00 19/07/2011 11:07

"Vita Pastorale" e la Messa antica

Sull'ultimo numero di Vita Pastorale è stato pubblicato un articolo di S. Dianich che, grazie alla paziente trascrizione di John Lord, potrete ora leggere. Con tanto di fotografie a confronto, che riportiamo insieme alla didascalia originale (sì, sì: il commento che inneggia a quello squallido hangar cuneese come epitome dei canoni conciliari di chiesa-popolo di Dio, è proprio di Vita Pastorale, nonostante possa sembrare una nostra parodia).

Il testo in sé è tutt'altro che spregevole (didascalia a parte) e richiama l'evoluzione della struttura della Messa nel corso dei millenni. Ma la finalità è scorretta: si vuole trasmettere l'erroneo messaggio che il messale tridentino sia stato una sorta di novità liturgica o, quanto meno, la codificazione di un assetto tardomedioevale che poco avrebbe a che fare con la liturgia cristiana dei primi secoli, recuperata finalmente, e "felicemente", solo dopo il Concilio Vaticano II.

Questa attitudine ha un nome e si chiama archeologismo; già stigmatizzata da Pio XII, è l'idea che si debba tornare ad una idealizzata e primitiva "età dell'oro" cristiana, tipicamente ravvisabile nei primissimi secoli, anzi decenni dalla fondazione della Chiesa. Un'idea in sé condannabile, come ognun può vedere, per almeno tre ordini di ragioni, che citiamo in ordine crescente di gravità (e di cui solo le prime due potevano essere considerate dal profetico Pio XII). La prima è l'impossibilità di avere una chiara ricostruzione di quanto accadesse realmente nei primi secoli: ad esempio appare oggi, dopo gli studi di Lang, come l'asserzione - nei decenni scorsi unanime - che l'antica celebrazione avvenisse verso il popolo, sia in realtà errata poiché l'orientamente primitivo era di tutti quanti verso il sole che sorge.

La seconda ragione è che, pur ammesso che certi usi più antichi siano stati progressivamente abbandonati, occorre riflettere, prima di riesumarli, se non siano divenuti obsoleti per qualche opportuna ragione e, soprattutto, se possa tornare utile richiamarli improvvisamente in vita dopo più di mille anni.

Ma la principale ragione di condanna di quella posizione si basa sul modo in cui è avvenuto il preteso recupero della più antica tradizione, che costituirebbe l'essenza della riforma bugniniana. Si è riesumata qualche orazione dai più vecchi sacramentari e si sono riattate consuetudini da tempo perdute; ma questo è avvenuto conformandosi ad una mentalità ecclesiale e sociale, ad uno 'spirito' insomma, agli antipodi dai periodi che videro il sorgere di quegli usi. Basti qualche esempio: è vero che più anticamente la Comunione era ricevuta in piedi ed in mano. Ma ciò avveniva con tali e tante cautele e devozioni (lunghi digiuni, mano coperta da un lino per le donne, atti previ di adorazione: "nemo autem illam carnem manducat nisi prius adoraverit", scriveva appunto ai tempi S. Agostino), da rendere nella sostanza più vicina a quella tradizione il ricevere l'Eucarestia devotamente inginocchiati e sulla lingua, che non l'attuale nonchalante distribuzione ad opera di una batteria di ministri straordinari. Similmente, la preghiera dei fedeli era sì in uso anticamente, ma non era certamente quella distraente farsa di frasi fatte e trito buonismo da democristiani, che ci tocca sentire ogni domenica: facciamo fatica ad immaginarla ai tempi, puta, delle persecuzioni di Diocleziano. E ancora: la preghiera eucaristica II (la più usata perché la più corta) è spacciata come un recupero di un testo di S. Ippolito più antico del canone romano; peccato però che all'originale assomigli appena ed in particolare siano stati accortamenti epurati tutti i riferimenti stonati per orecchie moderne, come quelli al demonio, all'inferno e alla necessità di un'unica fede.
Infne, non sfuggirà agli attenti lettori dell'articolo che segue l'uso peculiare delle maiuscole che contraddistingue questo genere di prosa: si sminuiscono termini come "messa", "sacrificio", "eucaristia", mentre per contro si abbonda di maiuscole per parole come "Padri" (ovviamente riferito ai Padri 'Costituenti' del Concilio) o "Parola".


