i discorsi stessi di Paolo VI che esprimono il suo assenso».

    Egli continua in seguito: «L'Autore menziona tuttavia le critiche del rito riformato (e non della sua sola pratica) fatte da mons. Klaus Gamber, Lorenzo Bianchi e Martin Mosebach, ma egli non vi insiste. Tatticamente, egli rigetta mano a mano, in una simmetria retorica perfetta, tradizionalisti e progressisti. Avendo fatto ciò, egli può ripartire con nuovo slancio in una critica molto ampia degli abusi liturgici». Tuttavia, avvisa Dumont, «gli abusi così stigmatizzati non sono altro che la pratica più o meno universalmente diffusa del nuovo Ordo dopo il 1969». In sintesi, la critica di Dumont consiste nel riconoscere il seguente difetto nell'opera di don Bux: stigmatizzerebbe gli abusi, ma farebbe solo brevi cenni al fatto che è il Novus Ordo in sé il problema, nonché tutta la conseguente normativa, sia dei dicasteri vaticani che delle conferenze episcopali; normativa che avrebbe per lui incoraggiato, o almeno permesso, uno stile celebrativo come quello che oggi conosciamo. Allora, non si tratterebbe più di abusi, ma della norma. Pertanto, l'attuale ordinamento liturgico, siccome non tradurrebbe più il senso divino della liturgia, andrebbe rigettato in toto.

    Se ci spostiamo ora alla seconda recensione, la critica fatta da Matias Augé è di tutt'altro ordine. Lungi dal criticare la riforma liturgica postconciliare, il noto liturgista attribuisce a don Bux la responsabilità di tale critica. Egli scrive che, a partire dal III capitolo, nel libro «il tono del discorso è fortemente polemico diventando una serrata critica dell'applicazione della riforma liturgica postconciliare nonché della riforma stessa» (corsivo mio) e che l'Autore fa una descrizione della «battaglia sulla riforma liturgica [...] in cui lo sconfitto è la cosiddetta "forma ordinaria" del rito romano, e cioè la riforma della liturgia attuata dopo il Vaticano II». Uno dei rilievi che Augé ripete più di una volta nella sua recensione consiste nell'individuare nel testo un «intreccio» e una «confusione» di «valutazioni negative sulla liturgia riformata [...] con le valutazioni pure esse negative sulla sua celebrazione».

    Che impressioni ha di queste opposte critiche?

    Gagliardi: Mi pare di poter dire che i due Recensori concordino su un solo punto: il volume in analisi non offrirebbe secondo loro una valutazione corretta del rapporto tra la riforma in sé e gli abusi che si verificano nella celebrazione svolta secondo il Novus Ordo. Tuttavia, mentre Dumont afferma ciò dicendo che gli abusi coincidono con la riforma stessa e quindi essa va invalidata, Augé separa nettamente le due cose, dicendo che la riforma in sé è più che valida e ha migliorato la celebrazione rispetto al rito cosiddetto "di San Pio V", mentre per quanto riguarda gli abusi, anch'egli stigmatizza «la stupida faciloneria con cui alcuni presbiteri presiedono le celebrazioni liturgiche» (corsivo mio); e conclude: «Vorrei però che tutto questo proliferare di abusi non sia un alibi per smontare pezzo a pezzo la riforma liturgica» (di nuovo, corsivo mio: mi pare che tra le due espressioni evidenziate ci sia contraddizione).

    Di fronte alla possibilità di rivedere la riforma operata sotto Paolo VI, Augé conclude chiedendosi: «Tale eventuale riforma della riforma dove dovrebbe prendere ispirazione, dal Messale del 1962 o dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium? Invece di spendere tante energie in questa operazione, non sarebbe meglio spenderle per approfondire sempre più intensamente la liturgia della Chiesa "celebrata secondo i libri attuali e vissuta prima di tutto come un fatto di ordine spirituale"?».
    Alla base di queste due domande di Augé sembrano esserci due presupposti: primo, che la «riforma della riforma» possa consistere o nel tornare al rito di San Pio V, o nel seguire il dettato conciliare. Ma questo presupposto non si basa sull'idea che tra l'insegnamento liturgico del Vaticano II e quello precedente vi è un'insanabile discontinuità? Non vi sono spazi per un «et-et»? Il secondo presupposto si nota nell'espressione «liturgia della Chiesa», applicata per indicare la normativa postconciliare. Esprimendosi come fa Augé, non si afferma indirettamente che il Messale promulgato nel 1962 dal Beato Giovanni XXIII non è «liturgia della Chiesa»? O, se l'espressione «liturgia della Chiesa» va caratterizzata in base al testo da lui citato (ripreso dalla Vicesimus quintus annus), non c'è il rischio di lasciar intendere che la liturgia preconciliare non era «un fatto di ordine spirituale»?

    In conclusione, come ci si deve orientare per comprendere il senso dell'attuale dibattito e delle decisioni del Santo Padre in materia liturgica?

    Gagliardi: Le domande ed osservazioni sopra esposte ci permettono di affacciarci su quello che, in fondo, è il punto di appoggio del volume di Don Bux e quindi anche delle critiche ad esso: il Motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI.
    Don Bux ritiene che esso rappresenti un segno evidente di un progetto di rinnovamento liturgico e di incremento della sacra liturgia, che senza alcun ragionevole dubbio sta certamente a cuore al Papa. La decisione pontificia – da molti ridotta ad una prospettiva strettamente ecumenica, come "concessione" ai lefebvriani (che tuttavia, questo lo si dimentica, non avevano bisogno del Motu proprio, perché da sempre celebrano con il rito antico) – ha per l'Autore un significato molto più ampio e che va nella direzione di un «superamento della cesura operata nel processo di riforma della liturgia contrapponendo il nuovo rito all'antico» (p. 45).

    A me pare che don Bux veda giusto: il Santo Padre stesso ha dichiarato, nella Lettera apostolica che accompagna il Summorum pontificum, che l'obiettivo della sua decisione è quello di «giungere ad una riconciliazione interna nel seno della Chiesa». Non si tratta solo di una riconciliazione con chi è "fuori" della Chiesa, come formalmente sono (per ora) i lefebvriani; si tratta di una riconciliazione «interna»: quindi tra i cattolici. Perciò il punto debole della riforma postconciliare va individuato, come fa Don Bux, non tanto nella riforma in sé (che pure presenta, come ogni cosa umana, aspetti migliorabili e altri persino da rivedere), quanto nel fatto di aver voluto presentare il Novus Ordo non solo come nuovo, ma come opposto all'Antiquior.
     
    È questo strappo alla continuità della tradizione che ha causato e causa incomprensioni, polemiche e sofferenze. La riforma postconciliare deve essere compresa come novità nella continuità: solo questo permetterà di condurla in porto. Sì, perché – lo ripeto – essa non è affatto conclusa. Non ho qui, purtroppo, la possibilità di analizzare punto per punto le altre critiche mosse al volume in questione – si può discutere su ognuna e valutare quanto colga nel segno, o quanto fraintenda, per aver operato una lettura selettiva e parziale di esso. Ma resta certo che un volume come questo è destinato, nell'attuale momento, ad essere segno di contraddizione proprio perché cerca di favorire – in modo particolare tra gli studiosi del settore, ma anche tra le contrapposte "fazioni" di sostenitori di una sola delle due forme del rito romano – l'umiltà, la comprensione, la tolleranza e l'apertura mentale (cf. p. 87), obiettivo che coincide con quello di Benedetto XVI.

    Su un punto almeno, però, voglio prendere posizione chiara a fianco dell'Autore: anch'io sono convinto che la formazione liturgica del popolo di Dio – pur doverosa e raccomandata come minimo dal Concilio di Trento in poi – non sia da sola sufficiente per favorire il vero spirito liturgico e il corretto stile adorante del culto cristiano. Il Concilio di Trento insegnò che «la natura umana è tale che non può facilmente elevarsi alla meditazione delle cose divine senza aiuti esterni: per questa ragione la Chiesa come pia madre ha stabilito alcuni riti [...] per rendere più evidente la maestà di un sacrificio così grande e introdurre le menti dei fedeli, con questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle sublimi realtà» (DS 1746). Ciò vuol dire che le menti si elevano a Dio non solo attraverso la formazione, ma anche e soprattutto attraverso i segni visibili e sacri del culto divino, che proprio per questo vengono fissati dalla Chiesa. Perciò don Bux può rallegrarsi del fatto che «sta nascendo un nuovo movimento liturgico che guarda alle liturgie di Benedetto XVI; non bastano le istruzioni preparate da esperti, ci vogliono liturgie esemplari che facciano incontrare Dio» (p. 123).

    Il pieno recupero dell'Usus Antiquior per la celebrazione della Messa non va forse in questa direzione, sottolineando, come ha scritto il Papa, che «le due forme del rito possono arricchirsi a vicenda»? È in questa direzione, tracciata da Benedetto XVI, che si incammina la proposta di Nicola Bux e credo che tutti coloro che hanno a cuore il bene della Chiesa – il che io do per presupposto, sia da parte dei tradizionalisti che degli innovatori, al di là delle concrete vedute parziali – dovrebbero accogliere l'invito a confrontarsi, camminando sul sentiero della riforma ancora «in fieri».






    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    00 20/03/2010 17:05

    Torniamo alla tradizione, sarà un progresso
    Intervista al teologo e liturgista, don Nicola Bux






    di Antonio Gaspari

    ROMA, venerdì, 19 marzo 2010 (ZENIT.org).- Nel luglio del 2007 con il Motu Proprio "Summorum Pontificum" il Pontefice Benedetto XVI ha ripristinato la celebrazione della Messa in latino.

    L’evento ha suscitato scalpore. Si sono levate vibranti voci di protesta, ma anche coraggiose acclamazioni.

    Per spiegare il senso e la pratica delle riforma liturgica di Benedetto XVI, don Nicola Bux, sacerdote, esperto di liturgia orientale e consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni  Liturgiche del Sommo Pontefice, ha pubblicato il libro “La riforma di Benedetto XVI. La liturgia tra innovazione e tradizione” (Piemme, Casale Monferrato 2008), con prefazione di Vittorio Messori.


    Nel libro don Nicola spiega come la ripresa del rito latino non sia un passo indietro, un ritorno ai tempi precedenti il Concilio Vaticano II, bensì un guardare avanti, riprendendo dalla tradizione passata quanto di più bello e significativo essa può offrire alla vita presente della Chiesa.

    Secondo don Bux quello che il Pontefice vuol fare nella sua paziente opera di riforma è rinnovare la vita del cristiano, i gesti, le parole, il tempo del quotidiano restaurando nella liturgia un sapiente equilibrio tra innovazione e tradizione. Facendo con ciò emergere l’immagine di una Chiesa sempre in cammino, capace di riflettere su se stessa e di valorizzare i tesori di cui è ricco il suo scrigno millenario.

    Per cercare di approfondire il significato ed il senso della Liturgia, i suoi cambiamenti, il rapporto con la tradizione e il mistero del linguaggio con Dio, ZENIT ha intervistato don Nicola Bux.

    Che cos’è la liturgia e perché è così importante per la Chiesa e per il popolo cristiano?

    Bux: La sacra liturgia è il tempo e il luogo in cui sicuramente Dio si fa incontro all’uomo. Pertanto il metodo per entrare in rapporto con lui è proprio quello di rendergli culto: egli ci parla e noi gli rispondiamo; gli rendiamo grazie ed egli si comunica a noi. Il culto, dal latino colere, coltivare un rapporto importante, appartiene al senso religioso dell’uomo, in ogni religione sin dai primordi.

    Per il popolo cristiano, la sacra liturgia e il culto divino attuano dunque il rapporto con quanto ha di più caro, Gesù Cristo Dio – l’attributo sacra significa che in essa tocchiamo la sua presenza divina.

    Per questo la liturgia è la realtà e “attività” più importante per la Chiesa

    In che cosa consiste la riforma di Benedetto XVI e perché ha suscitato tanto scalpore?

    Bux: La riforma della liturgia, termine da intendere secondo la Costituzione liturgica del Concilio Vaticano II, come instauratio ossia ristabilimento al posto giusto nella vita ecclesiale, non comincia con Benedetto XVI ma con la storia stessa della Chiesa, dagli apostoli all’epoca dei martiri con papa Damaso fino a Gregorio Magno, da Pio V e Pio X a Pio XII e Paolo VI. La instauratio è continua, perché il rischio che la liturgia decada dal suo posto, che è quello di essere sorgente della vita cristiana c’è sempre; la decadenza avviene quando si sottomette il culto divino al sentimentalismo e all’attivismo personali di chierici e laici, che penetrando in esso lo trasformano in opera umana e intrattenimento spettacolare: un sintomo oggi è dato dall’applauso in chiesa che sottolinea indistintamente il battesimo di un neonato e l’uscita di una bara dal funerale. Una liturgia diventata intrattenimento, non necessita di riforma? Ecco quanto Benedetto XVI sta facendo: l’emblema della sua opera riformatrice rimarrà il ristabilimento della Croce al centro dell’altare al fine di far comprendere che la liturgia è rivolta al Signore e non all’uomo, ancorché ministro sacro.

    Lo scalpore c’è sempre ad ogni giro di boa della storia della Chiesa, ma non bisogna impressionarsi.

    Quali sono le differenze tra i cosiddetti innovatori e i tradizionalisti?

    Bux: Questi due termini vanno chiariti in premessa. Se innovare significa favorire l’instauratio di cui parlavo, è proprio quella di cui c’è bisogno; come pure, se traditio significa custodire il deposito rivelato sedimentato anche nella liturgia. Se invece innovare volesse dire trasformare la liturgia da opera di Dio ad azione umana, oscillando tra un gusto arcaico che ne vuole conservare solo gli aspetti che aggradano e un conformismo alla moda del momento, andiamo fuori strada; o al contrario, essere conservatori di tradizioni meramente umane che si sono sovrapposte a mo’ di incrostazione sul dipinto non facendo più cogliere l’armonia dell’insieme. In realtà i due opposti finiscono per coincidere e rivelare la contraddizione. Un esempio: gli innovatori sostengono che la Messa in antico era celebrata rivolta al popolo. Gli studi dimostrano il contrario: l’orientamento ad Deum, ad Orientem, è quello proprio del culto dell’uomo a Dio. Si pensi all’ebraismo. Ancora oggi tutte le liturgie orientali lo conservano. Come mai gli innovatori, amanti del ripristino degli elementi antichi nella liturgia postconciliare non l’hanno conservato?

    Che significato ha la tradizione nella storia e nella fede cristiana?

    Bux: La tradizione è una delle due fonti della Rivelazione: la liturgia, come dice il Catechismo della Chiesa Cattolica (1124), ne è elemento costitutivo. Benedetto XVI nel libro Gesù di Nazaret, ricorda che la Rivelazione si è fatta liturgia. Poi ci sono le tradizioni di fede, di cultura, di pietà che sono entrate e hanno rivestito la liturgia, sì che oggi conosciamo varie forme di riti in Oriente e in Occidente. Tutti comprendono quindi perché la Costituzione liturgica, dopo aver ricordato che solo la Santa Sede è l’autorità competente a regolare la sacra liturgia, al n 22, § 3 affermi perentoriamente: “nessun’altro, assolutamente, anche se sacerdote, osi, di sua iniziativa, aggiungere, togliere o mutare alcunché in materia liturgica”.

    Sarebbe possibile secondo lei tornare oggi alla messa in latino?

    Bux: Il Messale Romano rinnovato da Paolo VI è in latino e costituisce l’edizione cosiddetta tipica, perché ad essa devono far riferimento le edizioni in lingua corrente curate dalle Conferenze Episcopali nazionali e territoriali, approvate dalla Santa Sede. Pertanto, la Messa in latino s’è continuata a celebrare anche col nuovo Ordo, sebbene raramente. Ciò ha finito per contribuire all’impossibilità per un’assemblea composita di lingue e nazioni, di partecipare ad una Messa celebrata nella lingua sacra universale della Chiesa Cattolica di rito latino. Così, al suo posto sono nate le cosiddette Messe internazionali, celebrate in modo che le parti di cui si compone la Santa Messa, si recitino o cantino in più lingue; così ciascun gruppo capisce solo la sua!

    Si era sostenuto che il latino non lo capiva nessuno; ora, se la Messa in un santuario è celebrata in quattro lingue, ciascun gruppo finisce per comprenderne solo un quarto. A parte altre considerazioni, come ha auspicato il Sinodo del 2005 sull’Eucaristia, si deve tornare alla Messa in latino: almeno una domenicale nelle cattedrali e nelle parrocchie. Ciò aiuterà, nella conclamata società multiculturale odierna, a recuperare la partecipazione cattolica sia quanto al sentirsi Chiesa universale, sia quanto al radunarsi insieme ad altri popoli e nazioni che compongono l’unica Chiesa. I cristiani orientali, pur dando spazio alle lingue nazionali, hanno conservato il greco e lo slavo ecclesiastico nelle parti più importanti della liturgia come l’anafora e le processioni con le antifone per il Vangelo e l’Offertorio.

    A instaurare tutto ciò contribuisce sommamente l’antico Ordo del Messale Romano anteriore, ripristinato da Benedetto XVI col Motu proprio Summorum Pontificum, che, semplificando, viene chiamata Messa in latino: in realtà è la Messa di S. Gregorio Magno, in quanto la sua struttura portante risale all’epoca di quel Pontefice ed è rimasta intatta attraverso le aggiunte e semplificazioni di Pio V e degli altri pontefici fino a Giovanni XXIII. I padri del Vaticano II l’hanno celebrata quotidianamente senza avvertire alcun contrasto con l’aggiornamento che stavano compiendo.

    Il Pontefice Benedetto XVI ha  sollevato il problema degli abusi liturgici. Di che cosa si tratta?

    Bux: Per la verità, il primo a lamentare le manomissioni nella liturgia fu Paolo VI, a pochi anni dalla pubblicazione del Messale Romano nell’udienza generale del 22 agosto 1973. Paolo VI poi, era convinto che la riforma liturgica attuata dopo il Cconcilio, veramente avesse introdotto e sostenuto fermamente le indicazioni della Costituzione liturgica (discorso al sacro collegio del 22 giugno 1973). Ma la sperimentazione arbitraria continuava e acuiva all’opposto la nostalgia dell’antico rito. Il Papa nel concistoro del 27 giugno 1977 ammoniva “i contestatori” per le improvvisazioni, banalità, leggerezze e profanazioni, chiedendo loro severamente di attenersi alla norma stabilita per non compromettere la regula fidei, il domma, la disciplina ecclesiastica, lex credendi e orandi; nonché i tradizionalisti, perché riconoscessero l’“accidentalità” delle modifiche introdotte nei sacri riti.

    Nel 1975, la bolla Apostolorum Limina di Paolo VI per l’indizione dell’anno santo, a proposito del rinnovamento liturgico aveva annotato: “Noi stimiamo estremamente opportuno che questa opera sia riesaminata e riceva nuovi sviluppi, di modo che, basandosi su ciò che è stato fermamente confermato dall’autorità della Chiesa, si possa vedere ovunque quelle che sono veramente valide e legittime e continuarne l’applicazione con zelo ancora maggiore, secondo le norme e i metodi consigliati dalla prudenza pastorale e da una vera pietà”.

    Tralascio le denunce di abusi e ombre nella liturgia da parte di Giovanni Paolo II in più occasioni, in particolare nella Lettera Vicesimus quintus annus dall’entrata in vigore della Costituzione liturgica. Benedetto XVI, quindi, ha inteso riesaminare e dare nuovo impulso proprio aprendo una finestra col Motu proprio, affinché pian piano cambi l’aria e riporti sul giusto binario quanto è andato oltre l’intenzione e la lettera del Concilio Vaticano II in continuità con l’intera tradizione della Chiesa. 

    Lei ha più volte affermato che in una corretta liturgia bisogna rispettare i diritti di Dio. Ci spiega cosa intende sostenere? 

    Bux: La liturgia, termine che in greco indica l’azione rituale di un popolo che celebra, per esempio, i suoi fasti, come avveniva ad Atene o come avviene ancora oggi per l’inaugurazione delle Olimpiadi o altre manifestazioni civili, evidentemente è prodotta dall’uomo. La sacra liturgia, reca questo attributo, perché non è a nostra immagine – in tal caso il culto sarebbe idolatrico, cioè creato dalle nostre mani – ma è fatta dal Signore onnipotente: nell’Antico Testamento, con la sua presenza indicava a Mosè come doveva predisporre nei minimi particolari il culto al Dio unico e vero insieme al fratello Aronne. Nel Nuovo Testamento, Gesù ha fatto altrettanto nel difendere il vero culto cacciando i mercanti dal Tempio e dando agli Apostoli le disposizioni per la Cena pasquale. La tradizione apostolica ha recepito e rilanciato il mandato di Gesù Cristo. Dunque, la liturgia è sacra, come dice l’Occidente, e divina, come dice l’Oriente, perché istituita da Dio. San Benedetto la definisce Opus Dei, opera di Dio, a cui nulla va anteposto. Proprio la funzione mediatrice tra Dio e l’uomo propria del sommo sacerdozio di Cristo, ed esercitata nella e con la liturgia dal sacerdote ministro della Chiesa, sta ad attestare che la liturgia discende dal cielo, come dice la liturgia bizantina in base all’immagine dell’Apocalisse. E’ Dio che la stabilisce e quindi indica come lo si deve “adorare in spirito e verità”, cioè in Gesù Figlio suo e nello Spirito Santo. Egli ha il diritto di essere adorato come Lui vuole.

