DIFENDERE LA VERA FEDE

Sacerdoti....rimettete l'ABITO perchè l'occhio vuole la sua parte!

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    Caterina63
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    00 25/04/2009 14:29

    "Utpote sacerdotii signum": gli ecclesiastici abbiano a poter essere riconosciuti come tali.

    .


    CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA
    Consiglio di Presidenza


    19-20 aprile 1966


    La Conferenza Episcopale Italiana, considerando la opportunità che l'abito ecclesiastico, pur nella tutela della dignità sacerdotale, possa venir adattato alle esigenze della vita contemporanea e alle nuove condizioni dell'apostolato, in conformità allo spirito del CIC can. 136 § 1, desiderando assicurare ai sacerdoti - anche in questa materia - uniformità di disciplina, a loro personale vantaggio e ad edificazione della comunità, conferma che l'abito talare rimane la veste normale dei sacerdoti e anche dei religiosi.

    Esso è d'obbligo[SM=g1740733] :

    a) nella propria chiesa;
    b) negli Istituti ecclesiastici;
    c) nell'esercizio del sacro ministero;
    d) nelle funzioni liturgiche, anche se tenute fuori chiesa;
    e) nella sacra predicazione;
    f) nell'amministrazione dei Sacramenti e dei Sacramentali;
    g) nell'insegnamento religioso nelle scuole.

    La Conferenza stabilisce che sia consentito a tutti i sacerdoti di cambiare l'abito talare con il clergyman, consistente in: giacca e calzoni di stoffa nera (o grigioferro scuro) e collare ecclesiastico, in caso di viaggi, di escursioni, di uso di macchina da trasporto, ecc., cioè quando lo richieda la comodità in un'azione profana.

    In qualunque ambiente e circostanza, entro e fuori Diocesi e all'estero, come in occasione di ferie, il suddetto abito, "utpote sacerdotii signum", dovrà essere indossato, in pubblico, completo: così che esso risulti per tutti i sacerdoti unico e ben caratterizzato, e gli ecclesiastici abbiano a poter essere riconosciuti come tali.

    La Conferenza Episcopale Italiana esorta infine i sacerdoti a tener presenti - nell'uso del clergyman - le diverse situazioni dei luoghi, gli usi e le consuetudini, la sensibilità della popolazione e, memori delle parole dell'Apostolo: "Omnia mihi licent, sed non omnia expediunt; omnia mihi licent, sed non omnia aedificant" (I Cor. 10, 22-23), sappiano comprendere e attendere sino a che i fedeli affidati alle proprie cure siano preparati alla nuova prassi.

    ***********************

    ATTENZIONE....si usa dire: bè vedi, la Chiesa esorta NON obbliga!
    valutazione sbagliata! Quando la Chiesa esorta fa subentrare UN OBBLIGO MORALE INSITO NELL'OBBEDIENZA ALLE RICHIESTE DEI SUPERIORI....
    ergo cari sacerdoti, rimettetevi l'abito, grazie![SM=g1740720]



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 14/06/2009 11:12
    ANCHE GIOVANNI PAOLO II VOLEVA CHE I SACERDOTI TORNASSERO A RIMETTERE LA TALARE.....

    non dite di volerlo "santo subito" se non gli obbedite....


    LETTERA DI GIOVANNI PAOLO II
    AL CARDINALE VICARIO UGO POLETTI

    Al venerato fratello
    Cardinale Ugo Poletti
    Vicario Generale per la diocesi di Rom
    a.


    Talare sacerdoti



    La cura dell'amata diocesi di Roma pone al mio animo numerosi problemi, tra i quali appare meritevole di considerazione, per le conseguenze pastorali da esso derivanti, quello relativo alla disciplina dell'abito ecclesiastico.

    Più volte negli incontri con i sacerdoti ho espresso il mio pensiero al riguardo, rilevando il valore ed il significato di tale segno distintivo, non solo perché esso contribuisce al decoro del sacerdote nel suo comportamento esterno o nell'esercizio del suo ministero, ma soprattutto perché evidenzia in seno alla Comunità ecclesiastica la pubblica testimonianza che ogni sacerdote è tenuto a dare della propria identità e speciale appartenenza a Dio. E poiché questo segno esprime concretamente il nostro "non essere del mondo" (cf. Gv 17,14), nella preghiera composta per il Giovedì Santo di quest'anno, alludendo all'abito ecclesiastico, mi rivolgevo al Signore con questa invocazione: "Fa' che non rattristiamo il tuo Spirito... con ciò che si manifesta come una volontà di nascondere il proprio sacerdozio davanti agli uomini e di evitarne ogni segno esterno" (Giovanni Paolo II, Precatio feria V in cena Domini anno MCMLXXXII recurrente, universis Ecclesiae sacerdotibus destinata, 4, die 25 mar. 1982: Insegnamenti di Giovanni Paolo II, V, 1 [1982] 1064).

    Inviati da Cristo per l'annuncio del Vangelo, abbiamo un messaggio da trasmettere, che si esprime sia con le parole, sia anche con i segni esterni, soprattutto nel mondo odierno che si mostra così sensibile al linguaggio delle immagini. L'abito ecclesiastico, come quello religioso, ha un particolare significato: per il sacerdote diocesano esso ha principalmente il carattere di segno, che lo distingue dall'ambiente secolare nel quale vive; per il religioso e per la religiosa esso esprime anche il carattere di consacrazione e mette in evidenza il fine escatologico della vita religiosa. L'abito, pertanto, giova ai fini dell'evangelizzazione ed induce a riflettere sulle realtà che noi rappresentiamo nel mondo e sul primato dei valori spirituali che noi affermiamo nell'esistenza dell'uomo. Per mezzo di tale segno, è reso agli altri più facile arrivare al Mistero, di cui siamo portatori, a Colui al quale apparteniamo e che con tutto il nostro essere vogliamo annunciare.

    Non ignoro le motivazioni di ordine storico, ambientale, psicologico e sociale, che possono essere proposte in contrario. Potrei tuttavia dire che motivazioni di eguale natura esistono in suo favore.

    Devo però soprattutto rilevare che ragioni o pretesti contrari, confrontati oggettivamente e serenamente col senso religioso e con le attese della maggior parte del Popolo di Dio, e con il frutto positivo della coraggiosa testimonianza anche dell'abito, appaiono molto più di carattere puramente umano che ecclesiologico.

    Nella moderna città secolare dove si è così paurosamente affievolito il senso del sacro, la gente ha bisogno anche di questi richiami a Dio, che non possono essere trascurati senza un certo impoverimento del nostro servizio sacerdotale.

    In forza di queste considerazioni, sento il dovere, come Vescovo di Roma, di rivolgermi a lei, signor Cardinale, che più da vicino condivide le mie cure e sollecitudini nel governo della mia diocesi, perché, d'intesa con le Sacre Congregazioni per il Clero, per i Religiosi e gli Istituti Secolari e per l'Educazione Cattolica, voglia studiare opportune iniziative destinate a favorire l'uso dell'abito ecclesiastico e religioso, emanando a tale riguardo le necessarie disposizioni e curandone l'applicazione.

    Nell'invocare su di lei, signor Cardinale, e sull'intera diocesi di Roma l'onnipotente aiuto del Signore, per l'intercessione della Vergine santissima "Salus Populi Romani", di cuore imparto l'apostolica ben
    edizione.

    Dal Vaticano, 8 Settembre 1982.


    http://www.haerentanimo.net/modules.php?name=News&file=article&sid=57



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    Caterina63
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    00 15/11/2009 23:24
    Dall'amico Daniele di Rinascimento Sacro Oriensforum[SM=g1740722]


    Alla mia veste nera

    di Mons. F. Olgiati


    O cara veste nera, da alcune settimane tutti parlano di te. Nel volume su L'attività della Santa Sede nel 1958 era detto: "Attese le varie richieste pervenute circa l'abito talare, è stata iniziata una vasta indagine sulla questione della forma dell'abito ecclesiastico, ed è stata concessa agli ordinari diocesani (cioè ai Vescovi) qualche facoltà di dispensa, in casi particolari, ferma sempre restando la regola di usare la veste talare nell'esercizio della potestà di ordine e di giurisdizione".

    Queste poche righe hanno dato origine a mille discussioni, anche sulla stampa nostra. E le fantasie hanno galoppato.

    Alcuni si sono appellati alla storia, dal secolo V ai Concili Lateranense IV (213) e Viennese (1312), che agli ecclesiastici imposero un abito diverso dal comune, da Sisto V a Pio IX.

    Altri hanno fatto ricorso alla moda dei paesi tedeschi ed anglosassoni, che concedono ai sacerdoti l'abito cosidetto alla "clergyman", pur imponendo la "talare", come esige il Codice di Diritto canonico, nelle funzioni sacerdotali.

    Altri hanno rievocato i tempi della Rivoluzione francese, quando anche in Paesi latini - come oggi nelle terre comuniste - il clero, a causa della persecuzione, non si distingueva affatto per i suoi abiti dai laici.

    Altri, infine, hanno osservato che "la veste talare, oltre ad essere fastidiosa d'estate e ingombrante sempre, diventa un ridicolo intralcio ed anche un reale pericolo quando, proprio per ragioni del suo ministero, il prete deve usare la bicicletta e la motoreta", mezzi diventati, ormai, indispensabili per chi è in cura d'anime. Nè è da omettersi, hanno aggiunto, "la tendenza del clero non ad isolarsi in una torre d'avorio, ma ad accostarsi il più possibile alla vita del popolo cristiano affidato alle sue cure, a dividerne le sofferenze e le contrarietà".

    Cara mia veste nera, pur sapendo che non si tratta di una questione sostanziale, ma solo d'una materia disciplinare di esclusiva competenza dell'autorità ecclesiastica, io non ho potuto fare a meno di guardarti e di meditarti.

    Sono vecchio e ti voglio bene.

    Tu mi perdonerai se io non mi interesso degli argomenti accennati. Non voglio discuterli. Solo voglio dire a te una parola. Ti porto da tanti decenni. Quando ero fanciullo e, prima degli undici anni, entrai in Seminario, si usava indossarti fin dalla prima ginnasiale e tenerti anche nelle vacanze. Ricordi, mia cara veste nera, il giorno della mia vestizione? Ti aveva preparata la mia santa mamma, povera ed inesperta, aiutata da una vecchia sarta volenterosa. Assisteva al rito e pianse quando il vecchio Prevosto me ne rivestì e asperse. Con la benedizione del Parroco e con le lacrime materne uscii dalla chiesa. Com'ero felice, o mia cara veste nera! Potevo io concepire un tesoro più grande e più prezioso di te? Lo fosti sempre durante i miei dodici anni di Seminario e in seguito per tutta la mia vita.

    In Seminario subito mi hanno insegnato a baciarti, quando alla sera mi spogliavo per andare al riposo. Quanti baci e di che cuore!

    O veste nera della mia prima Messa e di tante Messe celebrate e di tanti azioni sacerdotali compiute! O veste nera, che accanto al letto dei morenti avevi un significato ed un tuo singolare linguaggio! O veste nera, che non mi hai mai costretto ad isolarmi in una torre d'avorio, pur ricordandomi in ogni occasione il mio sacerdozio, anche nel fervore di dispute accese e nelle battaglie per la difesa della verità, in congressi, in associazioni, nelle scuole!

    Tu hai conosciuto talvolta, soprattutto in alcuni tempi, l'insulto villano del teppista; ma quanto in quei momenti sono stato fiero di te e ti ho amato!

    T'ho riguardata sempre come una bandiera...bandiera nera, sì. Simbolo di morte. ma non potevo vergognarmi, perchè mi simboleggiavi il Crocifisso, che, appunto perchè tale, è risurrezione e vita.

    Ora che sono al tramonto, sentendo discorrere di te, ho capito sempre più e sempre meglio che ti amo tanto.

    Non so se ti modificheranno, se ti sostituiranno, se ti cambieranno. Avranno le loro ragioni. Anzi, se scoppiasse una persecuzione, ti strapperebbero da me. Non importa. Persino in questo caso tu saresti nel mio cuore. E vi rimarrai per sempre.

    Quando tra breve chiuderò gli occhi, voglio che tu scenda con me nella tomba. Rivestito di te, avvolto nelle tue pieghe, dormirò più tranquillo il sonno della morte. Più non potrò darti il bacio del mio affetto. Il mio cuore più non batterà. Ma se qualcuno potesse leggere nelle sue fibre più profonde, troverebbe scolpita una parola di amore e di fierezza per te, o cara e dilettissima veste nera...

    Maggio 1959


                                                            
    (i cardinali con la Talare, si vede Ratzinger)


    [SM=g1740717] [SM=g1740720]

    [SM=g1740722]
    [Modificato da Caterina63 06/02/2010 18:08]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 06/02/2010 17:31
    Uno stralcio dell'omelia di mons. Fellay a 13 nuovi presbiteri:

    Questa "tonaca tutta nera" predica
    , ha detto: ricorda agli uomini che siete discepoli di Gesù Cristo ed è un segno che esiste qualcosa che oltrepassa la realtà degli uomini: la fede, le realtà soprannaturali. Sì, la tonaca parla, e predica: di fronte a lei gli uomini reagiscono, male magari, ma spesso positivamente toccati. La gente vede una tonaca, e vede un prete. Oggi questa immagine non è più nella realtà, salvo tra i tradizionalisti e nella pubblicità (quando si tratta di pubblicizzare una marca di spaghetti, si vedon preti insottanati, mai in clergyman); ma appunto perché i pubblicitari sanno che nell'animo dei cristiani il prete è il prete in tonaca. E quando si pensa al prete, si pensa ad un altro Gesù, ad un uomo che non è come gli altri uomini, che è separato e distaccato dal mondo. Il nero della tonaca è il nero del lutto, della morte al mondo, della rinuncia ad esso. La tonaca è già sacrificio, non per il piacere del sacrificio fine a se stesso, come uno stoico o un masochista, ma per mettersi a disposizione delle anime. E se quella tonaca si comporta bene, è una vera fiamma; se si comporta male, è subito uno scandalo, che fa un immenso male
    .




    Cari Sacerdoti, ve lo confesso...  
     
    Mi sono commossa nel leggere le parole sulla "Tonaca" abbiamo davvero bisogno di un aiuto affinchè i Sacerdoti ne comprendano l'importanza; quando vedo un sacerdote in talare, subito LO AMO da lontano, mi basta vedere la tonaca e subito elevo una Preghiera per lui, ringrazio Dio perchè un prete ha attraversato oggi la mia strada, con un cenno gentile lo saluto, ed egli sempre mi risponde delle volte anche un pò meravigliato, chi saluta più un prete al giorno d'oggi per la strada? Se le condizioni lo consentono dico anche: Sia lodato Gesù Cristo....una volta uno mi guardò perplesso e rispose al saluto "sempre sia lodato" con un tono di profonda soddisfazione e con un sorriso celestiale, soddisfatto...e spesso penso ai preti in incognita, senza abito, senza croce, chissà se ne avrò incontrati per la strada, e ne sono addolorata per non aver potuto scambiare con questi il vero saluto della Pace: Sia lodato Gesù Cristo! 


     


                  



    Il clergyman inizialmente era in uso tra i Pastori protestanti (specialmente anglosassoni), ma in seguito venne accolto, dopo il Vaticano II, anche in ambiente cattolico romano, prima come concessione per coloro che dovevano viaggiare e fare altre attività, in seguito è stato tollerato ed infine accolto come abito religioso seppur i Pontefici da Paolo VI in poi hanno sempre ribadito l'uso della talare quale convenienza dell'identità cattolica e lasciare quest'altra opzione del clergyman solo per i viaggi e in condizioni particolari.

    Il nome dell'abito religioso clergyman, che non è appunto lo stesso significato della talar,e deriva dall'omonima terminologia inglese, che vuol dire "pastore evangelico", che si differenzia dal priest che vuol dire sacerdote cattolico.....
    Il clergymen NON è "l'abito ecclesiastico" cattolicamente inteso e da una concessione è diventato la norma... i Vescovi e il Papa indossano la TALARE ed usano il clergymen (tranne il Papa) in occasioni particolari come viaggi o visite non ufficiali....

    Cari Sacerdoti, ritornate ad indossare la talare, l'abito ecclesiastico cattolico....innamoratevene....




    "...la semplicità di vita e l'abito ecclesiastico costituiscono segni evidenti del fatto che il sacerdote è un uomo "a parte" per il servizio del Vangelo. È innegabile che tali segni siano portatori di frutti, soprattutto in una cultura che cerca affannosamente segni della trascendenza, una cultura che è alla ricerca di veri Pastori e di testimoni convincenti."


    (Giovanni Paolo II, 25 settembre 1999)"

    [Modificato da Caterina63 15/05/2010 01:06]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 26/05/2010 13:04


    Dal forum dell'amico Daniele di Famiglia Cattolica, riporto:


    Livio o don Livio?[/
    G]

    "Nel modo di pensare, di parlare, di giudicare i fatti del mondo, di servire e amare, di relazionarsi con le persone, ANCHE NELL'ABITO, il sacerdote deve trarre forza profetica dalla sua appartenenza sacramentale, dal suo essere profondo" (Benedetto XVI, 12 marzo 2010)

    "L'abito ecclesiastico, come quello religioso, ha un particolare significato: per il sacerdote diocesano esso ha principalmente il carattere di segno, che lo distingue dall'ambiente secolare nel quale vive; per il religioso e per la religiosa esso esprime anche il carattere di consacrazione e mette in evidenza il fine escatologico della vita religiosa. L'abito, pertanto, giova ai fini dell'evangelizzazione ed induce a riflettere sulle realtà che noi rappresentiamo nel mondo e sul primato dei valori spirituali che noi affermiamo nell'esistenza dell'uomo. Per mezzo di tale segno, è reso agli altri più facile arrivare al Mistero, di cui siamo portatori, a Colui al quale apparteniamo e che con tutto il nostro essere vogliamo annunciare."
    (Giovanni Paolo II, 8 settembre 1982)


    Eppure, nonostante le norme e i richiami del magistero, tanti preti sono convinti di essere "più-vicini-alla gente" andando in giro in borghese... Affidiamo il commento al comico Checco Zalone:




    Da applauso queste parole di Checco Zalone: "già siete in pochi, e in più vi nascondete!"

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    00 20/07/2010 10:35
    [SM=g1740733] un grazie a Messainlatino per questa boccata d'ossigeno...


    www.gloria.tv/?media=83305

    VOLARE IN ALTO....CON LA TALARE..... [SM=g1740721]

    Dedicato ai preti che ritengono la talare inadatta al mondo d'oggi
    blog.messainlatino.it/2010/07/dedicato-ai-preti-che-ritengono...



    Il Padre de Pommerol, cappellano militare francese in Afganistan, presso i legionari paracadutisti, non manca occasione per lanciarsi con la tonaca. Per quanto possa creargli qualche problemino di stabilizzazione in caduta libera, la considera la sua armatura.

    Di questo prete coraggioso, ispirato al beato Charles de Foucauld (martire in terra musulmana), vogliamo riportare qualche frase:

    Io non voglio essere moderato. Che cos'è un cappellano moderato, d'altronde? Io ho senza dubbio opinioni nette, ma almeno sono coerente. La passione di Gesù Cristo, non è un pic nic. [..] La Chiesa muore per il silenzio dei prelati, come diceva già S. Caterina da Siena. [..] Io sobbalzo quando sento dei parroci che parlano di questioni sociali o del commercio solidale, mi dico che non sono nel loro ruolo. Oggi, ciascuno ha la sua verità. Ognuno dice: sono credente, ma non praticante.



    Fonte: le Figaro






    [SM=g1740717]



    [SM=g1740722] [SM=g1740738] [SM=g1740757]

    Fraternamente CaterinaLD

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    00 16/08/2010 19:10
      Tonaca

    L'abito fa il monaco. Perfino per l'Unità

    Anche il quotidiano fondato da Antonio Gramsci se n'è accorto. Se l'abito, da solo, non basta a fare il buon monaco, di sicuro il toglierselo tradisce il cattivo monaco. In altri termini: esso è condizione necessaria, anche se non sufficiente. Giacché è inutile che ce la raccontino: chi non usa l'abito sacerdotale o religioso, si vergogna del suo stato o, peggio ancora, lo aborre. Diffidate sempre, sempre, dei preti in polo e maglione, di solito lisi e grigetti; il che, per inciso, non è un bel vedere. Ed ecco l'articolo sull'Unità dell'altroieri:

    di Vincenzo Cerami

    È un po’ di tempo che la Chiesa si sta strenuamente difendendo da una campagna mediatica che ha acceso i fari sul fenomeno delle attività e delle aberrazioni erotiche del clero.

    E non si tratta soltanto degli orrori della pedofilia, ma anche di festini a luci rosse, orge e sortite clandestine d’ogni genere.

    Dismessa la tonaca e indossati gli abiti civili, molti preti passano dal sacro al profano in men che nulla. Chiedo a un mio amico, che scrive su questo giornale, don Filippo Di Giacomo, se non sarebbe più opportuno, per lui e per i suoi allegri confratelli, rinunciare a mettersi in borghese e tornare a vestire l’abito lungo del prete.

