00 01/11/2015 21:41
S. Em. Card. Carlo Caffarra - p. Giuseppe Barzaghi OP
"In una cattedrale. Dove fissare lo sguardo.
La teologia di san Tommaso d'Aquino"
Bologna, Convento San Domenico, 16/12/2014
I Martedì di San Domenico

Per conoscere Padre Giuseppe Barzaghi o.p., visita il sito www.accademiadelredentore.it

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qui Omelia su san Domenico di Padre Barzaghi 4 agosto 2013, ascolta audio:
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Cari Amici, ricordando che siamo dentro l'Anno di grazia con ben due Giubilei: quello degli 800 anni per i Domenicani e quello straordinario della Misericordia indetto dal santo Padre Francesco, veniamo qui ad offrirvi un breve video con la sintesi della vita e delle opere, di uno tra i più grandi teologi della Chiesa, San Tommaso d'Aquino, stella lucente dell'Ordine dei Predicatori, Dottore della Chiesa, l'insuperato Dottore angelico.

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Il concetto della verità in Tommaso d'Aquino - Lectio magistralis, 4 ottobre 2016
Prof. P. Giovanni Cavalcoli o.p.


L’essenza della verità
La verità è quello stato felice dell’intelletto, per il quale esso è proporzionato al reale ed è conforme al reale. Rispecchia – ecco la speculatio - o rappresenta fedelmente il reale. Riflette la realtà. S.Tommaso, come si sa, parla di adaequatio: l’intelletto si adegua al reale. Diventa, in certo modo, come vedremo, uguale e identico al reale, s’identifica col reale. Verità è il “sapere come stanno le cose”. Verità è la presenza del reale al pensiero, la realtà in quanto presentata o rappresentata o “ri-presentata” dal concetto o dal giudizio all’intelletto (re-praesentatio).
La verità comporta dunque un rapporto del pensiero con l’essere, dell’idea con la realtà. Indubbiamente, col termine “verità” si può intendere anche la realtà, quella che vien chiamata “verità ontologica”, distinta dalla “verità gnoseologica”, che è l’adaequatio dell’intelletto alla cosa o della cosa all’intelletto. La realtà è il fondamento e regola della verità. Il pensiero invece è l’orizzonte e l’ambiente della verità. Come dice S.Agostino: in interiore homine habitat veritas.
La verità ontologica, che è la verità degli esistenti, può denominarsi anche verità esistenziale. Essa comprende la verità degli enti, cioè degli spiriti, ossia la verità spirituale, la verità dei fatti e la verità storica.
Invece la verità gnoseologica è la verità del pensiero e delle idee. La verità ontologica è la verità concreta, particolare e singolare; la verità gnoseologica è la verità universale ed astratta. “Tutte le cose, come dice S.Tommaso[1], sono vere in forza di una sola verità, cioè Dio, come loro principio efficiente ed esemplare”. Dio non solo conosce la verità, come noi, ma è la verità: e ciò appartiene solo a Lui. Ego sum Veritas, come dice Cristo.
Riguardo al pensiero, si parla anche di ente ideale o di ragione (ens rationis), un ente che è atto di pensiero, prodotto dal pensiero ed esiste solo all’interno del pensiero. Per esempio, gli enti logici, negativi (il nulla, il male), matematici o immaginari. Qui il pensiero si adegua a se stesso, ed abbiamo la verità logica. Per esempio, una giusta idea del concetto o del numero o del male.
La verità gnoseologica, nella sua relazione al pensiero, è di per sè immutabile, in quanto, nella sua universalità, astrae dal tempo. Dato però che essa è adeguazione all’oggetto, è immutabile la verità dei valori immutabili, ed è mutevole la verità delle cose che mutano. Mutare ciò che non va mutato col pretesto della modernità è modernismo. Conservare ciò che è superato è conservatorismo.