    Su tutto questo è necessaria una profonda riflessione, in quanto la sua dimenticanza è all’origine degli abusi e delle profanazioni, già descritte egregiamente nel 2004 dall’Istruzione Redemptionis Sacramentum della Congregazione per il Culto Divino. Il recupero dello Ius divinum nella liturgia, contribuisce molto a rispettarla come cosa sacra, come prescrivevano le rubriche; ma anche le nuove devono tornare ad essere seguite con spirito di devozione e obbedienza da parte dei ministri sacri ad edificazione di tutti i fedeli e per aiutare tanti che cercano Dio a incontrarlo vivo e vero nel culto divino della Chiesa. I vescovi, i sacerdoti e i seminaristi tornino ad imparare e ad eseguire i sacri riti con tale spirito e contribuiranno alla vera riforma voluta dal Vaticano II e soprattutto a ravvivare la fede che, come ha scritto il Santo Padre nella Lettera ai Vescovi del 10 marzo 2009, rischia di spegnersi in tante parti del mondo.

    [Modificato da Caterina63 20/03/2010 17:12]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 29/03/2010 13:09

    Una liturgia priva del senso del sacro annulla il peso del peccato.

    Riportiamo questo articolo in cui don Nicola Bux fa eco ad un giudizio già espresso a suo tempo dall'allora card. Ratzinger "La crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia". Bux propone di recuperare o restaurare "una corretta liturgia verticale"; sembra che il dilemma sia ancora una volta ripristinare completamente nei suoi diritti il vetus ordo o procedere con la cosiddetta "riforma della riforma". Verrebbe da dire "Hic Rhodus, hic saltus!".

    Domenica scorsa, all' Angelus, Papa Benedetto XVI ha ricordato che bisogna essere " intrasigenti " col peccato. Chiediamo a Monsignor Nicola Bux, teologo e liturgista molto stimato dal Papa che cosa intendesse dire il Pontefice: " semplice, che non bisogna lasciarsi sopraffare dai tentativi del maligno che vuole allontanarci dalla bellezza di Dio. Il peccato é la negazione di Dio, significa non ascoltarlo.
    Peccando si viola il primo comandamento, ascolta il Dio tuo, se noi riusciamo a tagliare le gambe al peccato vivremo più vicini a Dio e potremo guardare Dio".

    L' uomo é fragile: "certo, tutti siamo fragili e deboli e abbiamo bisogno della grazia di Dio, ma almeno uno sforzo per cercare di resistere dobbiamo farlo".
     
    Poi sorprendentemente, ma non troppo, Monsignor Bux afferma: "il senso del peccato si é affievolito con la diluizione della sacralità nella liturgia. Tra ethos e culto esiste uno stretto legame".

    Che cosa ... ... intende dire?: "che i valori oggi mancano perché spesso non rendiamo degnamente culto a Dio, proprio nella messa. E molti anche atei dovrebbero vivere come se Dio esistesse".

    Ma torniamo all' aspetto liturgico: " la gente ha bisogno del senso del sacro per riscoprire Dio. Il peccato é una negazione di Dio, ma se viviamo anche nella messa lontani da Dio come possiamo evitare di peccare"?.

    Poi precisa: " la liturgia é sacra, divina e gloriosa, sia verticale nel senso di tendere all' alto, al bello e e al celeste e non una cosa circolare e orizzontale, una specie di stadio, assemblea, un festino. La idea di una liturgia fruitiva e creativa inevitabilmente fa perdere il senso del sacro e dunque ci allontana da Dio avvicinandoci al peccato. Il popolo, che é molto più intelligente di quanto si possa credere, percepisce dove sta il sacro che non é una cosa astratta, ma concreta. Lo dice il Vangelo. La donna voleva toccare il mantello di Cristo, dunque per sconfiggere il peccato si ha bisogno di segni certi, univoci e fermi, non fluttuanti".

    Dunque la creatività liturgica crea danni: "molti, specie dopo il Concilio, ma non per colpa del Concilio, hanno ceduto a questa idea malsana della creatività, benché il Concilio nulla avesse abrogato o cancellato della liturgia di sempre. Una messa sciatta, manipolata o peggio ancora violentata, é di ostacolo al sacro, allontana la gente dalle chiesa. Celebrare messe creative é una profanazione del senso del sacro, perché ci allontana da Dio. Il ministro di culto non sia mai un attore, spesso mediocre,e fonte di scandalo, ma pensi che il suo compito principale é servire Dio, mai la sua voglia di protagonismo sfrenato. Solo recuperando o restaurando una corretta liturgia verticale, in parte limiteremo l'effetto del peccato riscoprendo Dio".

    Bruno Volpe
     
    Fonte:
    http://www.pontifex.roma.it/

    Fraternamente CaterinaLD

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    00 09/04/2010 22:04

    Ultimatum di cinque anni per rimettere il Tabernacolo al centro!



    La magnifica decisione di un Vescovo americano, motivata con profonde considerazioni teologiche ed anche pastorali (termine inteso nel senso giusto, non in quello cerebralmente inetto cui siamo avvezzi negli ultimi 40 anni). Non potrebbe ispirarvisi, con effetto universale, anche il Vescovo di Roma, e così obbligare a rimuovere dal centro delle chiese il cadregone del prete, emblema del più odioso clericalismo?






    1 Aprile 2010, Giovedì Santo


    Cari sacerdoti, diaconi, religiosi e fedeli della Diocesi di Peoria,

    La Messa, naturalmente, è il nostro più importante atto di culto--la stessa fonte e il culmine di tutto quel che facciamo come Chiesa. Una profonda venerazione per il la Riserva del Sacramento è anch’esso intrinsecamente legato alla liturgia dell'Eucaristia.

    La Riserva Eucaristica pertanto deve essere trattato con il massimo rispetto possibile, perché in ogni momento al Santissimo Sacramento all'interno di quel tabernacolo, come nella liturgia eucaristica, va dato il culto chiamato latria, che è l'adorazione dovuta a Dio Onnipotente. Questo onore intenzionale è incomparabilmente maggiore alla riverenza che diamo ai sacramentali, alle immagini sacre, al fonte battesimale, agli Oli Santi, al cero pasquale. Il sacramento è conservato non solo in modo che l'Eucaristia possa essere portata ai moribondi e a quanti non possono assistere alla Messa, ma anche come cuore e centro della preghiera e devozione di una parrocchia.

    C'è un tipo di atti rituali nella nostra tradizione cattolica con cui circondiamo il Tabernacolo. Come entriamo o usciamo dalla Chiesa, noi ci benediciamo con l'acqua benedetta, ci genuflettiamo verso il Tabernacolo, ci prepariamo per la Messa o rendiamo grazie dopo la Messa, coscienti della presenza del Santissimo Sacramento. Alle preghiere e devozioni, durante la Liturgia delle ore, in ogni preghiera privata che si svolge in una chiesa cattolica, preghiamo veramente davanti al Cristo risorto, sostanzialmente e realmente presente nel sacramento conservato nel Tabernacolo.

    Queste convinzioni cattoliche essenziali e loro implicazioni architettoniche sono stati ribadite recentemente da molti vescovi degli Stati Uniti. Come vescovo di questa diocesi, sono anche convinto che dove mettiamo il Tabernacolo--e come diamo ritualmente riverenza alla Riserva del Sacramento --è tanto importante per la continua catechesi eucaristica, quanto la nostra predicazione e l'insegnamento. Con Gesù realmente presente nel Santissimo Sacramento al centro fisico dei nostri luoghi di culto, come può Egli non diventare più fermamente anche il centro della nostra vita spirituale?

    Previa consultazione con il mio Consiglio Presbiterale, chiedo quindi che quelle poche chiese parrocchiali e cappelle dove il Tabernacolo non è al centro diretto in fondo al presbiterio, siano ridisegnate in modo tale che la Riserva Eucaristica sia sistemata al centro. In alcuni casi, questo cambiamento può essere facilmente effettuato, ma visti i problemi finanziari e di progettazione, progetti per la ricollocazione possono essere presentati all'ufficio del culto divino in qualsiasi momento nel corso dei prossimi cinque anni. Le comunità monastiche le cui cappelle sono aperte ai fedeli come oratori semi-pubblici possono richiedere anche una dispensa dal presente regolamento generale, secondo le norme della loro particolare tradizione liturgica. Ci possono essere anche alcune cappelle molto piccole, dove un cambiamento potrebbe essere impossibile. Tali richieste devono essere presentate per iscritto al mio ufficio.

    Inoltre, vorrei ricordare a tutti nella nostra diocesi che durante la messa, in accordo con l'istruzione generale del Messale Romano, il Tabernacolo deve essere riverito solo all'inizio e alla fine della liturgia o quando il Sacramento viene tolto o riposto nel Tabernacolo. In tutti gli altri momenti e movimenti nella liturgia è l'Altare del Sacrificio che deve essere riverito.

    È mia convinzione che la liturgia eucaristica e la devozione eucaristica non sono mai in concorrenza, ma piuttosto informano e rafforzano il nostro culto comune e riverenza. Possano tutti quanti nella nostra diocesi crescere in maggiore amore e apprezzamento del dono dell'Eucaristia.
    Cordiali saluti in Cristo,

    Daniel R. Jenky, C.S.C. Vescovo di Peoria




    Fraternamente CaterinaLD

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    00 25/04/2010 10:35

    Bux: Dio ha il diritto di esser adorato come ha stabilito

                              Bux: Dio ha il diritto di esser adorato come ha stabilito thumbnail
    By Redazione
    Published: aprile 24, 2010

    Da Disputationes Theologicae arriva una nuova intervista a mons. Nicola Bux all’interno del dibattito sulla riforma della riforma.

    Monsignore lei è professore di teologia sacramentarla ed è anche additato come uno degli esperti di liturgia più vicini al Papa; un segno che non si può parlare di liturgia senza dottrina?

    Notoriamente la liturgia appartiene al dogma della Chiesa. Tutti sanno che dalla fede della Chiesa si giunge alla liturgia e dalla preghiera si risale al dogma. Tutti conoscono l’adagio lex orandi lex credendi. E’ dal modo di pregare che si capisce in cosa noi crediamo, ma è anche dal modo di credere che deriva il modo di pregare. E’ quel che è stato ripreso e sapientemente sviluppato dall’enciclica Mediator Dei del venerabile Servo di Dio Pio XII.

    Ormai anche i più tenaci fautori di una “rivoluzione permanente” in liturgia sembrano cedere davanti alle sagge argomentazioni del Papa, delle quali c’è un’eco chiarissima nel suo libro. Siamo davanti ad una nuova (o antica se preferisce) visione della liturgia?

    La liturgia è per sua natura d’istituzione divina, essa si impernia su parti immutabili volute dal suo Divin Fondatore. Proprio in ragione di questo suo fondamento si può affermare che la liturgia è di “diritto divino”. Gli orientali non a caso usano il termine di “Divina liturgia”, poiché essa è opera di Dio, “opus Dei” dice San Benedetto. La liturgia non è una cosa umana. Nel documento conciliare sulla liturgia, al n. 22 § 3, si dice chiaramente che nessuno, anche se sacerdote, può aggiungere togliere o mutare alcunché. Il motivo? La liturgia appartiene al Signore.

    Durante la Quaresima abbiamo letto i passi del Deuteronomio nei quali Dio stesso stabilisce persino la suppellettile per il culto; nel Nuovo Testamento è Gesù stesso che dice ai discepoli dove preparare la cena. Dio ha il diritto di essere adorato come Lui vuole e non come noi vogliamo. Altrimenti cadiamo in un culto “idolatrico”, nel senso proprio del termine greco, cioè un culto fatto a nostra immagine. Quando la liturgia rispecchia i gusti e le tendenze creative del sacerdote o di un gruppo di laici diviene “idolatrica”. Il culto cattolico è in spirito e verità, perchè è rivolto al Padre, nello Spirito Santo, ma deve passare da Gesù Cristo, deve passare dalla Verità. Perciò bisogna riscoprire che Dio ha il diritto di essere adorato come Lui ha stabilito.

    Le forme rituali non sono qualcosa da “interpretare”, poiché esse sono esito della fede pensata e diventata in certo senso cultura della Chiesa. La Chiesa si è sempre preoccupata che i riti non fossero il prodotto di gusti soggettivi, ma appunto l’espressione della Chiesa intera, cioè “cattolica”. La liturgia è cattolica, universale. Quindi anche in occasione di una celebrazione particolare o in un luogo particolare, non si può pensare di celebrare in contrasto con la fisionomia “cattolica” della liturgia.

    Purtroppo siamo davanti ad un’attitudine del clero che, pur non negando apertamente l’efficacia dei sacramenti, trascura troppo spesso l’aspetto cosiddetto dell’ “ex opere operato” del sacramento, che, così facendo è ridotto quasi a “simbolo”. La causa è forse anche nella perdita della “ritualità” tradizionale?

    Causa ne è soprattutto la dimenticanza che il culto è reso a Dio presente, a Dio operante e non ad un Dio immaginario, cioè Gesù Signore. Il n. 7 di Sacrosanctum Concilium ci spiega anche i modi di questa presenza. Tale articolo è preso quasi di peso dalla Mediator Dei (con l’aggiunta della presenza nella Parola). Vi si spiega chiaramente che la liturgia ha la sua ragion d’essere perché Dio è presente, sennò diventa autoreferenziale, diventa vuota.

    La dimenticanza, la sottovalutazione della presenza del Signore, maxime nell’Eucaristia, dov’è presente veramente, realmente e sostanzialmente, è causa dello scivolamento di cui lei parla. Con questa trascuranza si arriva a definire la liturgia come insieme di simboli, segni, come oggi si sente dire; in questo quadro, “segno” viene inteso solo come “rimanda ad altro”, non c’è l’idea che il segno è tutt’uno con quel che significa. Qui si entra nel sacramento. Quando questo aspetto si perde i sacramenti sono ridotti a puri simboli, non si parla più di “efficacia”, degli effetti che producono; non è più il Signore che “fa”, che “opera”, per mezzo del sacramenti. Questo è il significato dell’espressione classica “ex opere operato”, un po’ strana, ma che significa l’operatività del sacramento a partire da Colui che in esso opera.

    Farò l’esempio di un farmaco: all’apparenza vedi una fiala o una pasticca o un liquido, ma non sono solo il simbolo della cura che vogliono apportare, perché se li assumiamo ci curano e guariscono, cioè se ne vedono gli effetti. L’autore di questo effetto è il Signore presente e operante nel rito sacramentale. S. Leone Magno, citato nel Catechismo della Chiesa cattolica, dice che dopo l’Ascensione tutto ciò che del Signore era visibile sulla terra è passato nei sacramenti.

    Così oggi per noi il Signore continua a essere presente e visibile. In questa luce bisogna comprendere San Tommaso quando si esprime parlando di “materia” del sacramento. Se non torniamo a questo tipo di espressione realistica non capiamo i sacramenti. La presenza divina non è solo qualcosa da intuire “simbolicamente”, ma è qualcosa che tocca l’uomo per mezzo del sacramento, è qualcosa che agisce. Io stesso posso attestare e con me tanti sacerdoti, della guarigione degli infermi successivamente all’unzione, ma anche della guarigione dell’anima dopo la confessione o grazie alla frequenza dell’eucaristia. I sacramenti hanno effetti, hanno delle conseguenze in ragione della causa. Sono le conseguenze della presenza divina, che è ciò che opera nella divina liturgia. Ha detto il Papa ai parroci di Roma che il Sacramento è introdurre il nostro essere nell’essere di Cristo, nell’essere divino.

    Aldilà di certi utopisti che, con scarso senso pastorale, vorrebbero una restaurazione di tutto e subito, dobbiamo domandarci come si può agire dolcemente, ma fermamente, nel migliorare con gradualità certi aspetti della liturgia. Come agire in questo processo tanto necessario quanto lungo? Come adattarsi alla realtà senza mille compromessi?

    Bisogna tener conto del momento storico che viviamo, esso registra una crisi generale dell’autorità, sia essa del padre, dello Stato, della Chiesa (e nella Chiesa); come dicevamo si rischia di finire in una concezione “fai da te”. Siamo oggi in una diffusa anomia (assenza di legge), sebbene tutti ricorrano alla legge quando i propri diritti sono conculcati.

    Dei diritti di Dio invece ce ne scordiamo sempre. Come si può chiedere l’osservanza delle norme liturgiche se prima non si spiega cos’è lo “ius divinum” della liturgia? Oggi nessuno lo sa più. Prima di tutto bisogna far capire il senso delle norme. E’ un po’ come in morale, la determinazione di una legge si fonda prima sulla comprensione dei suoi principi, ed è noto che quando si parla di liturgia e di sacramenti vi sono i risvolti morali. Prima, dicevo, bisogna capire che il senso delle norme deriva dalla convinzione che la “prima norma” è adorare Dio - Adorerai il Signore Dio tuo e non avrai altro Dio all’infuori di Me – non si può fare un culto a propria immagine, altrimenti si deforma Dio. Oggi non solo ci immaginiamo un dio e poi inventiamo il culto ad esso, ma addirittura immaginiamo un culto sul quale ci inventiamo il dio. L’idolatria significa “idea distorta di Dio”. Questa è realtà che ci circonda.

    Il Papa Benedetto XVI, nella lettera ai Vescovi in cui spiega il senso della revoca delle scomuniche ai Vescovi consacrati da Mons. Lefebvre, voleva far capire a chi lo rimproverava di occuparsi di problemi secondari come quelli relativi alla liturgia, che in un momento in cui il senso della fede e del sacro si sta spegnendo ovunque, è necessario che proprio nella liturgia si trovi la forma privilegiata di incontrare Dio. La liturgia è e resta il luogo più idoneo per incontrare Dio e perciò il Papa, occupandosi di essa, non sta trattando problemi secondari, ma questioni primarie. Se la liturgia parla di cose mondane come si fa ad aiutare l’uomo? Agli “utopisti”, bisogna ricordare che ci vuole quella che Benedetto XVI chiama: “la pazienza dell’Amore”.

    L’offertorio antico, parlava di Dio all’uomo con l’eloquenza di espressioni profonde sul valore sacrificale, sulla natura della Messa, come sacrificio offerto a Dio. Si potrebbe pensare ad una correzione in questo senso del nuovo rito?

    E’ importante che sia conosciuta la Messa antica, detta anche tridentina, ma che è più opportuno chiamare “di San Gregorio Magno”, come ha recentemente detto Martin Mosebach. Essa ha preso forma già sotto Papa Damaso e poi appunto Gregorio, non con San Pio V, il quale ha cercato di riordinare e codificare, prendendo atto degli arricchimenti dei secoli precedenti e tralasciando quanto obsoleto. Con questa premessa va conosciuta anzitutto questa Messa, di cui l’offertorio è parte integrante. Ci sono stati molti lavori di grandi studiosi in questo senso e molti si sono interrogati sull’opportunità di reintroduzione dell’antico offertorio, cui lei fa cenno. Tuttavia solo la Sede Apostolica ha autorità per operare in tal senso.

    E’ vero che la logica che ha seguito il riordino della liturgia dopo il concilio Vaticano II ha portato a semplificare l’offertorio, perché si riteneva che ci fossero più formule di preghiere offertoriali; così facendo si introdussero le due formule di benedizione di sapore giudaico, è rimasta la secreta diventata preghiera “sulle offerte” e l’orate fratres e si ritennero più che sufficienti. Per la verità questa semplicità, vista come un ritorno alla purezza antica, configge con la tradizione liturgica romana, con quella bizantina e con le altre liturgie orientali e occidentali. La struttura dell’offertorio era vista dai grandi commentatori e teologi del Medio Evo come l’ingresso trionfale di Gesù a Gerusalemme, che va ad immolarsi in offerta sacrificale. Per questo le offerte erano già dette “sante”, e l’offertorio aveva una grande importanza. La successiva semplificazione di cui ho parlato ha fatto sì che oggi molti chiedano il ritorno delle ricche e belle preghiere del “suscipe sancte Pater” e del “suscipe Sancta Trinitas”, solo per citarne alcune.

    Ma sarà attraverso una più larga diffusione della Messa antica che questo “contagio” dell’antico sul nuovo sarà possibile. Perciò reintrodurre la Messa “classica”, mi si passi l’espressione, può costituire un fattore di grande arricchimento. Bisogna facilitare una celebrazione festiva regolare della Messa tradizionale almeno in ogni Cattedrale del mondo, ma anche in ogni parrocchia: questo aiuterà i fedeli a conoscere il latino e a sentirsi parte della Chiesa cattolica, e praticamente li aiuterà a partecipare alle Messe nei raduni ai santuari internazionali. Nel contempo bisogna anche evitare delle reintroduzioni decontestualizzate, voglio dire che c’è una ritualità legata ai significati espressi, che non può essere reintrodotta semplicemente inserendo una preghiera, si tratta di un lavoro più complesso.

    La gestualità e l’orientamento certo hanno una grande importanza, ciò che il fedele vede è riflesso di una realtà invisibile. La croce al centro dell’altare può essere il modo per ricordare cosa sia la Messa?

    La croce al centro dell’altare è il modo per ricordare cos’è la Messa. Non parlo di una croce “minima”, ma di una croce tale che possa essere vista, la croce deve essere di dimensioni proporzionate allo spazio ecclesiale. Essa deve tornare al centro, in asse con l’altare, deve poter essere vista da tutti. Deve essere il punto d’incrocio dello sguardo dei fedeli e dello sguardo del sacerdote, dice Joseph Ratzinger nella “Introduzione allo spirito della liturgia”. Deve essere al centro a prescindere dalla celebrazione, anche se questa avviene “rivolti al popolo”. Insisto su una croce ben visibile, altrimenti, a cosa serve un’immagine che non è fruibile adeguatamente? Le immagini rimandano al prototipo.