    Non c’è da imbarazzarsi a indossarlo, anzi, sarebbe un segno di rispetto per la comunità cattolica e avrebbe anche il potere di eliminare ogni ambiguità. È difficile riconoscere un sacerdote in un tizio in camiciola: siamo in presenza di un inganno, per lo meno sul piano semiologico.

    L’amico Di Giacomo dovrebbe buttare alle ortiche i suoi abiti “laici” e lanciare un appello affinché a tutti i preti del mondo sia vietato di indossare altro che non siano due tonache: una di lana per l’inverno e una di cotone per l’estate.

    Non servirà certo a scoraggiare i duri e puri indemoniati dell’eros, ma farà da margine all’espansione delle mille, piccole depravazioni quotidiane. In genere si dice che “l’abito non fa il monaco”, ma per la Chiesa non è così: l’abito deve fare il monaco. Il cattolicesimo, come altre religioni, vive di simboli, di riti, di castità, di valori fondanti e irrinunciabili, di fedeltà alla dottrina, di rigorosa obbedienza alle regole sacerdotali.

    La tonaca, alla semplice vista, ci trasmette tutto questo: molto spirito e poca carne. Un prete che sostituisce la tonaca con un abito comune è come se rinunciasse allo spirito. 
     L'Unità, 15 agosto 2010



    bè...se tale appello viene perfino da un giornale come è l'Unità, ossia comunista....dovrebbe far riflettere molto e molti preti allergici alla tonaca.... 





    C'è un detto che dice: "i parà della Folgore, nelle loro virili uniformi, fanno stragi di cuori" Laughing    
    l'abito, cari sacerdoti... è anche un segno di VIRILITA'.... la moda facilona del jeans e camicia è un segno di appartenenza  A TUTTI E A NESSUNO.    
    Cari sacerdoti, provate a pensare ad un marito che si accontentasse di vedere la propria moglie vestita alla meglio.... pensate forse che sia questa la vera modestia? Wink    
    Durante un incontro per fidanzati il sacerdote comincia a spiegare ai futuri sposi anche la modestia nel vestire e fa un bellissimo discorso sull'opportunità per la sposa di vestirsi in modo adeguato per lo sposo, con gioielli e colori come viene descritto perfino nella Bibbia elogiando, in tal senso, il buon gusto nel vestire e spiegando, appunto, l'importanza che fa l'abito....    
    alchè un ragazzo ha alzato la mano e gli ha chiesto: "padre scusi, ma perchè lei da questi consigli e poi non si mette mai l'abito che la contraddistingue?" Laughing    
    ne scaturì un fuori programma interessante... la maggiorparte degli auditori fecero comprendere che avrebbero preferito vedere i sacerdoti con l'abito, da vedersi lontano un miglio, così come si invitava i futuri sposi ad un uso del vestiario in funzione del proprio coniuge....    
    Durante l'Anno Sacerdotale sono stata spesse volte a Roma e mi fermavo volentieri a salutare (baciando le venerande mani ) anche per fare solo gli auguri, ai sacerdoti che indossavano la talare... questi si fermavano stupiti, ma si vedeva che erano contenti di essere fermati così, semplicemente PER UN SALUTO.... ci si presentava, ci si faceva gli auguri e ci si prometteva una preghiera reciproca....    
       
    Una volta il mio padre spirituale, frate domenicano, mi venne a trovare quando ero a Trieste, ma tardava...ed ero preoccupata...ad un tratto mi telefona, un contrattempo, a casa mi racconta questo:    
    giunto a Trieste che pioveva di buona lena, era rimasto imbottigliato nel traffico... le macchine ferme e nessuno che comprendeva il perchè, come ebbe a scendere dalla macchina per capire cosa stesse accadendo, vede un vigile urbano che gli corre incontro:    
    "lei è prete?"    
    - si, sono un domenicano!    
    - corra padre, un uomo ha avuto un incidente con il motorino, chiede di un prete... l'autombulanza sta arrivando, venga!    
    - il poveretto appena l'ha visto gli ha detto: mi assolva padre, mi pento di tutto, mi benedica la prego, non mi faccia andar via così!!!    
    Grazie a Dio quella persona si è salvata dopo qualche mese di ospedale e dopo un coma farmacologico, ma abbiamo pensato: c'era solo lui in quel traffico come prete o c'era magari qualche altro sacerdote mimetizzato che non sapendo nulla dell'incidente e non essendo riconoscibile dall'abito non fu chiamato?    
    Il mio frate venne a casa zuppo, dalla testa ai piedi, la bellissima tonaca bianca e lo Scapolare benedetto erano zuppi d'acqua, ma fieri di aver servito allo scopo per il quale erano stati destinati: la benedizione delle Anime....    
       
    Cari Sacerdoti, anche noi abbiamo bisogno di riconoscervi lontano un miglio, Gesù vestiva UNA TUNICA....talmente significativa e suggestiva da essere descritta e nominata nei Vangeli, date a noi, comuni mortali, l'opportunità di convertirci magari soltanto vedendovi da lontano, alla vista della gloriosa e virile TONACA-TALARE, alla cui visione potrebbe sciogliersi molte coscienze intorpidite...

    l'autore dell'articolo in definitiva sembri scrivere ad un suo amico e collega dell'Unità, infatti dice:  
     
    Chiedo a un mio amico, che scrive su questo giornale, don Filippo Di Giacomo, se non sarebbe più opportuno, per lui e per i suoi allegri confratelli, rinunciare a mettersi in borghese e tornare a vestire l’abito lungo del prete.  
    sembra una sorta di lettera aperta a questo suo amico prete che probabilmente, forse un pò troppo aderente all'Unità politica....avrebbe perso il suo essere prete negli uffici del giornale....  
    la breve lettera sembra infatti un appello accorato a cominciare dagli "allegri confratelli" del suo amico prete... certo è che è uno smacco impietoso per questo don Filippo ricevere una lettera aperta su un giornale comunista che lo invita a rimettersi l'abito e a comportarsi da prete.... Wink  
     
    Qualcosa di analogo andrebbe scritto al direttore di Famiglia (s ) Cristiana che solitamente si fa fotografare IN GIACCA E CRAVATTA al modo non certo di Melchisedec, ma...alla moda di don Verzè....











    [Modificato da Caterina63 18/08/2010 09:46]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 15/11/2010 12:39

    Meglio il clergyman o l'abito talare?


     



    da Cordialiter:


    Ritengo di attirare la attenzione su un problema, che sta diventando della massima importanza: quello dell'abito ecclesiastico. […] Di fatto si sta assistendo alla più grande decadenza dell'abito ecclesiastico. […] L'abito condiziona fortemente e talvolta forgia addirittura la psicologia di chi lo porta . L'abbigliamento, infatti, impegna per la vestizione, per la sua conservazione, per la sostituzione. È la prima cosa che si vede, l'ultima che si depone.

    Esso ricorda impegni, appartenenze, decoro, colleganze, spirito di corpo, dignità! Questo fa in modo continuo. Crea pertanto dei limiti alla azione, richiama incessantemente tali limiti, fa scattare la barriera del pudore, del buon nome, del proprio dovere, della risonanza pubblica, delle conseguenze, delle malevoli interpretazioni. […]

    L'abito non fa il monaco al 100%, ma lo fa certamente in parte notevole; in parte maggiore, secondo che cresce la sua debolezza di temperamento. […] Per tale motivo la questione della divisa ingigantisce nel campo ecclesiastico e si impone alla attenzione di quanti vogliono salvare vocazioni, perseveranza negli accettati doveri, disciplina, pietà, santità! […] succede che in talune città d'Italia (non citiamo ovviamente i nomi, ma siamo ben sicuri di quello che diciamo) per l'assenza di ritegno imposto dalla sacra divisa si arriva ai divertimenti tuttavia proibiti dal Codice di Diritto Canonico, ai night clubs, alle case malfamate e peggio. Sappiamo di retate di seminaristi fatte in cinema malfamati ed in altri non più consigliabili locali. Tutto per colpa dell'abito tradito! […] Il bilancio che ne consegue .
    Eccolo:
    - disistima;
    - sfiducia;
    - insinuazioni facili e talvolta gravi;
    - preti che, cominciando dall'abito e dallo smantellamento della prima umile difesa, finiscono dove finiscono...
    - crisi sacerdotali, del tutto colpevoli, perché cominciate col rifiuto delle necessarie cautele, richieste dal Diritto Canonico e dal consiglio dei Vescovi..., con risultati disgraziati e spostati...
    - seminari che si svuotano e non resistono; mentre nel mondo, tanto in Europa che in America, rigurgitano i seminari, ordinati secondo la loro genuina origine, col rigoroso abito ecclesiastico, nella vera obbedienza al Decreto conciliare Optatam totius;
    - anime che si trascinano innanzi senza più alcuna capacità decisionale, dopo la loro contaminazione col mondo.
     
    […] Credo difficile possa esistere nel nostro tempo, proprio per le sue caratteristiche, lo spirito ecclesiastico senza il desiderio e il rispetto dell'abito ecclesiastico. […] Qui non parliamo solo di «abito ecclesiastico», ma di talare. E guardiamo bene le cose in faccia, senza alcun timore di quel che si può dire. […] Alcuni, per boicottare l'uso della talare o per giustificarsi nell'aver ceduto alla moda corrente contraria all'abito talare, affermano: «Tanto la talare è un abito liturgico», volendo così esaurire l'eventuale uso della talare alla sola liturgia. Questo è apertamente falso e capziosamente ipocrita! […] Francamente è chiaro che il clergyman […] non è la soluzione più desiderata. Chi non ama la sua talare resisterà ad amare il suo servizio a Dio? Il prossimo non sostituisce Dio! Non è soldato chi non ama la sua divisa. […] L'indirizzo da darsi è:
    - che anche se la legge ammette il clergyman, esso non rappresenta in mezzo al nostro popolo la soluzione ideale;
    - che chi intende avere l'integro spirito ecclesiastico deve amare la sua talare;
    […]
    - che la difesa della talare è la difesa della vocazione e delle vocazioni.
     
    Il mio dovere di Pastore mi obbliga a guardare assai lontano. Ho dovuto constatare che la introduzione del clergyman oltre la legge e le depravazioni dell'abito ecclesiastico sono una causa, probabilmente la prima, del grave decadimento della disciplina ecclesiastica in Italia. Chi vuol bene al sacerdozio, non scherzi con la sua divisa!
     
     
    [Testo tratto da: Card. Giuseppe Siri, A Te sacerdote, vol. II, Frigento: Casa Mariana, 1987, pp. 67-73].




    Un'altro passo del cardinale Siri, grazie a Cordialiter:


    Il Cardinale Siri criticò l'abito dei preti progressisti


    Nel Clero la tessera del progressismo è l’abito, borghese naturalmente, o camuffato in modo tale da crearne la impressione. La norma italiana permette il clergyman, ma ha chiaramente detto che l’abito «normale» è la talare. Forma e colore: due cose che per l’Italia sono ben poco rispettate. Chi porta la talare sta fuori del progresso.
     
    Invece la talare, «difesa dalla norma di Legge come abito normale», permette di non perdersi mai nella massa, di restare in evidenza, di costituire una testimonianza di sacralità e di coraggio. Su questo punto credo dovrò ritornare. Infatti in questo momento il pericolo più grave per il clero è quello di SCOMPARIRE.

    Sta scomparendo, perché tutto ormai non s’accorge nel mondo ufficiale, della cultura, della politica, dell’arte che ci siamo anche noi. Tra noi si arriva anche al punto di proclamare che non c’è più il «cristianesimo». Forse che non è indicativo il Referendum sul divorzio?

    Ho la impressione che quasi nessuno si sia provato a studiare il nesso tra l’esito del Referendum e l’abito del prete, tra il Referendum e la pratica distruzione in gran parte d’Italia della Azione Cattolica.

    So benissimo che il popolo ha ancora la Fede nel fondo del suo cuore e la rinverdisce ad ogni spinta, ma tutto il livore anticlericale e massonico che si è impadronito di quasi tutti i mezzi di espressione fa credere il contrario, agisce come se la Chiesa fosse morta (il che è tutt’altro che vero!); ma sono molti di casa nostra che danno mano a tutto questo.

    Amare la promiscuità, tinteggiarsi di mondanità, discutere la legittima Autorità e Cristo che l’ha costituita, costituisce BENEMERENZA PROGRESSISTA. Andare a Taizé invece che a Lourdes o a Roma costituisce progressismo, mentre si va ad uno dei più grandi equivoci religiosi del secolo.
     
    [Pensiero del Cardinale Giuseppe Siri tratto dalla "Rivista Diocesana Genovese" del gennaio 1975]



    L'abito ecclesiastico
    Data: Sabato, 14 luglio @ 19:20:18 CEST
    Argomento: Il santo abito

    Card. Giuseppe Siri
    L'ABITO ECCLESIASTICO
    Precisazione disciplinare indirizzata il 20 agosto 1972
    ai Superiori dei due Seminari diocesani di Genova.





    Ritengo di attirare la attenzione su un problema, che sta diventando della massima importanza: quello dell'abito ecclesiastico.
    Ecco i termini del problema.
    Abito ecclesiastico «normale» è soltanto la «talare». Così ha deciso la CEI nel marzo 1966. È semplicemente permesso l'uso del «clergyman» con forti restrizioni: no per l'esercizio del ministero, per la amministrazione dei Sacramenti e dei Sacramentali, per la celebrazione della santa Messa, per la predicazione e per la scuola di religione [
    1].
    Questa disposizione della CEI è completata dalle indicazioni che il decreto citato dà circa il clergyman: nero o grigio ferro con il colletto detto romano. Questo colletto, che esclude maglioni, camicie ed altro, diventa l'elemento più qualificante dell'abito «tollerato».
    Alle disposizioni della CEI, il cui Decreto era stato autorizzato dalla Santa Sede, sono tenuti i Religiosi di qualunque genere.
    Infine, data l'origine del citato Decreto, non esiste autorità anche diocesana che possa sopprimerne o mutarne le norme, alterarne in qualunque maniera il disposto o concedere che il tutto sia supplito da una minuscola crocetta all'occhiello, del tutto incapace di fare individuare facilmente il Ministro del culto cattolico.
    Di fatto si sta assistendo alla più grande decadenza dell'abito ecclesiastico. Le esibizioni sono di tutti i gusti e le riviste non hanno pudore di nascondere quanto la legge non ammette. Per grazia di Dio nella nostra Diocesi, salvo qualche originalità, qualche frettolosa spogliazione per intrufolarsi a vedere giochi e cose simili, l'enorme maggioranza del clero usa la sola talare ed il numero di coloro che usano il clergyman è assai ridotto. Ma, senza una visione delle proprie responsabilità e di quanto ci accade intorno, rischiamo che domani, qui, sarà come è già dolorosamente altrove.
    Ora, dinanzi alla Legge e dinanzi agli abusi spudorati coi quali la si offende, Noi invitiamo a fare chiare e definitive considerazioni, fermo restando che dalla inosservanza di una Legge non si può certo attendere il beneplacito divino [
    2].

    l. L'abito condiziona fortemente e talvolta forgia addirittura la psicologia di chi lo porta

    L'abbigliamento, infatti, impegna per la vestizione, per la sua conservazione, per la sostituzione. È la prima cosa che si vede, l'ultima che si depone. Esso ricorda impegni, appartenenze, decoro, colleganze, spirito di corpo, dignità! Questo fa in modo continuo. Crea pertanto dei limiti alla azione, richiama incessantemente tali limiti, fa scattare la barriera del pudore, del buon nome, del proprio dovere, della risonanza pubblica, delle conseguenze, delle malevoli interpretazioni. Obbliga a riflettere, a contenersi, ad essere in consonanza con l'ambiente al quale l'abito ci ascrive. Ha la capacità di dare, per salvaguardare quel pudore, una forza che senza di esso non esisterebbe affatto; riesce ad impedire che si oltrepassino certe soglie; trattiene le espansioni, le curiosità morbose. Un sorvegliante attento non riuscirebbe ad impedire quanto può impedire l'abito che si porta e che ci qualifica.
    Per tale motivo, da sempre, le civiltà, in tutte le forme, anche rimaste congelate nei secoli, hanno affidato alle divise il compito di conservare compattezza, lucidità circa i propri obblighi, le proprie funzioni, le proprie responsabilità.
    Le rivoluzioni che hanno voluto distruggere tutto, sovvertendo la funzione delle divise, hanno dovuto ben presto cedere a farne altre.
    Sottovalutare nei confronti della umana natura la importanza dell'abito e delle divise è non capire affatto la natura, la storia, la debolezza umana. la labilità della psicologia degli uomini e delle donne.
    Tutto questo porta ad una chiara conclusione, alla quale rimando.

    2. L'abito non fa il monaco al 100%, ma lo fa certamente in parte notevole; in parte maggiore, secondo che cresce la sua debolezza di temperamento [
    3]

    Svanita la presenza dell'abito, svanisce quello che esso suggerisce, resta aperto il campo ad ogni debolezza; tutte le tendenze e le sollecitazioni si fanno prepotenti, e - salva sempre la azione della grazia - sotto questo aspetto non esiste più protezione.
    Nei giovani, l'impulso, la curiosità, il fremito della vita, la sua esuberanza fanno sì che l'assenza della divisa diventi più compromettente che negli adulti. Nella vita ecclesiastica e nella professione religiosa le prove da evitare, i pericoli da sfuggire sono ben maggiori che nei laici ed hanno pertanto più bisogno degli altri di essere sostenuti da un abito impegnativo. La prova patente verrà in quello che dirò appresso. Molti hanno vinto l'ultima, decisiva spinta della tentazione solo perché avevano un abito, una divisa qualificante addosso.
    Per tale motivo la questione della divisa ingigantisce nel campo ecclesiastico e si impone alla attenzione di quanti vogliono salvare vocazioni, perseveranza negli accettati doveri, disciplina, pietà, santità!
    Tutto quello che vengo dicendo ha nei Paesi latini una ragione ben maggiore che nei Paesi anglosassoni. La ragione è che in tali Paesi l'abito «corto» o «clergyman» fu imposto dalla situazione non sempre serena di diaspora in Paesi a maggioranza protestante; rappresentava pertanto una costrizione odiosa e per nulla la posta di un desiderio di liberazione. Nei Paesi latini l'abito non talare fu il desiderio di una maggiore indipendenza. Ed è questo che crea il problema. Diversamente si dovrebbe ragionare, se solo fosse una questione di fungibilità. Ma non lo è affatto ed è inutile, oltreché dannoso, illudersi.

    3. Quel che succede

    Quel che succede altrove dice quello che succederà tra noi domani, se oggi non avremo disciplinatamente un indirizzo di giusta austerità in fatto di vestito.
    Succede (altrove, a Genova il caso è stato più unico che raro) che si comincia a togliere il colletto romano al clergyman, cioè l'unico elemento vero che classifica. Alcuni hanno già adottato, in aperta violazione del Decreto della CEI, l'abito grigio chiaro, conservando tuttavia il colletto romano. Poi si arriva al maglione scuro, e tale colore fa presto a schiarirsi, con tutto il resto dell'abbigliamento. Finalmente siamo all'abito borghese, senza alcuna riserva.
    Analogamente succede che in talune città d'Italia (non citiamo ovviamente i nomi, ma siamo ben sicuri di quello che diciamo) per l'assenza di ritegno imposto dalla sacra divisa si arriva ai divertimenti tuttavia proibiti dal Codice di Diritto Canonico, ai night clubs, alle case malfamate e peggio. Sappiamo di retate di seminaristi fatte in cinema malfamati ed in altri non più consigliabili locali.
    Tutto per colpa dell'abito tradito!

    4. Quello che il popolo ne pensa

    È difficile usare la parola popolo. Certo è che non sono «popolo» gruppuscoli, votati alla distruzione, non delle strutture soltanto, ma della Chiesa di Cristo. Neppure sono «popolo» ristretti ambienti legati ormai solo dal comune odio verso chi difende la Verità e la tradizione cattolica, come se questa non fosse altra cosa dalle altre tradizioni, e non fosse di origine divina. Nemmeno sono «popolo» coloro che nella Chiesa sabotano quanto fanno i Pastori a qualunque livello, portano alla perversione disgraziati preti e disgraziati frati. «Popolo» è quello che va in chiesa con umiltà e devozione, che forse non va più in chiesa, ma che crede ancora e, nei momenti in cui dimostra questa Fede, ragiona secondo il catechismo, rispetta le cose sacre, ha un concetto teologico del ministero sacerdotale, fa celebrare le sante Messe, va al cimitero e qualche volta col santo timore di Dio, ma senza presunzione, o prima o poi pensa alla vita eterna. Popolo sono tutti coloro che non vogliono saperne di preti e di Chiesa, ma al primo guaio, al momento dell'abbandono degli altri, quando la disgrazia bussa alla porta, ricorrono ai propri anche umili Pastori, dando così una attestazione inequivocabile del loro giudizio sulla Fede. Nelle visite pastorali ho raccolto tanti episodi da poterne scrivere un gran libro di «Fioretti».
    Questo «popolo», da noi, sono ancora i più. I molti che se ne staccano al tempo del carnevale giovanile, poi alla chetichella, o prima o poi, li trovate alla Guardia ed a tutti i Santuari...
    Ecco allora quello che pensa questo «popolo».
    In genere si scandalizza del prete senza l'abito talare; immaginate che pensa quando il prete non ha alcun abito ecclesiastico. Lo schermo dei pochi, contenti di rovinarci, non serve e non illude il vero «popolo».
    Qui da noi ormai molti disertano il confessionale del prete senza talare.
    A Genova, e non in un posto solo, ho sentito di peggio e tale che non oso qui riportarlo. I casi in cui i preti o il prete rimasti con la talare sono pubblicamente preferiti aumentano ogni giorno. Il «popolo» avrà i suoi peccati, ma ha una sua severità di giudizio.