Enrico



Foto a sinistra: una messa secondo lo stile tridentino. Sotto: la chiesa della Trasfigurazione a Mussotto-Alba (Cn) rispecchia i canoni di Chiesa-popolo di Dio secondo il Vaticano II.


Missa antiqua o moderna?
(Severino Dianich, Vita Pastorale N. 7/2011, pagg. 16-17-18)

A giudizio del grande storico della liturgia, Josef Andreas Jungmann, celebrare la messa in volgare è un obiettivo tanto desiderato dal Concilio di Trento, ma felicemente [sic!] realizzato solo dalla riforma liturgica del Vaticano II.

Da quando si è avviata la promozione di una legittima celebrazione dell’eucaristia con il rito tridentino, si è introdotto l’uso di denominare quel rito “la messa antica”. Ogni parola ha il significato che le vuole dare chi la pronuncia e, se dicendo “antica”, si intende indicare semplicemente la forma rituale precedente alla riforma liturgica voluta dal Vaticano II, non c’è problema. Se però si volesse intendere che il rito del concilio di Trento corrisponde alla forma più antica, quella con cui si celebrava la messa prima del Medioevo e dell’avvento della modernità, l’espressione verrebbe a falsare la verità storica.

Il Messale di Pio V è un’opera moderna. Fu pubblicato, infatti, il 14 luglio 1570, nel pieno degli eventi che caratterizzano l’insorgere della modernità, dopo la fioritura della cultura umanistica, nell’emergere di una sensibilità individualistica, in stretto rapporto con il dramma della Riforma. È vero che la commissione che ne ha curato la redazione intendeva ricondurre la liturgia nelle forme rituali della Chiesa romana antica ed, effettivamente, ha realizzato un’opera di sfrondamento di infinite sovrastrutture che nel frattempo si erano introdotte.

A giudizio, però, del grande storico della liturgia eucaristica, J. A. Jungmann, «questa mèta così elevata non venne raggiunta che in piccola parte». Che avesse costituito un desiderio dei Padri del Tridentino, «appare chiaro dal fatto che già nel 1563, quando ancora si progettava di occuparsi della correzione del messale nel Concilio stesso, un manoscritto vaticano del Sacramentario gregoriano venne fatto venire appositamente da Roma a Trento. E non si trattava di uno slancio isolato, ché anche la commissione si è preoccupata di studiare le fonti antiche». Però, «non ci si poteva aspettare che una commissione di pochi uomini, chiamati a un lavoro pratico potesse venire in possesso, in un paio di anni, di quelle cognizioni storico-liturgiche che erano destinate a maturare per la cooperazione di molti solo nel giro di parecchi secoli» (Missarum Solemnia, I, Marietti 1953, Casale M., p. 117; ed orig. Herder 1948). Questo risultato, infatti, allora desiderato, è stato felicemente raggiunto proprio dalla riforma promossa dal Vaticano II.

La grande liturgia antica

È anche interessante osservare che il concilio di Trento nel decreto dottrinale sul sacrificio della messa, pur dichiarando che «non è sembrato opportuno ai Padri che si celebrasse in lingua volgare», si è seriamente preoccupato, usando le belle espressioni bibliche, che «le pecore di Cristo non abbiano a soffrire la sete e i piccoli non debbano chiedere pane e non avere alcuno che glielo distribuisca». Per questo si dava mandato ai pastori e a coloro che hanno cura d’anime di «spiegare di frequente, essi stessi o qualcun altro al loro posto, durante la celebrazione della messa, qualche parte di ciò che nella messa viene letto» (Sessione XXII, 17.9.1562, cap. VIII).