    Sappiamo tutti che c’è stata anche una posizione aniconica, per esempio, Epifanio di Salamina, come pure i cisterciensi, ma l’iconodulia ha poi prevalso col Niceno II del 787, in base a ciò che diceva San Giovanni Damasceno: l’immagine rimanda al prototipo. Ciò vale ancor più oggi in quella che si chiama civiltà dell’immagine. In un frangente in cui la visione è divenuta strumento privilegiato per i nostri contemporanei, non si può esporre lateralmente una piccola croce o un abbozzo illeggibile di essa, ma è necessario che la croce, con il crocifisso, sia ben visibile sull’altare, da qualsiasi angolo lo si guardi.

    Davanti alla riscoperta delle esigenze di cui ci ha parlato c’è comunque un difficile passo che è quello delle scelte pratiche. Come muoversi?

    A mio sommesso avviso la priorità è far capire il senso del divino. L’uomo cerca Dio, cerca il sacro e ciò che ne è segno, nell’esigenza naturale di rivolgersi a Dio e di venerarlo, si cerca l’incontro con Dio nelle forme sacre del rito. Quando si smarrisce la vera sacralità del culto cristiano l’uomo continua ad andare a tastoni, ma in modo distorto perché è come smarrito. Come allora può l’uomo rispondere correttamente a questa esigenza? Anzitutto deve poter incontrare nella Chiesa ciò che è la definizione per eccellenza del sacro: Gesù eucaristico. Il Tabernacolo deve tornare al centro. E’ vero storicamente, nelle grandi basiliche o nella Cattedrali il tabernacolo era in cappelle laterali. Sappiamo bene che con la riforma tridentina si preferì rimettere al centro il tabernacolo, anche per contrastare gli errori protestanti sulla presenza vera, reale e sostanziale del Signore. Ma è anche vero che oggi la mentalità che ci circonda, non contesta solo la presenza reale, bensì contesta la presenza del divino.

    Nella religione naturalmente l’uomo cerca l’incontro col divino, ma questa presenza del divino, non può essere ridotta a qualcosa di puramente spirituale. Questa presenza va “toccata” e ciò non si fa con un libro, non si può parlare di presenza del divino solo nei termini relativi alla lettura delle Sacre Scritture. Certo quando la Parola di Dio è proclamata si può giustamente parlare di presenza divina, ma è una presenza spirituale, non è la presenza vera, reale e sostanziale dell’Eucaristia. Di qui l’importanza del ritorno alla centralità del tabernacolo e con esso alla centralità del Corpo di Cristo presente. Il posto centrale non può essere la sede del celebrante, non è un uomo che è al centro della nostra fede, ma è Gesù nell’Eucaristia. Altrimenti si finisce per paragonare la chiesa ad un’aula, ad un tribunale di questo mondo, al cui centro siede un uomo.

    Il sacerdote è ministro non può essere al centro, al centro c’è Cristo-eucaristia, c’è il tabernacolo, c’è la croce. Da lì si deve ripartire. Altrimenti si perde il senso del divino. Il tabernacolo è ciò che deve attirare quale centro in una chiesa.

    Il Card. Castrillon nell’omelia del 24 settembre 2007 a Saint Eloi diceva che la Chiesa ha bisogno di istituti “specializzati” nella liturgia tradizionale. Ritiene anche lei che gli istituti oggi legati all’Ecclesia Dei possano avere un ruolo nella formazione dei sacerdoti o nella riscoperta delle ricchezze della Tradizione?

    Certamente! Questi Istituti esercitano un carisma, e un carisma è qualcosa che è nella Chiesa a servizio della Chiesa. Una diocesi può trarre grande giovamento dal fatto di avvalersi del loro aiuto. Cosa sarebbe stato il Francescanesimo se il Papa non l’avesse riconosciuto e messo a disposizione per il bene di tutta la Chiesa?

    (Don stefano Carusi, IBP per Disputationes Theologicae)

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 28/09/2010 10:12

    IL CUORE DELLA LITURGIA

    di Inos Biffi
     
    - Senza Gesù Figlio di Dio storicamente risorto da morte e assiso alla destra del Padre la liturgia si ridurrebbe a una buona azione religiosa. Il vertice teologico della costituzione Sacrosanctum concilium del Vaticano II si trova nella concezione della liturgia come ripresentazione della morte e della risurrezione di Cristo, e quindi come «attuazione» «dell’opera della nostra salvezza» (2-6), grazie alla presenza di Cristo intimamente associato alla Chiesa (7).

    La liturgia cristiana nasce, quindi, a Pasqua, quando il Signore offre il suo Corpo e il suo Sangue, lasciati come suo memoriale nel sacramento dell’ultima Cena. Essa, così, dipende tutta da Gesù Cristo, dalla sua iniziativa che, situata in un tempo preciso della storia («patì sotto Ponzio Pilato»), permane perennemente in atto, «qui e adesso» nell’azione liturgica, e particolarmente nell’Eucaristia
    e negli altri sacramenti.

    Il sacrificio del Calvario, consumato una volta per tutte, a motivo della sua perfezione e della sua gloria ha oltrepassato e vinto ogni limite temporale e spaziale, assumendo un’attualità intramontabile. Non è il tempo che attrae a sé la Pasqua di Cristo, ma è la Pasqua di Cristo che attrae a sé il tempo. Innalzato da terra, egli è diventato l’«Attrattiva» intramontabile, per tutti e per sempre.

    La liturgia è, dunque, possibile perché «Gesù è il Signore» (Filippesi, 2, 11). Essa è il segno e il contenuto, l’esercizio e il frutto della perenne regalità di Gesù o della sua signoria, conseguita nell’evento del Calvario.

    Non è, perciò, originariamente la Chiesa a rendere presente Cristo nella liturgia, ma è la presenza di Cristo a generare radicalmente l’azione liturgica.

    La messa è istituita da Gesù come il sacramento dell’ultima Cena, ossia come il ripetersi efficace del suo gesto di dare il pane, che è il suo Corpo, e di far passare il calice del vino, che è il suo Sangue. Vengono alla mente le parole di sant’Ambrogio: «È chiaro come sia Cristo stesso a compiere l’offerta in noi, visto che a santificare il sacrificio che viene offerto è la sua parola: lui stesso che sta presso il Padre come nostro avvocato e che ora non vediamo ma vedremo un giorno, quando l’immagine sarà passata e sarà giunta la verità» (Explanatio Psalmi, XXXVIII, 25).

    E, infatti, secondo la Sacrosanctum concilium: «Per realizzare un’opera così grande, Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, in modo speciale nelle azioni liturgiche», delle quali egli è l’attore principale.

    È il pensiero di Tommaso d’Aquino, che, parlando dei sacramenti — in cui principalmente consiste la liturgia — afferma che è «Cristo ad agire nei sacramenti» (Summa theologiae, III, 64, 5, 2m); essi sono «opera di Cristo» (ibidem, 64, 10, 3m).

    In particolare, è in atto in essi la Passione del Signore, la cui efficacia — sono ancora parole di san Tommaso — «viene in certo modo congiunta a noi quando li riceviamo, e ne è segno il fatto che dal fianco di Cristo pendente dalla croce sgorgarono acqua e sangue» (62, 5, c).

    Di conseguenza, la prima condizione per comprendere la liturgia è la viva sensibilità alla presenza reale in essa del Crocifisso risorto e glorioso. Con una cristologia debole e confusa, in cui non risalti l’attualità del Cristo pasquale, resterebbe fatalmente svigorita la consistenza dell’azione liturgica, ne verrebbero svuotati sia l’attuabilità sia la sostanza.

    In altre parole, senza Gesù, Figlio di Dio, storicamente risorto da morte e assiso alla destra del Padre, la liturgia verrebbe affatto fraintesa e si ridurrebbe a una buona azione religiosa, proveniente dall’iniziativa e dalla risorsa dell’uomo, ma non sarebbe la liturgia cristiana, in cui «è in atto l’opera della nostra salvezza».

    Ma occorre subito aggiungere che Cristo opera nella liturgia sì in virtù del suo primato, ma come Capo in stretta associazione con la Chiesa, suo Corpo.

    Ed è il secondo fondamentale contenuto teologico della liturgia.

    Già, però, a questo punto possiamo osservare che con questa radicale dimensione cristologica della liturgia la Sacrosanctum concilium non fa che riproporre la dottrina tradizionale della Chiesa, esattamente quella dei Padri, rispecchiata specialmente nelle orazioni, dove a definirla ricorrono i termini «mistero» o «sacramento», anche se non raramente in seguito fu proprio l’aspetto misterico o sacramentale a restare annebbiato. In ogni caso, risulta subito chiaro che il primo segno della fedeltà alla costituzione conciliare, e insieme alla tradizione dogmatica che vi si riflette, è l’assunzione della teologia della liturgia che la stessa costituzione propone, mentre la prima condizione soggettiva, che appare imprescindibile per parteciparvi attivamente, è la fede, mancando la quale nessun’azione liturgica, per quanto perfettamente eseguita, sarebbe sorgente di grazia.

    Sorgono, allora, le domande: se la pastorale sia sufficientemente o adeguatamente occupata a delucidare anzitutto il contenuto teologico dei riti; se, quindi, l’interesse e la premura della catechesi siano soprattutto volti alla figura del Signore; se sia sollecitata l’intima adesione, che sa «oltrepassare» i segni per ritrovarvi lo stesso Signore, dal quale invisibilmente la liturgia è generata e avvalorata.

    Il frutto dell’azione liturgica matura in questa adesione e in questo affidamento, in cui opera la potenza salvifica di Cristo, rivolgendosi al quale sant’Ambrogio esclamava: «Io intimamente ti posseggo nei tuoi sacramenti» (De apologia David, 12, 58).

    Ma forse dovremmo aggiungere un’altra decisiva e critica domanda sul tipo di cristologia e di sacramentaria che si insegnano specialmente a quanti saranno chiamati a presiedere la liturgia — come afferma Tommaso d’Aquino (Summa Theologiae, 82, 1, c) — in persona Christi. 

    L’Osservatore Romano – 23 settembre 2010


     

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    00 02/10/2010 16:56

    Intervista di Paix Liturgique al vescovo Schneider


    PRIMA PARTE – SULLA COMUNIONE

    La riforma della riforma promossa dal Sommo Pontefice è un'opera che progredisce lentamente non avendo per ora riscontrato il supporto necessario nella gerarchia episcopale. Nonostante questo, alcuni prelati si sono gettati con entusiasmo e ubbidienza nella promozione del nuovo movimento liturgico voluto da Papa Benedetto. Siamo lieti di proporvi questa settimana la prima parte di un'incontro esclusivo con uno di questi, S.E. Mons. Athanasius Schneider [nella foto, al centro], Vescovo ausiliare di Karaganda nel Kazakistan, autore del libro “Dominus Est, Riflessioni di un Vescovo dell'Asia centrale sulla sacra Comunione”, pubblicato nel 2008 dalla Libreria Editrice Vaticana.


    1) Eccellenza, innanzitutto, può presentarci l'ordine religioso al quale appartiene: i Canonici regolari della Santa Croce detti anche Canonici di Coimbra?
    S.E. Mons. Athanasius Schneider: Furono Don Tello e San Teotoneo, il primo santo del Portogallo, a creare l'ordine nel 1131 a Coimbra. Lo fondarono con altri dieci religiosi, scegliendo di seguire la regola di Sant'Agostino e mettendosi sotto la doppia protezione della Santa Croce e dell'Immacolata Concezione. L'ordine conobbe una crescita rapida.
    Portoghese di nascita, anche Sant'Antonio da Padova, prima di passare ai francescani, appartenne all'ordine. Nel 1834 il governo portoghese chiuse gli ordini religiosi. Per la Chiesa, però, un'ordine si estingue soltanto 100 anni dopo la morte del suo ultimo membro. Dopo il Concilio Vaticano II, fu il Primate di Portogallo a chiedere di rilanciare l'ordine. Il rilancio venne approvato nel 1979 da un decreto della Santa Sede, firmato dall’allora arcivescovo Augustin Mayer, Segretario della Congregazione per i Religiosi.
    L'ordine è dedicato alla venerazione della Santa Croce e degli angeli, in stretto legame con l'opera perseguita dall'Opus Angelorum. Nato nel 1949 in Austria, l'Opus Angelorum ha dato vita nel 1961 alla Confraternità degli Santi Angeli Custodi con la vocazione di raggrupare i “fratelli della Croce”. La fondatrice dell'Opus Angelorum, umile madre di famiglia austriaca, Gabrielle Bitterlich, voleva portare un aiuto spirituale ai sacerdoti e partecipare all'espiazione per i sacerdoti mediante la pratica dell'Adorazione eucaristica.
    L'Opus Angelorum è stato oggetto di vari interventi della Santa Sede per chiarirne il funzionamento ed è diventato alla fine, nel 2007, il terz'ordine dei Canonici Regolari della Santa Croce.
    L'ordine dei Canonici Regolari della Santa Croce conta 80 sacerdoti per 140 membri ed è presente in Europa, America e Asia.
    Nell’ordine la messa si celebra secondo il Novus Ordo, però versus Deum e dando la comunione nel modo tradizionale, quello che il Santo Padre ha riportato nelle sue cerimonie: Comunione in bocca data ai fedeli inginocchiati. In questo si perpetua anche la memoria della fondatrice dell'Opus Angelorum che soffriva molto per la generalizzazione della comunione nella mano.

    2) E' stato questo rispetto particolare per l'Eucaristia, Eccellenza, ad averla spinta ad unirsi all'ordine?
    AS: Si. Dovete sapere che per 12 anni, i primi della mia vita, ho vissuto sotto la tirannia del comunismo sovietico. Sono cresciuto nell'amore di Gesù Eucaristia grazie a mia madre che era una “donna eucaristica”. Una di quelle pie donne che custodivano l'Ostia consacrata per evitare che venissero commessi dei sacrilegi quando i sacerdoti venivano arrestati o messi sotto indagine dalle autorità.
    Quindi, quando siamo arrivati in Germania nel 1973, sono rimasto scioccato nel vedere come si faceva la comunione in chiesa. Mi ricordo di avere detto a mia madre, vedendo per la prima volta la comunione data in mano: “Mamma, ma è come quando distribuiscono le caramelle a scuola!”
    Più tardi, quando ho creduto di avere la vocazione sacerdotale, ho cercato una via che consentisse anche a me di poter essere custode di Gesù Ostia, a mio modo. La Providenza ha voluto che fosse proprio negli anni del rilancio dei Canonici della Santa Croce...

    3) Sin dalla sua elezione, avvenuta in pieno anno eucaristico, Benedetto XVI ha riaffermato spesso la presenza reale di Nostro Signore Gesù Cristo nell'Eucaristia. Ha anche ripreso, a partire dalla festa del Corpus Domini del 2008 l'uso di dare la comunione sulla lingua a fedeli inginocchiati. Colpiti da quest'esempio papale, numerosi sacerdoti, spesso tra i più giovani, cominciano a dubitare dei meriti della comunione generalizzata in mano, ritenuta per altro da alcuni come uno dei danni maggiori della riforma liturgica.
    Il suo libro, Dominus Est, affronta precisamente questo tema. Secondo Lei, possiamo dire, come S.E. Mons. Malcolm Ranjith nella prefazione del suo libro, che la comunione in mano ha favorito una perdita di fede, sia dei fedeli che dei chierici, nella presenza reale di Cristo e, di conseguenza, una mancanza di rispetto nei confronti del Santissimo Sacramento? Ci riferiamo allo spostamento dei tabernacoli negli angoli bui delle chiese, ai fedeli che non si genuflettono più davanti al Santissimo Sacramento, alle comunioni sacrileghe, ecc.
    AS: Vorrei innanzitutto dire che penso che si possa prendere la comunione con grande riverenza anche ricevendo l'Eucaristia nella mano. Nella sua forma più diffusa e generalizzata, però, dove la sacralità sembra venire dimenticata sia dal ministro che dal fedele, devo ammettere che la comunione in mano contribuisce a un indebolimento della fede e della venerazione del Signore eucaristico. E in questo senso sono in pieno accordo con le osservazioni di S.E Mons. Malcolm Ranjith.
    Alcune cose lo fanno capire:
    - Non c'è nessuna garanzia della protezione di Nostro Signore nei suoi frammenti più piccoli. Io soffro della perdita dei frammenti dell'Eucaristia, ormai assai diffusa a causa della pratica quasi generalizzata della comunione in mano. E' possibile, mi dico, una tale trascuratezza, che con il tempo conduce ad una diminuzione e persino ad una mancanza di fede nella Transustanziazione?
    - La comunione in mano favorisce fortemente il furto delle specie eucaristiche. Si commettono così dei sacrilegi veri che non dovremmo mai permettere.
    - Lo spostamento del tabernacolo, inoltre, non aiuta la centralità dell'Eucaristia, anche a scopo educativo: deve sempre essere visibile il luogo centrale dove si ripara Nostro Signore Gesù Cristo.

    4) Nonostante sia stato consentito solo da un apposito indulto all'inizio, il modo di comunicarsi in mano è divenuto una norma, quasi un dogma, nella maggioranza delle diocesi. Come mai una tale evoluzione?
    AS: Questa situazione si è imposta con tutte le caratteristiche di una moda ed ho inoltre il sospetto che la sua diffusione sia dovuta anche ad una vera e propria strategia. La consuetudine della comunione nella mano si è diffusa con l’effetto di una valanga. Mi domando: siamo così insensibili da non riconoscere più la sublime sacralità delle specie eucaristiche, Gesù vivente tra noi con la Sua maestà Divina?

    5) Per il momento pochissimi prelati hanno deciso di imitare il Santo Padre e di dare la comunione nel modo tradizionale. Di conseguenza numerosi preti esitano a seguire il Papa. Secondo Lei, si tratta delle solite resistenze conservatrici (non si toccano gli “avanzi” di Vaticano II) o, ciò che sarebbe quasi peggio, di un disinteresse per l'argomento?
    AS: Non possiamo giudicare le intenzioni, ma un'osservazione esterna ci lascia pensare che ci sia una reticenza o, almeno, un disinteresse per il modo più sacro e più sicuro di ricevere la comunione. Si ha l'impressione che una parte dei pastori nella Chiesa faccia finta di non vedere quello che porta avanti il Sommo Pontefice: un magistero eucaristico-pratico.

    Fonte: newsletter di Paix Liturgique



    SULL'ARRICCHIMENTO RECIPROCO DELLE DUE FORME
    DEL RITO ROMANO
     
    INTERVISTA CON MONS. SCHNEIDER - SECONDA PARTE


    Ecco la seconda parte dell'incontro che abbiamo avuto con S. E. Mons. Athanasius Schneider, vescovo ausiliare di Karaganda (Kazakistan). Dopo la prima parte, dedicata all'Eucaristia, ci soffermiamo in questa pubblicazione sull'arricchimento mutuo tra le due forme del rito romano, così come auspicato dal Santo Padre nella sua lettera ai vescovi del 7 luglio 2007. S.E. Mons. Schneider ci propone in particolare una riflessione inedita sul rafforzamento nella liturgia moderna, ma secondo una logica tradizionale, del ruolo del diacono, del lettore e dell'accolito. A questo riguardo ci piace sottolineare che, proprio nel periodo in cui abbiamo avuto la fortuna di poterlo intervistare, S. E. Mons. Athanasius Schneider stava per conferire gli ordini minori, secondo la forma straordinaria della liturgia romana, ad alcuni seminaristi dell'Istituto del Cristo Re.


    6) Nel Motu Proprio Summorum Pontificum, Benedetto XVI ha formulato un invito all'arricchimento reciproco delle due forme dell'unico rito romano: per Lei, che celebra senza difficoltà nella forma straordinaria, quali sono gli aspetti nei quali quest'arricchimento mutuo potrebbe manifestarsi con maggior frutto?

    AS: Dobbiamo prendere sul serio il Papa. Non possiamo continuare a fare come se Lui non avesse detto questa frase. Anzi, come se non l'avesse scritta. Ovviamente, anche senza cambiare i messali, c'è modo di avvicinare le due forme.

    La prima cosa potrebbe essere quella di celebrare versus Deum a partire dall'Offertorio, così com'è previsto dalle rubriche del Novus ordo. L'ordo missae di Paolo VI indica chiaramente che per due volte il celebrante si deve rivolgere verso il popolo. Una volta al momento dell'”Orate fratres” e poi quando il sacerdote dice “Ecce Agnus Dei” per la comunione dei fedeli. Che cosa significa questo se non che il sacerdote dovrebbe essere rivolto all'altare durante l'Offertorio e il Canone? Nel settembre 2000, la Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti ha pubblicato una risposta relativa ad un “quaesitum” sull'orientamento del sacerdote durante la messa. Spiegando che “che la posizione versus populum sembra la piú conveniente nella misura in cui rende piú facile la comunicazione”, ricordava che “sarebbe un grave errore supporre che l’azione sacrificale sia orientata principalmente alla comunità. Se il prete celebra versus populum, cosa legittima e spesso consigliata, il suo atteggiamento spirituale deve sempre essere rivolto versus Deum per Iesum Christum, in rappresentanza dell’intera Chiesa.”

    Mi pare che oggi questa risposta, che consiglia la celebrazione verso il popolo, potrebbe venire adattata alla nuova realtà creata del MP Summorum Pontificum con la raccomandazione di celebrare ad orientem a partire dall'Offertorio.

    In merito alla comunione, poi, la Santa Sede potrebbe pubblicare un'altra raccomandazione universale per ricordare ciò che viene previsto dall'Ordinamento generale del Messale romano nel suo articolo 160: “I fedeli si comunicano in ginocchio o in piedi, come stabilito dalla Conferenza Episcopale. Quando però si comunicano stando in piedi, si raccomanda che, prima di ricevere il Sacramento, facciano la debita riverenza, da stabilire dalle stesse norme.” Si nota che la prima forma di comunione menzionata dal testo ufficiale della Chiesa commentando il Novus Ordo è quella in ginocchio...

    Sarebbe inoltre opportuno limitare l'uso dei cosiddetti ministri laici dell'Eucaristia ai soli casi di assenza del sacerdote e del diacono.