    5. Il bilancio che ne consegue

    Eccolo:
    - disistima;
    - sfiducia;
    - insinuazioni facili e talvolta gravi;
    - preti che, cominciando dall'abito e dallo smantellamento della prima umile difesa, finiscono dove finiscono...
    - crisi sacerdotali, del tutto colpevoli, perché cominciate col rifiuto delle necessarie cautele, richieste dal Diritto Canonico e dal consiglio dei Vescovi..., con risultati disgraziati e spostati...
    - seminari che si svuotano e non resistono; mentre nel mondo, tanto in Europa che in America, rigurgitano i seminari, ordinati secondo la loro genuina origine, col rigoroso abito ecclesiastico, nella vera obbedienza al Decreto conciliare Optatam totius;
    - anime che si trascinano innanzi senza più alcuna capacità decisionale, dopo la loro contaminazione col mondo.
    L'abito è la «porta»!

    6. Per i seminari

    La mancanza di continuità e di rispetto nell'uso dell'abito ecclesiastico demolisce la prima difesa.
    La distinzione dal mondo non esiste più. Il rimanente è facile intuirlo. La obbedienza, lo spirito di sacrificio, la prontezza alla dedizione, la pietà profonda diventano a poco a poco chimere. La spavalderia prende il posto della educazione, l'esibirsi sostituisce il distacco dal mondo e l'umile educato contegno che lo connota. La contestazione (alla quale si debbono ascrivere le terribili crisi del poi, quando le responsabilità sostituiscono ogni stile canzonatorio) prende il posto dello spirito ecclesiastico e miete le sue grandi vittime!
    Credo difficile possa esistere nel nostro tempo, proprio per le sue caratteristiche, lo spinto ecclesiastico senza il desiderio e il rispetto dell'abito ecclesiastico.

    7. La talare finalmente!

    Qui non parliamo solo di «abito ecclesiastico», ma di talare. E guardiamo bene le cose in faccia, senza alcun timore di quel che si può dire.
    Fino a questo momento la legge dice che «la talare è l'abito normale» dell'ecclesiastico. Il che significa che il clergyman non è l'abito normale.
    Alcuni, per boicottare l'uso della talare o per giustificarsi nell'aver ceduto alla moda corrente contraria all'abito talare, affermano: «Tanto la talare è un abito liturgico», volendo così esaurire l'eventuale uso della talare alla sola liturgia.
    Questo è apertamente falso e capziosamente ipocrita!
    Le ragioni sono diverse: la più evidente è fornita dalla prassi secondo cui la talare non solo non è mai stata sufficiente per la celebrazione dei sacramenti e sacramentali, ma non è mai stata considerata nemmeno come abito corale.
    Alla liturgia la talare è ordinata non solo per la immediata azione sacra, ma in quanto di tale azione sacra ne estende la forza, la dignità e la santità all'intera vita del sacerdote, caratterizzata dalla perenne preparazione e continuazione dei sacri misteri che celebra.
    La legge mette tante limitazioni all'uso del clergyman che chi vuole osservarla e tenersi il suo clergyman deve girare tutto il giorno con sotto il braccio la talare stessa o il clergyman. So bene che c'è chi non pone alcun caso alla legge, ma debbo dirgli che Dio, futuro giudice, non è affatto di questo avviso.
    Francamente è chiaro che il clergyman è una concessione fatta e tollerata per la fungibilità soltanto, che lo stesso clergyman non è la soluzione più desiderata. Chi non ama la sua talare resisterà ad amare il suo servizio a Dio?
    Il prossimo non sostituisce Dio!
    Non è soldato chi non ama la sua divisa.

    Conclusione

    L'indirizzo da darsi è:
    - che anche se la legge ammette il clergyman, esso non rappresenta in mezzo al nostro popolo la soluzione ideale;
    - che chi intende avere l'integro spirito ecclesiastico deve amare la sua talare;
    - che soltanto una ragione di fungibilità, direi a malincuore, potrà autorizzare a servirsi dell'abito corto ammesso;
    - che la difesa della talare è la difesa della vocazione e delle vocazioni.
    Il mio dovere di Pastore mi obbliga a guardare assai lontano. Ho dovuto constatare che la introduzione del clergyman oltre la legge e le depravazioni dell'abito ecclesiastico sono una causa, probabilmente la prima, del grave decadimento della disciplina ecclesiastica in Italia.
    Chi vuol bene al sacerdozio, non scherzi con la sua divisa!

    NOTE

    [1] Tale decisione è confermata dalla lettera di S.S. Giovanni Paolo II e da quella del Cardinale Vicario Ugo Poletti in cui si ribadisce fermamente la stessa disciplina; cfr, «L'Osservatore Romano», 18-19 ottobre 1982, pp. 1, 3 (n.d.r.).
    [2] Per uno studio approfondito dell'argomento riguardante l'abito ecclesiastico sotto il profilo giuridico cfr. soprattutto: F. Lopez Illana, Vesti ecclesiastiche e identità sacerdotale, alla luce degli schemi del nuovo Codice di Diritto Canonico e dei Decreti Pontifici, Ed. Giovinezza, Roma 1983, pp. XIV, 266. Id. «Decentem habitum ecclesiasticum ...» note giuridiche sul can. 284, in «Palestra del Clero», anno 63, n. 4, 1984, pp. 224-240 (n.d.r.).
    [3] "Exteriora nostra et interiora pariter scrutanda sunt et ordinanda, quia utraque expediunt ad profectum" Imítatio Christi, 1, 19, 14.

     


    testo tratto da: Card. Giuseppe Siri, A Te sacerdote, vol. II, Frigento: Casa Mariana, 1987, pp67-73.




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    [Modificato da Caterina63 26/04/2015 20:26]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    00 23/02/2011 17:53

    L'abito ecclesiastico: sua finalità e sua importanza

    "Chi non ama la sua talare resisterà ad amare il suo servizio a Dio? Il prossimo non sostituisce Dio! Non è soldato chi non ama la sua divisa." (Card. Giuseppe Siri)

    1. Il monaco senza abito.

    Si dice che l'abito non fa il monaco, il che è vero, nel senso che non basta mettersi qualcosa addosso per cambiare vita o distinguersi esteriormente dal mondo per operare la propria conversione interiore. D'altra parte, è vero anche il contrario: abbandonare l'abito religioso o deformarlo a mero "segno di riconoscimento" (come il tesserino appuntato sul petto dagli addetti di qualche azienda) può significare due sole cose, entrambe negative: o la vergogna per un modo di essere che si cerca di nascondere ogni qual volta faccia comodo; o l'idea secondo cui tra i consacrati e i laici non vi sia alcuna differenza se non sul piano puramente accidentale. In ultima analisi, è un'indebolimento della fede, occultata o deformata, che provoca l'abbandono, se non addirittura il disprezzo, della veste sacra.

    Non è mia intenzione, qui, analizzare minutamente le molteplici ragioni che giustificano l'uso, da parte dei consacrati, di un abito diverso dalle altre persone. Tuttavia, poiché oggi anche il semplice buon senso sembra vacillare, bisognerà per lo meno spendere una parola contro le obiezioni più frequenti.

    2. Chiarezza, non finzione.

    La prima è quella secondo cui il consacrato, vestendosi come chiunque, sarebbe più vicino alla gente, più capace di mettersi in relazione con loro. Ora, la chiarezza dei ruoli sta alla base del funzionamento di un rapporto. Nessuno, credo, per corteggiare una ragazza si vestirebbe da donna; e sarebbe ridicolo che il capo di un'azienda, per avere migliori relazioni coi propri operai, andasse a visitarli in tuta da lavoro. Anzi, nell'uno e nell'altro caso l'interlocutore si sentirebbe preso in giro dal tentativo di impostare il rapporto su un mezzo inganno. E reagirebbe o allontanando il dissimulatore oppure trattandolo con sufficienza, perché chi si vergogna di un modo di essere perfettamente legittimo non ha alcun diritto ad essere preso sul serio. Con questo cade la prima obiezione all'abito religioso: chi non lo porta per avvicinarsi alla gente, si rende, sia pure involonariamente, artefice di un inganno. Il consacrato deve avvicinare la gente come consacrato, non come finto laico.

    3. Il falso spiritualismo si traduce in vero materialismo.

    L'altra frequente obiezione viene formulata più o meno in questo modo: uno stato interiore e spirituale non ha bisogno di essere manifestato con segni esteriori e materiali. Distinguo: uno stato interiore e spirituale privato, che non ha riflessi visibili sulla propria condizione pubblica, non ha effettivamente bisogno di essere denotato esteriormente. Non si chiederà ad un laico che si è confessato e ha fatto la Comunione di appendersi una nastrino al collo per far sapere a tutti la grazia che ha ricevuto. Anzi, vantarsi dei propri meriti, ancorché spirituali, significa alienarsi, come dice il Vangelo, la ricompensa che essi avrebbero meritato nell'altra vita. Invece uno stato interiore e spirituale pubblico, che cioè muta la condizione pubblica di una persona, modificandone il suostatus, non solo può, ma deve essere manifestato con segni visibili. Ora, il conferimento dei sacri ordini è pubblico, come pubblico è l'ingresso in un istituto religioso mediante la solenne professione dei voti. È necessario, quindi, che il consacrato porti esteriormente un segno di questa sua condizione, che lo distingue dagli altri fedeli e che, essendo pubblica, dev'essere pubblicamente manifestata.

    Certo, la sana filosofia ci insegna a subordinare il materiale allo spirituale. Sappiamo perfettamente che il segno esteriore ha senso nella misura in cui riflette uno stato interiore. Attribuire soverchia importanza al segno, a scapito della realtà che esso significa, vuol dire confondere il mezzo col fine, l'accidentale con l'essenziale. Ma nell'uomo, fatto di anima e di corpo, anche la parte materiale ha la sua importanza. È l'istituzione stessa dei Sacramenti a dimostrarcelo. Per veicolarci le sue grazie ex opere operato, nostro Signore avrebbe potuto scegliere qualunque mezzo, anche puramente spirituale. Invece ha deciso di legarle ad un segno tangibile, un segno che, pur essendo in se stesso materiale, produce infallibilmente una grazia spirituale. Perché questa scelta? Per la consapevolezza che l'uomo, non essendo un puro spirito (come gli Angeli), ha bisogno di segni sensibili per accedere più facilmente alle realtà insensibili (cioè non percepibili attraverso i sensi). Ho parlato dell'istituzione dei Sacramenti. Ma avrei potuto menzionare anche l'Incarnazione. Dio poteva redimerci in diversi modi. Se ha scelto di farlo assumendo l'umana natura, è per lo scopo delineato dal prefazio di Natale: "affinché, conoscendo Dio visibilmente, siamo rapiti alla contemplazione delle realtà invisibili".

    Bisogna quindi tenersi egualmente lontani da due opposti eccessi: da un lato, quello del materialismo, che ordina l'inferiore (le realtà corporee) al superiore (le realtà spirituali), comportando il dileguo di queste ultime; e dall'altro quello, non meno deleterio, dello spiritualismo, che, pur riconoscendo la ragionevole supremazia delle realtà spirituali, finisce per misconoscere l'importanza di quelle materiali.

    L'uomo, diceva Pascal, è un po' angelo e un po' bestia. Quando cerca di diventare solo angelo, finisce per diventare solo bestia. Il protestantesimo ha voluto trasformare la religione del Verbo incarnato in qualcosa di puramente spirituale, senza sacramenti, senza sacrificio, senza sacerdozio, in una parola senza segni visibili che producano la grazia invisibile. Dopo non molto tempo, questo innaturale spiritualismo si è trasformato nel suo contrario, cioè nell'esaltazione della materia a scapito dello spirito. E non può essere altrimenti. Sganciato da uno dei propri elementi costitutivi - il corpo - l'uomo tenta di librarsi nei puri cieli dello spirito; ma, come dice il Poeta, "sua disianza vuol volar sanz'ali", poiché l'uomo non è un angelo, anche se si sforza di diventarlo. Non nel senso che non possa raggiungere la purezza di un angelo o la santità di un angelo, ma nel senso che non può comportarsi come se non avesse anche una parte materiale, la quale, se non viene usata come mezzo di santificazione, finisce per assumere una propria autonomia, trasformandosi in mezzo di dannazione. Mi spiego con un esempio. Tutti abbiamo bisogno di mangiare: possiamo seguire ciecamente questo istinto, e ammalarci di indigestione; possiamo fingere che non esista, e morire di fame; oppure possiamo mangiare per saziarci, ossia ordinando la realtà corporale (l'istinto) alla realtà spirituale (la ragione). Ora, poiché gli aspiranti suicidi, grazie a Dio, sono pochissimi, le persone che negano al cibo qualunque utilità, piuttosto che morire di fame, finiranno per passare al versante diametralmente opposto, cioè a sostenere la necessità di assecondare irrazionalmente le proprie passioni. È il finto angelo che diventa vera bestia.

    4. Tentazioni gnostiche.

    L'utilizzo di un segno esteriore che denoti una condizione interiore è dunque connaturale all'essenza dell'uomo, il quale, come abbiamo visto, deve servirsi ragionevolmente delle realtà materiali in modo da ordinarle a quelle spirituali. Di qui la somma importanza dell'abito sacro. Esso, infatti, non si limita ad indicare una condizione qualsiasi, tra le tante che l'uomo può pubblicamente assumere, ma è il segno di uno stato di vita diverso e distinto da quello delle altre persone. In quanto stato, tale condizione non viene mai abbandonata, neppure temporaneamente. Il consacrato non è tale solo quanto è in servizio: per questo i sacerdoti o i religiosi che usano la veste sacra solo durante le funzioni sono da biasimare non meno di quelli che non la usano mai. Anzi, forse sono da biasimare di più, perché, oltre a fraintendere il significato del segno, lo sviliscono a puro elemento di esibizione, come se il sacerdote non avesse alcun bisogno dell'abito e lo indossasse solamente per non deludere gli innocenti e puerili desideri del popolo. Chi si comporta così, riconosce il principio, sopra esposto, secondo cui le cose sensibili vanno utilizzate per favorire la contemplazione delle cose soprasensibili; ma ne limita l'applicazione ad alcune categorie di persone: il popolo, semplice e istintivo, ha bisogno di questi segni; i sacerdoti, i dotti, le persone colte, no. Non è difficile riconoscere in questo una forma velata di gnosi: l'accesso ad una forma di conoscenza riservata a pochi crea l'illusione di trascendere la natura umana, di non aver bisogno di ciò di cui tutti hanno bisogno. Inutile far rilevare come, alla resa dei conti, i consacrati che seguono questo tipo di ragionamento, quando non usano la veste, lo fanno per i discutibili motivi di cui abbiamo parlato all'inizio del presente articolo, se non addirittura per ragioni ancor meno onorevoli. È, ancora una volta, l'angelo (anche se stavolta restringe la possibilità di de-materializzarsi ad una ristretta cerchia di privilegiati) che si rivela bestia.

    In realtà, il consacrato è il primo ad aver bisogno della veste sacra, è il primo ad aver bisogno di un segno esteriore che gli ricordi, anche quando sarebbe più propenso a dimenticarlo, il suo stato di vita. La natura umana, come ben sappiamo, non è distrutta dalla grazia; tanto meno è distrutta dalla conoscenza di certe nozioni o dall'assunzione di uno stato di vita (gnosi). Da questo punto di vista, il sacerdote è un uomo come tutti gli altri, bisognoso, anche lui, di ordinare il corpo mediante il ragionevole utilizzo delle realtà sensibili. Per questo le costituzioni degli Ordini religiosi, fino alla recenti riforme, ordinavano al consacrato di non deporre mai la sacra veste: perfino durante la notte, se non si usava l'abito intero (distinto, ovviamente, da quello impiegato durante il giorno), bisognava portare l'abitino, ossia un piccolo scapolare dello stesso tessuto e colore della veste sacra. Il terzo Concilio plenario di Baltimora stabiliva che i sacerdoti potevano indossare il clergyman solo all'esterno (come d'abitudine nei paesi anglosassoni), mentre in chiesa e in casa (cioè anche nel privato) doveva tassativamente portare la talare. In molti seminari, i candidati ai sacri ordini dormivano con l'abito talare piegato e deposto sul petto: non si trattava, come alcuni vorrebbero, di un semplice memento mori, ma della logica applicazione del principio secondo cui l'abito religioso serve anzitutto al sacerdote per riconoscere se stesso. Nei bui momenti di sconforto, di scoraggiamento, di tentazione, quando la volontà interiore è meno propensa a ricordarsi degli impegni assunti e delle scelte fatte, è spesso un segno esteriore che ci richiama alla realtà e ci salva. Riconoscere questo, non significa trasformare l'uomo in un eterno fanciullo, sempre bisognoso di qualcuno o qualcosa che lo controlli; significa piuttosto prendere atto della natura intima dell'uomo (in cui l'angelo, in alcuni momenti, rischia di essere soppiantato dalla bestia) e predisporre gli opportuni rimedi. Di qui la necessità di usare la veste sacra come memento al consacrato del suo modo di essere. In questo stessa senso va inquadrata la prassi di portare la tonsura o chierica nei capelli, la quale peraltro, a differenza della veste, non poteva essere neppure deposta. L'abito non fa il monaco, ma aiuta ad esserlo.

    5. Dignità e bellezza.

    C'è poi un'ultima questione da affrontare. Secondo alcuni, il sacerdote deve sì essere identificabile come tale, ma per ottenere questo scopo basta un "segno di riconoscimento" qualsiasi: una crocetta, un tau, un colletto, qualunque cosa possa alludere alla sua funzione. Osserviamo, anzitutto, che un segno, per essere riconoscibile, dev'essere univoco: quindi, parlare di un "segno di riconoscimento" senza stabilire esplicitamente quale, non ha alcun senso. Oggi siamo arrivati al paradosso di sacerdoti i quali pensano di essere riconosciuti per una sorta di telepatia interiore, come se il loro modo di essere ce l'avessero scritto in faccia. Né c'è da stupirsene, visto che alludere ad un "segno di riconoscimento" senza definirlo, significa lasciare aperto il campo alle più disparate interpretazioni, anche a quelle telepatico-sensitive. In secondo luogo, un segno, per essere efficace, deve avere una qualche relazione evidente ed immediata (analogia) con la realtà che vuole significare. Ora, è indubbio che la veste sacra, per il fatto di avvolgere interamente chi la porta, rimanda in modo assai efficace al fatto della totale consacrazione a Dio. Il consacrato, anche esteriormente, è rivestito di Cristo. La sua separazione dal mondo (che non significa estraneità, visto che, tolti i casi di vita assolutamente contemplativa, continua in vario modo ad operare nel mondo) è denotata dall'uso di vesti radicalmente diverse da quelle comuni. I colori sobri e le stoffe poco pregiate rimandano alla scelta dell'umiltà e, per chi ne ha fatto voto, della povertà. Secondo la stessa logica, i Prelati, in ragione del proprio ruolo, indossano vesti dai colori e dai tessuti più preziosi. E tutto questo, senza considerare le simbologie proprie degli abiti dei singoli istituti, ricchissime di significati teologici e spirituali. Come, celebrando la Messa, il sacerdote - anche esteriormente - si spoglia di se stesso e si riveste di Cristo, così nella sua vita quotidiana il consacrato, che ha rinunciato a se stesso abbracciando un determinato stato di vita, deve testimoniare - anche esteriormente - la sua intima identificazione col Salvatore.

    Per questo la veste sacra non dev'essere priva di una sua dignità estetica.