Dopo quattro secoli, le circostanze per le quali a quel tempo era sembrato ai Padri non opportuno che la celebrazione avvenisse nelle lingue parlate sono profondamente mutate, per cui i Padri del Vaticano II hanno ritenuto opportuno ciò che al tempo del Tridentino non lo era, recuperando così davvero la grande tradizione antica, che ha visto i cristiani di Roma celebrare in greco e solo più tardi, nel terzo secolo, adottare il latino, mentre in Grecia si celebrava in greco, in Siria in siriaco, in Armenia in armeno, e così via. Questa era la tradizione della Chiesa antica.

Trovo per questo molto significativo che l’istruzione “Universae Ecclesiae” della Pontificia commissione Ecclesia Dei del 30 aprile scorso, al n. 26, abbia disposto, per coloro che lo useranno, una deroga alle rubriche del Messale tridentino, permettendo di abbandonare il latino per fare le letture bibliche nella lingua dei fedeli. Al di là dei loro gusti rituali, è evidente che nessun maggiore vantaggio spirituale essi potrebbero ricavare ascoltando la parola di Dio in una lingua che non comprendono. È difficile, invece, non sentir dispiacere per la perdita che essi vengono a subire, non potendo godere di quella «lettura della Sacra Scrittura più abbondante, più varia e meglio scelta» (SC 35) che viene offerta dal nuovo Lezionario.

Dal punto di vista dei gesti rituali, nella proclamazione della parola di Dio, i cristiani dell’epoca antica non solo mai hanno visto ma anche, se l’avessero visto, se ne sarebbero molto meravigliati, il sacerdote leggere i testi dal messale invece che dal lezionario, sull’altare invece che all’ambone, o il diacono cantare il vangelo rivolto contro la parete invece che verso il popolo. Basti pensare che sino alla fine del Medioevo per la lettura biblica si costruiscono gli amboni. All’inizio del Trecento Giovanni Pisano, per la proclamazione del vangelo nella cattedrale di Pisa, crea quell’opera magnifica e tutt’oggi ammiratissima del “pergamo” (così lo chiamarono, dalla corrispondente espressione greca, i pisani, perché ha la forma di una torre rotonda, simile a quella dell’ambone della Haghia Sophia di Costantinopoli).

Quando, ora che si è ripristinato l’uso antico, l’assemblea dei fedeli, volgendo lo sguardo verso l’alto, vede apparire lassù, durante il canto dell’Alleluja, il primo filo d’incenso del turibolo fumante e poi i lumi dei ceri portati dagli accoliti, quindi l’evangeliario tenuto alto dal diacono e, infine, la persona del diacono che si erge sul parapetto dell’ambone per il canto del vangelo, è difficile che ci si sottragga a un brivido di emozione. La Parola della nostra salvezza scende dall’alto e ci investe: «Come infatti la pioggia e la neve scendono dal cielo e non vi ritornano senza avere irrigato la terra, […] così sarà della parola uscita dalla mia bocca: non ritornerà a me senza effetto» (Is 55,10s).

Questo era l’antica liturgia della Parola, vissuta dal popolo con grande emozione: Paolo Silenziario, descrivendo la basilica della Haghia Sophia di Costantinopoli, nel suo poema recitato davanti alla corte il giorno dell’Epifania del 563, ci racconta che si dovette transennare la solea che congiungeva l’ambone all’altare, perché  quando «colui che annunciò la buona novella» tornava sui suoi passi «sollevando il libro d’oro», la folla gli si gettava addosso «per appoggiare le labbra e le mani sul Sacro Libro» (Fobelli M.L., Un tempio per Giustiniano. Santa Sofia di Costantinopoli e la descrizione di Paolo Silenziario, Viella 2005, Roma, pp. 113).