    Un altro aspetto che potrebbe arricchire il Novus Ordo sarebbe che le letture della Sacra Bibbia vengano sempre fatte da un uomo in abito liturgico, e non da donne o uomini in vesti civili. Questo perchè la proclamazione della lettura si svolge nel presbiterio, un luogo che dai tempi apostolici era riservato al sacerdote e ai ministri ordinati, incluso i chierici degli ordini minori. Solo in mancanza di quest'ultimi un fedele laico maschio poteva supplire loro. Il servizio presso l’altare, sia del lettore, sia dell’accolito, non è un esercizio del sacerdozio comune, ma è contenuto nell’esercizio dell’ordine sacro, specificamente in quello del diaconato. Per questa ragione, almeno a partire dal III secolo, la Chiesa Romana ha voluto gli ordini minori come una specie di introduzione ai vari compiti concreti che in qualche modo sono contenuti nell’esercizio del diaconato, per esempio vigilare il santuario e chiamare i fedeli alla liturgia (ostiariato), leggere la parola di Dio nella liturgia (lettorato), espellere gli spiriti maligni (exorcistato), portare la luce e servire all’altare (accolitato). Per questo si può meglio vedere la ragione per la quale la Chiesa finora ha riservato il conferimento degli ordini minori o dell’istituzione di lettore e accolito ai soli fedeli laici maschi.

    Di conseguenza consideriamo che un'altra possibilità offerta dall'avvicinamento delle due forme liturgiche sia quella di tornare alla sana tradizione che riserva il coro ai soli uomini: diaconi, accoliti, lettori e chierichetti devono essere maschi. Non possiamo lamentare il crollo delle vocazioni se i ragazzi non sono più portati al servizio dell'altare.

    Infine, la preghiera dei fedeli deve essere riservata ai soli diaconi, accoliti o lettori in veste liturgica. Penso però che sia più consono alla bimilenaria tradizione della Chiesa, occidentale come orientale, che la preghiera universale o dei fedeli sia proclamata o meglio cantata solo dal diacono, giacchè la preghiera universale si chiamava anche oratio diaconalis. Quindi, in assenza del diacono, analogamente alla proclamazione del vangelo, la preghiera universale dovrebbe venire detta dal sacerdote stesso. Il nome preghiera dei fedeli non significa che sia proclamata da parte dei fedeli laici, questo è un errore storico e liturgico. Significa invece che questa preghiera si faceva all’inizio della liturgia dei fedeli dopo l'uscita dei catecumeni. Il diacono o il sacerdote offriva alla maestà Divina con le suppliche solenni le intenzioni di tutta la chiesa, cioè di tutti i fedeli, ed è proprio per questo che si chiamava anche preghiera dei fedeli.


    7) E per il Vetus Ordo? In che modo potrebbe venire arricchito dall'avvicinamento con la forma ordinaria del rito romano?

    AS: Direi che lo spirito che anima gli ultimi punti relativi al Novus Ordo si può applicare alla forma straordinaria. Le letture sacre dovrebbero essere sempre rese accessibili ai fedeli, cioè lette nella lingua locale e non soltanto in latino, fatta qualche eccezione particolare. Le letture potrebbero essere fatte, anche in questo caso, da un lettore ordinato o istituito o comunque da un fedele laico maschio in veste liturgica.

    Anche l'introduzione di alcuni dei prefazi del Novus Ordo sarebbe una cosa bella e utile, così come l'introduzione dei nuovi santi nel calendario liturgico tradizionale.


     

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    00 12/10/2010 15:24

    l’idea di messa di padre Pio

    Padre Pio e la messa
    di Francesco Agnoli

    Chi oggi visita san Giovanni Rotondo fa un po’ di fatica a ritrovare lo spirito del santo, padre Pio, che vi visse lasciando una impronta fortissima sulla gente e sul territorio. Perché è anzitutto sopraffatto da una mastodontica costruzione pagana, la chiesa nuova, progettata dalla star Renzo Piano, senza un benché minimo afflato religioso (ma con notevole spesa). Eppure i segni del passaggio del santo si trovano.

    All’entrata del paese vi è infatti un ospedale immenso, gigantesco, certamente sproporzionato per il paese in cui sorge: è la “Casa sollievo della sofferenza”, che fu voluta proprio da padre Pio, e che è oggi all’avanguardia in molti campi della ricerca, in Italia e non solo. Attualmente il direttore scientifico è quell’Angelo Vescovi, insigne scienziato italiano noto nel mondo per le sue ricerche sulla cellule staminali, che ha più volte proclamato di essere un non credente, ma di condividere, da biologo, la posizione della Chiesa sugli embrioni umani. Il visitatore che arriva a san Giovanni Rotondo, alla destra del grande ospedale citato, trova subito, prima della nuova, la vecchia chiesa, ed in essa un confessionale di legno in cui il santo passava gran parte del suo tempo, pregando e incontrando anime assetate, affrante, disperate o felicemente pentite, in cerca di una direzione spirituale…

    Quello che manca è un bel colpo d’occhio dell’altare, su cui padre Pio celebrava la sua celebre messa. Eppure Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, nel loro recente volume, “L’ultima messa di padre Pio. L’anima segreta del santo delle stigmate” (Piemme), mettono in luce come proprio la Messa fosse il cuore della spiritualità del santo pugliese. Era lì, in quelle celebrazioni a volte lunghissime, in cui si perdeva in estasi divine, che padre Pio trovava la forza per confessare, per sostenere le tribolazione altrui e quelle della sua vita, causate anche dagli stessi confratelli o dall’accanimento, contro di lui, di alcuni membri della gerarchia (cui egli rimase però sempre obbediente e devoto).

    Palmaro e Gnocchi, che hanno avuto occasione di accedere, oltre che al materiale già noto, anche ad archivi sino ad ora inesplorati e preziosi, portano il lettore a penetrare nella spiritualità del santo che portò nel suo corpo, per ben cinquant’anni, le stigmate. Cioè i segni della passione di Cristo. Proprio la sua sofferenza, il suo essere anche fisicamente un altro Cristo, il suo sacrificarsi ogni giorno per la salvezza dell’umanità, hanno fatto di padre Pio il santo che da una parte volle a tutti i costi lenire i dolori di tanti malati, facendo costruire la “Casa del sollievo della sofferenza”, dall’altra il sacerdote che forse più di ogni altro ha penetrato in profondità il senso della messa, intesa non come semplice memoriale, né come mera mensa, ma anche come rinnovazione incruenta del sacrificio della croce.

    Mentre celebrava l’Eucaristia, padre Pio saliva veramente, in modo miracoloso, sul Calvario, partecipando nella sua carne ai patimenti di Cristo, e offrendoli per l’umanità. Egli era solito sostenere che “il mondo può stare anche senza il sole, ma non senza la santa messa”, per ricordare ai fedeli che solo il sangue di Cristo lava le nostre colpe, e che prendendo ogni giorno la sua croce, con fiducia, il cristiano diviene veramente seguace del suo maestro. Chi osservi oggi qualche fotografia di padre Pio mentre celebrava, noterà senz’altro lo sguardo dolce e concentrato, serenamente estatico e pieno di tenerezza, con cui il santo guardava l’ostia e il calice. Oggi, sostengono Palmaro e Gnocchi, l’idea di messa di padre Pio è andata in gran parte perduta: alla vita intima dello spirito, alla liturgia divina, all’idea che è Cristo che salva l’uomo salendo sulla croce, molta teologia e molta prassi degli ultimi decenni hanno contrapposto la concezione secondo cui il sacerdote altro non è che un presidente d’assemblea, un organizzatore, un uomo che, come i pastori protestanti, guida la comunità nel ricordo dell’ultima cena, attraverso le letture sacre.

    Questo, ovviamente, ha portato ad uno scadimento della liturgia, ad una desacralizzazione della messa, che ha perso spesso la sua capacità di manifestare il divino. I due autori notano inoltre che la morte del santo si colloca nel 1968, epoca di grande crisi della fede e della società. Padre Pio può allora essere visto dal credente come un crocifisso che carica su di sé il male del mondo, come una barriera che si oppone al dilagare del male con la forza della sua santità. Alla sua morte, però, la catastrofe travolge l’Occidente: droga, immoralità, piombo ed odio uccideranno anime e corpi e all’umanità assetata verranno proposti nuovi idoli, mentre verrà tolto un segno divino che aveva parlato a milioni di persone e che con la sua storia continua a ricordare ai credenti che per i nostri tempi Dio aveva scelto un santo sofferente, confessante, orante.

    da il "Il Foglio" del 7/10/2010

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 01/11/2010 16:06

    Il pane della Parola e dell'Eucaristia


    Intervista a monsignor Nicola Bux


    di Miriam Díez i Bosch

    BARI, domenica, 13 luglio 2008 (ZENIT.org).- Il Sinodo sulla Parola potrà servire tra le altre cose, a chiarire cosa si intende per “unità del pane della Parola e dell’Eucaristia”, una espressione facilmente comprensibile da un teologo ma che può confondere i fedeli.

    È uno dei commenti del teologo Nicola Bux, consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede e per la Causa dei Santi e professore di Ecumenismo presso l’Istituto di Teologia di Bari.

    Il teologo, che scrive abitualmente su questioni dottrinali per l’agenzia Fides, ricorda a ZENIT che quando parliamo delle Scritture è importante ricordare che il testo ha bisogno delle immagini e che le immagini devono essere insegnate maggiormente anche nelle catechesi.

    Cosa si aspetta come teologo da questo Sinodo dei Vescovi incentrato sulla Parola di Dio?

    Mons. Bux: Faccio un esempio. Nei Lineamenta del prossimo Sinodo pubblicati lo scorso anno si parla dell'unità del pane della Parola e dell'Eucaristia. Questa espressione che un teologo e un fedele ben preparato capisce, in realtà risulta incomprensibile ai più e tende a confondere.

    Sappiamo che l'Antico Testamento dice che l'uomo deve nutrirsi della parola che esce dalla bocca del Signore, ma da quando questa parola è diventata carne nella persona divino-umana di Gesù tutto è cambiato: non esistono due parole e due nutrimenti, ma uno soltanto: la carne e il sangue di Gesù Cristo.

    I padri dicevano che egli è verbum brevissimum. Altrettanto dicasi per l'espressione “due mense della parola e dell'eucaristia”, che poi in altri testi diventa “un'unica mensa”.

    Nel nostro tempo i messaggi devono essere più che mai semplici, non ambigui e incomprensibili. Il cattolico deve sapere che la parola di Dio udita quando si legge la Scrittura è come il pregustare i preparativi di un pranzo, se poi non seguisse il pasto tutto resterebbe sospeso. Per questo ci nutriamo della Parola fatta carne che è il Signore. Senza il sacramento, la Parola non diventa solida ma resta aeriforme o liquida. Si può applicare a tale impostazione l'espressione di pensiero debole o liquido.

    Dunque, personalmente auspico che il Sinodo dissipi tali ambiguità per il bene della verità cattolica.

    I fedeli conoscono molto di più la Bibbia rispetto a 40 anni fa ma i testi sono ancora sconosciuti. Cosa si può fare, a livello di formazione teologica, per avvicinare ancora di più il testo sacro?

    Mons. Bux: Si fa già molto, ma spesso vivisezionando i testi e ingenerando nelle persone l'idea che in fin dei conti siano uguali a qualsiasi altro testo storico o letterario. Provi a domandare chi ne sia l'autore: difficilmente sentirà rispondere: Dio. O, cosa sia l'ispirazione.

    Poi, nella civiltà delle immagini e dei dvd si legge sempre di meno: bisognerebbe tornare a raccordare il testo con l'immagine sia nella catechesi che nella liturgia.

    Le immagini infatti raccontano e sintetizzano le persone sacre e sante della storia della salvezza. Ma oggi in Occidente i fedeli, sull'esempio del prete, non degnano di uno sguardo le immagini in chiesa a partire dalla croce, anche perchè spesso sono brutte e collocate male.

    Bisogna educare all'immagine onde far nascere il desiderio di accostarsi alla Scrittura. Il Compendio del Catechismo della Chiesa cattolica è esemplare in tal senso.

    Quale è la sfida più grande di questo Sinodo, che ha anche un risvolto ecumenico?

    Mons. Bux: Un mio amico sacerdote, che è teologo, matematico ed esperto in ermeneutica, mi fece notare che dinanzi alla secolarizzazione esterna e al relativismo teologico interno, in sostanza all'"ateismo dilagante" un po' dappertutto, nella Chiesa postconciliare sia mancato l'impegno per elaborare una metodologia integrale per lo studio della Sacra Scrittura.

    Si è cominciato con il rifiuto assoluto dei metodi "moderni" ai tempi di S. Pio X (in base ad analisi, che oggi si dovrebbero riconoscere essenzialmente profetiche di ciò che avrebbe comportato lo studio della Scrittura "etsi Deus non daretur").

    Poi, sotto Pio XII, l'apertura ("Divino afflante Spiritu") continua e si rafforza molto, successivamente. Ma non c'è stata alcuna integrazione tra l'insistenza sulle verità di fede, che si ritengono basate sulla Scrittura (nella Tradizione) e le metodologie "atee" (che escludono in partenza il soprannaturale).

    Solo che, ogni volta che lo studio, diciamo storico-critico, rischia di oltrepassare i limiti fissati dalla fede, c'è il richiamo alla fedeltà. Ma si tratta di imporre limiti estrinseci, sottraendoci all'elaborazione di una metodologia integrale giusta e adatta all'oggetto.

    Esempio: si potrebbe anche leggere un libro di testo di fisica nucleare con il metodo fatto per lo studio delle belle lettres, e qualche cosa se ne ricaverebbe, ma non è assolutamente il metodo adatto all'oggetto, nel caso. Così, si arriva, per es., pure al ripristino della "doppia verità", ad uno Schillebeeckx, che dice che crede nella concezione verginale di Gesù perchè lo insegna la Chiesa, ma che non la può ricavare dalla Scrittura (dove sarebbe solo dovuto ad un genere letterario o ad un intento teologico-pedagogico, e così via).

    Schillebeeckx è stato pubblicamente richiamato, ma più o meno è proprio così che si insegna, effettivamente, nei seminari e nelle Facoltà di teologia circa tutto quanto di soprannaturale ci viene riferito nella Scrittura.

    Ecco, ammettiamo e facciamo il massimo uso dei metodi di per sè "atei", ma sappiamo inquadrarlo in una metodologia integrale propria!

    Se i cristiani d'Oriente e d'Occidente convergessero su questo...

    Non potrebbe ad alcuni sembrare contraddittorio ribadire l'importanza delle Scritture e allo stesso tempo mettere in atto il "Summorum Pontificum" dove la Sacra Scrittura non ha il posto che il Concilio Vaticano II le ha assegnato?

    Mons. Bux: Si sostiene che il rito postconciliare sia più ricco di letture, di preghiere eucaristiche, mentre il messale di Pio V è povero, poco accurato. E' una tesi anacronistica perché non tiene conto della distanza di quattro secoli; sarebbe come accusare analogamente i sacramentari anteriori di alcuni secoli a quello di Pio V.

    Inoltre si dimentica che le pericopi di questo messale si sono formate sulla base degli antichi capitolari con epistole, come il Liber comitis di san Girolamo datato al 471 o con pericopi evangeliche; una tradizione comune all'Oriente, come attesta ancora oggi la liturgia bizantina.

    E poi, l'attenzione dei fedeli dura più a lungo e trattiene di più se la lettura è breve. Un po' come nella liturgia delle Ore. Dunque non v'è nessuna contraddizione.

     

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    00 12/12/2010 18:24

    don Bux alla Congregazione per il Culto Divino




    Sua Santità Benedetto XVI ha nominato don Nicola Bux “Consultore della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti”
    Nella foto, il cordiale incontro col Santo Padre a margine dei lavori dell'Assemblea speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi.



       Exultemus et laetemur in Domino.
    Fraternamente CaterinaLD

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    00 23/12/2010 23:15

    Il Motu Proprio e la riforma della riforma: parla Mons. Bux



    Seguiamo i passi di Cantuale Antonianum e divulghiamo questa intervista pubblicata da Tempi. Un Monsignor Bux assolutamente da non perdere:

    Una Messa da manuale

    Il teologo Nicola Bux spiega perché in cima alle preoccupazioni di Benedetto XVI c’è il «crollo della liturgia». E perché il restauro delle forme di culto passa necessariamente per il discusso Motu proprio sul rito in latino

    di Valerio Pece
    «In questo modo si impedisce pure “ai fedeli di rivivere l’esperienza dei due discepoli di Emmaus: ‘E i loro occhi si aprirono e lo riconobbero’”». Ecco spiegato in modo mirabile di cosa si parla quando si parla di cattiva liturgia. La citazione è presa da Redemptionis sacramentum, documento fortemente voluto da Giovanni Paolo II.
    Sono rimasti in pochi oramai a negare che in campo liturgico ai documenti ufficiali del Concilio Vaticano II si sia sostituito abusivamente un invasivo “Spirito del Concilio”. Due esempi su tutti: il canto gregoriano e il latino, l’uso dei quali era indicato tra le “consegne” liturgiche più importanti del Concilio. Non si sa bene come, nella prassi, com’è noto, tutto è svanito. «Effettivamente come questo sia successo se lo chiedono in molti», dice a Tempi il teologo don Nicola Bux. «È una pagina ancora da chiarire. I fatti sono questi: Paolo VI costituì il Consilium ad exsequendam Constitutionem de Sacra Liturgia, con il compito, appunto, di “eseguire” ciò che era nella Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium. Su questa esecuzione è poi accaduto di tutto, perché confrontando la lettera del testo e le applicazioni successive appaiono differenze notevoli. Prendiamo il gregoriano. Al numero 116 della Sacrosanctum Concilium si legge che la Chiesa lo riconosce come “il canto proprio della liturgia romana” e come tale gli riserva “il posto principale”. Ora, “canto proprio” è un’espressione specifica, significa che il gregoriano è tutt’uno con il rito latino. Eliminare il canto proprio è come strappare la pelle di dosso a una persona. È quello che è stato fatto». La ragione accampata è che non lo si saprebbe cantare. «Ma questo è un falso problema», spiega il teologo. «Se pensiamo a quanti mottetti la gente canta, solo perché questi sono stati custoditi e perpetuati: la Salve Regina, il Kyrie… E poi basta davvero che il canto sia in italiano perché la gente canti?».

    La stessa Chiesa in tutto il mondo
    I biografi concordano che il fascino esercitato dal cattolicesimo su convertiti quali Newman, Benson e Chesterton, fu dovuto anche a quell’universalismo della liturgia latina che ancora oggi gioca un ruolo importante nel persuadere molti anglicani a bussare alla Chiesa di Roma. Ebbene, oltre il gregoriano certi occultamenti hanno riguardato anche il latino. Eppure la Sacrosanctum Concilium al n. 36 prescrive espressamente: “L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini”. «Tradurre le letture nelle lingue parlate – sostiene don Bux – è stata cosa buona, dobbiamo capirla. Ma il Papa ha aggiunto che “una presenza più marcata di alcuni elementi latini aiuterebbe a dare una dimensione universale, a far sì che in tutte le parti del mondo si possa dire: Io sono nella stessa Chiesa”. Almeno alla preghiera eucaristica e alla colletta il latino dovrebbe tornare. Tra l’altro Paolo VI stabilì che i messali nazionali fossero pubblicati sempre bilingui, italiano e latino. Per permettere in ogni momento la celebrazione in latino, poi per tenere allenati i sacerdoti, e infine poiché l’italiano cambia e le traduzioni, spesso vere e proprie interpretazioni, tendono sempre più a tradire. C’era una lettera del Papa che lo prescriveva: non gli hanno obbedito».
    La liturgia è sacra se ha le sue regole. E se da un lato l’ethos, cioè la vita morale, è un elemento chiaro per tutti, dall’altro lato si ignora quasi totalmente che esiste anche uno jus divinum, un diritto di Dio a essere adorato. Don Bux: «Si dice: Dio, anche se c’è, con la mia vita non c’entra. Invece Dio c’entra con tutto. “Tutto mi appartiene”, si legge nelle Scritture, anche la vita del regista Monicelli gli apparteneva. Attenzione, perché il Signore è geloso delle sue competenze, e il culto è quanto di più gli è proprio. Invece proprio in campo liturgico siamo di fronte a una deregulation». Per sottolineare quanto senza jus ed ethos il culto diventa necessariamente idolatrico, nel suo recentissimo libro (Come andare a Messa e non perdere la fede, Piemme) don Nicola Bux cita un passo dell’Introduzione allo spirito della liturgia di Joseph Ratzinger. Scrive Ratzinger: «In apparenza tutto è in ordine e presumibilmente anche il rituale procede secondo le prescrizioni. E tuttavia è una caduta nell’idolatria (…), si fa scendere Dio al proprio livello riducendolo a categorie di visibilità e comprensibilità». E ancora: «Si tratta di un culto fatto di propria autorità (…) diventa una festa che la comunità si fa da sé; celebrandola, la comunità non fa che confermare se stessa». Il risultato è irrimediabile: «Dall’adorazione di Dio si passa a un cerchio che gira attorno a se stesso: mangiare, bere, divertirsi». Un effetto domino.

    È fondamentale notare – scrive don Bux – che «la caricatura del divino in sembianza bestiale» è un chiaro indice del fatto che «lo stravolgimento del culto trascina con sé l’arte sacra». Difficile non pensare all’architettura di tante chiese moderne. Decadimento che riguarda anche musica e costumi, visto che intorno al vitello d’oro si cantava e danzava in modo profano. Insomma, è tutto legato alla liturgia. Non per nulla nella sua autobiografia (La mia vita, San Paolo) Ratzinger dichiarava solennemente: «Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia» .