    Trascurare questo aspetto in nome della comodità o del funzionalismo, significa eleminare od oscurare la corrispondenza analogica tra simbolo e significato. Non di rado, oggi, vediamo abiti religiosi striminziti e di tessuto sottilissimo, che lasciano trasparire le vesti borghesi sottostanti e che sembano fatti apposta per essere frettolosamente indossati quando ci si reca ad una funzione o si esce di casa. Nulla a che vedere rispetto alle vesti ampie, nobili e dignitose, ancorché poverissime, che si usavano prima delle recenti riforme. Le modifiche più notevoli si sono avute negli abiti delle religiose: ai lungi veli, ai soggoli inamidati, alle ampie gonne che scendevano fino al ginocchio, alle cinture, agli scapolari (cose, tavolta, di forma originale o insolita, ma sempre degne di una sposa di Cristo e comunque munite di una loro storia e di un loro significato), si sono sostituiti dei ridicoli tailleur stile anni Cinquanta, con gonna al ginocchio e giacchetta stilizzata. D'estate non è raro vedere le mezze maniche. Il soggolo è completamente scomparso e il velo si è trasformato in un esile fazzoletto, che lascia intravedere più capelli di quanti ne compra. Non è difficile scorgere, in queste stilizzazioni, il passaggio dall'abito come segno "escatologico", la cui forma suggerisce la realtà che è chiamata a significare, all'abito come segno "di riconoscimento", dotato di una funzione puramente convenzionale. E tutto questo senza tener conto delle conseguenze psicologiche di simili scelte: infatti, stilizzare o trascurare il segno che denota il proprio modo di essere, viene comunemente interpretato come negligenza e disinteresse verso il modo di essere in quanto tale.

    6. Considerazioni finali.

    Concludo con un tentativo di sintesi. L'abito religioso è il segno esteriore di una realtà interiore. Esso non è coessenziale a questa realtà, nel senso che non è indispensabile affinché questa esista (l'abito non fa il monaco), ma ne è la legittima espressione, conformemente alla natura dell'uomo, che essendo composto di anima e di corpo ha bisogno di servirsi delle cose visibili per cogliere meglio quelle invisibili (l'abito aiuta ad essere monaco). Spogliarsi del segno esteriore non implica la cessazione della realtà interiore; ma è visto dagli altri o come un suo svilimento (vergogna per ciò che si è) o come un tentativo di inganno (fingersi ciò che non si è). Quindi non è in alcun modo funzionale alle relazioni col prossimo, che, al contrario, hanno come presupposto la chiarezza, anche esteriore, dei ruoli. Queste considerazioni, se valgono per il prossimo, valgono a maggior ragione per il consacrato stesso, il quale, per primo, ha bisogno di un segno che gli ricordi sempre, anche quando sarebbe più propenso a scordarlo, la propria condizione. In quanto simbolo (realtà materiale che allude ad una realtà spirituale), la veste sacra deve avere una corrispondenza analogica con ciò che significa: in altre parole, deve in qualche modo rimandare, nel colore e nella forma, alle caratteristiche dello stato di vita che è chiamata a rappresentare. I segni di riconoscimento convenzionali (crocette, colletti, tau), come pure gli abiti stilizzati e imbruttiti che hanno rimpiazzato le dignitose vesti tradizionali, non soddisfano questo requisito, quindi sono da scartare. Essi denotano, tutt'al più, una funzione (come quella di un impiegato che porti un cartellino di riconoscimento), ma non un modo di essere: non sono sufficienti a fare della veste religiosa quel "segno escatologico" di cui parlano gli autori di spiritualità. Anzi, a causa della loro bruttezza ed ordinarietà, finiscono per svilire, a livello psicologico, anche la realtà che significano.

    L'esperienza dimostra quanto abbiamo tentato di spiegare a parole. Nel corso della storia, l'abbandono della veste sacra è sempre coinciso con periodi di forte decadenza spirituale. Ad avere in uggia la forma tradizionale dell'abito sacro erano, per esempio, i chierici frivoli e libertini del XVIII secolo. Quanto al clero moderno, l'ostentata noncuranza nei confronti dei segni esteriori fa riscontro ad una mondanizzazione e ad una crisi d'identità (disciplinare e dottrinale) senza precedenti.

    Del resto, la decadenza della religiosità esteriore è, ad un tempo, causa ed effetto della decadenza della religiosità interiore, poiché la mente umana è fatta in modo tale da conoscere invisibilia per visibilia. Trascurando il segno visibile, si finisce a poco a poco per perdere il contatto con la realtà invisibile da esso rappresentata. Parallelamente, chi non è più in grado di cogliere adeguatamente le cose spirituali non avverte più il bisogno di esprimerle in forma materiale. Si tratta di un circolo vizioso (abyssus clamat abyssum), dal quale è possibile uscire solo col recupero dei sani concetti della filosofia e della teologia tradizionali e col ritorno alla secolare prassi della Chiesa cattolica.


    Daniele Di Sorco, via Facebook.

    I fondatori dell'Ordine dei Servi di Maria ricevono dalla Vergine il sacro abito.

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    Caterina63
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    Sesso: Femminile
    00 05/03/2011 10:53

    Quaestio/28 L’abito dei Chierici

    del Ven. Jean-Jacques Olier – La veste talare e la cotta, che sono l’abito della religione di Gesù Cristo (1) sono l’espressione esteriore della professione da noi fatta, di rivestirci interiormente della religione di Cristo verso il suo divino Padre.

    Questa è la dichiarazione che tutti chierici devono fare ai piedi del vescovo ricevendo il santo abito. Essi testimoniano così solennemente di dedicarsi a Dio in Cristo suo Figlio, per servirlo nella sua Chiesa, di prenderlo per unico retaggio, per unico bene, per loro tutto. Allora soltanto vengono rivestiti della cotta, dopo d’aver ricevuto la tonsura e d’esser stati rivestiti di una veste talare.

    Tutte queste circostanze sono molto misteriose e devono essere considerate con seria attenzione da coloro che entrano nel chiericato. Le persone incaricate dell’istruzione dei chierici, porranno gran cura nel darne le spiegazioni. Da parte loro, i chierici devono desiderare ardentemente di conoscere ciò che esse significano (2); poiché vi riscontreranno i loro obblighi principali e le disposizioni speciali che sono loro necessarie per entrare in questo stato e per abbracciare questa santa professione.


    PARTE Iª – DELLA SANTA VESTE TALARE

    L’abito col quale si presenta colui che aspira al chiericato è la santa veste talare. Questo abito è il segno esterno dell’anima disposta a entrare nella vita ecclesiastica (3).

    Tutto ciò che esiste di esteriore nella Chiesa del Signore governata dal suo Spirito divino e dalla sua santa saggezza, esprime qualcosa di interiore che non potrebbe essere espressa che con qualche espressione o figura sensibile (4). Il corpo significa l’anima, in noi; e con i suoi gesti, con i suoi movimenti e con le sue azioni esso scopre quali sono le sue potenze intime che altrimenti resterebbero sconosciute.

    Non si saprebbe mai che l’anima ha la potenzialità di vedere, di ascoltare, di parlare, se il corpo, con le sue funzioni dipendenti dall’anima, non facesse vedere ciò che essa è in se stessa (5).

    Così Nostro Signore fa apparire nella Chiesa, per mezzo di cose esteriori, ciò che vi è di più nascosto nei suoi misteri (6); e mediante le vesti e gli ornamenti di cui ricopre i suoi ministri, le cerimonie con cui vela le sue opere, egli spiega ciò che l’uomo nuovo e il suo spirito divino operano nelle anime nostre.·

    Ora, poiché di tutte le vesti dell’ecclesiastico la prima è la veste talare, venerabile abito proprio dello stato ecclesiastico e prescritto dai sacri canoni stessi (7), dobbiamo vederne il significato e ciò che la Chiesa intende esprimerci per suo mezzo.

    La veste talare, che è un abito nero, significa la prima delle disposizioni che deve avere il chierico e la prima parte della religione del santo clero, che è d’essere morto ad ogni amore, ad ogni stima del mondo (8). La cotta, invece, rappresenta la seconda parte di questa stessa religione, che è di non vivere che per il Signore. Si ricopre di questo abito colui che si presenta a ricevere la tonsura, per insegnargli che deve essere talmente distaccato da ogni cosa terrena, da rassomigliare a un morto, non desiderando più che Dio, in confronto del quale non esiste nulla al mondo di amabile. Così del resto dichiara il chierico allorché, spogliandosi dell’ignominia dell’abito secolare, si ricopre di questa santa veste: egli dichiara pubblicamente in faccia a tutta la Chiesa, che intende di cambiare le proprie abitudini, i propri costumi, così come cambia d’abito (9); che non intende più viver della vita terrena, ma della vita celeste; che non conosce più che Dio, non stima altri che Lui, che Egli è il suo tutto e che il resto non gli è più nulla; infine, che vuol essere come i beati che, nella visione di Dio, non vedono più che lui, o che se vedono qualche altra cosa, qualche creatura, la vedono talmente in Dio, che essa è ai loro occhi piuttosto Dio che creatura.

    L’abito del chierico che rivela come egli sia il perfetto religioso di Dio, entrato nella comunione e partecipazione della religione del cielo, è la cotta. Questo è il suo abito vero, perfetto, senza del quale non può compiere alcuna delle sue funzioni (10); di modo che egli non è considerato chierico rappresentante il proprio stato, che quando ne è rivestito. Se qualche volta non porta che la veste talare, questo avviene quando egli è nel secolo (11), indegno di vedere l’innocenza, la purezza, la santità e lo splendore del suo abito divino. E se non mostra che nero agli occhi del mondo, è per significare che è morto per esso, e che egli lo considera tanto miserabile che, per vivere nella giustizia e nella grazia, bisogna morire a ciò che esso’ è; tanto è vizioso e corrotto (12)!

    L’ampiezza di questo abito non ci deve stupire (13); il prete rappresenta tutto il mondo; deve portare nel cuore la religione che aveva Cristo nel suo, che è la religione universale che egli offrì al suo Padre per supplemento di quella di tutta la sua Chiesa.

    Egli amava, adorava, lodava il Padre per tutti gli uomini e per tutti gli angeli. Faceva per essi ciò che non potevano degnamente fare, di modo che suppliva a tutti (4). Così egli era il religioso universale, colui che pregava lodava e glorificava Dio per tutto il mondo.

    Questo Egli continua a fare nel Cielo (15) e nel Santissimo Sacramento dell’Altare, dove rende a Dio tutti gli omaggi e i doveri della religione nel suo interiore, come la Chiesa glieli rende esteriormente sulla terra e glieli renderà egualmente nel Cielo. Ma poi che Nostro Signore, ascendendo al cielo e lasciando la terra, ha cessato di onorare esteriormente il suo divin Padre a nome di tutti gli uomini come visibilmente faceva sulla terra, così ha voluto lasciare dei successori della sua religione che continuassero a compiere gli stessi doveri verso Dio, Padre suo (16). E siccome questa religione è in lui per mezzo dello Spirito Santo, la cui virtù gli fa adorare Dio quanto lo può essere, egli ha voluto, dopo l’ascensione al cielo, mandare questo stesso Spirito ai suoi Apostoli ed ai suoi discepoli affinché continuasse a diffondere nei cuori come aveva fatto nel suo (17), una religione perfetta, santa, interiore, comprendente in sé i doveri e gli omaggi di tutto il mondo insieme.

    Così, gli Apostoli e i Preti sono i successori di Gesù Cristo nella sua religione e non sono stabiliti se non per onorare Dio in nome di tutto il mondo (18).

    Per questo, la veste talare è così ampia, a rappresentare quasi la sfericità e la distesa della terra: ciò che si raffigurava anticamente nella veste del sommo sacerdote che era pure amplissima per prefigurare l’immensità della religione di Gesù Cristo (19). Il pontefice nella antica legge, portava su di sé i nomi delle dodici tribù (20) per prefigurare l’eccellenza della religione del Figlio di Dio e la grandezza del suo amore verso il Padre che sorpassò quello di tutti gli uomini insieme; ed ancora per significare che i preti devono portare l’amore di tutti gli uomini nei loro cuori (21); che essi devono contenere nel cuore tutti gli omaggi, tutte le lodi di ogni fedele, e possedere nelle loro anime più religione verso Dio che tutte le creature insieme riunite. La santa veste talare è inoltre come un sudario che ci tiene sepolti e che esprime al vescovo lo stato di morte nel quale si trova il santo chierico che a lui si presenta. Dico sempre è dovunque santo, perché, come la Chiesa è un nuovo mondo e un mondo di santità, fatto soltanto per rappresentarci Dio e Gesù Cristo nelle loro eminenti perfezioni, nulla deve trovarsi in essa che non sia santo.

    La santa veste talare significa dunque che il chierico è morto al secolo (22): come egli stesso protesta, quando dice di non voler più che Dio; Dominus pars hereditatis meae. Ed anche se non lo dicesse, parlerebbe del suo obbligo l’abito che indossa che, semplice e nero come è, esprime a chiunque che il chierico che lo porta è morto alla pompa ed al fasto del secolo (22) e che deve esserne separato nel cuore come lo è nell’abito (23).

    L’abito talare ricopre tutto il corpo, a testimoniare che tutta la carne è morta e che il chierico che lo porta, reca in sé la morte di Cristo in tutte le sue membra. Necessità quindi che colui che è innalzato al santo stato ecclesiastico, faccia apparire, nella persona, la morte di Nostro Signore e le sue vittorie, e tutte le sue azioni lo proclamino e lo annuncino dappertutto (24). Dice San Paolo che tutti i cristiani devono essere circondati per tutto il loro coro po della morte di Gesù Cristo: Semper mortifìcationem Jesu in corpore nostro circumferentes (25). Questo è raffigurato dall’abito talare che, ricoprendo il chierico e circondandone il corpo, non lascia scorgere nulla di lui se non sotto un abito di morte (26).

    Siccome essi sono interamente appartenenti a Gesù e si sono dati a Lui senza riserva nello stato clericale, non devono soltanto essere mortificati nella carne, nelle sue sregolatezze e nei suoi desideri, secondo la parola dell’Apostolo: Qui sunt Christi, carnem suam crucifìxerunt cum vitiis et concupiscentiis (27); ma ancora devono essere morti e sepolti con Gesù Cristo, per partecipare poi alla sua nuova vita. Anche questo esprime la veste talare. E come la crocifissione, la morte e la sepoltura precedono la risurrezione interiore, il vescovo vuol vedere un figliolo vestito della veste talare come di un lenzuolo funebre che ne ricopra tutto il corpo, che lo tenga seppellito, prima di dargli la cotta (28).

    Il chierico, rivestito dalla veste talare nera, esprime la disposizione del suo spirito e il desiderio di vivere umiliato tutta la vita (29) e morto a tutto se stesso, dai piedi alla testa; non avendo più nulla in lui, né volontà, né giudizio, né passioni, come se la vecchia creatura d’Adamo morta in lui non gli lasciasse più alcun desiderio.

    Un chierico deve così camminare nel mondo, portando la croce di Gesù Cristo esposta su se stesso: Crucifìgentes veterem hominem in semetipsis; di modo che nulla di carnale appaia vivente in lui. Ecco perché la veste talare è interamente chiusa e copre tutto il nostro corpo (30). È però vero che la testa non è nascosta sotto questo santo abito, come il resto del corpo; e ciò a significare che solo Gesù Cristo (31) deve apparire in noi: Viri caput Christus (32). Lo si deve vedere sulla nostra bocca: Si quis loquitur, quasi sermones Dei (33); colui che parla, dice San Pietro, deve parlare il linguaggio di Dio. Bisogna scorgere che Dio muove la sua lingua ed anima la sua parola (34). Il viso pure è scoperto, per testimoniare che il chierico deve essere, nei suoi costumi e nella sua condotta, una immagine della Divinità.

    E se le mani appaiono, è perché il chierico deve far conoscere nelle sue azioni rappresentate dalle mani, che Dio opera in lui: Si quis ministrat, tamquam ex virtute quam administrat Deus (35).

    Se il chierico opera, sia per potenza di Dio; sia Dio che lo muove e che gli comunica l’efficacia della sua azione; di modo che si vedano, nel suo corpo morto, le opere della vita dello spirito espresse dalle sue mani (36). II volto ben composto e la condotta di vita ben regolata, sono gli indizi ai quali riconosciamo che Dio abita nella mente e nell’anima del chierico. Modestia vestra nota sit omnibus hominibus: Dominus enim prope est. Che la vostra modestia, dice S. Paolo (37), sia conosciuta da tutti, per rispetto a Dio che vi sta vicino, e per causa dell’unione a Cristo che, risiedendo in voi, fa riflettere la sua modestia nel vostro aspetto esteriore (38).

    Questo grande Dio, che ordina ogni cosa con tanta saggezza e che muove la creatura con tanto criterio, si rivela presente in un’anima per mezzo del contegno de} corpo (39). Se si riconosce la presenza di Dio nell’armonia del firmamento e nel moto dei corpi celesti, più facilmente si potrà discernere la presenza della sua maestà in un’anima che Egli guida, nel moto che Egli vi imprime (40).

    Nulla resta dunque di scoperto in colui che è rivestito dell’abito talare all’infuori del viso e delle mani: questo significa che non deve più apparire in un chierico e in un prete che la vita divina, la vita di Gesù Cristo, che si rivela per mezzo delle parole e delle opere buone (41). Tutto il resto deve essere morto in lui; tutto deve essere sepolto come in una tomba (42). La vita di Dio solo, la vita della fede e della saggezza divina devono unicamente rifulgere in lui (43). E siccome la fede opera per mezzo della carità (44), le mani sono scoperte come il viso, a indicare la carità di Dio che opera in noi, e questa vita di fede che si manifesta nelle nostre azioni (45).

    Quanto ai piedi, sono nascosti dalla veste talare: ciò significa la morte ai desideri ed alle affezioni terrene. I piedi, camminando, esprimono da quali sentimenti siano mossi, portandoci verso i luoghi e gli oggetti che ci piacciono (46); e siccome appunto queste affezioni e questi desideri mondani sono quelli che costituiscono la parte principale della nostra vita animale, devono essere mortificati e soffocati nei chierici, poiché essi non devono avere più che Gesù Cristo vivente nei loro spiriti, per trattenervi e comprimervi e seppellirvi la vecchia creatura (47). Tutto ciò che vi è in essi deve servire alla edificazione delle genti, e tutto, anche esteriormente, deve parlare dei misteri della nostra santa religione. La veste talare appunto annuncia al mondo il mistero della morte e sepoltura del vecchio uomo (48).

    Questo abito nero dice eminentemente: – Morite a tutte le vanità del secolo (49), morite alle sue massime, al peccato, al demonio ed alla carne; morite, infine, a tutto ciò che non è Dio.

    Per mezzo di questo abito che è ben differente da quello del mondo (50) il chierico rivela di aver deposti gli usi mondani, di non voler aver più rapporti col secolo, e di professare pubblicamente la sua opposizione ad ogni pompa o vanità. La semplicità, la modestia, il colore di questa santa veste proclamano tali sentimenti.

    II chierico porta pure impresso sul viso. e in tutto il suo contegno il grado di mortificazione propria a cui è giunto (51).

    Il suo volto è scoperto unicamente perché è l’immagine di Dio per il quale egli vive; ma siccome Dio, che è infinitamente superiore al mondo, vive in lui di una vita infinitamente sublime e al di sopra della terra, così il chierico deve avere scolpita sul viso un’espressione di grande elevazione al di sopra di tutte le creature, mostrando così quanto il mondo e tutto ciò che contiene siano sprezzabili ai suoi occhi (52).

    L’ecclesiastico deve essere come cieco, in rapporto al mondo; non deve considerarne più né le bellezze né le rarità; deve essere come sordo alle sue notizie, calpestare tutte le sue pompe, condannare i suoi artifici; deve avere il cuore ben chiuso alle sue massime ed ai suoi sentimenti: in una parola, deve essere insensibile a tutto ciò che esso propone, poi che egli è ormai interiormente rivestito dell’uomo nuovo, questo uomo tutto di cielo, che più non vive sulla terra dove non trova più nulla degno di lui (53). Egli pregusta in tal modo le delizie di un altro mondo, dove Dio solo formerà la gioia, dove non apparirà più traccia di questo mondo volgare (54). Egli appartiene già a quell’altra generazione, a quell’altro  mondo, più bello, più puro, mille volle più santo del presente. Egli non è più, come era nell’ordine naturale, il centro a cui converge tutta la volta del mondo, ma è il punto al quale converge tutta la Chiesa del Cielo che sopra lui riposa, che lo guarda e per il quale è stato formato tutto questo mondo superiore (55).

    Bisogna dunque che noi ci consideriamo come persone fuori del mondo, viventi nel cielo (56), che conversano coi santi, che vivono nell’oblio, nell’avversione in un sovrano disdegno di tutto il mondo (57).

    Bisogna che dimostriamo bene, a tutti, con la nostra condotta, vivendo e muovendoci nel mondo come Dio stesso (58), che c’è una vita molto migliore che ci aspetta nel cielo (59) dove già ci troviamo per la fede e dove già felicemente conversiamo con i santi.


    NOTE

    (1) Habitus religiosus Sidon., lib. 4, ep. 24. Conc. Meld. anno 845, c. 37.