Le ragioni della riforma liturgica

Per indicare poi solo alcuni particolari dell’evoluzione delle forme rituali, è interessante osservare che in epoca antica mai il sacerdote trovava già posti sull’altare il pane e il vino dell’offerta, che invece i fedeli portavano all’altare accompagnati dal canto per l’offertorio (Jungmann II, 24s). La recitazione del Canone sottovoce è una tradizione che nasce e si sviluppa solo col trapianto della messa romana in terra franca (Jungmann II, 108). È diventata celebre nella spiritualità liturgica moderna la frase: «Surgit solus pontifex et tacito intrat in canonem» (si alza solo il vescovo ed entra, in silenzio, nel canone), ma si tratta di una norma introdotta solo all’epoca di Carlo Magno, per modificare una prassi antecedente. I fedeli hanno sempre, per tutto il primo millennio, ricevuto la comunione all’altare e in piedi. Solo nel sec. XIII appare l’uso di stendere fra l’altare e i fedeli una tovaglia, sorretta da due accoliti, mentre la costruzione delle balaustre non compare prima del XVI sec. (Jungmann II, 282). Assai prima, anche se in alcun modo in epoca antica, cioè nel IX sec., iniziò l’uso di dare la comunione in bocca, invece che sulla mano del fedele (Jungmann II, 286).

Sull’altare in epoca antica non solo non c’era il tabernacolo eucaristico, che non vi compare mai prima del XV sec., ma neppure vi si collocava i corpi dei martiri, né le immagini del Signore o dei santi. Fu proprio la collocazione dell’urna con il corpo di san Dionigi sopra, invece che sotto, l’altare di Sant-Dénis, fuori Parigi, nel XII sec., a dare inizio a una forma di altare in cui la mensa si riduceva a una forma stretta e lunga e tale da non permettere più di celebrare verso il popolo. A Roma, invece, l’uso antico non è mai stato abbandonato e in San Pietro, ancora nel 1594, papa Clemente VIII consacrava l’altare, attualmente sovrastato dal baldacchino del Bernini, sul quale da allora fino ad oggi (così come accadeva sul precedente altare di Gregorio Magno e poi su quello che gli viene sovrapposto nel 1123 da Callisto II) il Papa ha sempre celebrato rivolto al popolo.

Per indicare un ultimo caso, l’uso di leggere il prologo del vangelo di Giovanni come rito di benedizione, nato dall’ammirazione per la bellezza e l’importanza di questo testo, inizialmente aveva suscitato preoccupazione per la possibile deriva verso pratiche superstiziose e solo nel 1200 troviamo la prima documentazione della concessa licenza di recitarlo alla fine della messa (Jungmann II, 334-337).

Queste osservazioni non intendono avanzare l’idea che nella tradizione liturgica della Chiesa ci siano epoche buone ed epoche cattive, forme celebrative autentiche e altre spurie. Ciò che è vero è che ci sono forme di vita cristiana più corrispondenti ai bisogni del proprio tempo e altre, valide al loro tempo, ma meno capaci di rispondere alle esigenze del presente. La riforma liturgica del Vaticano II ha voluto disegnare una forma della liturgia che risponda al bisogno della Chiesa di superare l’individualismo dei cristiani e di fare loro godere la bellezza della comunione, nella partecipazione comunitaria di tutti all’azione liturgica, per poi viverla nella prassi della comunità e della sua solidarietà con i bisogni di tutti gli uomini. Con questa intenzione era naturale dirigere lo sguardo alle forme liturgiche della Chiesa antica più che a quelle fissate dalla riforma tridentina in epoca moderna.

Come abbiamo visto, infatti, osservando l’evoluzione storica dei riti, dovremmo definire il rito tridentino come la missa moderna e non missa antiqua. Così come abitualmente facciamo per la spiritualità diffusa dal Trecento fino all’epoca tridentina, che tutti chiamano la devotio moderna. Era una spiritualità fortemente contrassegnata da una sensibilità individualistica, piuttosto che dalla dimensione comunitaria.