    Un gesto di ecumenismo

    Facilmente, frequentando la Messa per dieci domeniche in parrocchie diverse, capiterebbe di assistere a dieci differenti liturgie. E se è vero che cattolico significa universale, qualcosa forse non torna. Eppure l’enciclica Ecclesia de Eucharistia era stata chiarissima: «La liturgia non è mai proprietà privata di qualcuno, né del celebrante, né della comunità». La tesi di don Bux è che in soccorso alla liturgia potrebbe andare quel Motu proprio Summorum Pontificum che nel 2007 ha liberalizzato la forma straordinaria del rito latino. Per il teologo «le due forme del rito possono arricchirsi a vicenda, proprio a partire da questo clima religioso di Mistero, il Sitz im Leben, l’ambiente vitale dove è possibile incontrare Dio». Ma si può già fare un primo bilancio del Motu proprio? Don Bux risponde così: «Una settimana fa ero a Parigi. La Messa che dietro richiesta ho celebrato in forma straordinaria era affollatissima di giovani. Il parroco di Sainte-Clotilde mi diceva che celebra tranquillamente con i due riti, senza alcun problema. La verità è che dovremmo tutti liberarci da questa deleteria contrapposizione tra vecchio e nuovo rito, il nostro amato Papa incoraggia e desidera la continuità. E celebrare sia in forma ordinaria che straordinaria significa mettere in pratica questa continuità della Chiesa. Seguiamolo!».
    Non si può nascondere, però, che siano molti a boicottare il Motu proprio. Per tutti, l’ex vescovo di Sora, Luca Brandolini, che alla notizia della liberalizzazione del rito straordinario confidò a Repubblica di aver pianto per quel “giorno di lutto”. Eppure in una prospettiva ecumenica la liberalizzazione della Messa antica è un passo avanti. «Lo ha dimostrato – aggiunge don Bux – il defunto patriarca di Mosca Alessio II, il quale applaudì al Motu proprio con parole chiarissime: “Il Papa ha fatto bene. Tutto ciò che è recupero della tradizione avvicina i cristiani tra loro”».

    Secondo il teologo «il movimento di giovani creatosi intorno al rito antico è in forte crescita». Ma nessuno, specie se nato negli anni Settanta-Ottanta, può essere “tradizionalista” in nome della nostalgia per i bei tempi che furono. «Molti giovani domandano una sola cosa: incontrare il sacro. Ecco la ragione del successo della Messa gregoriana. Ignorare questa richiesta, che ha un contorno tutto spirituale e per nulla ideologico (come invece si vorrebbe far credere), è almeno contraddittorio per chi, per definizione, dovrebbe “episcopein”, cioè osservare, scrutare». La situazione è paradossale: «Si era fatto di tutto per rinnovare la liturgia e attirare i giovani, e adesso proprio loro non si sentono attratti. È un fatto che con la forma straordinaria del rito non pochi di loro riescano maggiormente ad adorare il Signore. La liturgia serve per dare al Signore la lode e la giusta adorazione. Una liturgia che non mette al primo posto il Signore è una fiction, e loro se ne accorgono. Quando i sacerdoti recitano la preghiera eucaristica (cioè il momento culminante della Messa, quello del Suo sacrificio per noi) continuando a roteare lo sguardo sul popolo invece che guardare alla Croce dinanzi a loro, diventa allora chiaro che non stanno parlando col Signore, non sono rivolti a Lui. E ciò non è senza conseguenze: i fedeli saranno portati a distrarsi, a scapito della partecipazione».


    Ma quali “spalle al popolo”

    Sta nascendo un movimento liturgico nuovo che guarda al modo di celebrare di Benedetto XVI. «La cosa di gran lunga più importante che il Papa vuol farci comprendere – dice don Bux – è l’orientamento del sacerdote, del suo sguardo soprattutto. “Là dove lo sguardo su Dio non è determinante, ogni altra cosa perde il suo orientamento” scrive magnificamente Benedetto XVI, ed è appunto questo il nocciolo della questione: il giusto orientamento». Sembra dunque di essere arrivati a uno snodo rischioso. «“In alto i nostri cuori, sono rivolti al Signore”, lo diciamo ma non lo facciamo. Se il sacerdote guardasse la croce, o il tabernacolo, ci sarebbe per i fedeli un effetto fortissimo. Se proprio dall’offertorio alla comunione il sacerdote non vuol stare rivolto ad Dominum, cioè a Oriente, abbia almeno la Croce al centro dinanzi a sé. Si badi bene, questo sarebbe possibile anche con i nuovi altari, per cui senza tornare a distruggere nulla (abbiamo assistito già alla demolizione dissennata di tanti altari antichi e belli), basterebbe porre sull’altare la croce e voltarsi ad essa. Esattamente come fa Benedetto XVI, che interpone la croce tra sé e i fedeli, una croce ben visibile». In fondo Ratzinger aveva in mente proprio questo quando si rammaricava perché «il sacerdote rivolto al popolo dà alla comunità l’aspetto di un tutto chiuso in se stesso». Eppure – si obietta – dare le spalle al popolo o anche solo interporre la croce sull’altare fa venir meno il senso di convivialità. «Conosco l’obiezione: è l’idea di Messa-banchetto che fa tanto “comunità di base anni Settanta”, dura a morire. Per questo fu coniata l’espressione “Messa di spalle al popolo”. Davvero è pensabile che le spalle al popolo del sacerdote farebbero perdere il senso di comunione? Ma questa, per esser tale, non deve venire prima dall’alto? Davvero il mistero della comunione ecclesiale si risolve nel guardare l’assemblea?», chiosa don Bux.

    Gli strani intenti di Bugnini

    C’è poi la lezione silenziosa di Benedetto XVI sulla comunione data in bocca e in ginocchio. «Un atteggiamento di riverenza – osserva il teologo pugliese – che rallenta la processione di comunione e rende più consapevoli del gesto. Avendo sempre chiaro che la comunione sulla mano è un gesto permesso da un indulto, cioè un atto dalla durata limitata, che invece è diventato regola». Don Bux aggiunge: «Oggi anche il tabernacolo è diventato “segno di conflitto”. Come non comprendere che se il tabernacolo non è più al centro, non sarà più ritenuto nemmeno il centro?». Da qui la sua proposta ai sacerdoti: uno scambio tabernacolo-sede sacerdotale al centro del presbiterio. «La gente tornerà a credere nel santissimo Sacramento, noi preti guadagneremo in umiltà e al Signore sarà restituito il posto che gli spetta ».

    Tornando al Concilio “tradito”, Annibale Bugnini, indiscusso protagonista della riforma liturgica, dichiarava tranquillamente all’Osservatore Romano: «Dobbiamo togliere dalle nostre preghiere cattoliche e dalla liturgia cattolica ogni cosa che possa essere l’ombra di una pietra d’inciampo per i nostri fratelli separati, ossia i protestanti». Anche al di là della sua discussa appartenenza massonica su cui tanto è stato scritto (tra gli altri, dal vaticanista Andrea Tornielli su 30 Giorni), la vera domanda è se un intento come quello riportato sia stato ininfluente rispetto alla situazione in cui oggi versa la liturgia, a quella cioè che Benedetto XVI chiama «deformazione al limite del sopportabile». «Delle sue responsabilità – afferma don Bux – Annibale Bugnini risponderà al Signore. Un aiuto a capire la riforma può arrivare dal libro di Nicola Giampietro che contiene la testimonianza del cardinale Ferdinando Antonelli, autorevole protagonista di quel Consilium deputato a eseguire i documenti della riforma. Antonelli ha scritto cose decisamente forti sul clima che aleggiava in quel Consilium di cui Bugnini era il factotum, nonché sul ruolo di quei sei esperti protestanti che ebbero una funzione molto maggiore di quella di semplici osservatori. Servirebbe certamente pubblicare i diari secretati di Annibale Bugnini. Non foss’altro che per una maggiore comprensione di cosa sia stata davvero la riforma liturgica postconciliare».


    testo da Tempi (via Cantuale Antonianum), immagini Corbis

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    00 04/03/2011 16:57

    “Come andare a Messa e non perdere la fede”.

      libro
     
    Francesco Antonio Grana intervista don Nicola Bux

    Riceviamo e con grande piacere e gratitudine pubblichiamo:

    Se andare a Messa fa perdere la fede

    Francesco Antonio Grana

    “Come andare a Messa e non perdere la fede”. È il titolo del nuovo libro di Nicola Bux, edito da Piemme, con un contributo di Vittorio Messori. Sacerdote e docente della Diocesi di Bari, romano per studi teologici e orientalistici, gerosolimitano per quelle sulle liturgie cristiane, Bux ha dedicato vari libri alla liturgia, ecclesiologia ed ecumenismo che sono stati tradotti nelle principali lingue europee.
    Amico di lunga data di Joseph Ratzinger, che nel 1997 presentò il suo libro “Il quinto sigillo”, Bux ha collaborato alla riforma postconciliare della liturgia, musica e arte sacra nella sua Diocesi e nella sua Regione con il liturgista benedettino l’Arcivescovo Andrea Mariano Magrassi, e con don Luigi Giussani in Comunione e Liberazione.

    Don Nicola Bux, perché andando a Messa si può perdere la fede?

    Perché la Messa in questi ultimi decenni non è più celebrata come espressione di un rito bimillenario della Chiesa cattolica, ma spesso secondo gli adattamenti e le creatività dei singoli celebranti. Per cui capita di partecipare in una parrocchia a una un certo di tipo di Messa e in un’altra a un altro tipo. Ciò ha finito per creare solo disorientamento, e spesso anche perplessità e disaffezione, talvolta noia e abbandono, perché in genere i fedeli, in qualsiasi parte del globo si trovino, pur con le diversità indotte dalle situazioni cultuali e linguistiche, vorrebbero assistere all’unica Messa della Chiesa cattolica. Soprattutto quando si è in presenza di abusi e di manipolazioni si finisce per far perdere la fede a molti. Come ha detto l’allora cardinale Ratzinger spesso sono state compiute deformazioni al limite del sopportabile.

    Quali sono gli abusi liturgici più frequenti?

    Frequente è l’affabulazione che affligge molti celebranti, per cui non c’è più solo il momento dell’omelia ma tante mini omelie che punteggiano la celebrazione. Questo finisce per togliere lo spazio al raccoglimento personale. Credo che questo tipo di frenesia affabulatoria dipenda dal convincimento in molti che se noi preti non spieghiamo le cose la gente non le comprende. Si ha una certa sfiducia che il rito in sé parli, che i suoi simboli, i suoi significati, le sue figure passino nelle persone. C’è come un eccesso di interposizione per cui alla fine più che diventare un rito sacro, liturgico, appunto sacramentale, diventa un’interminabile didascalia, naturalmente spesso spettacolarizzata anche da ulteriori apporti di quelli che sono stati chiamati gli attori della liturgia. Non a caso questo termine nella percezione della gente riguarda il mondo dello spettacolo. La Messa perde così il suo significato di mistero della passione e della risurrezione di Gesù Cristo, per diventare un intrattenimento che bisogna poi misurare quanto a gradimento. Ecco perché nella liturgia è stato introdotto l’applauso.

    A che punto è la “riforma della riforma” voluta da Benedetto XVI?

    Con questa espressione, che Ratzinger ha usato quando era ancora Cardinale Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, egli intendeva dire che la riforma avviata dopo il Concilio doveva essere ripresa, e per certi versi corretta là dove, per usare sempre le sue parole, il restauro del dipinto aveva rischiato grosso, cioè nel tentativo di pulirlo si era corso il rischio di portare via anche i vari strati di colore.
    Egli ha avviato questo restauro attraverso un suo stile. Il Papa celebra la liturgia in modo sommesso, non gridato. Parimenti desidera che preghiere, canti e quant’altro non usino toni esibizionistici. E poi bisogna sottolineare due gesti particolari che nelle sue liturgie sono evidenti: aver interposto tra sé e l’assemblea la croce, a indicare che il rito liturgico non è rivolto al ministro sacerdotale ma a Cristo, e far ricevere la Comunione in ginocchio, a indicare che non si tratta di una cena nel senso mondano della parola, ma di una comunione al corpo di Gesù Cristo che viene però prima adorato, secondo le parole di Sant’Agostino, per poi essere mangiato.

    Quanti ostacoli sta incontrando il Motu proprio Summorum Pontificum sulla messa preconciliare?

    Credo che attualmente gli ostacoli diventino più flebili rispetto all’uscita del Motu proprio, nel 2007. Attraverso internet si può vedere come ci sia un discreto movimento di giovani che cerca, e per quanto è possibile pratica, la Messa tradizionale, chiamata anche Messa in latino o Messa di sempre. E questo credo che sia un segno molto importante da cogliere.
    È chiaro che i pastori della Chiesa, in primo modo i vescovi e poi i parroci, pur affermando spesso che bisogna saper cogliere il segno dei tempi, espressione molto in uso dopo il Vaticano II, non riescono spesso a comprendere che i segni dei tempi non li stabiliscono loro, ma si presentano e soprattutto sono regolati dai giovani. Credo che questo sia il sintomo più interessante, perché se alla Messa tradizionale ci corressero gli anziani, gli adulti, si potrebbe anche avere il sospetto che si tratti di una nostalgia. Il fatto che siano prevalentemente i giovani quelli che cercano e partecipano alla Messa in latino è assolutamente inaspettato e però meriterebbe di essere letto, compreso e accompagnato soprattutto da parte dei vescovi.
    Credo che il Papa abbia contezza di ciò e per questo intenda dare un ulteriore apporto attraverso un’istruzione applicativa del Motu proprio per aiutare tutti a comprendere che accanto alla nuova forma del rito romano c’è anche la forma antica o straordinaria.

    Come è nata la sua amicizia con il cardinale Ratzinger, oggi Papa Benedetto XVI?

    È un’amicizia che risale ai tempi iniziali del suo lavoro teologico e soprattutto quando è diventato Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede. Mi hanno molto interessato i suoi studi, direi il suo navigare controcorrente, pur essendo egli un teologo progressista tra virgolette, come d’altronde siamo stati tutti noi giovani dopo il Concilio. Naturalmente man mano che ci si accorgeva che quanto si sperava progredisse in realtà diventava sempre più confuso, a volte contraddittorio al punto da far perdere i connotati dell’eredità cattolica, si è diventati più guardinghi. E in questo io ho potuto fruire senza merito della stima e della considerazione dell’allora cardinale che mi ha chiamato in Vaticano quale consultore della Congregazione per la Dottrina della Fede, e in seguito, anche di quella delle Cause dei Santi e dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie, e mi ha nominato perito ai Sinodi dei Vescovi sull’Eucaristia del 2005 e sul Medio Oriente del 2010. 

    L'Avanti, 4 marzo 2011
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 08/03/2011 12:27
    LA FEDE SI PERDE A MESSA?

    LA PROVOCAZIONE DI MONS. NICOLA BUX

    di Angela Ambrogetti

    Si può andare a Messa e rischiare di perdere la fede? La provocazione è di monsignor Nicola Bux  che ha deciso di intitolare il suo ultimo libro: “ Come andare a Messa senza perdere la fede.” Per ora il libro è stato pubblicato in Italia dalla Piemme, ma certamente presto ci saranno edizioni in altre lingue.

    Perché il tema è caldo. Lo ha dimostrato il dibattito che si è svolto a Roma lo scorso 2 marzo per la presentazione del volumetto. Due cardinali, Raymond Leo Burke, prefetto del Tribunale della Segnatura Apostolica e Antonio Cañizares Llovera Prefetto della Congregazione per il culto divino ne hanno parlato con il professor Ettore Gotti Tedeschi presidente dello Ior. E il suo è stato un intervento che ha riportato il punto di vista dei Christifideles, dei laici che leggono gli eventi alla luce della fede.

    La crisi attuale che stiamo vivendo non è solo di tipo economico e sociale ma anche, e soprattutto, spirituale- ha detto- Perché? Perché l’uomo non imita più Cristo, non si ciba di Lui e, ben più grave, non conosce la Sua parola: queste sono fondamentalmente le risposte ai tanti perché che ogni uomo dovrebbe porsi e che Don Nicola Bux cerca di esplicitare all'interno della sua opera.”
    Insomma la  crisi non è causata unicamente dai banchieri, ma anche dai preti che non insegnano più dottrina perché troppo impegnati a portare il loro pensiero in altre discipline .

    E citando la Caritas in vertiate Gotti Tedeschi ha spiegato che l’uomo perde il senso della Verità presupponendo che essa venga dopo la libertà: “l’uomo non si può soddisfare solo materialmente perché, prima o poi, la materia finirà mentre lo spirito sarà sempre una fonte inesauribile per nutrire l’anima che è più importante della carne”. Questo pensiero è il frutto della filosofia nichilista in cui l’uomo non ha più riferimenti in quanto la Chiesa è divenuta sua nemica. Ecco la provocazione: “se è la Chiesa stessa a non essere Maestra, cosa può imparare l’uomo?”

    Per il cardinale Burke il libro di don Nicola Bux “offre una profonda e nello stesso tempo accessibile catechesi sulla natura del culto divino” e lo fa  anche  “affrontando la stagione postconciliare degli abusi liturgici, chiamandoci alla obbedienza alla disciplina liturgica che ci permette di vedere più chiaramente e rispettare più pienamente la realtà della Sacra Liturgia, cioè l’azione della quale Cristo stesso è il protagonista”.

    Da parte sua il cardinale Cañizares Llovera  ha suggerito che  non è bene  “mescolare” nella formazione le due forme del Rito romano, quella ordinaria  e quella straordinaria. Cañizares ha condiviso la preoccupazione di don Bux che ''si indebolisca la fede se non si entra in tutta la verita' del mistero eucaristico''. La riforma liturgica, si e' chiesto il porporato, ''si sta realizzando nella coscienza di tutti, oppure no?'', e ''tutto cio' che viene dopo il Concilio si puo' chiamare rinnovamento conciliare?''.

    Il libro di padre Bux parla della  ''trascuratezza dei preti e della ignoranza dei fedeli'', preghiere dei laici che sembrano ''mini-omelie'', ''corruzione egalitaria dell'idea di comunione'', ''riduzione politica della liturgia attraverso l'annullamento della differenza tra celebrante e popolo'', ''intrattenimento e spettacolo'' in luogo di ''ascolto del mistero e rendimento di grazie''.

    Una analisi allarmata che però non porta ad un  testo polemico, ma ad un vero e proprio manuale: spiega al lettore cosa sia la messa, ne illustra le varie parti, ne chiarisce simboli e preghiere.  Ci vogliono ''almeno 25 anni, una intera generazione'' per quella ''riforma della riforma liturgica auspicata anche da papa Ratzinger'', e per una ''correzione di rotta'' che riporti il ''sacro'' al centro della messa e ristabilisca il ''diritto di Dio'' ha detto don Nicola Bux.
    La chiave di lettura resta il rinnovamento nella continuita' auspicato dal Papa nel suo storico discorso alla Curia del dicembre 2005, quando parlo' di ''ermeneutica della riforma'' contrapposta alla “ermeneutica della discontinuità”.

    CARI SACERDOTI E CARI VESCOVI, CELEBRATE LA MESSA ORDINARIA COME LA CELEBRA IL PAPA, CON IL CROCEFISSO SULL'ALTARE, IL SILENZIO, IL CANONE IN LATINO.... L'EUCARESTIA IN GINOCCHIO ED ALLA BOCCA.....


    ***************************************

    Don Bux: “Sarà pure messa antica. Ma con una massa di giovani”

    ago 3, 2011 by

     MESSA ANTICA: MASSA DI GIOVANI

    Don Nicola Bux, una chiacchierata nella sua Puglia

    don Bux

     

    Messa Antica di don Bux in Puglia

    I vescovi che disobbediscono al papa non pretendano d’essere poi obbediti da clero e fedeli. Negli episcopati: un gallicanesimo strisciante che si crede autosufficiente.

    La riforma litugica: non era una delle impellenze volute dal concilio.

    L’esclusivismo di chi si professa ecumenico.

     

    a cura di Francesco Mastromatteo

     

    Una inarrestabile crescita di consensi, specie presso i giovani. Non ha dubbi don Nicola Bux circa l’avanzata della Tradizione cattolica soprattutto tra le giovani generazioni in seguito al Motu Proprio con cui Benedetto XVI ha “liberalizzato” il rito antico ormai quattro anni fa. Abbiamo chiesto a don Nicola, professore dell’università Lateranense, insigne teologo e studioso di liturgia molto vicino a Papa Ratzinger, un bilancio della situazione, dal punto di vista privilegiato di uno dei massimi cultori della materia liturgica. Lo abbiamo incontrato nel corso di un dibattito politico a margine del quale non ha lesinato critiche apertis verbis a un sottosegretario dell’attuale governo, la cui dichiarata fede cattolica e vicinanza ai movimenti pro-vita non ha impedito di votare un finanziamento a Radio Radicale, come del resto hanno fatto altri parlamentari cattolici.

     

    Don Bux, persino l’inserto di un quotidiano non certo filo cattolico come Repubblica ha dovuto riservare un servizio alla diffusione della messa in latino secondo il Messale del 1962. Qualcosa sta cambiando?

    Il bilancio è senz’altro positivo: c’è un crescendo di tale opportunità data dal Papa a tutta la Chiesa. Essa si è diffusa senza imposizioni, dopo che il Motu Proprio del 2007 ha aperto una breccia. Si è ormai fatta strada l’idea che il rito antico non è mai stato abolito, e che la riforma liturgica non era una delle necessità impellenti volute dal Concilio. L’ostilità verso la messa in latino era sostenuta attraverso tesi infondate, come quella per cui nei primi secoli il sacerdote celebrasse rivolto verso il popolo, mentre dopo avrebbe dato le spalle al popolo: espressione fasulla, visto che il sacerdote era rivolto verso il Signore.

    Una Messa antica ma amata dai giovani: non è un paradosso?