Esistono due forme di verità immutabile, atemporale, indipendente dal tempo. C’è la verità dei valori immutabili, i quali costituiscono l’insieme di quelle che S.Agostino chiamava “verità eterne”, che costituiscono gli eterni ideali e princìpi dell’essere, del vero e del bene, quelli che Benedetto XVI ha chiamato “valori non negoziabili”. Tra questi valori, che si estendono ad ogni tempo[2], eccelle la stessa eternità divina, Dio stesso, verità infinita, principio supremo, regola e modello di ogni verità eterna e temporale.
Invece la verità delle cose mutevoli, generabili e corruttibili, migliorabili o peggiorabili, è la verità temporale, mutevole come loro. Anche la verità che ha per oggetto cose mutevoli, in quanto verità gnoseologica, è immutabile. Garibaldi non esiste più, ma sarà sempre vero che Garibaldi è stato un condottiero.
La verità è cogliere la cosa in sé così come è. E’ possibile cogliere della cosa ciò che di essa appare a noi, ossia il fenomeno, senza poter sapere come la cosa sia in se stessa. Questa famosa osservazione di Kant in sé è giusta, ma egli sbagliava nel volerne fare un principio universale del conoscere.
Non bisogna tuttavia confondere – e anche qui Kant ha ragione - l’apparizione, il fenomeno (Erscheinung) con l’apparenza, il sembrare (videtur, Schein). Il fenomeno dà la verità, anche se l’essenza della cosa resta nascosta, e può essere oggetto di scienza; l’apparenza, invece, oggetto dell’opinione o dell’ipotesi, ad un ulteriore esame può essere confermata ed esser elevata a scienza, ma può anche rivelarsi falsa.
Non tutte le cose in sé sono inconoscibili in se stesse, ma solo quelle che sono più avvolte nella materia. Qui Kant sbagliò. In alcune, infatti, le più intellegibili, come l’uomo, è possibile riconoscere sia il fenomeno, sia la cosa in sé. Del resto, come Kant avrebbe potuto scrivere la sua critica della ragion pura, se non fosse stato convinto di conoscere la ragione in se stessa?
La conoscenza della verità è frutto dell’umiltà. Dall’umiltà, infatti, dipende la adaequatio ad rem, che comporta un’obbedienza della mente al reale, che fonda il realismo gnoseologico, nel quale S.Tommaso è sommo maestro. L’opposto del realismo è l’idealismo, che è frutto di superbia, perché l’idealista non adegua il suo pensiero all’essere, ma pretende che l’essere si adegui a quello che pensa lui, o, come egli dice, “l’essere è l’essere pensato” (da me), oppure “l’essere coincide col pensiero”, cioè col mio pensiero. Dunque l’idealista non sbaglia mai.

Vero e falso
Se l’intelletto fallisce, per vari motivi, nel suo adeguarsi al reale, esso cade nell’errore, per cui prende per vero – volontariamente o involontariamente – ciò che è falso. Dà per esistente ciò che non esiste e viceversa. Scambia la fantasia per la realtà e viceversa. La verità poi si esprime nel giudizio, per il quale, se il giudizio è vero, l’intelletto dichiara esser vero ciò che è vero, ed esser falso ciò che è falso. E fa questo attribuendo un predicato ad un soggetto. Se l’attribuzione è giusta, il giudizio è vero; se è sbagliata, il giudizio è falso.
Il vero si oppone assolutamente al falso, ma non al diverso. Vi sono alcuni che rifiutano il diverso, riducendolo al falso. Altri accolgono il falso scambiandolo per il diverso. Il diverso, anche se contrario a un vero, è compatibile con un altro vero, anche se non può coesistere con lui simultaneamente. Una stanza non può essere simultaneamente calda e fredda; ma caldo e freddo possono succedersi nel tempo. I diversi coesistono insieme nell’orizzonte della verità. Si esprime questo fatto con la formula et-et.