Non è questa, forse, la differenza più evidente che corre fra la liturgia tridentina e quella nata dal concilio Vaticano II? Al punto di partenza dei Padri conciliari era visione della Chiesa, viva per l’unità di tutti, come corpo di Cristo, nel popolo di Dio: «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo». Questo popolo è «costituito da Cristo per una comunione di vita, di carità e di verità» e in tale modo è «per tutta l’umanità il germe più forte di unità, di speranza e di salvezza» (LG 9).

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Che pena quel peana!...


L'articolo “Missa antiqua o moderna?”, pubblicato su Vita pastorale n. 7/2011, pp. 16-18, a firma Severino Dianich, ha scandito in modo sconcertante il rintocco del quarto anniversario del Motu proprio Summorum Pontificum del 7 luglio 2007. L'autore colleziona, infatti, una serie di affermazioni in stridente dissonanza con la lettera e con lo spirito del Documento pontificio, del resto mai degnato di una citazione, come se non fosse il più autorevole intervento sulla questione. Forse un Teologo di valore, qual è Dianich, è dispensato dal prendere in seria e rispettosa considerazione il Magistero ecclesiale? Forse scambia, anche lui, l'intervento di Sua Santità Benedetto XVI per una benevola concessione a una minoranza di nostalgici? In realtà, trattasi di una approfondita riflessione sul problema teologico, serio, implicato in una Riforma liturgica di vasta e radicale portata, come quella prodotta in seguito al Concilio Vaticano II: avvenimento più unico che raro nella storia della Chiesa. Non dimentichiamo che la Chiesa nel corso della sua storia ha saputo coniugare un solido aggancio al principio della Tradizione ed insieme una certa duttilità ad adattare lo stesso principio a situazioni del tutto nuove: pensiamo per esempio al fatto che nel Secolo VI, si mal digeriva anche solo il minimo sospetto che Papa Gregorio Magno avesse modificato qualche uso liturgico romano, mutuando dal Rito bizantino (circa l'Alleluja, il Kyrie, il Pater e le vesti dei Suddiaconi); e che nel Secolo IX, mentre i Prelati tedeschi, confinanti infastiditi dalla nascita di una Chiesa particolare indipendente ai loro confini, nonché gli Esperti e i Prelati veneziani e romani, contestavano ai Missionari greci Cirillo e Metodio di aver osato introdurre la lingua parlata nella Liturgia presso i Popoli Slavi, appartenenti alla giurisdizione missionaria-patriarcale di Roma, Papa Adriano II approvò e benedisse i Libri liturgici presentati dai due santi Fratelli Missionari. 

Ci permettiamo qualche osservazione su alcuni punti del predetto articolo.

L'Autore parte definendo “legittima promozione” il dispositivo del Motu proprio circa la Liturgia in rito tridentino, e mette in discussione la denominazione “antiqua”. In realtà, non di “promozione” si tratta, ma di chiarificazione di un fraintendimento generale: il Rito preconciliare, precisa il documento pontificio, “non è mai stato abrogato (SP, 1). “Antiqua” è solo uno dei vari aggettivi appropriati alla Liturgia in uso nella Chiesa Latina fino al Concilio Vaticano II ed oltre. Non appropriazione indebita, ma solo conseguenza naturale della scelta di denominare “Novus” l'“Ordo Missae”, confezionato dall'apposita Commissione post-conciliare incaricata e avvallata da Papa Paolo VI.

Il Dianich continua sostenendo che la Commissione liturgica successiva al Concilio Vaticano II ha finalmente realizzato, a distanza di quattro secoli, quanto la Commissione liturgica del Concilio di Trento avrebbe voluto, ma non fu in grado di fare, se non “in piccola parte”, data l'inferiorità di mezzi e di uomini (?!), a disposizione in quel tempo. Con una strana trasposizione storico-ideologica, l'Autore immagina che Pio V avesse insediato una Commissione dopo il Concilio di Trento con le stesse intenzioni e gli stessi criteri della Commissione che ha prodotto la Riforma liturgica dopo il Concilio Vaticano II. Ma davvero Pio V e i suoi Esperti intendevano trasformare e adattare la Liturgia romana ai tempi moderni (di allora), abrogando la forma in uso, sotto accusa per abbandono delle forme più antiche, più autentiche per definizione? Le “sovrastrutture introdotte” erano davvero“infinite”? I Padri del Concilio e gli Incaricati del Papa, erano convinti che occorresse demolire l'edificio liturgico in uso, snaturato, secondo Dianich, dalla Devotio moderna-individualista, e ricostruirlo dalle fondamenta con un collage di antichità taglia-copia-incolla? Non pare proprio. 