    Basta andare in giro come faccio io per celebrazioni e conferenze: non solo in Italia ma all’estero il rito antico si diffonde sempre più proprio tra i più giovani. A mio parere ciò è dovuto al fatto che i ragazzi si approcciano alla fede ricercando il senso del Mistero, e lo trovano in maniera evidente nella Messa celebrata in forma straordinaria. Il ritorno al rito tradizionale non è secondario per la fede: esso favorisce in una dimensione verticale l’incontro con Dio in un mondo contemporaneo in cui lo sguardo dell’uomo è ripiegato su se stesso e sulla dimensione materiale dell’esistenza. In questo senso ha favorito una sorta di “contagio” spirituale benefico.

    Qualche mese fa la Pontificia Commissione Ecclesia Dei ha emanato un documento, l’istruzione sull’applicazione del Motu Proprio. C’è chi ha parlato di una sorta di richiamo ai vescovi a venire incontro alle richieste dei fedeli…

    È una traduzione in indicazioni concrete del Motu Proprio. La media dei vescovi, che all’inizio erano perplessi, ora può cominciare a muoversi nella direzione giusta. Questa istruzione incoraggia i vescovi ad esaudire le richieste dei fedeli sensibili alla messa antica, che deve essere considerata da tutti una ricchezza della liturgia romana.

    Non è un mistero che parecchi episcopati non abbiano apprezzato questa scelta, e cerchino in tutti i modi di ostacolarla, comportandosi da veri e propri ribelli verso il Papa…

    Esiste senz’altro una forma di neogallicanesimo strisciante, per cui alcuni settori della Chiesa pensano di essere autosufficienti da Roma. Ma chi ragiona in questi termini non è cattolico. I vescovi che disobbediscono al Papa si mettono nelle condizioni di non essere a loro volta obbediti da parroci e fedeli.

    Nella Chiesa si è sempre detto: lex orandi lex credendi. La liturgia è saldamente legata alla teologia. Papa Benedetto XVI ha fissato come bussola del suo Magistero la continuità con la Tradizione e un gesto forte è stato quello di togliere la scomunica ai lefebvriani. Cosa ne pensa?

    Penso sia stato un gesto di grande carità. Rompere la comunione è facile, il difficile è ricucire, ma Cristo ha voluto che fossimo tutti una sola cosa e questo per noi deve essere un imperativo. L’opera meritoria del Papa evidenzia la sua grande pazienza, ma d’altronde se così non fosse assisteremmo ad un paradosso: mentre si postula tanto il dialogo con i non cattolici e addirittura con i non cristiani, come si può essere pregiudizialmente ostili all’idea di riunirsi con chi ha la stessa fede? Lo stesso Benedetto XVI in quell’occasione citò opportunamente la lettera di San Paolo ai Galati: “Se vi mordete e divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri”. Il dramma attuale della Chiesa è l’esclusivismo da parte di chi si professa ecumenico.

    In questa occasione si parlava di politica e valori. “Questione morale” è un’espressione di cui molti esponenti di partito si riempiono la bocca…

    Sento parlare molto in giro della necessità di “codici etici” per i partiti, ma di un’etica non meglio precisata. Può mai derivare dall’uomo la fonte di ciò che è bene o male? Bisognerebbe tornare ai Dieci Comandamenti, le uniche vere tavole etiche che derivano da Dio.

     





    [Modificato da Caterina63 07/08/2011 18:56]
    Fraternamente CaterinaLD

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    00 06/04/2011 18:50
    don Bux Don Bux, collaboratore del Papa: senza forma non esiste la liturgia
    L'intervista: sull'adeguamento liturgico ci sono state cattive interpretazioni

    di Andrea Zambrano

    REGGIO EMILIA (6 aprile 2011) - "Le chiese devono essere luoghi di culto, non auditorium". E’ questo il giudizio di fondo che il consultore dell’ufficio delle celebrazioni del sommo pontificie don Nicola Bux dà di molti adeguamenti liturgici operati in molte chiese negli ultimi anni. Don Bux sarà protagonista giovedì sera alle 21 dell’incontro promosso nella Sala del Capitano del  Popolo dalla delegazione Emilia Occidentale dell’Ordine di Malta, con Italia Nostra, il Museo dei Cappuccini e il circolo Frassati di  Correggio e chiamato “Liturgia romana e arte sacra fra innovazione  tradizione”. Con Bux, ormai una conoscenza di molti fedeli (è la terza volta che viene nel Reggiano in pochi anni), parleranno anche don Enrico Mazza e l’ex sovrintendente Elio Garzillo.
    Sarà inevitabile toccare anche il tema dell’adeguamento liturgico della Cattedrale di Reggio dopo il complesso restauro architettonico degli anni scorsi. Il GdR ha intervistato in anteprima don Bux, collaboratore di Papa Benedetto XVI non solo sui temi della liturgia, ma anche nella Congregazione della dottrina della fede.

    Don Bux, che cos’è l’adeguamento liturgico?

    E’ un’espressione coniata negli anni dopo il Concilio Vaticano II per indicare i lavori ritenuti necessari affinché le antiche chiese potessero essere più idonee alle celebrazioni secondo la forma rinnovata del rito Romano.

    E quali risultati ha prodotto?

    L’adeguamento è partito con l’intento di operare quei ritocchi per favorire la celebrazioni dei sacramenti, ma si è imposto soprattutto il tema della messa celebrata con l’altare verso il popolo. Un adeguamento vistoso del quale si è abusato.

    Perchè?


    Perchè lo stesso messale non dice mai che il celebrante non deve essere di spalle al popolo. E questo è dimostrato dal fatto che per ben tre volte, subito dopo l’offertorio, nell’ecce agnus Dei e nella benedizione finale si prescrive che il sacerdote si rivolga al popolo. Ne consegue che durante la celebrazione l’orientamento deve essere un altro.

    Cioè spalle al popolo...

    Non propriamente. Questa è una male interpretazione dello stesso messale di Palo VI e una forzatura che ha fatto si che si pensasse che dare le spalle al popolo fosse un atto di maleducazione. Come dire: “Scusate la spalle”.

    Dunque?

    Dunque è una questione di orientamento verso il Signore che viene. Ecco perchè la tradizione ci ha consegnato le celebrazioni con il sacerdote e i fedeli entrambi rivolti ad oriente, simbolo del Signore che viene e successivamente indicato nella croce. In sostanza il rivolgersi al popolo era indicato come una possibilità.

    Così la critica principale è che il sacerdote non è in comunione con i fedeli...


    Infatti Benedetto XVI, già da cardinale insisteva sul fatto che se il popolo è rivolto al crocifisso e con lui il sacerdote, tutti rivolgono lo sguardo a Cristo, che è l’aspetto centrale della liturgia. Come diceva Ratzinger con il sacerdote fronte al popolo si chiude il cerchio all’incontro con il Signore.

    Come si può risolvere la questione?

    Come ha giustamente proposto il Santo Padre, sarebbe opportuno che con la stessa posizione, si inserisse una croce sull’altare in modo che tutti possano avere in primo piano il soggetto centrale della liturgia: Cristo che viene. E’ bene che i sacerdoti sappiano spiegare che la loro posizione deve essere funzionaleall’orientamento della celebrazione.

    Quali altri temi toccherà domani?

    L’incontro è promosso dal desiderio di molti laici, preoccupati che il cosiddetto adeguamento non vada in collisione con il rispetto della tradizione. In questo caso nella Cattedrale di Reggio anche con l’aiuto del professor Mazza si vuole cercare di offrire gli strumenti per capire che è il popolo che si deve adeguare alla liturgia e non il contrario.

    Un tema dibattuto a Reggio è quello della sede episcopale, portata giù dal presbiterio e davanti all’assemblea...

    La sede non è l’elemento più importante in un edificio sacro. Prima vengono l’altare, la croce e il tabernacolo, che sono il segno della presenza divina permanente in mezzo al popolo. Per importanza, dopo l’ambone, quello che una volta era chiamato pulpito o pergamo e che era funzionale a stare in mezzo all’assemblea per ragioni acustiche, c’è la sede della presidenza.

    Ma dove deve essere collocata?

    Nelle chiese primitive siriache, eredi delle sinagoghe la sede era in testa all’assemblea, come oggi avviene quando a teatro si riserva la poltrona centrale all’autorità. Ben presto la sede di chi presiede è stata posta in testa all’assemblea a sinistra o a destra in una posizione di raccordo tra l’assemblea e l’altare.

    Qual è la posizione ideale?

    In testa alla gradinata, come ancor oggi fanno gli orientali che mettono la sede del patriarca in testa all’assemblea, ma non frontale. E’ bene poi che i posti dei fedeli non siano trasversali o diagonali, ma guardino tutti con un unico sguardo.

    Dunque sul presbiterio, non in basso?

    Il luogo dei sacerdoti e del vescovo è il presbiterio, lo dice il nome stesso. Il fatto che la sede sia posta in basso confonde le idee.

    Le potrei obiettare che anche il vescovo fa parte del popolo di Dio...


    E’ vero, ma anche la tradizione ha un suo peso. Non bisogna cadere nel populismo. Lo stare insieme ai fedeli non dipende dalla posizione.

    Quanto pesa in questo discorso l’accusa di eccessivo formalismo?

    Una cosa è la forma, un’altra il formalismo. Senza una forma la liturgia non esisterebbe e la sostanza sarebbe deforme. Il parlare di formalismo invece è un po’ ideologico e riduttivo. Ultimamente è in uso parlare di poli liturgici. Ebbene, nel rito romano deve prevalere l’unità.

    Un altro tema scottante è l’assenza di inginocchiatoi...


    Un’altra stranezza a cui si assiste talvolta. La liturgia prescrive di inginocchiarsi in certi momenti della messa. Il fatto è che il disincentivare l’inginocchiarsi rischia di ridurre la Chiesa ad un auditorium o la liturgia a intrattenimento. Invece il Papa ci ricorda che la liturgia è adorazione e il suo segno esteriore più visibile è proprio il mettersi in ginocchio.

    Quanto conta nelle chiese la conservazione di manufatti artistici e l’introduzione di nuove opere moderne?


    Ci vuole sempre del gusto nelle cose. Stranamente oggi si tende a musealizzare tutte le bellezze e gli  arredi, ma le cose vanno in un museo se non sono più fruibili. In molti casi invece arredi e suppellettili sono espressione della pietà del popolo e dei sacrifici che sono stati fatti per introdurli. Sempre che parliamo di oggetti che servano non per la nostra gloria personale, ma per quella di Dio. La stessa cosa vale per i paramenti. A volte il sacerdote mette o toglie paramenti a seconda del suo gusto o della sua comodità, come se fosse un abbigliamento privato. In realtà sono l’espressione dell’oggettività del rito che viene affidato al ministro, anche se indegno moralmente.

     

    *********************

     

    Etsi Deus non daretur




    di don Matteo De Meo

    Sicuramente la genesi di gran parte del crollo della Liturgia, a cui da decenni stiamo assistendo nella Chiesa, è da rintracciarsi in ciò che Sua Eminenza il Cardinal Raymond Leo Burke ha acutamente evidenziato all’inizio della sua Lectio magistralis: “...un’esasperata attenzione rivolta all’aspetto umano della liturgia...” ovvero la sua secolarizzazione.

    Essa si dettaglia in tutti quegli infiniti e variegati tentativi di “adeguamento” tra la fede e il suo linguaggio da una parte e il mondo dall'altra, tra liturgia e mondo. Un mondo, però, che viene sempre più concepito etsi Deus non daretur. E proprio Benedetto XVI ha affermato che “la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal culto della liturgia che talvolta viene addirittura concepita etsi Deus non daretur”.

    Negli ultimi anni la secolarizzazione è stata analizzata, descritta e definita in molti modi, ma, per quanto ne sappia, nessuna di queste descrizioni ha sottolineato un punto che ritengo sia essenziale e che rivela in effetti meglio di ogni altra cosa la vera natura della secolarizzazione. La secolarizzazione, a mio avviso, è innanzitutto una negazione del culto. Sottolineo: non una negazione dell’esistenza di Dio, o di un qualche tipo di trascendenza e quindi di ogni sorta di religione. Se il secolarismo in termini teologici è un’eresia, si tratta innanzitutto di un’eresia sull’uomo. È la negazione dell’uomo in quanto essere che adora, in quanto homo adorans: colui per il quale l’adorazione è l’atto fondamentale, che allo stesso tempo “colloca” la sua umanità e la compie. È il rifiuto “decisivo” ontologicamente ed epistemologicamente, delle parole, che “sempre, dovunque e per tutti” sono state la vera “epifania” del rapporto dell’uomo con Dio, con il mondo e con sé stesso.

    Questa definizione di secolarizzazione ha certamente bisogno di una precisazione. E ovviamente non può essere accettata da coloro che, assai numerosi, oggi, consapevolmente o inconsapevolmente, riducono il cristianesimo in categorie intellettuali (“credenza futura”) o in categorie etico-sociologiche (“servizio cristiano al mondo”), e che quindi pensano debba essere possibile trovare non solo un qualche tipo di adeguamento, ma anche un’armonia profonda tra la nostra “età secolare”, da un lato e il culto, dall’altro. Se i fautori di ciò che fondamentalmente non è altro che l’accettazione cristiana della secolarizzazione sono nel giusto, allora naturalmente tutto il nostro problema è solo quello di trovare o inventare un culto più accettabile, più “rilevante” per la moderna visione del mondo dell’uomo secolarizzato. E tale è, infatti, la direzione presa oggi dalla stragrande maggioranza dei riformatori liturgici. Quello che cercano è un culto le cui forme e contenuti “riflettano” i bisogni e le aspirazioni dell’uomo secolarizzato, o ancor meglio della secolarizzazione stessa. Un aspetto che ha la sua ricaduta in un vasto raggio dalla ritualità, all’arte e alla architettura sacra.

    Basti pensare che la “stessa incapacità dell’uomo di oggi di rapportarsi con il mistero” diventa un criterio per realizzare nuovi spazi liturgici (vedi Chiesa di Piano s. Giovanni Rotondo); o si traduce nel tentativo di entrare in dialogo con una certa cultura definita oggi proteiforme: “...l’architettura contemporanea è fluida, cangiante, proteiforme; così come un liquido si adatta al suo contenitore, essa si conforma alla sensibilità dell’artefice. Tutte le modalità di espressione artistica sono strettamente connesse alla soggettività...”- in questi termini si esprime D. Bagliani, docente al politecnico di Torino (opinione riportata in un articolo “Nuove Chiese, progetti da premio” di L. Servadio, in merito ai tre progetti pilota di nuove chiese vincenti alla quinta edizione del concorso Cei, 2009).

    Un edificio può mettere in evidenza il silenzio, un altro un certo connubio fra natura e architettura (bioarchitettura), un altro un certo collegamento tra passato e futuro; oppure può adottare semplicemente forme stravaganti: una gemma di roccia poggiata al suolo, con un ingresso che invita ad un senso di protezione, simbologie ricercate e analogie, ecc.
    Allo stesso modo questa "incapacità di rapportarsi col mistero" può tradursi nell'adozione nell’ambito dell’arte sacra di un astrattismo proprio dell’arte contemporanea: l’arte nella sua astrattezza e fluidità tenderebbe pertanto ad esprimere “l’inesprimibilità” del sacro e del mistero: “...anche le parole più astratte del Signore quale, via verità e vita, potrebbero essere rivestite di forma e colore...” (vedi T. Verdon in un suo articolo comparso sull’Osservatore Romano del 12 gennaio 2008).

    Sono solo alcuni esempi che ci rivelano un assoggettamento della liturgia, e quindi della stessa arte sacra e religiosa in genere, alla capacità di comprensione attuale. Il risultato è un vago spiritualismo, un simbolismo figurativo confuso e astratto, una liturgia intellettualizzata. A chiunque abbia avuto, sia pure una sola volta, la vera esperienza del culto, tutto questo si rivela subito come un semplice surrogato. Egli sa che il culto secolarista è semplicemente incompatibile con il vero culto. Ed è qui, in questo miserabile fallimento liturgico, i cui risultati terribili stiamo solo cominciando a vedere, che il secolarismo rivela il suo ultimo vuoto religioso e, non esiterò a dirlo, la sua essenza del tutto anti-cristiana.

    La società è ormai pervasa da questa mentalità secolarizzata che sembra non risparmiare nemmeno la Chiesa, aggredendo particolarmente l’integrità della Liturgia. Quelli che dovrebbero essere chiaramente definiti e condannati come abusi liturgici diventano sempre più la norma. Si celebra in ogni luogo, in ogni modo, e in ogni forma. É difficile ormai trovare una celebrazione “cattolica”, nel vero senso della parola, “unica e universale”. Non entriamo poi in merito degli edifici e degli spazi liturgici, dove convivono tranquillamente, banalità sciatteria e bruttezza. É difficile definirli “casa” ancor meno “casa di Dio”. Luoghi che consacrati per il culto a Dio possono tranquillamente essere usati per qualsiasi “celebrazione”, o spettacolo, o teatro, o conferenza col risultato di far perdere definitivamente la loro identità di luogo sacro.

    Ma non vorrei scadere nella mera polemica fine a se stessa!

    Per cui, ripetiamo ancora una volta, la secolarizzazione non è affatto identica all’ateismo, e per quanto paradossale possa sembrare, può essere dimostrato che essa ha sempre avuto un desiderio particolare per l’espressione “liturgica”. Se, tuttavia, la mia definizione è corretta, allora tutta questa ricerca di “adeguamento” perviene ad uno scopo irrimediabilmente morto, se non addirittura senza senso. Quindi la formulazione stessa del nostro tema – “liturgie secolarizzate” – vuol mettere in evidenza, a mio avviso, innanzitutto una contraddizione interna, in termini; una contraddizione che esprime l’impossibilità stessa di una “liturgia secolarizzata”.

    Rendere culto è, per definizione una azione, una realtà di dimensione cosmica, storica ed escatologica; è espressione, in tal modo, non solo di “pietà”, ma di una totalizzante “visione del mondo”. E quei pochi che si sono presi la pena di studiare il culto in generale e il culto cristiano, in particolare, (J. Ries, M. Eliade, per citare solo i più rappresentativi, che furono fra i primi nell’immediato post concilio a suonare il campanello d’allarme di una pericolosa ideologia di desacralizzazione all’interno della Chiesa stessa, e non vennero ascoltati) sarebbero certamente d’accordo che su un livello storico e fenomenologico questa nozione di culto è oggettivamente verificabile.
    Il secolarismo, ho detto, è soprattutto una negazione del culto. E, in effetti, se quello che abbiamo detto circa il culto è vero, non è altrettanto vero che il secolarismo consiste nel rifiuto, esplicito o implicito, precisamente di quella concezione dell'uomo e del mondo che proprio il culto ha lo scopo di esprimere e comunicare?

    da Fides et Forma, tit. orig. La secolarizzazione Liturgica come negazione del Culto
    immagine da fsspvenezia


    [Modificato da Caterina63 02/08/2011 09:20]
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    00 01/09/2011 22:00

    Don Bux in Sicilia: l'inarrestabile fascino della Tradizione








    Un tripudio di fedeli, ma soprattutto, tantissimi giovani per la Messa solenne che è stata celebrata venberdì 26 agosto scorso a Biancavilla, per la prima volta dopo la riforma liturgica post-conciliare. Se a Roma, nel maggio scorso, avevamo assistito ad un esercito di sacerdoti fedeli alla tradizione, qui c’è stata la novità di una falange di giovanissimi ministranti (età media 16 anni) innamorati della Tradizione, provenienti  dalle Parrocchie di Biancavilla, coordinati dal Collegio liturgico “Card. Francica Nava” di Catania. Ritornano in mente le parole dell’antico inno: Qual falange di Cristo Redentore…!  
    I canti della liturgia sono stati animati dai giovani dell'Associazione "Maria SS. dell'Elemosina" di Biancavilla diretti dal M° Giuseppe Malgioglio, di Catania, con la straordinaria partecipazione del M° Paolo Cipolla.

    La Basilia Santuario era gremita di fedeli che in orante silenzio hanno assistito al solenne rito celebrato da don Nicola Bux,  con l’assistenza di Don Ambrogio Monforte (novello sacerdote) e di un diacono permanente, entrambi della diocesi di Catania.  

    Nella conferenza don Nicola ha sottolineato proprio questa straordinaria presenza di giovani dicendo testualmente: “Lo Spirito Santo soffia dove vuole e come vuole. Arriverà il momento in cui non potrà essere ignorato, neanche dai Vescovi! Questo movimento inarrestabile è frutto dello Spirito Santo… e di internet!”.  
    Nel Suo intervento, inoltre, don Nicola si è soffermato sul necessario recupero del concetto del “Sacro”. “L’uomo – ha detto – ha bisogno del sacro, che altro non è se non la presenza di Dio. A noi spetta il compito di portare Cristo nel mondo, per proseguire la Sua opera, santificando il mondo laddove esso deve essere sanato dall’azione redentrice di Cristo”.

    Grazie all’avviso su Messa in latino sono venuti a conoscenza della celebrazione anche amici di Catania, Acireale, Siracusa, Lentini, Noto, Paternò e Monreale che hanno preso parte alla serata. Tra di essi anche diversi seminaristi. Tra i molti messaggi significativi proposti da don Nicola, vi è stato  l’invito a creare un coordinamento regionale in Sicilia, come già realizzato con frutto in altre regioni d’Italia (ad es. in Puglia).  