Invece vero e falso si escludono assolutamente e contradditoriamente a vicenda. Se Dio esiste, non può esser vero che Dio non esiste. L’ateismo non è un’idea “diversa” dal teismo. E’ un’idea falsa. Qui vale il principio del terzo escluso: A o è B o non è B. Tertium non datur. Non può essere che A sia e non sia B simultaneamente e sotto il medesimo aspetto. Non può essere che Dio esista e non esista. Questo si esprime con la formula aut-aut.
Questa confusione facilmente va assieme con un’idea relativistica della verità: non esiste una verità universale, immutabile, oggettiva, assoluta, valida per tutti. Ma quello che è vero per me, può essere falso per te. Da qui per esempio gli eufemismi ipocriti della “diversità” delle idee e il principio del “rispetto delle idee degli altri” per evadere dalla questione del vero del falso. Qui si sottende una falsa concezione della verità, detta appunto “relativismo”.
Esiste invece una sana relatività della verità, che nulla ha a che vedere col relativismo. Che sia bene, per esempio, mangiar biada è vero relativamente al cavallo, ma non all’uomo. Tuttavia in questa tesi sono salve l’oggettività e l’universalità della verità, solo che distinguiamo il bene dell’uomo dal bene del cavallo.
La verità è una sotto un certo aspetto ed è molteplice sotto un altro. E’ una, se è intesa come relazione all’oggetto (adaequatio). Infatti l’oggetto è uno. Ora, dato che la verità è l’ente posto nelle condizioni del pensato, se l’ente è uno, non può esser molti o altro da sè. Parlare qui di “diversità” sarebbe fuori luogo e segno di relativismo.
Invece le verità oggettive sono molte, in quanto ogni cosa ha la sua verità. Qui vale il principio della diversità. E anche qui si ripropone la distinzione fra il vero e il diverso e bisogna evitare di confondere il diverso col falso. L’eresia non è solo “diversa” dall’ortodossia, ma è una falsità. Il principio che la verità è una, fa capo all’opposizione vero-falso. Invece la molteplicità dei veri è connessa col valore della diversità. Verità oggettiva è la verità in sé; verità soggettiva è ciò che appare al soggetto in buona fede, anche se oggettivamente è falso.
L’errore può dipendere dall’ignoranza, che può essere o scusabile o colpevole.L’ignoranza, in linea di principio, consegue alla limitatezza naturale del nostro potere conoscitivo, per cui naturalmente infinito è il dislivello tra le cose e ciò che di esse sappiamo.
Ma essa è ulteriormente accentuata a seguito del peccato originale, a causa del quale capita che ignoriamo o dimentichiamo, magari involontariamente, verità importanti. Qui distinguiamo una verità infinita totale e una verità parziale. La nostra è sempre una verità finita e parziale, spesso incerta, insufficiente o unilaterale, a differenza della verità divina che è la verità perfettissima e totale.
La verità del pensiero deve poi tradursi nella veracità del linguaggio. Il pensiero, infatti, o giudizio, si esprime nella parola o linguaggio. Se il linguaggio è conforme al pensato (indipendentemente dal fatto che il giudizio sia vero o falso), il pensante è sincero e verace – può errare in buona fede - ; se invece la parola non è conforme al pensiero, il pensante è menzognero.
La sincerità, quindi, non comporta sempre necessariamente un giudizio che rispecchi la realtà, ma soltanto che il soggetto dica ciò che c’è nella sua coscienza, fosse anche – supposto che sia in buona fede – oggettivamente falso.
Da notare che esiste anche una verità del senso, che ha le stesse proprietà di quella dell’intelletto definite sopra, con la differenza che l’intelletto aderisce meglio e più intimamente, in modo diverso, all’oggetto – intus legit - e conosce la realtà spirituale, che il senso non conosce. La verità dunque è atto del potere conoscitivo in generale, che può essere sia l’intelletto che il senso. In tal modo può esistere non solo l’errore dell’intelletto, ma anche del senso.