Nessun Cattolico, in quel tempo, dubitava che l'impianto dell'edificio liturgico non fosse più sostanzialmente sano e autentico. Secondo la convinzione comune, dagli Intellettuali agli Illetterati, il progetto originario non era mai andato smarrito e nessuno aveva mai osato modificarlo. Come avrebbe potuto accadere in una Chiesa attaccata scrupolosamente, da sempre, al principio “nihil innovetur”, specialmente nella Liturgia, realtà sacra e intangibile per eccellenza, fin nei minimi particolari? Qualche “sfrondamento” e qualche correzione erano ritenuti sufficienti per riportare il tutto al suo splendore più puro, che non era necessariamente lo stadio più arcaico.

Quanto alla lingua liturgica, il Concilio di Trento ammetteva senza difficoltà il pluralismo linguistico, e non solo linguistico, delle Liturgie orientali. Il pluralismo legittimo era fuori discussione anche all'interno della Chiesa Latina, dove restavano consentiti Messali alternativi a quello di Pio V, purché dotati di un minimo d'antichità. L'uso della lingua parlata in ambito liturgico, a istruzione e a edificazione spirituale dei Fedeli, non fu condannato, anzi fu caldamente raccomandato, purché integrativo e non esclusivo. Trento condanna solo chi sostiene che nella Chiesa latina la Messa deve essere celebrata solo in lingua volgare (…); e che è da condannare dire sottovoce la parte del Canone e le parole della Consacrazione(Sess. XXII, Can IX), e detto per inciso, affermazioni di tal fatta oggi sono diventate la nuova vulgata dei liturgisti. Tornando al tempo del Concilio di Trento si può dire che, data la situazione dell'Europa d'allora, teatro di una conflagrazione religiosa, culturale, politica a carattere nazionalistico, dagli esiti drammatici e imprevedibili, i Padri sanzionarono il principio tradizionale dell’unità linguistica ritenendo, tra le altre considerazioni, più sicuro per l'unità della Chiesa il mantenimento del Latino, come unica lingua ufficiale liturgica. Il Concilio Vaticano II esprimeva lo stesso giudizio ancora nel 1964: “Linguae latinae usus, salvo particulari iure, in Ritibus latinis servetur” (SC, 36).

Che la lettura della Sacra Scrittura offerta dal Nuovo Lezionario successivo al Concilio Vaticano II sia più abbondante della precedente, e più varia, è fuori di dubbio. Che sia meglio scelta e più proficua si può dubitare. L'ultima traduzione, poi, sembra privilegiare sistematicamente l'italiano più sciatto e scadente, abbassando il linguaggio al livello più basso, invece di elevare il popolo alla nobiltà della Liturgia e al senso proprio del Testo divinamente ispirato. Si potrebbero collezionare, in proposito, molte perle lessicali tra il raccapricciante e il comico. Ben più provveduto fu Paolo VI che affidò il lavoro di traduzione a un gruppo di fini Letterati oltre che a validi Biblisti (i quali non sono tutti bravi linguisti, e sono soliti scambiarsi stroncature inesorabili).

Che gli amboni e il canto del Vangelo siano simbolicamente importanti è certo. Che gli uni e l'altro siano attualmente valorizzati è discutibile. L'Autore è in grado di precisare dove, nell'antichità, si collocavano i Fedeli durante la Liturgia della Parola e durante la Preghiera eucaristica? Certo la disposizione dell'assemblea, nei tempi passati, non era quella di oggi. Egli sembra dare per scontato che la lettura e il canto dei testi liturgici dal Messale sull'altare, deprecati come errore gravissimo, siano la forma normale, prevista da Trento, invece non è così. La Liturgia normativa tridentina è quella solenne, cantata, con tanto di Ministri, Diaconi, Suddiaconi, Lezionari, Processioni, Accoliti, Turiferari, Ceroferari e Amboni, ecc...