    (2) Quaeratur ex singulis an ritus et caeremonias, quae cum initiantur adhiberi solita sunt, noverint? an sanctiores illarum notiones? an sacrarum vestium, quibus induuntur, mysteria et significata? lnst. ad Ord. Eccl. suscip. in Eccl. Mediol. – Quaeratur quid per tonsuram significetur, quae fit in superiori capitis parte; quid per superpelliceum, quo c1erici induuntur, declaretur? Ibid. – Vestes ministrorum designant idoneitatem quae in eis requiritur ad tractandum divina. D. Thom. , Suppl, q. 40, a. 7, in corp.

    (3) Etsi habitus non faciat monachum, in clerico tamen magnum indicium est, ut ait Salomon, eius quod in corde latet. Synodus Atheniens. ann 1571.

    (4) Quaecumque in ecclesiasticis officiis rebus ac ornamentis consistunt, divinis plena sunt signis atque mysteriis. Dnrand. Divin. Offic. praem.

    (5) Sicut accidentia multum conferunt ad cognoscendam rei ipsius quidditatem: ita habitus exterior plurimum confert ad declarandum ·morum honestatem. Synod. Venusin., anno 1589. – Haec (ornamenta) sunt virtutum insignia, quibus tanquam scripturis docentur utentes quales esse debeant. Hugo a S. Victor., Specul. Eccl., c. 6. .

    (6) Considerare debet per symbola quam accipit gratiam. Sim. Thessalon., de Sacro Ordin., cap. 5.

    (7) Conc. Basileens. Lateran. sub Leone X, anno 1511, sess. 9: et alia passim.

    (8) Nigra vestls insinuat humilitatem mentis; vile vestimentum denuntiat mundi contemptum, De modo bene vivendi, cap. 9: Op. S. Bernard., tom. 2. Omnia tanquam cinerem despielens, quasi mortuus prorsus ad mortuum immobilis permanebat. S. Chrysost., hom. 1, de laud. Pauli.

    (9) Priorls vestis detractio, et alterius assumptio, slgnificat a media sancta vita ad perfeetiorem traduetionem. S. Dionys. , de Eccles. Hier., cap. 6. –Moneo te ut habitum, quem ostendis specie, impleas opere… Sanctus est habitus, sanctus sit animus. Sicut sancta sunt vestimenta, sic opera sancta sint. De modo bene vivendi, cap. 9: Op. S. Bernard., tom. 2.

    (10) Caveant tam saeerdotes quam clerici, ne superpelliceo exuti clericalibus fungantur officiis. Synod. Capad. aquens, an., 1617, tit de Min. Eccl. c. 19.

    (11) Ne cum superpelliceo per civitatem deambulantes vagentur. Synod. Vicens., anno 1628: tit. 13, de Vita et hon. Cleric., c. 3.

    (12) Moriendum est mundo ut Deo in sempiternum vivamus. S. Aug, serm. 170, n. 9.

    (13) Vestimentum amplum et longum, propter pietatem et divinam caritatem. Sim Thessalon., de Ord.

    (14) Sese Deo ac Patri subjecit… et obedientiae suae odorem tanquam pro omnibus simul et singulis Deo et Patri obtulit. S. Cyril Alex., lib. 11, de Ador. in Spirit. et verit.

    (15) Introivit in ipsum caelum, ut appareat nunc vultui Dei pro nobis, Hebr., 9, 24.

    (16) Successori nel culto esterno e visibile, come si è detto più sopra: Sacerdotes Christi vicarios esse Christi et Christum. S. Chrysost., hom. 17, op. imp. in Matth., Suum relicturus erat eis ministerium. Id. in Joan., 20, hom. 86, al. 85 n. 2.

    (17) Sicut misit me Pater, et ego mitto vos: Haec cum dixisset, insufflavit, et dixit eis: Accipite Spiritum sanctum. Joan., 22 et 23. Hac vocula sicut illos quodammodo slbi aequat, et pares efficit, scilicet proportionaliter ut suos successores et vicarios. Corn. a  Lap. hic. – Sicut significat etiam similitudinem in fine: utrique enim missi sunt ad eundem finem. Id., ex S. Cyrill., lib. 12 in Joan., in ead. verb.

    (18) Sacerdotes procuratores sunt apud Deum pro ejus Ecclesia. Guillel. Paris.de Sacro Ord. – Pro universo terrarum orbe deprecator est apud Deum. S. Chrysost., de Sacerd. t. 6, c. 4. – Non jura sua sed aliena allegat. Guillel. Paris., ibid.

    (19) Amictus pontificis totius mundi quaedam imago fuit. Philo., de Vita Mosis., lb. 3.

    (20) Portabit Aaron nomina filiorum Israel coram Domino super utrumque humerum. Exod. 28, 12. Portabit nomina filiorum Israel in rationali judictl super pectus suum quando ingredietur sanctuarium. Ibid., 29 .

    (21) Est Aaron Christi figura, et Illius sacerdotii quod in spiritu et veritate intelllgitur. S. Cyr. Alex., lib. 11, de Ador. in spir. et verit.

    (22) Clericatum elegistis, id est, mundo renuntiare, et cum habitu humilitatis, affectum promittere humilitatis, Ivo Carnot., serm. 2. De excell. sacro Ord. Pontif. Bibliot. Apost. exhort. ad Tonsur.

    (23) Paupertatem et humlitatem profertis habitu corporis. Ibid.

    (24) Sacerdotes constituti sunt per mundum, Christi narrare victorias. Petr. Dom. opusc. 18, contra Cleric. intemp. dissert. 1, c. 1.

    (25) II Cor., 4, 10.

    (26) Homines sacros tum interius tum exterus oportet mortificationem Jsu circumferre in suo corpore. S. Cyril. Alex., de Adorat. in spir. et verit., lib. 11. – Vestimentum talare, tam retro quam a lateribus et ante undique clausum. Conc. Basil.

    (27) Gal. 5, 24.

    (28) Qui sunt Christi, carnem suam crucifixerunt, id est Christo crucifixo se conformaverunt, affligendo carnem suam cum vitiis…, id est, cum peccatis; concupiscentiis, id est, passionibus quibus anima inclinatur ad peccandum. Non enim bene crucifigit carnem, qui passionibus locum non aufert, D. Thom,. in ead. verb. Ep. ad Gal., 5, 24, lect. 7.

    (29) Electo, ad intimam cordis humilita!em desiderandam, humiliore cunctis coloribus nigro colore. Petr. Cluniac., statut. 16.

    (30) Quia sacerdos dux et antesignanus est exercitus Domini, his titulorum insignibus jubetur adornatus incedere, seseque sequentibus ecclesiasticae militiae cuneis sanguinis et crucis Christi debet vexilla praeferre. Petr. Dam . op. 25, de Dignit. sacerdot., c. 2.

    (31) Capile nudato testatur Christum sibi caput esse. Simon. Thessalon. , de Ord. Episc.

    (32) I Cor., 11, 3.

    (33) I Petr., 4, 11.

    (34) Non enim vos estis qui loquimini, sed Spiritus Patris vestri qui loquitur in vobis. Matth., 10, 20. Vox nostra Christus est. S. Ambr., de Isaac., c. 8, n. 75.

    (35) I Petr., 4, 11.

    (36) Exstantes et visae manus virtutem et efficientiam Dei, in his quae operatur sacerdos, declarant.

    Sim. Thessalon., de Sacro Ord.

    (37) Philip., 4, 5.

    (38) Ex vlsu cognoscitur vir, et ab occursu faciei cognoscitur sensatus. Eccl., 19, 26. – Nec oculus sine Dei nutu moventur. SBasil. in Ps. 32, n. 6. –Conversemur quasi Del templa, ut Deum in nobis constet habitare. S. Cypr., de Orat. Dom., p. 207. Modestia portio Dei est. S. Ambr., de Offic., lib. 1, c. 18, n. 70. – Ubi Christus est, modestia quoque est. S. Greg. Naz., ep. 193.

    (39) Amictus corporis…, et ingressus hominis enuntiant de illo. Eccl., 19, 27.

    (40) Caelum, eunctaque caelestia… consono ordinationis concentu, protestantur gloriam Dei, et praedicatione perpetua majestatem sui loquuntur auctoris. De Vocat. Gen., lib. 2, c. 4, inter op. S. Leon.

    (41) Accipe hoc sacrum indumentum, quo cognoscaris mundum contempsisse, et te Christo perpetuo subdidisse, Frederìc. Archiep., Institut. ad Ord.. suscip. in EccI. Mediol. tit. 1. Forma esse debemus caeteris, non solum in opere scd etiam in sermone. SAmbr., de Offic., lib. 2, cap. 19, n. 96.

    (42) Nos oportet non solum carnalibus vitiis, verum etiam ipsis elementis mortuos esse. Cassian.. Inst., lib. 4, cap. 35.

    (43) Quod nunc vivo in carne, in fide vivo Filii Dei. Gal., 2, 20.

    (44) Fides quae per caritatem operatur. Gal., 5, 6.

    (45) Vita justitiae est per Deum habitantem in nobis bis per fidem… Et intelligendum est de fide per dilectionem operante. D. Thom. in cap. Ep. ad Gal., lect. 4.

    (46) Humani affectus quasi pedes sunt. S. Aug. tract. 56 in Joan, n. 44. Pedes nostri affectus nostri sunt. Prout quisque affectum et amorem habuerit, ita accedit vel recedit a Deo. Id. in Ps. 94, n. 2.

    (47) Signum crucis (impressum in ordinatione) designat omnium simul cupiditatum cessationem, divinaeque vitae imitationem. S. Dionys., de EccI. Hier., cap. 5. Contempl. § 4.

    (48) In eos tanquam in speculum reliqui oculos conjiciunt; ex iisque sumunt quod imitentur. Quaporpter sic decet omnino clericos…, vitam moresque suos omnes componere, ut habitu, gestu, incessu, sermone, aliisque omnibus rebus, nil nisi grave, moderatum, ac religione plenum prae se ferant. Conc. Trid., sess. 32, cap . de Reform.

    (49) Nolite conformari huic saeculo. Rom., 12, 2.

    (50) Vestis nigra humilitatis et religiosae vitae symbolum est. Sim. Thessalon., lib. de sacris Ordin., cap. 2, de Ritu ordinat. Lector.

    (51) Mortuum nobis hunc mundum deputantes, nos quoqne ipsi huic mundo moriamur, et dicamus quod Apostolus ait: Mihi mundus crucifixus est, et ego mundo. S. Aug., de Trinit., lib. 2, cap. 17, n. 28.

    (52) Eo usque mente secedat et avolet, ut et hunc communem transcendat usum et consuetudinem cogitandi. S. Bernard. in Cant., serm. 52, n. 4.

    (53) Quaemadmodum qui inflammattus est ac febri laborat, quemcumnque ei offeras cibum aut potum quamvis suavissmum abominatur ac renuit; sic qui Spiritus Sancti atque Christi caelesti desiderio sunt accensi, et amore dilectionis Dei in anima sauciati, omnia quae sunt in hoc saeculo praeclara et pretiosa repudianda et odio digna reputant. S. Macar., hom. 9. –Quid agis in saeculo, qui major es mundo? S. Hieron., ep. 3, ad Heliod.

    (54) Deus ipsi sibi et mundus, et locus, et omnia. Tertull., lib. contra Prax., c. 5. Nihil nobis sit commune cum saeculo. S. Chrysost., hom. 5, in Epist. ad Tit. , cap. 2, n. 1.

    (55) Respice universum mundum istum, et considera si in eo aliquid sit quod tibi non serviat. Omnis creatura ad hunc finem cursum suum dirigit, ut obsequiis tuis famuletur, ut utilitati deserviat. Hoc caelum, hoc terra, hoc aër, hoc maria. Append. S. Aug. tom. 6, de Dilig. Deo, c. 4.

    (56) De mundo non estis, sed ego elegi vos de mundo. Joan. 15, 19. –Nostra conversatio in caelis est. Philip. 3, 20.

    (57) Non solurn non se immisceat circa saeculari negotia, sed nec cogitet de mundo. S. Crysost. hom. 15, op. imp. in Matth.

    (58) In hoc positi sunt, ut Deum repraesentent. D. Thom., Suppl. q. 34, a. 1.

    (59) Cognoscentes vos habere meliorem el manentem substantiam. Hebr.,10, 34.


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 12/05/2012 15:53
    Don Mauro GagliardiDon Mauro Gagliardi è nato a Salerno nel 1975 ed è sacerdote diocesano del clero di Salerno-Campagna-Acerno dal 1999, ha conseguito il dottorato in Teologia presso la Pontificia Università Gregoriana nel 2002, e la laurea quadriennale in Filosofia presso l’Università L’Orientale di Napoli nel 2008. E’ professore ordinario presso la Facoltà di Teologia dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum e professore incaricato dell’Università Europea di Roma nelle Facoltà di Storia e di Giurisprudenza, nonché nel Master in Architettura, Arti Sacre e Liturgia. Dal 2008 è Consultore dell’Ufficio delle Celebrazioni Liturgiche del Sommo Pontefice e dal 2010 della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti. Recentemente don Gagliardi ha pubblicato con l’editore Cantagalli un bellissimo libro intitolato “ In memoria di Me” sulla spiritualità sacerdotale.

    Il libro certamente passerà alla storia della spiritualità del ventunesimo secolo e consiglio vivamente a tutti i sacerdoti di leggerlo. Nel testo don Mauro si sofferma giustamente sull’importanza dell’abito ecclesiastico come segno importante per l’identità non solo esterna del presbitero e scrive:

    “La Chiesa stabilisce che i sacerdoti vestano un abito diverso dagli altri, un abito che li distingue e li rende immediatamente riconoscibili. Essi sono rappresentanti pubblici di Cristo e della Chiesa. L’abito proprio del sacerdote diocesano è la talare.

    La Chiesa oggi permette anche di utilizzare la camicia clericale, spesso chiamata clergyman. Sebbene la talare sia un segno di distinzione maggiore, entrambi sono ammessi.

    Non è invece contemplata la possibilità che i sacerdote vesta abiti civili, come purtroppo spesso avviene. Di norma, questa abitudine si giustifica dicendo che in questo modo le persone si avvicinano di più a noi, si sentono più libere di esprimersi; invece l’abito sacerdotale crea distanza. Ma è proprio questo il suo valore, lungi dall’essere un danno!

    Il sacerdote è a resta uomo, ma l’Ordinazione lo ha reso mediatore tra Dio e gli uomini. Pur essendo completamente al servizio di Dio e, per ciò stesso, del prossimo, egli non può semplicemente essere uno come gli altri. E’ preso di mezzo agli altri per un ruolo unico. Questo deve essere visibile anche nell’uniforme di servizio, nel senso più nobile dell’espressione. Un po’ di sana distanza non guasta.

    Schiere innumerevoli di sacerdoti sono stati vicinissimi al loro prossimo e sono stati anche percepiti come veri padri, non nonostante, ma proprio grazie allo speciale rapporto che l’abito sacerdotale contribuisce a costruire. Non si tratta affatto di essere lontani dalla gente, ma neppure di essere semplicemente uno in mezzo alla gente: altrimenti, qual è lo specifico del ministro di Dio?

    Nel noto film di R. Scott Il Gladiatore , vi è uno scambio di battute che ci può aiutare. Uno dei senatori giunge al Colosseo per assistere ai giochi e uno dei suoi colleghi lo apostrofa dicendo qualcosa del tipo: mi meraviglio di vederti qui, perché tu cerchi sempre di non mischiarti col popolo. Ma il primo ribatte: non pretendo certo di essere uno del popolo, ma uno per il popolo.

    Per il sacerdote questa risposta si applica solo in parte. Egli è e resta uno del popolo di Dio, un battezzato. Ma, in quanto ministro ordinato, egli è anche uno per il popolo, con gli onori e soprattutto le responsabilità che ne conseguono. A volte alcuni sacerdoti meno populisti e più in favore del popolo, del suo vero bene soprannaturale e poi anche sociale.

    L’abito sacerdotale è inoltre un aiuto notevole per il sacerdote stesso. Lo aiuta in ogni situazione a dare il meglio di sé, ad essere il più possibile aderente al suo ruolo, uniformando costantemente lo stile di vita al dono ricevuto. Portare l’abito, essere sempre e dovunque sotto osservazione in qualche modo ti forza dolcemente a vivere sempre il Vangelo. Il sacerdote che porta l’abito è riconoscibile subito ovunque e non solo quando celebra all’altare. E qui troviamo un altro aspetto fecondo del rapporto liturgico – vita sacerdotale. Si potrebbe sintetizzare così: non fare nulla nella vita che non faresti sull’altare. La sacralità della liturgia, il senso di raccoglimento necessario, la santità dei messaggi…tutto è scuola.

    Il sacerdote deve trasportare nella vita questo stile. All’altare egli non farebbe mai nulla di cattivo, nulla di disordinato, ma anche nulla che sia fuori luogo, non confacente ai misteri di cui è ministro. Con i dovuti adattamenti dovuti alla diversità di situazione, il criterio vale, in generale, per il resto della giornata.

    Il sacerdote non salirebbe all’altare senza gli abiti liturgici, così non uscirà per strada senza gli abiti sacerdotali. Il sacerdote non si mette a parlare in modo inappropriato, volgare, o con doppi sensi durante l’omelia; dunque per queste cose non c’è posto nei suoi discorsi, anche fuori. Il sacerdote non salirebbe all’altare senza essere puro nel corpo e nel cuore; dunque anche nella vita deve mantenere la perfetta continenza per il regno.

    Il sacerdote non si metterebbe a ballare o saltellare durante la liturgia; dunque è opportuno che eviti ogni spettacolo ridicolo anche all’esterno della chiesa. In qualche modo riflettevamo già su tutto questo quando dicevamo che, anche quando è fuori di chiesa, il sacerdote deve vivere nel mondo con la nostalgia dell’altare, pensando sempre a quel luogo che è suo e dove dovrebbe sempre stare. Se penserà così, non gli verrà neppure in mente di comportarsi in un modo inadatto fuori di esso.

    Ovviamente il criterio va applicato con intelligenza e buon senso, ma in generale esso è valido”.

    Don Marcello Stanzione

    [SM=g1740722]

    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    00 27/07/2012 10:30
    [SM=g1740733]riflessioni di padre Lentini...


    2. RINNOVAMENTO ESTERIORE E IMPERSONALE PIUTTOSTO CHE MORALE, PERSONALE E INTERIORE

    «L’interesse per il rinnovamento - ebbe a dire Paolo VI - è stato da molti rivolto alla trasformazione esteriore e impersonale dell’edificio ecclesiastico... piuttosto che a quel rinnovamento primo e principale che il Concilio voleva, quello morale, quello personale, quello interiore» (15.1.1969).

    Purtroppo rinnovamento sembrò e sembra ancora creazione di strutture burocratiche sempre più numerose e capillari.
    Il cardinale Ratzinger, in una sua pubblicazione, La Chiesa, osserva: «Quanto più organismi facciamo, siano anche i più moderni, tanto meno c’è spazio per lo Spirito, tanto meno c’è spazio per il Signore e tanto meno c’è libertà. Io penso che dovremmo, da questo punto di vista, iniziare nella Chiesa, a tutti i livelli, un esame di coscienza senza riserve. A tutti i livelli questo esame di coscienza dovrebbe avere conseguenze assai concrete e recare con sé una ablatio (una eliminazione) che lasci di nuovo trasparire il volto autentico della Chiesa».


    Leggendo l’Annuario Pontificio ci si accorge che diventa di anno in anno sempre più voluminoso: più ricco di centinaia di nomi di «funzionari»; e poi altri annuari riportanti gli organigrammi di conferenze episcopali continentali, nazionali, regionali, ciascuna delle quali è articolata da una serie impressionante di organi, di commissioni e di uffici. Per arrivare al parroco che è divenuto il coordinatore di una fungaia di commissioni che impegnano i pochi laici praticanti.


    Occorre ormai togliere, smantellare, ritrovare l’essenziale: il Vangelo, che è molto più semplice di quella complicata e burocratica pastorale che per giustificarsi ha bisogno di complicarsi sempre più. Il Regno di Dio sembra che non simpatizzi troppo con le... troppe scrivanie dei funzionari e con quella infinità di sedute per spaccare il capello in quattro, perdendo il contatto con le pecorelle del Signore.

    «Checché ne sia il rapporto tra l’albero burocratico e i mancati frutti pastorali è però innegabile che l’adeguarsi cattolico degli ultimi decenni alla struttura statale rischia di vanificare una delle più preziose singolarità della Chiesa. In essa, a differenza di quanto avviene nel “mondo”, il potere non vi era mai esercitato in modo anonimo ma sempre personale. Dal papa, ai vescovi, ai parroci, sempre una persona concreta aveva diritti, ma assumeva in proprio doveri e responsabilità. A ogni livello della struttura corrispondeva un volto e un nome. L’anonimato del ministero, della commissione, del comitato, dello staff di esperti fa parte di quello che è stato chiamato “il volto demoniaco del potere” (il diavolo, per la teologia, non è forse la non-persona per eccellenza?). Del senso di oppressione e di impotenza che ci coglie davanti a ogni burocrazia, è parte essenziale l’impossibilità di individuare “chi” decida e comandi davvero, dietro a strutture collettive che, rispondendo di tutto, non rispondono di niente. Anche in questo la Chiesa era “altra”.
    Siamo davvero sicuri che ingabbiare lo Spirito in organigrammi da “sacro manegemant” sempre più complicati sia davvero un progresso, corrisponda all’intenzione di rinnovamento dei Padri conciliari, come tanti neo-clericali affermano senza esitazione?» (La sfida della fede).