Ed esiste anche un giudizio del senso, non necessariamente formulato in concetti: prendiamo ad esempio quello degli animali. E’ chiaro che solo il giudizio concettuale si esprime nella parola. Solo l’uomo può essere sincero o bugiardo, in forza del libero arbitrio, per il quale può dire o non dire la verità, ossia quello che c’è nella coscienza intellettuale. L’animale, invece, che non ha questo tipo di coscienza, né per conseguenza possiede il libero arbitrio, esprime sempre a suo modo, col suo linguaggio, ciò che sente. L’animale sente di sentire, ma non intende di intendere.

La conoscenza della verità
L’atto del pensiero o intelletto, ossia l’atto conoscitivo, si può intendere o in senso psicologico – il pensare - o in senso logico – il pensato -. Nel primo senso il pensiero pensa il reale; nel secondo pensa se stesso, per esempio, la coscienza. Nel primo caso si ha la conoscenza della realtà, il cui funzionamento e metodo sono oggetto dell’epistemologia o della gnoseologia; nel secondo caso, si ha la coscienza della verità. E qui abbiamo la scienza e l’arte della logica.
L’esame critico di questa coscienza costituisce la critica della conoscenza. Essa giustifica riflessivamente la verità e la certezza del conoscere. In entrambi i casi si ha conoscenza della verità. E questa è la vera conoscenza. Errare non è vero conoscere, ma conoscere e riconoscere gli errori è vero conoscere.
Comunque, il concetto o ragione (ratio) di verità mette sempre in campo il pensiero o l’intelletto o perché c’è relazione del pensiero col reale – verità speculativa - o perchè il reale dipende dal pensiero – verità pratica - . Senza relazione reciproca tra pensiero ed essere non si dà verità. Per questo S.Tommaso definisce la verità adaequatio intellectus et rei[3]: l’adeguazione dell’intelletto e della cosa tra di loro.
Nella verità speculativa adeguiamo il nostro intelletto ad una realtà data, preesistente o presupposta, che non abbiamo fatto noi, ma che scopriamo esistente. Scopriamo la verità dell’essere. Invece nella verità pratica è la realtà che si adegua alla nostra idea, intenzione o progetto, si tratti di un atto morale da compiere (praxis) o di un’opera artificiale da fare (tecne o poiesis). Qui invece scopriamo la verità sul bene, bene dell’uomo, ossia il bene morale, nel primo caso; e bene dell’opera, nel secondo caso.
Questa reciprocità di intelletto e cosa è il motivo per il quale S.Tommaso dice che la verità sta più nel pensiero che nell’essere[4]. Il reale, l’ente come tale, dal punto di vista nozionale, non è ancora il vero. La nozione dell’ente è distinta dalla nozione del vero, anche se ogni ente è trascendentalmente vero. L’ente e il vero si convertono tra di loro (ens et verum convertuntur). Tuttavia “il vero – come dice S.Tommaso[5] - aggiunge all’ente un rapporto di intellegibilità con l’intelletto”.
Ma ciò non vuol dire che si identifichino tra di loro, se non in Dio, Essere assoluto e Vero assoluto. La separabilità e contrapposizione tra intelletto e realtà rende possibile l’errore, che è appunto la discordanza fra pensiero ed essere.Dio non erra mai appunto perchè in Lui il suo pensiero è identico col suo essere. Per noi invece una cosa può essere falsa perché non è conforme al suo modello ideale. Un giudizio è falso perchè non è conforme al reale.
Eppure nell’atto conoscitivo, siccome ciò che si pensa in atto si suppone essere ciò che è in atto, ossia l’oggetto conosciuto, appunto perché l’intelletto sia nel vero, come pare sia stato già intuito da Parmenide (to autò to noèin kai to èinai), occorre, come ho già accennato, una certa identità tra l’intelletto e la cosa, tra il pensiero e l’essere.
Per questo S.Tommaso, a proposito dell’atto conoscitivo, proprio per spiegare la verità del conoscere, dice che intellectus in actu est intellectum in actu: l’intelletto in atto è l’inteso in atto. Lo è, però – e questo è fondamentale – solo intenzionalmente, spiritualmente e rappresentativamente e non ontologicamente; altrimenti si avrebbe il panteismo, ossia si identificherebbe il conoscere umano con la scienza divina. Ma è chiaro che l’intelletto in potenza è ben distinto dall’ente reale, intellegibile in potenza da noi.