Sorprendono la svalutazione e banalizzazione dei significati simbolici e cosmici della Liturgia romana. La lettura o, meglio, il canto del Vangelo, non è rivolto alla parete, ma al Nord, che vi sia o meno una parete. E' la regione delle tenebre, che deve essere illuminata dalla luce di Cristo, Sole che sorge: L'Oriente.

L'Autore cita con compiacimento l'ingresso solenne del Vangelo nell'antica Santa Sofia di Costantinopoli, con ceri, turiboli, accoliti, diaconi, verso l'ambone sopraelevato, e l'evangeliario prezioso, toccato e baciato con fervore dai Fedeli (oggi, alcuni Liturgisti parlerebbero di superstizione popolare...). A parte il fatto che nella Grande Chiesa, l'altare stava dietro una magnifica, elaborata, iconostasi d'argento, che i Veneziani, assidui frequentatori di Bisanzio, riprodussero nell'alta balaustra-iconostasi di San Marco (che dava fastidio al Patriarca Angelo Roncalli), la descrizione di quell'antico rito ha qualcosa in comune con quanto accade nelle nostre Chiese da cinque decenni? Da noi i pulpiti sono stati divelti o dismessi. Proprio essi: gli eredi di quell'ambone bizantino, dall'alto dei quali la Parola scendeva dalla bocca dei predicatori nel cuore dei fedeli. Fedeli raccolti di fronte, al centro della navata; non necessariamente rivolti, tutti e sempre, verso un'unica direzione: il fondo della Chiesa, dove oggi c'è l'esposizione di tutto, come su un bancone del Supermercato; senza traccia di sacralità e di arcano: altare, ambone, sede, battistero, coro con chitarre e batteria, e quant'altro... (stendiamo un pietoso silenzio sulle innumerevoli e pregevoli balaustre, sedi presbiterali e cattedre episcopali, brutalmente aggredite, devastate ed eliminate da un novello clericalismo iconoclasta-sanculotto).

Quanto alla processione offertoriale, assente nella vecchia Messa “bassa”, conviene riferirsi al rito bizantino e al rito romano solenne-non riformato: nell'uno e nell'altro caso, ciò che viene presentato all'altare, pane e vino, è, comunque, già appartenente al rito sacro, appositamente e ritualmente preparato sull'abaco o sulla proskomidia, portato dal diacono col velo omerale, accompagnato dai ministri, con turibolo, candelieri, e, nel Rito bizantino, dalla croce, dalla “lancia” e dalla stola episcopale, affidate ai Presbiteri.

Sulla recita del Canone sottovoce o in silenzio, si può riflettere, ma Dianich cita ancora una volta Jungmann, come un oracolo. Altrettanto per la comunione in bocca e per la balaustra. E' proprio il caso di dire: “Timeo hominem unius libri”! Asserire che le balaustre siano un'invenzione del Secolo XVI è archeologicamente inaudito. Basta vedere le ricerche di padre Bellarmino Bagatti sulle Chiese primitive in Terra Santa.