    Tanta parte del clero, di religiosi e religiose incominciò il rinnovamento dalla modifica o addirittura dall’abolizione dell’abito che li qualificava come tali.

    Due esempi limiti sono riportati da Giovanni Paolo I, quando era patriarca di Venezia, in una lettera alla diocesi del 14.3.1972: «Alla basilica del Santo Sepolcro di Gerusalemme le guardie israeliane, in servizio alla porta, consigliano due donne a ripresentarsi vestite più decentemente. “Ma siamo suore!”, obiettano le donne. Sì, suore ultraconciliari in minigonna troppo audace!... Un vicario cooperatore accompagna il funerale in maglietta e calzoni lunghi; disdegna anticonformisticamente cotta e stola; in compenso suffraga il morto, accostando il transistor all’orecchio per seguire la partita di calcio» (Opera omnia, vol. V, p.340).

    Giuseppe Prezzolini, il celebre scrittore e giornalista, sollecitato da una suorina, nel 1969 così scriveva: «Io non sono cattolico. Considero la Chiesa da un punto di vista meramente storico ed umano, e mi desta meraviglia e simpatia... Pertanto, osservando i gruppi cattolici che vogliono rinnovare la Chiesa mi ha colpito proprio questo: i preti vogliono diventare uomini comuni, come tutti gli altri. Non desiderano di essere esseri straordinari, coloro che ci liberano dai peccati, che battezzano e cacciano i diavoli (qualunque cosa sia il diavolo), che cresimano e comunicano. Vogliono invece essere mariti, padri di famiglia, segretari di sindacato, segretari del popolo. Vogliono vestirsi come gli altri, non essere riconosciuti, segnalati, distinti. Cercano l’uguaglianza in basso».

    Madre Gina Tincani, domenicana, fondatrice delle Missionarie della Scuola (già citata nel precedente articolo sul post-concilio), in una lettera del 2.7.1968, a proposito del cambiamento dell’abito delle religiose, scriveva indignata: «Il Rosario. Questa cara devozione, che la Madonna ha mostrato nelle sue apparizioni sacre di approvare, gradire e di amare tanto, è oggigiorno criticata offesa disprezzata dai novatori, falsi profeti post-conciliari, che stanno alla scuola del diavolo e non della Chiesa e di Gesù Cristo. E così assistiamo allo spettacolo di intere famiglie religiose femminili che tolgono dal loro abito religioso la corona del Rosario, per essere moderne, all’altezza dei tempi! Il demonio sa bene quello che fa! Sa che il Rosario è sempre stato un baluardo della fede, che dal disprezzo del Rosario si passa al disprezzo del culto stesso alla santissima Madre di Dio».
    E fu profeta: perfino nei seminari la recita del Rosario divenne un optional, lasciato alla devozione personale.     

    Lo storico medievalista Franco Cardini, che ha pubblicato un libro su Francesco d’Assisi, a chi gli faceva osservare che san Francesco non indossò né fece indossare ai suoi frati un vestito diverso dai laici del suo tempo, rispondeva: «Mancano di consapevolezza storica (succede sempre più spesso, per qualunque tema, tra gli uomini di Chiesa) quei frati e quei preti che contestano l’abito clericale, cui hanno sostituito i blue-jeans, dicendo che oggi Francesco vestirebbe così. Chi conosce il Medio Evo - e, in genere, le epoche in cui la società ebbe una consapevolezza religiosa - sa benissimo che non è affatto vero. Oggi, i blue-jeans li porta anche l’avvocato Agnelli, li sfoggiano anche i più ricchi. I quali hanno imposto, per moda, quel tipo di vestire che chiamano casual: stracci, in apparenza, capi cui viene dato artificialmente un aspetto “vissuto”, magari strappati e stracciati appositamente. Sono ricchi che si vestono da finti mendicanti. Vestirsi, oggi, “come tutti” è un segno di conformismo mondano, non di radicalismo evangelico, non trasmette alcun messaggio. Al contrario del saio della corda, dei sandali che Francesco volle per sé e per i suoi» (cit. V.Messori, Pensare la storia).

      continua...QUI

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    00 21/11/2012 14:29

    Circolare della Segreteria di Stato: in Curia tutti vestiti come si deve!

    A noi non può che fare piacere! Un esplicito richiamo alla serietà, e al dovere di indossare l'abito ecclesiastico, non tanto per vanità o amor del futile, ma perchè l'abito ecclesiastico (la talare in maniera preminente) è un segno distintivo del carisma del prete, e palesa la sua consacrazione a Dio e il suo  esserne ministro. E per noi cattolici il prete ha ricevuto un sigillo, un'unzione, un dono ontologico che lo rende  alter Christi e come tale diverso e distinto dai semplici fedeli.  E siccome un sacerdote è tale per sempre secondo l'ordine di Melchisedec, non è che abbandonando gli abiti ecclesiastici, egli diventi borghese. Quindi è opportuno e utile che il sacerdote non vesta "alla borghese", ma si renda sempre distinguibile, non per vantare privilegi o primati, ma per consolazione e utilità dei fedeli, e per monito a se stesso.
    Lo stesso vale per i religiosi che con particolare dedizione e promesse solenni nel seguire i consigli evangelici, sono tutti di Cristo e della sua Chiesa. E' certamente doveroso anche per essi un dignitoso abito... perchè inutile negarlo, l'abito fa il monaco.
     Il tono della lettera è serio e le parole posate, e si può certo dire che la circolare del Segretario di Stato sia destinata a essere rispettata. Non si tratta di una nota esortativa di un dicastero, ma una direttiva che arriva dalla Segreteria di Stato, per ordine del Papa ("venerato incarico") rivolta a tutti i religiosi, sacerdoti, monsignori, vescovi e cardinali in servizio o in visita alla S. Sede e alla Città del Vaticano.

    Forte è la citazione della Lettera di Giovanni Paolo II del 1982 al Vicario di Roma, Card. Poletti, in cui il papa intendeva chiedergli cge "d'intesa con le sacre congregazioni per il clero, per i religiosi, e gli istituti secolari e per l'educazione cattolica voglia studiare opportune iniziative destinate a favorire l'uso dell'abito ecclesiastico e religioso, emanando a tale riguardo le necessarie disposizioni e curandone l'applicazione".
    E ancora: molto esplicite sono le seguenti espressioni del Card. Bertone: egli ricorda che "In un tempo in cui ciascuno è specialmente chiamato a rinnovare la coscienza e la coerenza della propria identità" i capi dicasteri/uffici/trtibunali sono chiamati a "voler cortesemente assicurare [e non solo curare, n.d.r.] l'osservanza di quanto sopra da parte tutti gli ecclesiastici e e religiosi in servizio presso codesto Dicastero/Tribunale/Ufficio/Vicariato, richiamandolo il dovere di indossare regolarmente e dignitosamente l'abito proprio, in qualsiasi stagione, [forse quindi si vogliono abolire deroghe consuetudinarie per la stagione estiva o per i caldi primaverili, in cui spesso i preti più disobbedienti indossano polo, t-shirt o slacciano il colletto, n.d.r.] , "anche per evitare incertezze ed assicurare la dovuta uniformità".

    Notiamo inoltre con piacere che questa circolare che vuole essere "solo" di una disposizione per gli ecclesiastici dipendenti o visitatori (in realtà infatti già da tempo in Vaticano l'uso della talare o del clergyman era larghissimamente impiegato, salvo rari casi per monsignori "modesti" che ometevvano l'uso della -ora obbligatoria- talare filettata) ma è espressamente inviata (e sarà fatta eseguire) a titolo di esempio (nel testo è addirittura in corsivo!) per gli Episcopati: come dire: le CEI capiscano la tirata di orecchie indirette.

    Si legge infatti che il monito all'abito proprio è "anche in ossequio al dovere di esemplarità che incombe soprattutto su quanti prestano servizio al Sucessore di Pietro", e tale dovere ricade anche in capo ai vescovi: "Lo stesso esempio, di quanti insigniti della dignità episcopale, sono fedeli all'uso quotidiano dell'abito talare loro proprio, durante gli orari di ufficio, diventa esplicito incoraggiamento per tutti,".
    Rimandiamo ai commenti di Tornielli e di Magister.
    Si veda anche l'articolo su Il Secolo XIX "basta preti casual" del 15.11.2012
    Roberto 
     
     
    SEGRETERIA DI STATO
    Affari Generali
     
    prot. n. 193.930/P
     
     
    Dal Vaticano, 15 Ottobre 2012
     
    Eminenza / Eccellenza Reverindissima,
     
    con la presente desidero richiamare alla Vostra attenzione l'importanza della disciplina inerente l'uso quotidiano dell'abito ecclesiastico (talare o clergyman) e religioso, come determinato dalla normativa in materia e secondo le motivazioni a suo tempo illustrate ed esplicitate dal Beato Giovanni Paolo II nella Lettera al Cardinale Vicario di Roma, dell'8 settembre 1982.
     
    In un tempo in cui ciascuno è specialmente chiamato a rinnovare la coscienza e la coerenza della propria identità, per venerato incarico, vengo a chiedere a Vostra Eminenza/Eccellenza di voler cortesemente assicurare l'osservanza di quanto sopra da parte tutti gli ecclesiastici e e religiosi in servizio presso codesto Dicastero/Tribunale/Ufficio/Vicariato, richiamandolo il dovere di indossare regolarmente e dignitosamente l'abito proprio, in qualsiasi stagione, anche in ossequio al dovere di esemplarità che incombe soprattutto su quanti prestano servizio al Sucessore di Pietro.
     
    Lo stesso esempio, di quanti insigniti della dignità episcopale, sono fedeli all'uso quotidiano dell'abito talare loro proprio, durante gli orari di ufficio, diventa esplicito incoraggiamento per tutti, anche per gli Episcopati e per coloro che vengono in visita alla Curia Romana e alla Città del Vaticano.
     
    Con l'occasione, inoltre, anche per evitare incertezze ed assicurare la dovuta uniformità, si ricorda che l'uso dell'abito piano è richiesto per la partecipazione a qualsiasi atto nel quale sia presente il Santo padre, come pure per le Assemblee Plenarie ed Ordinarie, le Riunioni Interdicasteriali, l'accoglienza delle Visite "ad limina" e le diverse convocazioni ufficiali della Santa Sede.
     
    Grato della collaborazione, mi valgo volentieri della circostanza per confensarmi, con sensi di distinto e cordiale ossequio
     
    dell'Eminenza/eccellenza Vostra Rev.ma
     
    dev.mo nel Signore.
     
    + Tarcidio Card. Bertone
    Segretario di Stato.
     
    ***    ***    ***
     
    Qui il commento di A. TORNIELLI, L'abito fa il prete. da Vatican Insider del 18.11.2012
    Ne riportiamo un estratto.
    "L’abito deve fare il monaco, almeno in Vaticano. Lo scorso 15 ottobre il cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato, ha firmato una circolare inviata a tutti gli uffici della curia romana per ribadire che sacerdoti e religiosi devono presentarsi al lavoro con l’abito proprio, e cioè il clergyman o la talare nera. E nelle occasioni ufficiali, specie se in presenza del Papa, i monsignori non potranno più lasciare ad ammuffire nell’armadio la veste con i bottoni rossi e la fascia paonazza. Un richiamo alle norme canoniche che rappresenta un segnale preciso, di portata probabilmente maggiore rispetto ai confini d’Oltretevere: nei sacri palazzi, infatti, i preti che non vestono da preti sono piuttosto rari. Ed è probabile che il richiamo ad essere più ligi e impeccabili, anche formalmente, debba servire da esempio per chi viene da fuori, per i vescovi e i preti di passaggio a Roma. Insomma, un modo di parlare a nuora perché suocera intenda e magari faccia altrettanto.

     Il Codice di Diritto Canonico stabilisce che «i chierici portino un abito ecclesiastico decoroso» secondo le norme emanate dalle varie conferenze episcopali.

    La Cei ha stabilito che «il clero in pubblico deve indossare l’abito talare o il clergyman», cioè il vestito nero o grigio con il colletto bianco. Il nome inglese rivela la sua origine nell’aerea protestante anglosassone: è entrato in uso anche per gli ecclesiastici cattolici, all’inizio come concessione per chi doveva viaggiare.

    La Congregazione vaticana del clero, nel 1994, spiegava le motivazioni anche sociologiche dell’abito dei sacerdoti: «In una società secolarizzata e tendenzialmente materialista» è «particolarmente sentita la necessità che il presbitero – uomo di Dio, dispensatore dei suoi misteri – sia riconoscibile agli occhi della comunità». La circolare di Bertone chiede ai monsignori di indossare «l’abito piano», cioè la veste con i bottoni rossi, negli «atti dove sia presente il Santo Padre» come pure nelle altre occasioni ufficiali. Un invito rivolto anche ai vescovi ricevuti in udienza dal Papa, che d’ora in poi dovranno essere decisamente più attenti all’etichetta."

    E qui quello di Magister, In Curia tutti vestiti bene. da Diario Vaticano. del 19.11.2012


    [SM=g1740722]


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
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    00 06/12/2012 00:10

    A Marsiglia un giovane parroco (sempre in talare) evangelizza e fa rifiorire la fede dove si era inaridita. E suscita conversioni

    Padre Michel-Marie, una tonaca nella Marsiglia profonda.
    Vita, opere e "miracoli" di un parroco di una città di Francia. Che ha fatto rifiorire la fede dove si era inaridita
    di Sandro Magister, da Chiesa del 4.12.2012

    ROMA, 4 dicembre 2012 – Il titolo di questo servizio è lo stesso che "Avvenire" ha dato a un reportage da Marsiglia della sua inviata Marina Corradi, sulle tracce del parroco di un quartiere dietro il vecchio porto.

    Un parroco le cui messe sono stracolme di gente. Che confessa ogni sera fino a tarda ora. Che ha battezzato tanti convertiti. Che indossa sempre la veste talare affinché tutti lo riconoscano come prete anche da lontano.

    Michel-Marie Zanotti-Sorkine è nato nel 1959 a Nizza da una famiglia un po' russa e un po' corsa. Da giovane canta nei locali notturni di Parigi, ma poi con gli anni prorompe in lui la vocazione al sacerdozio, avuta fin da bambino. Gli fanno da guida padre Joseph-Marie Perrin, che fu direttore spirituale di Simone Weil, e padre Marie-Dominique Philippe, fondatore della congregazione di Saint Jean. Studia a Roma all'Angelicum, la facoltà teologica dei domenicani. È ordinato prete nel 2004 dal cardinale Bernard Panafieu, allora arcivescovo di Marsiglia. Scrive libri, l'ultimo dei quali ha per titolo "Au diable la tiédeur", al diavolo la tiepidezza, ed è dedicato ai sacerdoti. È parroco a Saint-Vincent-de-Paul.

    E in questa parrocchia sulla rue Canabière, che risale dal vecchio porto tra case e negozi dimessi, con molti clochard, immigrati, rom, dove i turisti non si avventurano, in una Marsiglia e in una Francia dove la pratica religiosa è quasi ovunque ai minimi termini, padre Michel-Marie ha fatto rifiorire la fede cattolica.
    Come? Marina Corradi l'ha incontrato. E racconta.

    Il reportage è uscito su "Avvenire", il quotidiano della conferenza episcopale italiana, il 29 novembre. Primo di una serie che vuole presentare dei testimoni della fede noti e meno noti, capaci di generare stupore evangelico in chi li incontra.
     
    Di seguito l'articolo su don Zanotti di Marsiglia
     
    "IL PAPA HA RAGIONE: TUTTO DEVE RICOMINCIARE DA CRISTO"
    di Marina Corradi su Avvenire del 29.11.2012
     
    Quella tonaca nera svolazzante sulla rue Canabière, tra una folla più maghrebina che francese, ti fa voltare. Toh, un prete, e vestito come una volta, per le strade di Marsiglia. Un uomo bruno, sorridente, eppure con un che di riservato, di monacale. E che storia, alle spalle: cantava nei locali notturni di Parigi, solo otto anni fa è stato ordinato e da allora è parroco qui, a Saint-Vincent-de-Paul.
    Ma la storia in realtà è anche più complicata: [...]

    Perché la talare? "Per me – sorride – è una divisa da lavoro. Vuole essere un segno per chi mi incontra, e soprattutto per chi non crede. Così sono riconoscibile come sacerdote, sempre. Così per strada sfrutto ogni occasione per fare amicizia. Padre, mi chiede uno, dov’è la posta? Venga, l’accompagno, rispondo io, e intanto si parla, e scopro che i figli di quell’uomo non sono battezzati. Me li porti, dico alla fine; e spesso quei bambini, poi, li battezzo. Cerco in ogni modo di mostrare con la mia faccia un’umanità buona. L’altro giorno addirittura – ride – in un bar un vecchio mi ha chiesto su quali cavalli puntare. Io gli ho dato i cavalli. Ho chiesto scusa alla Madonna, fra me: ma sai, le ho detto, è per fare amicizia con quest’uomo. Come diceva un prete, che è stato mio maestro, a chi gli chiedeva come convertire i marxisti: 'Occorre diventare loro amici', rispondeva".

    Problemi, in strade a così forte presenza di musulmani immigrati? No, dice semplicemente: "Rispettano me e questa veste".
    Più tardi poi lo intravedi da lontano, per strada, con quella veste nera mossa dal passo veloce. "La porto – ti ha detto – perché mi riconosca uno che magari altrimenti non incontrerei mai. Quello sconosciuto, che mi è estremamente caro".

    Poi, in chiesa, la messa è severa e bella. Il prete affabile della Canabière è un prete rigoroso. Perché cura tanto la liturgia? "Voglio che tutto sia splendente attorno all’eucarestia. Voglio che all’elevazione la gente capisca che Lui è qui, davvero. Non è teatro, non è pompa superflua: è abitare il Mistero. Anche il cuore ha bisogno di sentire".

    In confessionale, padre Michel-Marie va tutte le sere, con assoluta puntualità, alle cinque, sempre. (La gente, dice, deve sapere che il prete c’è, comunque). Poi resta in sacristia fino alle undici, per chiunque desideri andarci: "Voglio dare il segno di una disponibilità illimitata". A giudicare dal continuo pellegrinaggio di fedeli, a sera, si direbbe che funzioni. Come una domanda profonda che emerga da questa città, apparentemente lontana. Cosa vogliono? "La prima cosa è sentirsi dire: tu sei amato. La seconda: Dio ha un progetto su di te. Non bisogna farli sentire giudicati, ma accolti. Occorre far capire che l’unico che può cambiare la loro vita è Cristo. E Maria. Due sono le cose che secondo me permettono un ritorno alla fede: l’abbraccio mariano, e l’apologetica appassionata, che tocca il cuore"."

    «Chi mi cerca – continua – prima di tutto domanda un aiuto umano, e io cerco di dare tutto l’aiuto possibile. Non dimenticando che il mendicante ha bisogno di mangiare, ma ha anche un’anima. Alla donna offesa dico: mandami tuo marito, gli parlo io. Ma poi, quanti vengono a dire che sono tristi, che vivono male... Allora chiedo: da quanto lei non si confessa? Perché so che il peccato pesa, e la tristezza del peccato tormenta. Mi sono convinto che ciò che fa soffrire tanta gente è la mancanza dei Sacramenti. Il Sacramento è il divino alla portata dell’uomo: e senza questo nutrimento non possiamo vivere. Io vedo la grazia operare, e che le persone cambiano».

    Giornate totalmente donate, per strada, o in confessionale, fino a notte. Dove prende le forze? Lui – quasi pudicamente, come si parla di un amore – dice di un profondo rapporto con Maria, di una confidenza assoluta con lei. «Maria è l’atto di fede totale, nell’abbandono sotto alla Croce. Maria è assoluta compassione. È pura bellezza offerta all’uomo». E ama il rosario, l’umiltà del rosario, il prete della Canabière: «Quando confesso, spesso dico il rosario, il che non mi impedisce di ascoltare; quando do la Comunione, prego». Lo ascolti intimidita. Ma allora, tutti i preti dovrebbero avere una dedizione assoluta, quasi da santi? «Io non sono un santo, e non credo che tutti i preti debbano essere santi. Però possono essere uomini buoni. La gente sarà attratta dal loro volto buono».