Dunque, con l’attività dell’intelletto, mentre appare la dignità dello spirito, appare anche la distinzione fra il pensiero e l’essere, l’ideale e il reale, l’ente di ragione (ens rationis) e l’ente reale o, come diceva Aristotele, tra l’on e l’alethès. La esistenza o il fatto della verità del conoscere obbliga a riconoscere questa distinzione, che peraltro vale nella creatura, non nel Creatore.
Questa distinzione tra l’essere e il pensiero obbliga altresì a riconoscere un’esistenza della cosa in se stessa, fuori dell’anima (extra animam) ed un’esistenza della cosa conosciuta in quanto conosciuta nell’anima (in anima). Si tratta del concetto della cosa formato dall’intelletto, che consente appunto all’intelletto di conformarsi all’oggetto, e quindi di essere nella verità.
Stante la distinzione fra il reale e il pensiero, la questione della verità non sta solo nell’aderenza dell’intelletto alla realtà, ma anche nella comprensione del vero significato dell’espressione del pensiero altrui nei segni del linguaggio. E’ questa la questione dell’interpretazione, la quale è vera, se coglie ciò che il parlante intende dire; è falsa, se fallisce in questa comprensione.
La conformazione iniziale dell’intelletto alla cosa è data dalla formazione del concetto, che è una rappresentazione mentale dell’essenza cosa, rappresentazione interiore, con la quale e nella quale la mente vede la cosa ed esprime ciò che capisce della cosa.
Il primo concetto che la mente forma, il più universale ed astratto di tutti, dal quale scaturiscono tutti gli altri e nel quale tutti si risolvono, è il concetto dell’ente, ovvero di ciò che esiste o è in atto d’essere, nonchè delle proprietà trascendentali dell’ente. Tale concetto è inizialmente implicito nella mente del fanciullo e può essere esplicitato nell’età adulta, ma viene già espresso nell’uso del verbo “essere”.
La piena conformazione dell’intelletto alla cosa, ossia la verità del conoscere in senso perfetto, è raggiunta dall’intelletto nel giudizio, per il quale l’intelletto non si limita ad apprendere nel concetto l’essenza della cosa, ma prende posizione o si pronuncia circa l’esistenza della cosa mediante la predicazione dell’essere. Nel giudizio la mente non conosce solo la verità, come avviene nella conoscenza sensibile, ma sa di conoscerla. Il giudizio richiede dunque una forma almeno implicita di autocoscienza.
Occorre tuttavia evitare l’errore di Cartesio di credere che il sapere inizi dall’autocoscienza (cogito). Questo è falso. Il sapere,ossia l’esperienza della verità, inizia dall’attività dei sensi, passa nel concetto e solo nel giudizio giunge all’autocoscienza. Solo la scienza divina inizia con l’autocoscienza, con la quale termina tornando su se stessa.
Nel giudizio, l’intelletto, mediante la copula, congiungendo il concetto-soggetto “animale” col concetto-predicato “razionale”, dichiara identico nella realtà quel razionale e quell’animale, che esso distingue ed unisce nell’atto del giudizio, col quale dichiara appunto che l’uomo è un animale razionale. Infatti, mentre nella mente (in anima) il concetto di animale è distinto dal concetto di razionale, nella realtà esterna (extra animam) il razionale e l’animale si identificano in quell’unico soggetto reale che è l’uomo. In tal modo, benchè nella realtà sia uno ciò che nel pensiero è molteplice, il pensiero, nella sintesi del giudizio, può realizzare l’adaequatio al reale.