Circa l'importanza delle Reliquie per l'altare, anche qui, come per la balaustra-iconostasi, è difficile evitare l'impatto massiccio e risolutivo della tradizione orientale, come è difficile prendere per buona la storia  delle Reliquie di Saint Denis, che sarebbero responsabili del passaggio del Celebrante dall'altra parte. Completamente ignorata la tradizione riguardante i Martiri e l'antichissima Celebrazione dell'Agape-Eucaristia sulle loro tombe, talvolta sarcofaghi. Nel suo prezioso libretto “Arte e liturgia”, Luis Bouyer confessa di avere personalmente contribuito a far passare “carte false” ai Padri conciliari del Vaticano II per convincerli che la Eucaristia primitiva era celebrata verso il popolo, mentre si sa perfettamente che non era così. Lo stesso Teologo, convertito dal Luteranesimo, spiega come si svolgeva anticamente la Celebrazione: l'assemblea si spostava dal nartece al pulpito, e dal pulpito all'altare per la Consacrazione; tutti rivolti in preghiera, Presidente e Fedeli, alla pari, verso il Tempio Santo, il luogo del Sacrificio gradito a Dio, verso la Croce di Cristo, l'Oriente (come fanno i Cristiani-Ortodossi, e mutatis mutandis, gli Ebrei e i Mussulmani).

La recita del Prologo di San Giovanni, stupendo e fondamentale, al termine della Messa non dovrebbe urtare chi ha lamentato, poco prima, la povertà della mensa della Parola.

La conclusione di Dianich è un peana alla Riforma liturgica successiva al Vaticano II, come superamento dell'individualismo a esaltazione della partecipazione comunitaria del Popolo, in precedenza atomizzato dallo spregevole individualismo intimista. Ma ci si domanda, quali sono, in concreto, le impronte della famigerata “Devotio moderna” nel Messale tridentino? E com'è stato possibile un sì grandioso miracolo di progresso? La Chiesa preconciliare, conciata così male dalla Liturgia degenerata, disgraziatamente in vigore ab immemorabili, come è stata capace di arrivare tanto in alto? Per opera dello Spirito Santo? Certo! Lo Spirito Santo può fare tutto. Potrebbe anche avere solo permesso la distruzione della vecchia Liturgia: era davvero necessario cancellare, in un colpo solo, in nome di una meravigliosa Riforma archeologizzante (non conciliare, ma postconciliare), il patrimonio custodito nei secoli, senza la minima soluzione di continuità. Quella Chiesa, infatti, era conservatrice per antonomasia ed escludeva, per principio, qualsiasi discontinuità e novità, anche solo per uno jota o un apice.

A un Teologo di valore, qual è Severino Dianich, che merita e ha tutto il nostro rispetto, non si addicono né la figura del Tuttologo sommario né l'iscrizione tra i Talebani progressisti (intendendo per Talebani - non importa se conservatori o progressisti - quelli che coltivano il pregiudizio per sistema e hanno bisogno di qualcosa o qualcuno da denigrare e anatemizzare senza remissione). Gesù stesso fu vittima di questo tipo d'approccio. Alcuni, infatti, dicevano: non è col dito di Dio, ma è nel nome di Beelzebub, il Capo dei Demoni, che egli scaccia i Demoni! (Lc 11, 15): e sappiamo come è andata a finire.

Per concludere ci domandiamo è proprio questa la strada da percorrere per giungere ad una pace liturgica? Non è ora di finirla con gli anatemi dei “dotti”? Non sarebbe più proficuo per tutti imitare la saggezza e l’equilibrio del Santo Padre Benedetto XVI il quale, tramite la Pontificia Commissione Ecclesia Dei, ha chiesto ai fautori della “Messa antica” di non manifestarsi “contrari alla validità o legittimità della Santa Messa o dei Sacramenti celebrati nella forma ordinaria” (Universae Ecclesiae, n. 19)? E non varrà forse anche il contrario? Perfino per gli illustri teologi e le riviste pastorali? Pensiamo di sì ed è lo stesso Santo Padre a ricordarcelo: “Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto. Ovviamente per vivere la piena comunione anche i sacerdoti delle Comunità aderenti all’uso antico non possono, in linea di principio, escludere la celebrazione secondo i libri nuovi. Non sarebbe infatti coerente con il riconoscimento del valore e della santità del nuovo rito l’esclusione totale dello stesso” (Lettera del Santo Padre Benedetto XVI  ai vescovi di tutto il mondo per presentare  il Motu Proprio “ Summorum Pontificum cura” sull'uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970).

Lettera firmata

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Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)