    Problemi, in strade a così forte presenza islamica? No, dice semplicemente: «Rispettano me e questa veste». In chiesa accoglie chiunque con gioia, «anche le prostitute. Do loro la Comunione. Che dovrei dire, "diventate oneste, prima di entrare qui"? Cristo è venuto per i peccatori e io ho l’ansia, nel negare un Sacramento, che Lui un giorno me ne possa rendere conto. Ma noi sappiamo ancora la forza dei Sacramenti? Ho il dubbio che abbiamo troppo burocratizzato l’ammissione al battesimo.

    Penso al battesimo di mia madre, ebrea, che fu, quanto alla richiesta di mio nonno, solo formale: eppure, anche da quel battesimo è venuto un sacerdote». La nuova evangelizzazione? «Vede – dice al congedo, nella sua canonica claustrale – più invecchio e più capisco ciò che ci dice Benedetto XVI: tutto davvero ricomincia da Cristo. Possiamo solo tornare alla sorgente». Più tardi poi lo intravedi da lontano, per strada, con quella veste nera mossa dal passo veloce. («La porto – ti ha detto – perché mi riconosca uno che magari altrimenti non incontrerei mai. Quello sconosciuto, che mi è estremamente caro"».


    Marina Corradi


    (fonte qui )



    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    00 10/12/2012 16:57
    [SM=g1740758] dal blog opportuneimportune...

    Non è importante!

     
     
    Quando il Concilio stava dando i suoi tristissimi frutti, molti dei miei confratelli iniziarono a deporre la veste talare e ad usare il clergyman, e in breve li si vide in abiti civili, com'era prevedibile. Io continuavo ad usare la talare e la sacra Tonsura, che in quegli anni era molto piccola ma pur sempre visibile ed obbligatoria.
     
    A quell'epoca mi trovavo spesso a celebrare la Messa in una Basilica romana, dove non di rado mi capitava di incontrare il Cardinal Vicario, qualche Eminentissimo, non pochi Eccellentissimi e parecchi Monsignori e Sacerdoti, oltre ad un'infinità di chierici e seminaristi.
     
    Mi accadeva spesso di esser fermato in sacristia e sentirmi chiedere: "Reverendo, perché continua a portare la sottana? Non è importante la veste! Perché tiene la tonsura? Non è importante! Si aggiorni: c'è stato il Concilio!" Io mi limitavo spesso a rispondere che la veste talare era considerata ancora, e a tutti gli effetti canonici, l'abito normale obbligatorio, e che il clergyman era tollerato solo per il compimento di azioni completamente profane come ad esempio l'andare il viaggio, il prendere l'aereo, o il fare escursioni in montagna. Quindi non vi era motivo, specialmente nell'Alma Urbe, di disobbedire alla legge della Chiesa per travestirmi da pastore luterano, visto che ero un sacerdote cattolico. Quanto alla Tonsura, essa era allora facoltativa, e quando Paolo VI l'ha abolita la canizie ha provveduto ad impormela sino al sacello.
     
    Talvolta erano addirittura Vescovi o Cardinali, vestiti in nigris come ai tempi di Pio IX, a rimproverarmi - talvolta anche in modo villano - per la mia ostentazione inutile, per il mio volermi arroccare su posizioni di intransigenza preconciliari, per tutto quel nero che poco di addiceva alle magnifiche sorti e progressive inaugurate dal Concilio appena chiuso.
     
    E tutti, invariabilmente, mi dicevano: "Non è importante, quella veste!", e mi stupiva quel ritornello, detto con un sorrisetto canzonatorio, quasi meritassi pietà o mi rendessi ridicolo per il solo fatto di vestire la sacra livrea dei Leviti.
     
    Un giorno, dopo che un importante Monsignore di Curia mi fece la solita reprimenda, mi permisi di rispondere: "Eccellenza, se la veste è così poco importante, perché ogni volta che mi incrocia mi deve rimproverare di indossarla? Forse mi permetto io di rimproverarLa perché non la indossa quasi mai, nonostante essa sia obbligatoria, sempre e comunque, a Roma?"
     
    Questi remoti episodi, che mai mi hanno dissuaso dall'indossare la veste, mi sono tornati alla mente in questi giorni, dopo aver letto numerosi interventi in cui personaggi più o meno legittimati ad esprimersi hanno elogiato con enfasi l'opinabilissima scelta di Bergoglio di non indossare gli abiti propri del Papa, preferendo la semplice veste piana bianca; essi sono addirittura giunti a lodare la ricomparsa di paramenti e insegne semplici e squallide, sostituite ai ben più degni paramenti usati dalla Santità di Nostro Signore Benedetto XVI.
     
    L'argomento addotto è sempre lo stesso: fanoni, mitrie, scarpe rosse, mozzette con l'ermellino, croci pettorali preziose, ferule ecc. non sono importanti. Dinanzi a questa idiozia sesquipedale, mi sono spazientito come allora, perché è una falsità a cui per primi non credono coloro che la formulano, altrimenti non si fisserebbero così tanto su questi dettagli.
     
    Usiamo i termini come si conviene: le vesti e le insegne esteriori di una dignità non sono essenziali alla dignità medesima, ma non per questo esse sono meno importanti, dal momento che manifestano nei segni una realtà che ontologicamente non è altrimenti visibile.
     
    Si mette l'Ostia Santa nell'ostensorio non perché l'Augustissimo Sacramento dell'Altare abbia bisogno di un piedistallo d'oro e pietre preziose, ma perché si testimonia con i segni la fede nella Presenza Reale di Nostro Signore, al Quale va tributato ogni onore e gloria. Onore e gloria: manifestazioni esterne, visibili, tangibili, percepibili con i sensi.
     
    Un Carabiniere indossa quella particolare divisa non perché egli sia meno Carabiniere quando è in abiti civili, ma per riconoscerlo come tale quando esercita le sue funzioni. Il medico veste il camice bianco mentre visita i malati non perché egli sia meno capace di diagnosticare le malattie e prescrivere le cure quando è in borghese, ma per distinguerlo e poterglisi rivolgere in caso di bisogno. Il Magistrato indossa la toga e il tocco quando pronunzia una sentenza non per dare valore alle proprie parole, ma per evidenziare che in quel momento egli parla in nome della Legge, con l'autorità che lo Stato gli ha conferito. Gli esempi si potrebbero moltiplicare, e pur tuttavia si potrebbe citare anche un caso molto meno aulico ma non meno valido, specialmente per la mentalità odierna: quando i ragazzi vanno a ballare in un locale, vi è o no il cosiddetto dress code, in base al quale si è ammessi o respinti, secondo precise norme di vestiario? A chi verrebbe in mente di andare alla prima della Scala in tuta da operaio o in veste da camera?
     
    E ancora: se ad una parata militare venisse in mente ad un soldato o ad un ufficiale di mettere le scarpe da tennis, o i jeans, o anche solo un dettaglio della divisa diverso da quanto prescritto, credete che lo si lascerebbe impunemente marciare con gli altri, in nome della libertà di espressione? E perché allora si tollera che ogni sacerdote si vesta come meglio gli talenta, senza alcun rispetto per le norme e le disposizioni dell'Autorità Ecclesiastica?
     
    Non capisco perché una cosa tanto evidente nel mondo profano debba trovare tante difficoltà ad esser recepita tra i chierici. Quello stupido ritornello - Non è importante! - ha autorizzato il rilassamento della disciplina del Clero, ed oggi è assurto a paradigma sin dal più alto Soglio, dove il Vescovo di Roma si permette di comparire dinanzi ad un Sovrano con le vesti che usa per far colazione a Santa Marta, ad onta del cerimoniale e del protocollo. Ed anche se la mozzetta, il rocchetto, la croce preziosa, il camauro ed i calzari rossi non sono importanti, il messaggio che se ne ricava è chiarissimo: Io sono Bergoglio, e faccio come voglio. Dei sovrani che ricevo in udienza non me ne importa un fico secco, io sono umile, bacio i piedi ai carcerati e faccio gli autografi sul gesso delle bambine. Detesto i trionfalismi e i formalismi.
     
    L'esempio che cala dall'alto - exempla trahunt - ora legittima l'anarchia più assoluta, peraltro tollerata da decenni. Ma se un Vescovo può vestirsi in borghese e nascondere la croce pettorale nel taschino, per quale motivo io non posso allora passeggiare per via della Conciliazione in cappamagna marezzata e galero? Se tutti questi orpelli sono così poco importanti, come mai gli stessi che li deridono e li disprezzano non li tollerano addosso ad altri? Se la tiara è stata deposta dal Papa, posso indossarla io mentre celebro al faldistorio, visto che ho l'uso dei pontificali?
     
    La mia è ovviamente una provocazione. Fu una provocazione molto più meritevole di elogio - e degna di una persona di grande senso dell'umorismo e della carità cristiana - anche quella di scegliere e far approvare dall'Autorità Ecclesiastica l'abito proprio dei Canonici Regolari dell'Istituto di Cristo Re Sommo Sacerdote: un abito nero con fodere azzurre, con il fiocco azzurro sulla berretta, la mozzetta filettata di azzurro, la croce canonicale con nastro azzurro ecc. Alcuni invidiosi si erano tanto scandalizzati per l'abito protonotarile che indossava a suo tempo Mons. Wach, da mandare lettere anonime a Roma per protestare vibratamente contro l'intollerabile abuso: ora si godono Monsignore e tutti i suoi Canonici vestiti, nella più rigida conformità alla norma, come San Francesco di Sales.
     
    Queste mie riflessioni, tra il serio e il faceto, vogliono nondimeno far presente l'importanza dei segni esteriori. Se Bergoglio non ne vuol sapere di chiamarsi Papa e si ostina a presentarsi come Vescovo di Roma, non stupisce che non voglia nemmeno le insegne del Vicario di Cristo: in Segreteria di Stato ci sono Prelati ambiziosi che non vedono l'ora di calcarsela in capo. Ma sarebbe il caso di ricordargli che sono i missionari africani ad usare la veste bianca, e che Roma non è capitale del Burkina Faso.
     
    Io intanto, per la prossima Messa cantata, indosserò il fanone.

    [SM=g1740733]


    [Modificato da Caterina63 28/04/2013 00:41]
    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    00 07/10/2013 11:53

    ANGELUS 

    Piazza San Pietro
    Domenica, 6 ottobre 2013

    Video

    rosario angelus
     

    Cari fratelli e sorelle................

     


    DOPO L’ANGELUS

    Cari fratelli e sorelle,

    ieri, a Modena, è stato proclamato Beato Rolando Rivi, un seminarista di quella terra, l’Emilia, ucciso nel 1945, quando aveva 14 anni, in odio alla sua fede, colpevole solo di indossare la veste talare in quel periodo di violenza scatenata contro il clero, che alzava la voce a condannare in nome di Dio gli eccidi dell’immediato dopoguerra. Ma la fede in Gesù vince lo spirito del mondo! Rendiamo grazie a Dio per questo giovane martire, eroico testimone del Vangelo. E quanti giovani di 14 anni, oggi, hanno davanti agli occhi questo esempio: un giovane coraggioso, che sapeva dove doveva andare, conosceva l’amore di Gesù nel suo cuore e ha dato la vita per Lui. Un bell’esempio per i giovani!  [SM=g1740721]

     

    A tutti auguro una buona domenica.


    ***********************************

    Tratto dall’Osservatore Romano – Una delle più dolorose pagine della storia italiana recente, a pochi giorni dalla fine del secondo conflitto mondiale, fu la barbara uccisione del quattordicenne Rolando Rivi (1931-1945). Un ragazzo che preferì morire per «onorare e difendere la sua identità di seminarista»

    Per questo, il suo martirio per la fede è «una lezione di esistenza evangelica». All’odio dei suoi carnefici, infatti, rispose «con la mitezza dei martiri, che inermi offrono la vita perdonando e pregando per i loro persecutori». È quasi commosso il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, quando durante il rito di beatificazione del giovane Rivi – presieduto in rappresentanza di Papa Francesco, sabato pomeriggio, 5 ottobre, a Modena – racconta i drammatici e ultimi giorni di vita del nuovo beato.

    «Era – ha sottolineato il porporato – troppo piccolo per avere nemici, erano gli altri che lo consideravano un nemico. Per lui tutti erano fratelli e sorelle. Egli non seguiva una ideologia di sangue e di morte, ma professava il Vangelo della vita e della carità». Nonostante fosse ancora un bambino, Rolando aveva già ben compreso il messaggio del Vangelo: «Amare non solo i genitori e i fratelli, ma anche i nemici, fare del bene a chi lo odiava e benedire chi lo malediceva». 

    Celebrare il martirio del piccolo Rolando, ha detto il cardinale, è anche un’occasione per «gridare forte: mai più odio fratricida, perché il vero cristiano non odia nessuno, non combatte nessuno, non fa male a nessuno. L’unica legge del cristiano è l’amore di Dio e l’amore del prossimo». Infatti, le ideologie umane «crollano, ma il Vangelo dell’amore non tramonta mai perché è una buona notizia». E la beatificazione di Rivi è «una buona notizia per tutti. Di fronte alla sua bontà e alla sua gioia di vivere, siamo qui riuniti per piangere sì il suo sacrificio, ma soprattutto per celebrare la vittoria della vita sulla morte, del bene sul male, della carità sull’odio».

    rolando-riviFin da piccolo, Rolando aveva un sogno: quello di diventare sacerdote.

    A undici anni entrò in seminario, come ha ricordato il porporato, e come si usava allora, indossò la veste talare, che da quel giorno «diventò la sua divisa».
     La portava «con orgoglio. Era il segno visibile del suo amore sconfinato a Gesù e della sua totale appartenenza alla Chiesa. 

    Non si vergognava della sua piccola talare. Ne era fiero», tanto che la portava in seminario, in campagna, in casa. «Era il suo tesoro da custodire gelosamente – ha aggiunto – era il distintivo della sua scelta di vita, che tutti potevano vedere e capire». A causa della guerra, molti consigliavano a Rolando di togliersi la talare, perché era pericoloso indossarla, visto il clima di odio contro il clero.
    Davanti ai timori anche dei familiari, Rolando rispondeva: «Non posso, non devo togliermi la veste. Io non ho paura, io sono orgoglioso di portarla. Non posso nascondermi. Io sono del Signore».

    Ma il 10 aprile 1945, dei partigiani «imbottiti di odio e indottrinati a combattere il cristianesimo», catturarono Rolando. Il ragazzo, ha ricordato il porporato, venne «spogliato, insultato e seviziato con percosse e cinghiate per ottenere l’ammissione di una improbabile attività spionistica». Dopo tre giorni di sequestro, «con una procedura arbitraria e a insaputa dei capi, il 13 aprile 1945, il ragazzo fu prima barbaramente mutilato e poi assassinato con due colpi di pistola, uno alla tempia sinistra e l’altro al cuore». Dal sacrificio di Rolando, ha aggiunto il porporato, vengono quattro consegne per tutti noi: perdono, fortezza, servizio e pace. In modo particolare, ha concluso, egli «si rivolge ai seminaristi d’Italia e del mondo, esortandoli a rimanere fedeli a Gesù, a essere fieri della loro vocazione sacerdotale e a testimoniarla senza rispetto umano, con gioia, serenità e carità».



    Leggi di Più: Rolando Rivi è beato. «È la vittoria della vita sulla morte» | Tempi.it 


    [SM=g1740733] 

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    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
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    00 27/04/2015 00:10

    DELLA SANTA VESTE TALARE del Ven. Jean-Jacques Olier


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     Talare e clergyman non sono la stessa cosa

    Oggi, quando si vede un sacerdote in clergyman, ci si rallegra, perché per lo meno ci si trova di fronte a un prete che obbedisce alle norme vigenti e non ha paura di mostrare la sua identità. Però però… non è la stessa cosa che vederlo in talare.Uno certo falso spiritualismo gnostico oggi alla moda, una delle tante anime del neo-modernismo, tende a farci dimenticare la grandiosa portata simbolica della lunga veste nera.Le riflessioni del Ven. Jean-Jacques Olier ci faranno senz’altro meglio capire quanto un santo prete debba essere, in un certo senso, un tutt’uno con il suo santo abito.

    Don Alfredo Morselli

    Dell'abito dei chierici.del Ven. Jean-Jacques Olier

    La veste talare e la cotta, che sono l'abito della religione di Gesù Cristo (1) sono l'espressione esteriore della professione da noi fatta, di rivestirci interiormente della religione di Cristo verso il suo divino Padre.Questa è la dichiarazione che tutti chierici devono fare ai piedi del vescovo ricevendo il santo abito. Essi testimoniano così solennemente di dedicarsi a Dio in Cristo suo Figlio, per servirlo nella sua Chiesa, di prenderlo per unico retaggio, per unico bene, per loro tutto.
    Allora soltanto vengono rivestiti della cotta, dopo d'aver ricevuto la tonsura e d'esser stati rivestiti di una veste talare.Tutte queste circostanze sono molto misteriose e devono essere considerate con seria attenzione da coloro che entrano nel chiericato.
    Le persone incaricate dell'istruzione dei chierici, porranno gran cura nel darne le spiegazioni. Da parte loro, i chierici devono desiderare ardentemente di conoscere ciò che esse significano (2); poiché vi riscontreranno i loro obblighi principali e le disposizioni speciali che sono loro necessarie per entrare in questo stato e per abbracciare questa santa professione.

    PARTE Iª – DELLA SANTA VESTE TALARE

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    L'abito col quale si presenta colui che aspira al chiericato è la santa veste talare. Questo abito è il segno esterno dell'anima disposta a entrare nella vita ecclesiastica (3).Tutto ciò che esiste di esteriore nella Chiesa del Signore governata dal suo Spirito divino e dalla sua santa saggezza, esprime qualcosa di interiore che non potrebbe essere espressa che con qualche espressione o figura sensibile (4). Il corpo significa l'anima, in noi; e con i suoi gesti, con i suoi movimenti e con le sue azioni esso scopre quali sono le sue potenze intime che altrimenti resterebbero sconosciute.Non si saprebbe mai che l'anima ha la potenzialità di vedere, di ascoltare, di parlare, se il corpo, con le sue funzioni dipendenti dall'anima, non facesse vedere ciò che essa è in se stessa (5).

    Così Nostro Signore fa apparire nella Chiesa, per mezzo di cose esteriori, ciò che vi è di più nascosto nei suoi misteri (6); e mediante le vesti e gli ornamenti di cui ricopre i suoi ministri, le cerimonie con cui vela le sue opere, egli spiega ciò che l'uomo nuovo e il suo spirito divino operano nelle anime nostre.·Ora, poiché di tutte le vesti dell'ecclesiastico la prima è la veste talare, venerabile abito proprio dello stato ecclesiastico e prescritto dai sacri canoni stessi (7), dobbiamo vederne il significato e ciò che la Chiesa intende esprimerci per suo mezzo.La veste talare, che è un abito nero, significa la prima delle disposizioni che deve avere il chierico e la prima parte della religione del santo clero, che è d'essere morto ad ogni amore, ad ogni stima del mondo (8).

    La cotta, invece, rappresenta la seconda parte di questa stessa religione, che è di non vivere che per il Signore. Si ricopre di questo abito colui che si presenta a ricevere la tonsura, per insegnargli che deve essere talmente distaccato da ogni cosa terrena, da rassomigliare a un morto, non desiderando più che Dio, in confronto del quale non esiste nulla al mondo di amabile. Così del resto dichiara il chierico allorché, spogliandosi dell'ignominia dell'abito secolare, si ricopre di questa santa veste: egli dichiara pubblicamente in faccia a tutta la Chiesa, che intende di cambiare le proprie abitudini, i propri costumi, così come cambia d'abito (9); che non intende più viver della vita terrena, ma della vita celeste; che non conosce più che Dio, non stima altri che Lui, che Egli è il suo tutto e che il resto non gli è più nulla; infine, che vuol essere come i beati che, nella visione di Dio, non vedono più che lui, o che se vedono qualche altra cosa, qualche creatura, la vedono talmente in Dio, che essa è ai loro occhi piuttosto Dio che creatura.



    L'abito del chierico che rivela come egli sia il perfetto religioso di Dio, entrato nella comunione e partecipazione della religione del cielo, è la cotta.

    Questo è il suo abito vero, perfetto, senza del quale non può compiere alcuna delle sue funzioni (10); di modo che egli non è considerato chierico rappresentante il proprio stato, che quando ne è rivestito. Se qualche volta non porta che la veste talare, questo avviene quando egli è nel secolo (11), indegno di vedere l'innocenza, la purezza, la santità e lo splendore del suo abito divino. E se non mostra che nero agli occhi del mondo, è per significare che è morto per esso, e che egli lo considera tanto miserabile che, per vivere nella giustizia e nella grazia, bisogna morire a ciò che esso' è; tanto è vizioso e corrotto (12)!L'ampiezza di questo abito non ci deve stupire (13); il prete rappresenta tutto il mondo; deve portare nel cuore la religione che aveva Cristo nel suo, che è la religione universale che egli offrì al suo Padre per supplemento di quella di tutta la sua Chiesa.Egli amava, adorava, lodava il Padre per tutti gli uomini e per tutti gli angeli. Faceva per essi ciò che non potevano degnamente fare, di modo che suppliva a tutti (4). Così egli era il religioso universale, colui che pregava lodava e glorificava Dio per tutto il mondo.