    Ulteriori foto sono pubblicate sul sito: www.santamariaelemosina.it 


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 24/05/2012 19:01

    Don Nicola Bux. La riforma liturgica del Concilio Vaticano II nell’insegnamento di Benedetto XVI



    (Relazione al Convegno sul Summorum Pontificum – Madrid, 24 aprile 2010)

    1. “Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv 13,1) in Gesù Cristo crocifisso e risorto”[1]. Se Dio sparisce dall’orizzonte dell’uomo, questi perde l’orientamento con le conseguenze deleterie che constatiamo, in primis la deriva etica e l’immoralità. Ora, la Chiesa e il Successore di Pietro esistono per condurre gli uomini a Dio e in secondo luogo unire i credenti. Queste le ragioni addotte da Benedetto XVI, della revoca della scomunica ai vescovi della Fraternità S.Pio X fondata da Mons. Marcel Lefebvre.
     
    Queste ragioni si ritrovano nel Proemio della Costituzione sulla sacra Liturgia, il primo testo fondamentale del concilio ecumenico Vaticano II, che “ritiene suo dovere interessarsi in modo speciale anche della riforma (instaurandam) e dell’incremento (fovendam) della Liturgia” (1). Quantunque si parli nei testi magisteriali di “riforma liturgica del Concilio (liturgica Concilii reformatio)”[2], il verbo ‘instaurare’ – tanto in latino tanto in italiano – va inteso come restaurare e non già come trasformare. ‘Instaurare’, allora, significare ‘ritornare ai fondamenti’. Mi sembra questo il senso di ‘riforma’ nell’insegnamento di Benedetto XVI e prima di Joseph Ratzinger teologo e prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede: “Io sono evidentemente per il Vaticano II, che ci ha portato tante belle cose. Ma dichiarare ciò insuperabile e giudicare inaccettabile ogni riflessione su ciò che noi dobbiamo riprendere dalla storia della Chiesa, ecco un settarismo che io non accetto! […] io sono per la stabilità! Se si cambia la liturgia ogni giorno, essa non è più vivibile! Bisogna anche avere un po’ di memoria: personalmente, tutto quello che ho vissuto in più di settanta anni ha nutrito la mia spiritualità. Ma, d’altra parte, il fissismo – “Ora tutto è fatto…” – è comunque sbagliato. Infatti, spetta ad ogni generazione valutare ciò che si può migliorare per essere sempre più conformi alle origini e al vero spirito della liturgia. E io penso che ci sia effettivamente materia anche oggi, per la nuova generazione, per “riformare la riforma”. Non attraverso delle rivoluzioni (io sono un riformista, non un rivoluzionario…), ma cambiando ciò che deve essere cambiato. Dichiarare ogni riforma impossibile mi sembrerebbe un dogmatismo assurdo”[3].
     
    2. Ora veniamo alla liturgia come intesa dalla Costituzione liturgica. La Chiesa è una realtà divina e umana, permanentemente rivolta a Gesù Cristo che riconosce presente in mezzo a lei grazie alla potenza dello Spirito Santo (cfr Sacrosanctum Concilium 7): tale riconoscimento si chiama adorazione, cioè una religione o relazione di culto pubblico integrale o – dal greco – liturgia, che imita quella celeste come è descritta nell’Apocalisse (cfr ivi). Lo sforzo imitativo tra quella celebrata in terra e la celeste porta necessariamente a deformazioni che necessitano poi di ri-forme, a cominciare da quella di se stessi, cioè della Chiesa e quindi della liturgia. Il fine della liturgia è la gloria e l’adorazione del Signore e non l’esibizione o peggio esaltazione di sé. Più l’uomo dà gloria a Dio Padre e più si salva. Bisogna sapere che il cielo è aperto da quando Gesù Cristo il Figlio di Dio vi è salito con l’Ascensione e dal quale egli scende nella liturgia con tutti i suoi santi (cfr 8). Tale esercizio di mediazione tra Dio e l’uomo è la liturgia e lo compie il sacerdote, dal latino ‘sacrum’, perciò “è azione sacra per eccellenza”( 7). Sacro non è la stessa cosa di santo: sono due concetti diversi. Il primo termine riguarda cose fisiche o giuridiche (la vita, la legge…); il secondo la persona. Un fedele laico può essere un santo, un sacerdote può non essere santo, anche se è un ministro sacro. Infatti può amministrare ‘cose sante’, i sacramenti, ma non essere santo. La definizione del sacro è l’irruzione della Presenza divina, della vita soprannaturale, il massimo di vita e di purezza: è questo il criterio per ordinare i segni nella liturgia.
     
    La sacra o divina liturgia – termini con cui è definita rispettivamente dai latini e dagli orientali “non è una rappresentazione fredda e priva di vita degli eventi del passato o un semplice e vuoto ricordo di un tempo passato. Ma piuttosto Cristo stesso sempre vivente nella sua Chiesa” [4]. La presenza di Cristo cambia nel suo essere l’uomo, toccando e santificando tutti i momenti della vita [5], unendo gli uomini e proponendo la Chiesa quale segno di salvezza che raccoglie i dispersi[6]. Così scrive Pio XII nella enciclica Mediator Dei, fondamentale per comprendere la Costituzione liturgica: si capisce meglio la celebre frase: “la liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù” (cfr 10). Soprattutto “i segni visibili, di cui la sacra liturgia si serve per significare le realtà divine invisibili, sono stati scelti da Cristo o dalla Chiesa”(33): questo è essenziale per capire la sua sacralità, quindi la sua immutabilità. È di istituzione divina, possiamo dire di diritto divino ed è opus publicum. Si configura qui l’ ius o dimensione giuridica della liturgia. Forse la valutazione di alcuni studiosi per i quali “SC 21 distingue la parte mutabile della liturgia dalla parte immutabile senza però definire quale quest’ultima sia”[7] può essere riveduta almeno quanto ai principi.
     
    Quindi l’ “accurata riforma generale” della liturgia che il Vaticano II riprendeva in continuità con la Mediator Dei e l’opera di Pio XII aveva tali intenti; non certo toccare questa “parte immutabile, perchè di istituzione divina” (Sacrosanctum Concilium 21), ma quelle parti in cui “si fossero insinuati elementi meno rispondenti all’intima natura della liturgia, o si fossero resi meno opportuni” (ivi). Tale riforma doveva tener conto di alcune norme generali: che regolare la sacra liturgia compete unicamente alla Sede Apostolica e, a norma del diritto (non in deroga ma in applicazione), al vescovo ed entro certi limiti alle assemblee episcopali territoriali. “Perciò nessun altro, assolutamente, anche se sacerdote, aggiunga, tolga o muti alcunché di sua iniziativa, in materia liturgica”(22,3); anche per il fatto che: “Le azioni liturgiche non sono azioni private, ma celebrazioni della Chiesa …” (26).
     
    La Costituzione liturgica pone una condizione per la riforma: “Per conservare la sana tradizione e aprire però la via ad un legittimo progresso, la revisione delle singole parti della liturgia deve essere sempre preceduta da un’accurata investigazione teologica, storica e pastorale. Inoltre si prendano in considerazione sia le leggi generali della struttura e dello spirito della liturgia, sia l’esperienza derivante dalla più recente riforma liturgica e dagli indulti qua e là concessi. Infine, non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa, e con l’avvertenza che le nuove forme scaturiscano in maniera in qualche modo organica da quelle già esistenti. Si evitino anche, per quanto è possibile, notevoli differenze di riti tra regioni confinanti”(23).
     
    Si deve constatare, insieme ad autorevoli studiosi che pure erano stati periti conciliari, che tale auspicio è stato disatteso. Un esempio: la Costituzione liturgica raccomanda che i riti non abbiano bisogno di molte spiegazioni (cfr ivi, 23), ma solo nei momenti più opportuni (cfr 35,3); invece si assiste a liturgie dove l’eloquenza dei segni è subissata da una colluvie di parole e didascalie che impediscono ai primi di parlare al cuore del fedele.
     
    Un altro esempio: si invita a ristabilire nella Messa ciò che è caduto in disuso, secondo la tradizione dei padri (cfr 50): l’uso del latino, da conservare nei riti latini (cfr 36,1), mentre la lingua volgare si concede nelle letture e monizioni, in alcune preghiere e canti, nell’orazione comune e altre parti spettanti al popolo (cfr 54); si esorta anche a che “si abbia cura però che i fedeli possano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’Ordinario della Messa che spettano ad essi”(54); per i chierici l’ufficio divino in lingua latina (cfr 101,1). Perché il latino? La liturgia non è una devozione privata nella quale rivolgersi a Dio in modo individuale, con la propria lingua, ma azione pubblica della Chiesa che per l’occidente ha la sua lingua liturgica e sacra, il latino, fattore di unità ecclesiale oltre che culturale. Inoltre, il latino è garanzia di ortodossia del linguaggio dottrinale e liturgico. Certo, la comunicazione di Dio all’uomo nella Scrittura è giusto che per essere compresa possa avvenire nella liturgia anche in lingua vernacola; ma è altrettanto degno e giusto che la comunicazione della Chiesa col Signore avvenga ‘una voce dicentes’, come fa comprendere l’espressione conclusiva del prefazio: e il latino esprime ciò adeguatamente. Gli orientali questo principio l’hanno conservato, usando, per esempio, l’aramaico, il greco antico e lo slavo ecclesiastico. Poi, non conserviamo nella liturgia latina parole ebraiche e greche come amen, alleluia, osanna? Nella cosiddetta società multiculturale odierna e con lo strumento di internet, l’argomento dell’incomprensibilità del latino è superato, in primis per i giovani.
     
    Così per il gregoriano: la Costituzione liturgica afferma che è riconosciuto dalla Chiesa e gli è riservato nella liturgia il posto principale perchè è il canto proprio della liturgia romana (cfr 116) e i suoi libri sono da rieditare: lo ha fatto Paolo VI col Graduale simplex (36,1, 37 e 117). Il gregoriano è musica sacra perchè ha una oggettività che prescinde dal gusto soggettivo, anche se se ne serve. Perciò, va rimediata la sparizione del repertorio musicale rimpiazzato dalla musica derivata dalla cultura profana, secolarizzata e incompatibile col Vangelo. Quanto all’arte sacra, per garantirla la Chiesa si riserva il diritto di essere arbitra delle forme artistiche (Ivi,122) e di valutare ciò che può essere ritenuto sacro perché rispondente alla fede, alla pietà e ai canoni della tradizione (cioè le norme religiosamente tramandate), allontanando dalla casa di Dio quelle contrarie “che offendono il genuino senso religioso,o perché depravate nelle forme, o perché mancanti, mediocri o false nell’espressione artistica”(124). In tal senso la Costituzione invita alla revisione dei canoni dell’arte sacra (cfr 128).
     
    3. C’è un insegnamento previo di J. Ratzinger che traduce la Costituzione liturgica: da dottore privato, teologo perito del Concilio e prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha prodotto studi alcuni dei quali ora raccolti nell’Opera omnia e in parte reperibili in Davanti al Protagonista e soprattutto nell’Introduzione allo spirito della liturgia tradotto in molte lingue. Da collaboratore di Giovanni Paolo II, nella enciclica Ecclesia de Eucharistia a cui è seguita la Istruzione Redemptionis sacramentum.
     
    Alcuni mesi prima dell’elezione pontificia, egli si è appellato ad un’altra riforma liturgica che rappresenterebbe un vero “sviluppo organico” in rapporto al movimento liturgico come si è svolto fino al 1948 e che ha preso corpo nelle riforme di Pio XII. Egli presenta la riforma post-conciliare come una deviazione della vera riforma pensata in Concilio e che questo stesso avrebbe voluto armonicamente continuare: non di rottura ma di continuità, per usare i termini da lui stesso usati nel celebre passaggio sull’ermeneutica del Concilio nel discorso tenuto alla Curia Romana il 22 dicembre 2005 a pochi mesi dall’elezione. Paolo VI aveva istituito un Consilium ad exsequendam (per eseguire) la Costituzione liturgica non per interpretarla o stravolgerla. Ci sarà bisogno dello studio d’archivio, in specie del diario del segretario mons. Bugnini, per capire se le prime riforme postconciliari, quelle del 1964-1965, fossero nell’alveo stabilito dal concilio, prima della svolta radicale del 1967 con la cosiddetta “messa normativa” presentata al sinodo dei vescovi e che sorprese la maggior parte di loro: una messa nuova in cui era abolita la specificità essenziale della liturgia romana, cioè la preghiera eucaristica unica. Questo giudizio è condiviso oggi da non pochi liturgisti [8].
     
    Ora che è pontefice, con l’Esortazione Sacramentum caritatis e il Motu proprio Summorum Pontificum, si può parlare di avvio della “riforma della riforma”. La liturgia resta sempre «culmine e fonte» della vita della Chiesa (cfr Sacramentum caritatis nn. 3, 17, 70, 76, 83, 93).
     
    Dunque, nell’insegnamento di Benedetto XVI la riforma della liturgia deve avvenire in modo organico, modificarsi un po’ come si modifica il paesaggio, in modo impercettibile, naturale nell’evoluzione. In tal senso vanno intesi i principi generali per il restauro e l’incremento della liturgia nella Costituzione conciliare. La chiave per capire i successivi articoli è il 14: lo scopo della riforma è la partecipazione dei fedeli, ove il termine actuosa, tradotta con attiva, significa invece interna e contemplativa, di mente e di cuore [9]; così l’hanno sempre intesa e raccomandata la tradizione e i pontefici.
     
    Lo spirito da cui scaturisce la riforma è indicato nei n 15-19: la riforma comincia dall’educazione e formazione del clero, a cominciare dal seminario, e dei laici a partire dal catechismo, allo “spiritu et virtute liturgiae”, altrimenti si tratta di attivismo. I fondamenti della liturgia sono ora reperibili nel Catechismo della Chiesa Cattolica art. 1077-1112.
     
    L’alveo in cui deve rimanere la riforma dei riti è descritto, come già detto, nell’“avvertenza” di Sacrosanctum Concilium 23: “…che le nuove forme scaturiscano in maniera in qualche modo organica da quelle già esistenti”. Questo richiama l’art. 50 circa l’instaurazione di pratiche cadute in disuso. La frase cruciale del 23: “non si introducano innovazioni se non quando lo richieda una vera e accertata utilità della Chiesa” spiega che la riforma che il concilio dava mandato di fare, non era un ‘assegno in bianco’ per una riforma liturgica radicale, ma per una equilibrata e moderata, prudente e tradizionale. Per esempio, circa la riforma della Messa, la Commissione liturgica del Concilio aveva assicurato i padri così: “Hodiernus Ordo Missae, qui decursu saeculorum succrevit, retinendus est”[10]. Cosa è successo con quella promulgata nel 1969?
     
    4. Dunque il concilio ha voluto dire che la liturgia è suscettibile di riforma, ma deve essere uno sviluppo organico e non un’innovazione radicale. In tal senso si sono espressi studiosi come Jounel. La Chiesa non deve inventare le forme dei suoi riti, nati dalla tradizione apostolica, non deve la liturgia apparire come una rottura col passato o come una rivoluzione dei riti. La liturgia è vita e questa, ordinariamente non si sviluppa attraverso mutamenti repentini [11]. La riforma postconciliare è andata oltre i legittimi e tradizionali confini che il concilio stesso aveva stabilito: pur enunciando i principi in modo preciso “la loro forza normativa vien fortemente attenuata dalle non poche e sempre generiche eccezioni previste…A tali eccezioni, infatti, va ricondotta la rozza situazione di anarchia liturgica ch’è sotto gli occhi di tutti e sta quotidianamente ingigantendosi”[12].
     
    Se la liturgia ha subito seri danni, come va riparata? 1. Seguire il Papa che sa bene come fare; 2. Studiare; 3. Celebrare degnamente. “Ciò che era sacro rimane sacro”, ha scritto nel Motu proprio. Dove cominciare la riforma della riforma? “dalla presenza del sacro nei cuori, la realtà della liturgia e il suo mistero”[13]. Un mistero che ha bisogno di spazio interiore ed esteriore. Perciò vanno eliminate le “deformazioni della liturgia al limite del sopportabile”[14]. La liturgia non può essere fabbricata, perciò c’è bisogno di arricchimento vicendevole tra la forma antica ora straordinaria e quella nuova ordinaria: questa dovrà ispirarsi al carattere sacro e stabile della prima. Perchè nella liturgia Cristo diviene contemporaneo a noi.
     
    Ratzinger osserva che si è andati oltre col nuovo messale: così la crisi della Chiesa è dovuta alla crisi della liturgia, diventata senza regole, dimentica del ius divinum, self- made, “una danza vuota intorno al vitello d’oro che siamo noi stessi”[15]. E aggiunge: “Sono convinto che la crisi ecclesiale in cui oggi ci troviamo dipende in gran parte dal crollo della liturgia, che talvolta viene addirittura concepita […]come se in essa non importasse più se Dio c’è, e se ci parla e ci ascolta…”[16].
     
    Allora si può riassumere la riforma di Benedetto XVI in tre priorità:
    1. la nozione di participatio actuosa di ognuno alla Messa [17]: non troppe parole, non teatralizzazione, non spontaneismo e improvvisazione; salvaguardare il rito romano: per aprirci alle altre culture non dobbiamo dimenticare la nostra;
    2. il posto del silenzio ‘riverente’ nella Messa (cfr SC 30); perchè l’azione a cui prendere parte è il dono di Cristo sulla Croce; la Costituzione liturgica non chiede di essere ‘attivi’ in ogni parte della Messa, ma di fare l’offerta di sé e l’adorazione (con i segni di croce, le mani giunte, l’inginocchiarsi con riverenza), soprattutto il silenzio dei fedeli e del sacerdote.
    3. l’orientamento del sacerdote all’altare, specialmente dall’offertorio in poi. La posizione verso il popolo è stato un errore tragico, mutuato dal fraintendimento dell’Ultima Cena. Il sacerdote invece deve essere rivolto al Signore, il Sole che sorge, il Risorto e il veniente. Così la Chiesa ha espresso la vera forma della Messa cioè l’eucaristia “pignus futurae gloriae”, perché nella Messa la salvezza è incompleta. La Messa verso il popolo fa della liturgia un “cerchio chiuso”[18].
    Dunque, bisogna ripartire dalla teologia della liturgia per un nuovo movimento liturgico: “come il (primo) movimento liturgico, che ha preparato l’avvento del concilio Vaticano II, è cresciuto rapidamente in una corrente impetuosa, così anche in questo caso l’impulso dovrà venire da chi veramente vive la fede. Tutto dipenderà dall’esistenza di luoghi esemplari in cui la liturgia sia celebrata correttamente, in cui si possa vivere di persona ciò che questa è…”[19] . Esso è già in atto, di giovani fedeli laici. Basta andare su internet.
     
    È cominciata una riforma paziente: “in questo tempo in cui ci è richiesta la pazienza, questa forma quotidiana dell’amore. Un amore in cui sono presenti al tempo stesso la fede e la speranza”[20].
    _____________________
    [1] Benedetto XVI, Lettera ai Vescovihttp://www.internetica.it/BenedettoXVI-ai-VescoviCattolici.htm, 10 marzo 2009.
    [2] Cfr. Redemptionis sacramentum, n. 4; Ecclesia de Eucharistia, n. 10. [3] Davanti al Protagonista, Siena 2009, p 181.
    [4] Pio XII, Enciclica Mediator Dei; DS 3855.
    [5] Ivi, 61.
    [6] Ivi, 2.
    [7] R.Amerio, IotaUnum. Studio sulle variazioni della Chiesa cattolica nel secolo XX, a cura di E.M.Radaelli, Lindau,Torino 2009, p 561-562.
    [8] cfr C.Barthe, La Messe a l’endroit, Orthez 2020, p 34.
    [9] Cfr Introduzione allo spirito della liturgia, Cinisello B. 2001, p 171-177.
    [10] A.Reid, in Aa.Vv, The Genius of the Roman Rite. Historical, Theological and Pastoral Perspectives on Catholic Liturgy, ed.U.M.Lang, Chicago/Mundelein,Illinois,2010, p 208. [11] Cfr anche McManus, Bouyer, Jungmann in: ivi, p 204 s.
    [12] cfr B.Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II: un Discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento (Av), 2009, p 140. [13] Davanti al Protagonista, p 56-57.
    [14] Lettera ai vescovi in occasione della pubblicazione del Motu proprio Summorum Pontificum, 7 luglio 2007, n.5.
    [15] Via Crucis 2005: Meditazione IX stazione, Città del Vaticano 2005; cfr anche: Introduzione allo spirito della liturgia, p 19.
    [16] J.Ratzinger, La mia vita, San Paolo 1997, p 113.
    [17] Cfr Introduzione allo spirito della liturgia, p 168. [18] Ivi, p 77-78.
    [19] J.Ratzinger, Dio e il mondo, S.Paolo 2005, p 380.
    [20] V.Messori a colloquio con J.Ratzinger, Rapporto sulla fede, C. Balsamo 1985, p 10.
    ______________________
    [Fonte : missagregoriana.it]

    [Modificato da Caterina63 09/04/2016 16:33]
    Fraternamente CaterinaLD

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    00 27/09/2013 16:07
    Pubblicato in data 26/set/2013 da Don Leonardo


    I diritti di Dio e la liturgia.

    La liturgia della Chiesa dal Concilio Vaticano II ai nostri giorni. Conferenza di Mons. Nicola Bux e del Dottor Daniele Nigro, seguita da dibattito con i presenti, tenuta presso la sala san Michele arcangelo Giovedì 26 Settembre 2013

    DA NON PERDERE!!!!!




    [SM=g1740717]


    [SM=g1740722]

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    00 07/04/2016 23:59

    Grande affluenza e autorevoli esternazioni nel corso della presentazione del libro di don Nicola Bux


     


     



    Rossoporpora di oggi pubblica il resoconto di Giuseppe Rusconi della presentazione del libro di don Nicola Bux, “Con i sacramenti non si scherza”, da noi annunciato qui (con il testo della Prefazione curata da Vittorio Messori). Il titolo riporta una delle numerose autorevoli puntualizzazioni: quella del card. Sarah sugli abusi liturgici.