La conoscenza della verità circa il bene e il fine dell’agire umano è principio di libertà, che è quella perfezione dello spirito, per la quale il soggetto, agendo mediante la ragione e la volontà, perfeziona se stesso. Infatti, all’azione dell’intelletto segue l’atto del volere. L’intelletto speculativo per estensione diventa pratico per il fatto che esso, considerando il vero sotto la ragion di bene e di fine, offre alla volontà il suo oggetto.

Il progresso nella verità
All’atto intellettuale del giudizio subentra l’opera della ragione, sicchè la mente passa dalla verità del giudizio alla verità scientifica, che è appunto l’effetto dell’opera della ragione. Il giudizio si pronuncia sulla verità o sulla realtà di una cosa.
La ragione è il moto, regolato da leggi, dell’intelletto verso la verità. Comporta due orientamenti o funzioni: è ragione speculativa, in quanto cerca la verità per se stessa, innalzandosi fino a Dio. E’ ragion pratica, in quanto cerca il vero bene dell’uomo, e quindi guarda in basso, alle cose di questo mondo, per regolarle secondo la legge morale.
La ragione speculativa sa che c’è un oltre, un al di là delle singole cose, per cui va oltre la singola cosa, la quale non soddisfa appieno la sete umana della verità. Si interroga sulle cause e sui fini, e si mette alla loro ricerca, e così comincia un cammino ascensionale, una salita, perchè la causa è più dell’effetto.
La ragione infatti possiede per sua natura in se stessa un dinamismo, che la porta non solo a interrogarsi sull’essenza, qualità, costituzione e proprietà delle cose, ma anche a cercare la causa e il fine delle cose. La ragione elabora un metodo per la ricerca della verità, che è il metodo scientifico.
Esso insegna come procedere speditamente, ordinatamente, facilmente, con rigore, sicurezza e senza errare. E’ oggetto della scienza e dell’arte della logica e dell’epistemologia. Nelle materie invece dove non è possibile la certezza, ossia nel campo delle opinioni, occorre la dialettica, che è la scienza e l’arte delle conclusioni probabili.
La ricerca della verità non ha mai fine, se non nella visione beatifica del cielo. In molti casi, con la perseveranza, con un buon metodo, e con un lavoro collettivo, si riesce a trovare ciò che si cerca, per cui il progresso del sapere quaggiù non ha mai fine. Ma capita anche di voler comprendere o dimostrare ciò che supera le nostre possibilità, come per esempio i misteri della divinità. Qui non si può ottenere altro che un falso sapere, chiamato “gnosi”, come è successo ad Hegel.
La ragione, nel suo cammino verso la verità e nel bisogno di verità, s’incontra con un fenomeno antipatico, e cioè col dubbio, che è un impaccio del pensiero, per il quale esso non riesce a procedere e non vede la verità per il fatto di trovarsi tra due alternative senza sapere qual è quella giusta.
Alcuni dubbi si possono sciogliere; altri no. Non ogni dubbio è sincero, ossia mosso da un reale bisogno di verità e causato quindi da una reale impotenzadell’intelletto; ma può essere pretestuoso e segno di doppiezza, di quel “servire a due padroni”, dal quale Cristo ci mette in guardia. Il crogiolarsi nel dubbio, magari con varie scuse, è un fenomeno morboso, segno di una mente infida e sleale.
Ci sono infatti verità originarie, fondamentali, primarie, immediate, evidenti, certissime,intuitive,indubitabili, per cui il dubitare di esse non è segno di saggezza, ma di stoltezza. Sono le verità primarieed iniziali del senso e della ragione. Sono la base dell’edificio del sapere. Esse non hanno bisogno di essere dimostrate, tanto sono evidenti.
Ed ogni tentativo di dimostrarle, si distruggerebbe da sé per il fatto che il dimostrante dovrebbe ricorrere a quella stessa verità della quale dubita o che proclama inesistente. Chi dice infatti che la verità non esiste, si suppone che ritenga vero che la verità non esiste. Ebbene, allora è costretto ad affermare che la verità esiste, nel momento in cui vorrebbe sostenere che non esiste.