    Questo Egli continua a fare nel Cielo (15) e nel Santissimo Sacramento dell'Altare, dove rende a Dio tutti gli omaggi e i doveri della religione nel suo interiore, come la Chiesa glieli rende esteriormente sulla terra e glieli renderà egualmente nel Cielo. Ma poi che Nostro Signore, ascendendo al cielo e lasciando la terra, ha cessato di onorare esteriormente il suo divin Padre a nome di tutti gli uomini come visibilmente faceva sulla terra, così ha voluto lasciare dei successori della sua religione che continuassero a compiere gli stessi doveri verso Dio, Padre suo (16). E siccome questa religione è in lui per mezzo dello Spirito Santo, la cui virtù gli fa adorare Dio quanto lo può essere, egli ha voluto, dopo l'ascensione al cielo, mandare questo stesso Spirito ai suoi Apostoli ed ai suoi discepoli affinché continuasse a diffondere nei cuori come aveva fatto nel suo (17), una religione perfetta, santa, interiore, comprendente in sé i doveri e gli omaggi di tutto il mondo insieme.

    Così, gli Apostoli e i Preti sono i successori di Gesù Cristo nella sua religione e non sono stabiliti se non per onorare Dio in nome di tutto il mondo (18).Per questo, la veste talare è così ampia, a rappresentare quasi la sfericità e la distesa della terra: ciò che si raffigurava anticamente nella veste del sommo sacerdote che era pure amplissima per prefigurare l’immensità della religione di Gesù Cristo (19). Il pontefice nella antica legge, portava su di sé i nomi delle dodici tribù (20) per prefigurare l'eccellenza della religione del Figlio di Dio e la grandezza del suo amore verso il Padre che sorpassò quello di tutti gli uomini insieme; ed ancora per significare che i preti devono portare l'amore di tutti gli uomini nei loro cuori (21); che essi devono contenere nel cuore tutti gli omaggi, tutte le lodi di ogni fedele, e possedere nelle loro anime più religione verso Dio che tutte le creature insieme riunite. La santa veste talare è inoltre come un sudario che ci tiene sepolti e che esprime al vescovo lo stato di morte nel quale si trova il santo chierico che a lui si presenta. Dico sempre è dovunque santo, perché, come la Chiesa è un nuovo mondo e un mondo di santità, fatto soltanto per rappresentarci Dio e Gesù Cristo nelle loro eminenti perfezioni, nulla deve trovarsi in essa che non sia santo.



    La santa veste talare significa dunque che il chierico è morto al secolo (22): come egli stesso protesta, quando dice di non voler più che Dio; Dominus pars hereditatis meae. Ed anche se non lo dicesse, parlerebbe del suo obbligo l'abito che indossa che, semplice e nero come è, esprime a chiunque che il chierico che lo porta è morto alla pompa ed al fasto del secolo (22) e che deve esserne separato nel cuore come lo è nell'abito (23).L'abito talare ricopre tutto il corpo, a testimoniare che tutta la carne è morta e che il chierico che lo porta, reca in sé la morte di Cristo in tutte le sue membra. Necessità quindi che colui che è innalzato al santo stato ecclesiastico, faccia apparire, nella persona, la morte di Nostro Signore e le sue vittorie, e tutte le sue azioni lo proclamino e lo annuncino dappertutto (24). Dice San Paolo che tutti i cristiani devono essere circondati per tutto il loro coro po della morte di Gesù Cristo: Semper mortifìcationem Jesu in corpore nostro circumferentes (25). Questo è raffigurato dall'abito talare che, ricoprendo il chierico e circondandone il corpo, non lascia scorgere nulla di lui se non sotto un abito di morte (26).Siccome essi sono interamente appartenenti a Gesù e si sono dati a Lui senza riserva nello stato clericale, non devono soltanto essere mortificati nella carne, nelle sue sregolatezze e nei suoi desideri, secondo la parola dell'Apostolo: Qui sunt Christi, carnem suam crucifìxerunt cum vitiis et concupiscentiis (27); ma ancora devono essere morti e sepolti con Gesù Cristo, per partecipare poi alla sua nuova vita. Anche questo esprime la veste talare. E come la crocifissione, la morte e la sepoltura precedono la risurrezione interiore, il vescovo vuol vedere un figliolo vestito della veste talare come di un lenzuolo funebre che ne ricopra tutto il corpo, che lo tenga seppellito, prima di dargli la cotta (28).



    DELLA SANTA VESTE TALARE del Ven. Jean-Jacques Olier

    Il chierico, rivestito dalla veste talare nera, esprime la disposizione del suo spirito e il desiderio di vivere umiliato tutta la vita (29) e morto a tutto se stesso, dai piedi alla testa; non avendo più nulla in lui, né volontà, né giudizio, né passioni, come se la vecchia creatura d'Adamo morta in lui non gli lasciasse più alcun desiderio. Un chierico deve così camminare nel mondo, portando la croce di Gesù Cristo esposta su se stesso: Crucifìgentes veterem hominem in semetipsis; di modo che nulla di carnale appaia vivente in lui. Ecco perché la veste talare è interamente chiusa e copre tutto il nostro corpo (30). È però vero che la testa non è nascosta sotto questo santo abito, come il resto del corpo; e ciò a significare che solo Gesù Cristo (31) deve apparire in noi: Viri caput Christus (32). Lo si deve vedere sulla nostra bocca: Si quis loquitur, quasi sermones Dei (33); colui che parla, dice San Pietro, deve parlare il linguaggio di Dio. Bisogna scorgere che Dio muove la sua lingua ed anima la sua parola (34).

    Il viso pure è scoperto, per testimoniare che il chierico deve essere, nei suoi costumi e nella sua condotta, una immagine della Divinità.E se le mani appaiono, è perché il chierico deve far conoscere nelle sue azioni rappresentate dalle mani, che Dio opera in lui: Si quis ministrat, tamquam ex virtute quam administrat Deus(35).Se il chierico opera, sia per potenza di Dio; sia Dio che lo muove e che gli comunica l'efficacia della sua azione; di modo che si vedano, nel suo corpo morto, le opere della vita dello spirito espresse dalle sue mani (36). II volto ben composto e la condotta di vita ben regolata, sono gli indizi ai quali riconosciamo che Dio abita nella mente e nell'anima del chierico. Modestia vestra nota sit omnibus hominibus: Dominus enim prope est. Che la vostra modestia, dice S. Paolo (37), sia conosciuta da tutti, per rispetto a Dio che vi sta vicino, e per causa dell'unione a Cristo che, risiedendo in voi, fa riflettere la sua modestia nel vostro aspetto esteriore (38).

    Questo grande Dio, che ordina ogni cosa con tanta saggezza e che muove la creatura con tanto criterio, si rivela presente in un'anima per mezzo del contegno de} corpo (39). Se si riconosce la presenza di Dio nell'armonia del firmamento e nel moto dei corpi celesti, più facilmente si potrà discernere la presenza della sua maestà in un'anima che Egli guida, nel moto che Egli vi imprime (40).

    Group photo of OLGS, 6 V 2009

    Nulla resta dunque di scoperto in colui che è rivestito dell'abito talare all'infuori del viso e delle mani: questo significa che non deve più apparire in un chierico e in un prete che la vita divina, la vita di Gesù Cristo, che si rivela per mezzo delle parole e delle opere buone (41). Tutto il resto deve essere morto in lui; tutto deve essere sepolto come in una tomba (42). La vita di Dio solo, la vita della fede e della saggezza divina devono unicamente rifulgere in lui (43). E siccome la fede opera per mezzo della carità (44), le mani sono scoperte come il viso, a indicare la carità di Dio che opera in noi, e questa vita di fede che si manifesta nelle nostre azioni (45).Quanto ai piedi, sono nascosti dalla veste talare: ciò significa la morte ai desideri ed alle affezioni terrene.

    I piedi, camminando, esprimono da quali sentimenti siano mossi, portandoci verso i luoghi e gli oggetti che ci piacciono (46); e siccome appunto queste affezioni e questi desideri mondani sono quelli che costituiscono la parte principale della nostra vita animale, devono essere mortificati e soffocati nei chierici, poiché essi non devono avere più che Gesù Cristo vivente nei loro spiriti, per trattenervi e comprimervi e seppellirvi la vecchia creatura (47). Tutto ciò che vi è in essi deve servire alla edificazione delle genti, e tutto, anche esteriormente, deve parlare dei misteri della nostra santa religione. La veste talare appunto annuncia al mondo il mistero della morte e sepoltura del vecchio uomo (48).Questo abito nero dice eminentemente: - Morite a tutte le vanità del secolo (49), morite alle sue massime, al peccato, al demonio ed alla carne; morite, infine, a tutto ciò che non è Dio.

    Semaine Sainte au Séminaire de Wigratzbad

    Per mezzo di questo abito che è ben differente da quello del mondo (50) il chierico rivela di aver deposti gli usi mondani, di non voler aver più rapporti col secolo, e di professare pubblicamente la sua opposizione ad ogni pompa o vanità. La semplicità, la modestia, il colore di questa santa veste proclamano tali sentimenti.II chierico porta pure impresso sul viso. e in tutto il suo contegno il grado di mortificazione propria a cui è giunto (51).Il suo volto è scoperto unicamente perché è l'immagine di Dio per il quale egli vive; ma siccome Dio, che è infinitamente superiore al mondo, vive in lui di una vita infinitamente sublime e al di sopra della terra, così il chierico deve avere scolpita sul viso un'espressione di grande elevazione al di sopra di tutte le creature, mostrando così quanto il mondo e tutto ciò che contiene siano sprezzabili ai suoi occhi (52).


    L'ecclesiastico deve essere come cieco, in rapporto al mondo; non deve considerarne più né le bellezze né le rarità; deve essere come sordo alle sue notizie, calpestare tutte le sue pompe, condannare i suoi artifici; deve avere il cuore ben chiuso alle sue massime ed ai suoi sentimenti: in una parola, deve essere insensibile a tutto ciò che esso propone, poi che egli è ormai interiormente rivestito dell'uomo nuovo, questo uomo tutto di cielo, che più non vive sulla terra dove non trova più nulla degno di lui (53). Egli pregusta in tal modo le delizie di un altro mondo, dove Dio solo formerà la gioia, dove non apparirà più traccia di questo mondo volgare (54). Egli appartiene già a quell'altra generazione, a quell'altro mondo, più bello, più puro, mille volle più santo del presente.

    Egli non è più, come era nell'ordine naturale, il centro a cui converge tutta la volta del mondo, ma è il punto al quale converge tutta la Chiesa del Cielo che sopra lui riposa, che lo guarda e per il quale è stato formato tutto questo mondo superiore (55).Bisogna dunque che noi ci consideriamo come persone fuori del mondo, viventi nel cielo (56), che conversano coi santi, che vivono nell'oblio, nell'avversione in un sovrano disdegno di tutto il mondo (57).Bisogna che dimostriamo bene, a tutti, con la nostra condotta, vivendo e muovendoci nel mondo come Dio stesso (58), che c'è una vita molto migliore che ci aspetta nel cielo (59) dove già ci troviamo per la fede e dove già felicemente conversiamo con i santi. 


    DE:missainlatino.it






    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 06/06/2016 08:30

    L'ABITO NON FA IL PRETE, MA IL PRETE PORTA L'ABITO. CON ELEGANZA E STILE PER SERVIRE SOLO IL RE DEI RE





    L'abito non fa il prete, ma il prete porta l'abito. Con eleganza e stile per servire solo il Re dei re



    Questa foto è stata scatatta nell'agosto 2014 nella zona d'Ivrea.

    È un piccolo, grande esempio di sobrietà e significato. La offriamo alla meditazione di tutti.

    «Il sacerdote non è semplicemente il detentore di un ufficio, come quelli di cui ogni società ha bisogno affinché in essa possano essere adempiute certe funzioni.

    Egli invece fa qualcosa che nessun essere umano può fare da sé: pronuncia in nome di Cristo la parola dell’assoluzione dai nostri peccati e cambia così, a partire da Dio, la situazione della nostra vita. Pronuncia sulle offerte del pane e del vino le parole di ringraziamento di Cristo che sono parole di transustanziazione – parole che rendono presente Lui stesso, il Risorto, il suo Corpo e suo Sangue, e trasformano così gli elementi del mondo: parole che spalancano il mondo a Dio e lo congiungono a Lui.

    Il sacerdozio è quindi non semplicemente «ufficio», ma sacramento: Dio si serve di un povero uomo al fine di essere, attraverso lui, presente per gli uomini e di agire in loro favore. Questa audacia di Dio, che ad esseri umani affida se stesso; che, pur conoscendo le nostre debolezze, ritiene degli uomini capaci di agire e di essere presenti in vece sua – questa audacia di Dio è la cosa veramente grande che si nasconde nella parola «sacerdozio». Che Dio ci ritenga capaci di questo».

    -Papa Benedetto XVI, 
    Omelia alla Messa per la conclusione dell'Anno Sacerdotale, 
    11 giugno 2010, Solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù




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    00 29/06/2016 00:39

      I 7 vantaggi della tonaca

    Un sacerdote testimonia l'impatto che esercita la tonaca come simbolo di consacrazione a Dio


    Il sacerdote spagnolo Jaime Tovar Patrón è stato colonnello cappellano e ha compiuto importanti missioni nel Vicariato  Castrense. Grande oratore, è stato anche storico del sacerdozio castrense e ha scritto il libro Los Curas de la Cruzada, sui sacerdoti che hanno rischiato eroicamente la propria vita per portare avanti la loro opera pastorale durante la Guerra Civile spagnola, iniziata nel 1936. Sacerdoti, religiosi e religiose furono tra le vittime preferite di questo capitolo sanguinoso della storia della Chiesa in Spagna. Padre Jaime è morto nel gennaio 2004.

    Nel testo che riportiamo, ricorda l’importanza dell’“uniforme sacerdotale”, la tonaca o abito talare, il cui impatto sulla società è così grande che molti regimi anticristiani l’hanno proibita espressamente. L’uso della tonaca, tradizione antichissima, è stato dimenticato e perfino disprezzato negli ultimi decenni, ma ciò non vuol dire che la tonaca abbia perso la sua forza come testimonianza di consacrazione e appartenenza a Dio e non al mondo.

    1a – PROMEMORIA COSTANTE DEL SACERDOTE

    Sicuramente una volta ricevuto l’Ordine sacerdotale non si dimentica facilmente, ma un promemoria non fa mai male: qualcosa di visibile, un simbolo costante, una sveglia silenziosa, un segnale o una bandiera. Chi va vestito in modo secolare è uno tra i tanti, chi indossa la tonaca no. È un sacerdote ed è lui la prima persona a rendersene conto. Non può rimanere neutrale, l’abito lo denuncia. O diventa un martire o un traditore, se se ne presenta l’occasione. Quello che non può fare è restare nell’anonimato, come una persona qualunque. Non c’è impegno quando a livello esteriore nulla dice cosa si è. Quando si disprezza l’uniforme, si disprezza la categoria o la classe che questa rappresenta.

    2a – PRESENZA DEL SOPRANNATURALE NEL MONDO

    È indubbio che siamo circondati da simboli: segnali, bandiere, insegne, uniformi… Uno di quelli che hanno più influenza è l’uniforme. Un poliziotto, un vigile, deve agire, fermare, fare multe, ecc. La sua mera presenza influisce sugli altri: conforta, dà sicurezza, irrita o innervosisce, in base alle intenzioni e alla condotta dei cittadini. Una tonaca suscita sempre qualcosa in chi circonda la persona che la porta. Risveglia il senso del soprannaturale.

    Non serve predicare, e neanche aprir bocca. Incoraggia chi è in buoni rapporti con Dio, avvisa chi ha la coscienza pesante, fa pentire chi vive lontano da Dio. I rapporti dell’anima con Dio non sono riservati al tempio. Moltissima gente non va in chiesa. Quale modo migliore per portare il messaggio di Cristo a queste persone di un sacerdote consacrato che indossa la sua tonaca? I fedeli lamentano la desacralizzazione e i suoi effetti devastanti. I modernisti criticano il presunto trionfalismo, eliminano gli abiti, respingono le tradizioni e poi si lamentano dei seminari vuoti e della mancanza di vocazioni. Spengono il fuoco e poi si lamentano del freddo. Non c’è dubbio: togliere la tonaca porta alla desacralizzazione.

    3a – GRANDE UTILITÀ PER I FEDELI

    Il sacerdote è tale non solo quando è in chiesa ad amministrare i sacramenti, ma 24 al giorno. Il sacerdozio non è una professione, con un orario stabilito; è una vita, una donazione totale e senza riserve a Dio. Il popolo di Dio ha diritto all’aiuto del sacerdote. Ciò è più facile se si può riconoscere il sacerdote tra le altre persone, se questi porta un segno esteriore. Chi desidera lavorare come sacerdote di Cristo deve poter essere identificato come tale a beneficio dei fedeli e per svolgere meglio la sua missione.

    4a – SERVE A PRESERVARE DA MOLTI PERICOLI

    Quante cose farebbero chierici e religiosi se non avessero l’abito! Questa avvertenza, che era solamente teorica quando scriveva padre Eduardo F. Regatillo, S.I., è oggi una terribile realtà. Prima sono state cose di poco conto: entrare nei bar, nei luoghi ricreativi, divertirsi, convivere con i secolari, ma a poco a poco si è passati a cose più importanti.

    I modernisti vogliono farci credere che la tonaca sia un ostacolo all’ingresso del messaggio di Cristo nel mondo, ma sopprimendola scompaiono le credenziali e il messaggio stesso. In questo modo, molti già pensano che la prima cosa che si debba salvare sia il sacerdote stesso che si è spogliato della tonaca presumibilmente per salvare gli altri. Si deve riconoscere che la tonaca rafforza la vocazione e diminuisce le occasioni di peccato per chi la indossa e per chi lo circonda. Delle migliaia di uomini che hanno abbandonato il sacerdozio dopo il Concilio Vaticano II, praticamente nessuno ha lasciato la tonaca il giorno prima di andarsene; lo avevano fatto molto prima.

    5a – AIUTO DISINTERESSATO AGLI ALTRI

    Il popolo cristiano vede nel sacedote l’uomo di Dio, che non cerca il suo bene personale, ma quello dei suoi parrocchiani. Il popolo spalanca le porte del cuore per ascoltare il sacerdote, che è lo stesso per il povero e per il potente. Le porte, per quanto alte possano essere, si aprono davanti alle tonache e agli abiti religiosi. Chi nega a una suora il pane che chiede per i suoi poveri o i suoi anziani? Tutto questo è tradizionalmente legato ad alcuni abiti. Il prestigio della tonaca si è accumulato con tempo, sacrifici e abnegazione. E ora ci si libera della tonaca come se si trattasse di una seccatura?

    6a – IMPONE MODERAZIONE NEL VESTIRE

    La Chiesa ha sempre preservato i suoi sacerdoti dal vizio di sembrare più di ciò che si è e dall’ostentazione dando loro un abito semplice che non lascia spazio al lusso. La tonaca è tutta d’un pezzo (dal collo ai piedi), di un solo colore (nero) e con una sola forma (sacco). Gli ornamenti vengono riservati al tempio, perché non adornano la persona ma il ministro di Dio perché sottolinei le cerimonie sacre della Chiesa. Vestendosi in modo secolare, la vanità può influenzare il sacerdote come qualsiasi mortale: le marche, la qualità della stoffa, i colori… Collocandosi al livello del mondo, la persona sarà alla mercè dei suoi gusti e dei suoi capricci. Bisognerà procedere in base alla moda, e la voce del sacerdote non si udirà più come quella del profeta che gridava nel deserto vestito di peli di cammello.

    7a – ESEMPIO DI OBBEDIENZA ALLO SPIRITO E ALLA LEGISLAZIONE

    Come qualcuno che prende parte al Santo Sacerdozio di Cristo, il sacerdote dev’essere un esempio dell’umiltà, dell’obbedienza e dell’abnegazione del Salvatore. La tonaca lo aiuta a mettere in pratica la povertà, l’umiltà nel vestire, l’obbedienza alla disciplina della Chiesa e il disprezzo delle cose del mondo. Indossando la tonaca, il sacerdote dimenticherà difficilmente il suo ruolo importante e la sua missione sacra, e non confonderà il suo abito e la sua vita con quelli del mondo.

    A questi sette vantaggi della tonaca potranno aggiungersene altri che vi verranno in mente, ma qualunque essi siano la tonaca sarà sempre il simbolo inconfondibile del sacerdozio, perché la Chiesa, nella sua immensa saggezza, ha disposto così, e ciò ha dato frutti meravigliosi nel corso dei secoli.

     

    [Traduzione dal portoghese a cura di Roberta Sciamplicotti]

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    [Modificato da Caterina63 28/01/2017 12:27]
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