    Riprendiamo di seguito l'interessante informativa, i cui contenuti confermano le nostre posizioni su ognuno nei temi presi in considerazione. Interessante anche la sottolineatura delle molte presenze illustri - e relative affermazioni - nonché la segnalazione del considerevole numero di sacerdoti in talare.




    Presentato a Roma nel tardo pomeriggio (6 aprile), presente l’autore, il saggio-manuale di don Nicola Bux “Con i sacramenti non si scherza”. Gli interventi sobri e pungenti dei cardinali Sarah e Burke e dell’economista cattolico Ettore Gotti Tedeschi. Presentazione affollata, con un ‘parterre’ di rilievo anche rossoporpora


    ABUSI NELLA LITURGIA: PASSATO IL LIMITE DEL SOPPORTABILE
     
    Tra i momenti significativi della presentazione romana - nel tardo pomeriggio di mercoledì 6 aprile - del saggio-manuale di don Nicola Bux “Con i sacramenti non si scherza” - ce n’è stato uno che forse più di tutti può rendere il sentimento diffuso nell’affollata sala dell’Hotel Columbus. È stato quando, rispondendo a una domanda del giornalista Paolo Rodari (di origine ciellina) di ‘Repubblica’ che postulava un nuovo sguardo - “in positivo” - sui “cosiddetti abusi liturgici”, il cardinale Robert Sarah ha risposto che “un abuso non è mai positivo” (applauso a scena aperta) e che “ciò che il Concilio ha voluto, cioè rimettere Dio al centro” è stato negato dagli abusi con cui “si è scartato Dio nella liturgia”. Come, per fare un esempio, in una chiesa di Milano, dove il cardinale ha visto “il tabernacolo confinato in un piccolo spazio tra due enormi pilastri, fuori dell’assemblea liturgica”.

    L’appuntamento era di quelli “imperdibili”, sia per l’argomento – affrontato da un autore ben noto… basti pensare al precedente “Come andare a messa e non perdere la fede” – che per la presenza quali relatori dei cardinali Robert Sarah e Raymond L. Burke e dell’ex-presidente dello Ior Ettore Gotti Tedeschi. A introdurre la presentazione Jacopo Coghe (che è anche presidente della Manif pour tous Italia-Generazione Famiglia) e a porre una domanda conclusiva il già citato Paolo Rodari e Guillaume Ferluc (Paix Liturgique). Il libro è edito da Cantagalli, in collaborazione con la Fondazione baroni Paventi di san Bonaventura. Sono poco più di 200 pagine, ad uso e consumo “di ogni cattolico, praticante abituale o saltuario che sia. O anche, come capita sempre più spesso, semplicemente per una donna o un uomo in ricerca”, come scrive nella prefazione Vittorio Messori. Nel libro don Nicola Bux presenta metodicamente i sette sacramenti (e i sacramentali, cioè benedizioni, esorcismi, professioni, esequie) spiegandone l’origine, la sostanza, l’amministrazione e affrontandone i punti più delicati e spinosi.

    Nel parterre anche i cardinali Saraiva Martins, Brandműller, Farina e De Paolis, il nunzio apostolico negli Stati Uniti Carlo Maria Viganò, lo studioso del Concilio e pure nunzio apostolico (a riposo) Agostino Marchetto. Messaggi di adesione sono giunti tra gli altri dai cardinali Cottier (teologo emerito della Casa pontificia, deceduto qualche giorno fa), Műller, Erdö e Piacenza, oltre che dai vescovi Dal Covolo e Laffitte e dal maestro delle Cerimonie pontificie Guido Marini. In sala consistente la presenza giovanile di sacerdoti e seminaristi in talare.
    Qualche altra citazione dell’incontro, oltre a quella iniziale.

    CARD SARAH: I SACRAMENTI SONO COME FARMACI SALVAVITA. NON SI PUÒ SCHERZARE CON ESSI

    Deformazioni postconciliari: In questi decenni del postConcilio assistiamo a deformazioni della liturgia al limite del sopportabile, in un crescendo che non trova fine. Eppure nei sacramenti è in gioco la lex credendi.

    Sacramenti e farmaci: Come è possibile anche solo immaginarsi di prendersi gioco della presenza di Dio? Scherzare con i sacramenti? Si può scherzare con i farmaci che ti salvano e ti rimettono in salute?
    Declassamenti ingiustificati: Nel libro si mette al centro il sacramento dei sacramenti, il Santissimo, oggi inspiegabilmente declassato con la scusa che il Tabernacolo non può stare sull’altare, così come si dice per la Croce. Invece essi forniscono l’orientamento ad Dominum, così necessario in un tempo in cui molti vorrebbero vivere come se Dio non esistesse.

    Non pochi sacerdoti: I sacramenti subiscono deformazioni per decisione di non pochi sacerdoti che confondono i fedeli. Nei sacramenti ci sono i Misteri di Cristo. Certi preti hanno modi da conduttori tv nella celebrazione dei sacramenti.

    Per capire i sacramenti: Per capire i sacramenti non bisogna aprire gli occhi, ma chiuderli. I sacramenti non si capiscono con gli occhi della carne, ma con quelli interiori, dello spirito.

    Al Papa ho detto: Ho incontrato sabato scorso il Papa e gli ho detto che lui ha il potere di far cessare gli abusi, che hanno trasformato l’Eucarestia in spettacolo. E questo è il punto più grave.

    Il dono più grande (rispondendo a una domanda di Guillaume Ferluc): Il dono più grande che ho ricevuto da Giovanni Paolo II è lo stupore davanti al Santissimo, uno stupore che non fa paura, ma suscita un amore più grande per il Signore.

    CARD. BURKE: MONDANIZZAZIONE DELLA CHIESA E DECADENZA MORALE

    Da seminarista: Ho vissuto negli Stati Uniti come seminarista la riforma della liturgia dopo il Concilio. Si è diffusa una mentalità mondana, secolare, che ha disprezzato la ricca tradizione della Chiesa in un modo sciocco.

    Le conseguenze: Negli Stati Uniti abbiamo scoperto che la gente non va più in chiesa e più del 50% dei cattolici non crede che l’Eucaristia è il Corpo di Cristo. La mondanizzazione ha provocato una perdita della fede. Dall’approccio ‘nuovo’ alla liturgia si è originata anche una decadenza morale orribile.

    Creatività: La tendenza postconciliare a rifiutare il diritto di Dio nella liturgia, l’ha resa anarchica in nome della creatività.

    Testimonianza: La liturgia è testimonianza della Chiesa una e universale.

    Carità e giustizia: Non solo la giustizia non è estranea alla carità, ma è da lei inseparabile. La giustizia è la prima via della carità.

    ETTORE GOTTI TEDESCHI: LA CHIESA CONTRASTI LA DERIVA MORALE. NECESSARIO UN NUOVO EDITTO DI COSTANTINO

    Benvenuto: A voi coraggiosi cattolici, che avete avuto l’ardire di venire qui.
     
    Dottrina cattolica non insegnata: Il XXI secolo sarà il secolo che vedrà le conseguenze globali del degrado verificatosi grazie al non –insegnamento della dottrina cattolica (applauso)
     
    Editto di Costantino: Nel XXI secolo la Chiesa dovrebbe riflettere sull’avvio di una strategia fondamentale, riproponendo un nuovo Editto di Costantino a un mondo globale che si sta omologando nelle culture peggiori.
     
    Insopportabile: Da molto tempo si sta scherzando con i sacramenti in un modo che sta diventando insopportabile.
     
    All’origine la miseria morale: Non c’è nessuna miseria che non discenda dalla miseria morale, conseguenza della perdita del senso della vita delle persone, come aveva ben capito Benedetto XVI il Grande (applauso)
     
    Convertire i cuori: La Chiesa ha tre vie per cambiare i cuori degli uomini: il magistero, la preghiera e i sacramenti (l’Eucarestia innanzitutto).
     
    Il Tabernacolo di Fatima: L’ultimo dell’anno sono andato a Fatima con mia moglie. Nel santuario hanno spostato il Tabernacolo. C’è un Cristo orribile, arrabbiato e non c’è il Tabernacolo.
     
    L’idolatria peggiore: Oggi noi riteniamo che l’attaccamento al denaro sia l’idolatria peggiore. No, l’idolatria peggiore è a monte, è la cultura. È la cultura che corrompe l’uomo che usa male il denaro. Mammona è la cultura, che ha anche deformato la liturgia, influenzata com’è dal nichilismo contemporaneo. La liturgia è uno strumento di salvezza: se la cultura la trasforma, fa solo il male dell’uomo.
     
    DON NICOLA BUX: IL POPOLO FEDELE SI ALLONTANA DALLA CHIESA, INESORABILMENTE

    Don Giussani: Diceva don Giussani che bisogna al Signore che si compia la sua vittoria nel mondo. Bisogna vincere il male e la morte per mezzo di Gesù Cristo.
     
    Cultura dominante: Attenzione a non accarezzare la cultura laica, affiancandone gli idoli del momento. La Chiesa è tentata di rincorrere il sociale, per non ‘restare indietro’. Ma lo strumento del sacramento è la salvezza che vince il male dell’uomo.
     
    Crisi di fede: Oggi la Chiesa attraversa una crisi di fede. I preti parlano nella Messa per più della metà del tempo, uccidendo il rito. Non è solo la morte della liturgia, ma quella della fede.
     
    Piani pastorali ridicoli: Chi siamo noi per escogitare piani pastorali per i sacerdoti? Da quarant’anni si fanno (senza mai trarne un bilancio) e dopo quarant’anni il popolo italiano è diventato più ateo, più agnostico, il popolo fedele si allontana dalla Chiesa, inesorabilmente e la corruzione dilaga più di prima.
     



    Testo dell'intervento - in esclusiva - di S. Em.za card. Robert Sarah nel corso della Presentazione del nuovo libro di don Nicola Bux

    Pubblichiamo, in esclusiva assoluta, il testo dell’intervento di S. Em.za il card. Robert Sarah nel corso della presentazione del libro di don Nicola Bux lo scorso 6 aprile.Ringraziamo sentitamente S. Eminenza per averci onorato con tale suo prezioso ed interessante contributo.

     S. EM.ZA ROBERT Card. SARAH 
    Intervento

    Presentazione del libro di Mons. Nicola Bux,Con i Sacramenti non si scherzaRoma, 6 aprile 2016

    Fonte
    La Lettera agli Ebrei esorta a conservare la grazia divina in noi, infatti: «per suo mezzo rendiamo a Dio un culto gradito a lui, con riverenza e timore; perché il nostro Dio è un fuoco divoratore» (12, 29). Il nostro culto, quindi, è gradito a Dio, se è compiuto con riverenza e timore, in quanto si svolge alla sua Presenza. Anche la colletta del lunedì della IV settimana di Quaresima recita: «O Dio, che rinnovi il mondo con i tuoi sacramenti, fa che la comunità dei tuoi figli si edifichi con questi segni misteriosi della tua presenza e non resti priva del tuo aiuto per la vita di ogni giorno».

    La Presenza divina (Shekinah), alla quale si rivolgeva il culto d’Israele, è diventata sacramento grazie al mistero dell’incarnazione, della passione e risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo.Intorno a questo fatto, si sviluppa la ricerca e la riflessione di Nicola Bux nel libro che presentiamo, dando ragione anche del titolo:

    ‘Con i Sacramenti non si scherza’.

    Come è possibile anche soltanto immaginare di prendersi gioco della Presenza di Dio? Com’è possibile scherzare con i sacramenti, che sono i segni efficaci – potremmo dire i farmaci, soprattutto il farmaco dell’immortalità che è l’eucaristia – per guarire dalle ferite del peccato e rimetterci in salute?
    Si può scherzare con i farmaci? Certamente no.
    Eppure, come più volte ci ha ricordato Benedetto XVI, assistiamo, in questi decenni del post-concilio, a «deformazioni della liturgia al limite del sopportabile», quasi un crescendo che non trova fine. Per questo, Giovanni Paolo II, nell’Enciclica Ecclesia de Eucharistia, diede mandato per promulgare l’Istruzione Redemptionis Sacramentum, pubblicata nel 2004 dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, d’intesa con quella della Dottrina della Fede – perché nei Sacramenti è in gioco la lex credendi. 

    La stessa preoccupazione ha mosso Benedetto XVI a promulgare nel 2007, l’Esortazione Apostolica Sacramentum Caritatis e il Motu proprio Summorum Pontificum, convinto che solo dal rapporto tra il nuovo e l’antico, si sarebbe prodotto un contagio virtuoso, un arricchimento vicendevole per riequilibrare le sorti del rito romano. Quindi, bene fa l’Autore, a mettere in rapporto la fede e la liturgia dei sacramenti sia nella forma ordinaria che in quella straordinaria.Non scherzare coi sacramenti significa, innanzitutto, mettere al centro il Sacramento dei sacramenti, il Santissimo, oggi inspiegabilmente declassato, in nome di un fantomatico conflitto di segni: si dice che il tabernacolo non può stare sull’altare dove il Signore si rende presente nella Messa.

    Altrettanto è accaduto con la Croce. Invece, il tabernacolo e in special modo la Croce, fornisce l’orientamento ad Dominum, così necessario in questo tempo, in cui tanti vorrebbero farne a meno del Signore, o vivere come se Dio non esistesse, in modo da fare tutto quello che si vuole. Don Bux ricorda, nell’introduzione del suo libro, le parole di Geremia: «Invece della faccia mi voltarono le spalle» (Ger 7, 23-24) e le commenta così: «se Dio è nel sacramento, la liturgia odierna è, di fatto, ‘di spalle a Dio’. Non è servito aver riscoperto la sua cosiddetta dimensione escatologica: il Signore che viene a visitarci, come diciamo nel Benedictus, per salvarci; e nemmeno l’ecclesiologia di comunione, che discende dallo sguardo alla Trinità, non dal guardarsi tra sacerdote e popolo. La “svolta antropocentrica” ha portato nella Chiesa molta presenza dell’uomo, ma poca presenza di Dio».
    E in un altro passo del libro dice: «La dimenticanza di Dio è il pericolo più imminente del nostro tempo. A questa tendenza, la liturgia dovrebbe opporre la presenza di Dio. Ma che cosa accade se la dimenticanza di Dio entra persino nella liturgia, se nella liturgia pensiamo solo a noi stessi? La Chiesa volta le spalle al soprannaturale e cessa di consacrare il mondo. Così, “il cielo del cristianesimo è vuoto” – scrive il filosofo Umberto Galimberti – poiché, a suo giudizio, il cristianesimo non solo “ha perso la dimensione del sacro”, ma addirittura “ha desacralizzato il sacro” (Cfr. U. Galimberti, Cristianesimo. La religione dal cielo vuoto, Feltrinelli, Milano 2012).

    Lo ammette anche l’enciclica Lumen fidei: “La nostra cultura ha perso la percezione di questa presenza concreta di Dio, della sua azione nel mondo. Pensiamo che Dio si trovi solo al di là, in un altro livello di realtà, separato dai nostri rapporti concreti” (§ 17). Invece il sacro per i cristiani è la presenza di Dio e tutto ciò che gli attiene, pertanto: “Il risveglio della fede passa per il risveglio di un nuovo senso sacramentale della vita dell’uomo e dell’esistenza cristiana, mostrando come il visibile e il materiale si aprono verso il mistero dell’eterno” (Ivi, § 40)».

    I sacramenti sono un mezzo speciale per entrare in contatto con Dio.Nella crisi di senso che percorre il mondo, ecco la prospettiva di un libro sui sacramenti: aiutare i fedeli a riscoprire la liturgia sacramentale della Chiesa, nella sua pienezza di vita e di verità, e a rileggere la storia e il significato dei sacramenti cristiani, per rendere la propria fede vita vissuta, migliorando l’esistenza quotidiana dell’uomo. Ma anche a fornire uno strumento capace di soddisfare le curiosità di quanti si interessano del “problema fede”, dal punto di vista dell’evoluzione culturale e di costume.L’uomo odierno la «la necessità di essere toccata dal Signore.
    Quella è la fede che troviamo sempre e questa fede la suscita lo Spirito Santo».Con tale intento, il libro presenta i sacramenti in genere e, nella successione propria del Catechismo della Chiesa Cattolica, i sacramenti della iniziazione cristiana (battesimo, confermazione, eucaristia), della guarigione (riconciliazione, unzione degli infermi) e del servizio della comunione (matrimonio e ordine), senza escludere l’area estesa dei sacramentali. Li presenta nella forma ordinaria e in quella straordinaria del rito romano. Cerca di rispondere alle domande più dibattute, con l’intenzione di toccare le questioni più spinose. Specialmente l’interesse dei giovani all’antica liturgia dimostra che «Sta avvenendo un passaggio culturale e generazionale nella percezione della liturgia, ma pochi se ne avvertono, malgrado il gran parlare di ‘segni dei tempi’».

    Nicola Bux afferma nell’Introduzione che nei sacramenti siamo «faccia a faccia con Cristo»: i sacramenti sono ciò che di visibile è rimasto di lui, dopo l’Ascensione, come ricorda san Leone Magno.

    La stessa sua Parola si è fatta carne; perciò non si può pensare che la Parola di Dio sia altra cosa dalla ‘carne’ e dalla virtus sacramentale. «Tutti i sacramenti sono conseguenza dell’incarnazione del Verbo in Gesù: se egli non si fosse fatto carne, non ci sarebbe la sua presenza e non sarebbero possibili i suoi atti, le sue azioni: “Gesù ci ha toccato e, attraverso i sacramenti, anche oggi ci tocca”, ricorda ancora Lumen Fidei (§ 31)». Essi sono certamente azioni di Cristo e della Chiesa, ma non sarebbero queste azioni efficaci se Egli non fosse presente.Il Vaticano II parla di sacramenti della fede: «I sacramenti sono ordinati alla santificazione degli uomini, alla edificazione del corpo di Cristo e, infine, a rendere culto a Dio; in quanto segni, hanno poi anche la funzione di istruire. Non solo suppongono la fede, ma con le parole e gli elementi rituali la nutrono, la irrobustiscono e la esprimono; perciò vengono chiamati ‘sacramenti della fede’ (Sacrosanctum Concilium, § 59)».

    I sacramenti – ricorda l’Autore – non sono simboli vuoti che rinviano all’invisibile, ma realtà – da res, cosa – visibili dell’invisibile, in quanto essi contengono ciò che significano: contengono la virtus, cioè la potenza efficace che viene dalla persona divino-umana di Gesù Cristo; anzi, il sacramento eucaristico contiene la realtà della persona di Gesù in corpo, sangue, anima e divinità. La potenza viene dalla sua presenza. Eppure, si crede così poco nella loro efficacia e nel loro potere di trasformazione! Evidentemente, anche per essi vi è oggi un reclamato bisogno di capirli; pertanto, nasce il bisogno di spiegarli di nuovo, a causa delle deformazioni che i sacramenti subiscono per ignoranza, da parte, innanzitutto, di non pochi sacerdoti: di conseguenza i fedeli finiscono per non comprenderli.

    L’Autore cerca, quindi, di comprendere meglio, nella loro potenza sacra, questi che gli orientali ancora oggi chiamano misteri – come in antico i padri latini - e di capire a quali deformazioni siano soggetti. Sant’Ambrogio ritiene che i misteri siano collegati ai sacramenti, nel senso che questi sono i misteri divini comunicati all’uomo, attraverso gli atti insigni che Gesù stesso ha compiuto e che la Chiesa ha ricevuto, adattandoli alla ricezione di quanti si convertivano al vangelo. Dunque, prima di tutto nei sacramenti ci sono i misteri di Cristo; perciò, non si può parlare della natura dei sacramenti, cioè della loro realtà intima, se non ci si apre ai misteri: cosa da non farsi – dice il vescovo di Milano – ai non iniziati. Emerge il metodo di Ambrogio: «la luce dei misteri riesce più penetrante se colpisce di sorpresa anziché arrivare dopo le prime avvisaglie di qualche sommaria trattazione previa»: è un giudizio davvero attuale, se si pensa a certi modi da conductor televisivo del prete nella celebrazione dei sacramenti.

    Infatti, constata D. Bux, capita di assistere ai sacramenti trasformati in lunghe didascalie: è il segno della sfiducia nell’efficacia del rito, in quanto sostituiamo, con le nostre parole, le parole della sacra liturgia, le parole di Cristo, le parole delle formule sacramentali, perché temiamo che le persone non capiscano; che presunzione è la nostra! Dimentichiamo che c’è una dimensione invisibile del mistero – come dice sant’Ambrogio – che penetra nel cuore di sorpresa, cioè senza preparazione, nel senso naturale o mondano della parola. Questo spiega perché la catechesi sia diventata sterile: senza i sacramenti, essa è come una dottrina gnostica, adatta per i sapienti e gli intelligenti.Conclude l’Autore: «Da Ambrogio impariamo il metodo dei sacramenti: non dare troppe spiegazioni prima che essi abbiano illuminato i credenti, perché esse non sono efficaci: per capire i sacramenti non bisogna aprire gli occhi, ma chiuderli. La parola “mistero”, infatti, viene dal greco myo, che vuol dire chiudere gli occhi, proprio come accade quando vogliamo capire meglio: intelligere.

    I misteri perciò non si capiscono vedendo con gli occhi della carne, ma vedendo le perfezioni invisibili di Dio con gli occhi interiori. Questo ci farebbe dire che la liturgia non ha bisogno di essere vista con gli occhi fisici, bensì di essere vista con gli occhi dello spirito: è l’inizio della mistica».E vogliamo concludere anche noi con le parole di Ambrogio, nell’Apologia del profeta Davide: «Ti sei mostrato a me faccia a faccia, o Cristo; ti scopro nei tuoi sacramenti» (S. Ambrogio, Apologia del profeta Davide, 12, 58, in PL 14, 875). 





    [Modificato da Caterina63 09/04/2016 16:38]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)