Appena la ragione inizia a funzionare nel fanciullo, egli scopre di essere in un mondo sconosciuto, che egli non ha fatto e che comincia ad esplorare. Fa l’esperienza della verità. Parte dalle verità più evidenti e più alla mano, di carattere sensibile. Ma presto gli appare il bisogno del vero e l’idea del bene.
Presto è chiamato a dar senso alla sua vita e gli si apre la possibilità di scegliere tra il vero e il falso, il bene e il male. Presto si trova davanti all’Assoluto. E’ questo il cammino della ragione. Ognuno fa la sua scelta. Si tratta di un’opzione fondamentale, magari inconscia o implicita, o per Dio o contro Dio, che fa da orientamento alla sua vita futura.
La ragione procede nel vero secondo due direzioni, rappresentate da due immagini nella Bibbia: l’immagine dell’edificazione di una casa su solide basi e l’immagine della salita su di un monte. La prima immagine rappresenta il procedimento induttivo, che pone le fondamenta e costruisce su di esse.
E’ la scoperta della causa tramite l’effetto. La seconda immagine rappresenta la deduzione delle conseguenze pratiche, il criterio dell’agire. La ragione scopre il fine ultimo salendo dalla pianura delle cose alla cima del monte, e dalla cima del monte, ossia dalla contemplazione del sommo bene, discende per operare secondo la virtù.
Le prime ed iniziali verità – i primi princìpi della ragione[6] - vengono scoperte da chiunque spontaneamente ed inevitabilmente nel momento in cui si comincia a pensare; giacchè, se il pensiero c’è, si intuiscono quelle verità; se non si intuiscono o non si capiscono, vuol dire che manca il pensiero.
Per procedere nella verità occorre l’esercizio metodico della ragione e la volontà animata dall’amore per la verità. Deve evidentemente trattarsi di buona volontà, dato che la verità è il bene supremo dell’intelletto e nella visione beatifica celeste dell’essenza di Dio è il bene supremo ed ultimo dell’uomo.
La ragione, partendo dalla considerazione della limitatezza e contingenza delle cose, ed applicando il principio di causalità, giunge spontaneamente e con certezza a sapere che Dio, Verità somma, infinita e suprema, esiste (Sap 13,5 e Rm 1,19-20).
L’ateismo, quindi, è infondato e irragionevole. Suppone un disprezzo per la verità accompagnato da superbia. L’ateo, per proprio comodo e sua disgrazia, blocca volontariamente la ragione nelle realtà terrene ed in esse resta prigioniero, impedendo alla ragione di salire alla sua suprema altezza e dignità.
La ragion pratica, incaricata di giudicare su ciò che è bene fare e come agire, considerando il bene in universale, fonda la possibilità del libero arbitrio di scegliere un certo bene o fine concreto, o Dio o la creatura, all’interno dell’universale astratto. Esercitando il libero arbitrio nella scelta del vero bene, secondo Dio, l’uomo conquista la libertà.

Dalla verità di ragione alla verità di fede
Ragione e volontà devono aiutarsi e sostenersi a vicenda nella ricerca della verità. Come dice S. Agostino, nihil volitum, nisi cognitum: il cammino dello spirito comincia con un atto di conoscenza, che mostra alla volontà il vero bene. A questo punto la volontà si muove al conseguimento del bene. Ma, in fin dei conti, non trova la verità, se non chi la vuol trovare. E dunque il moto si inverte e nasce una specie di circolarità: la conoscenza del vero è effetto del buon volere.
In questo dinamismo non si tratta solo di un lavoro personale, ma deve trattarsi anche di un lavoro collettivo organizzato e sistematico, di una ricerca comune nei secoli, in vicendevole collaborazione, nella coscienza dell’universalità e dell’oggettività del vero, dell’importanza del dialogo, così da consentire un arricchimento continuo del sapere, così da illuminarsi, istruirsi e correggersi a vicenda, dove è importante l’esperienza e la scoperta personale, ma sono altrettanto importanti l’apprendimento e l’acquisizione delle verità precedentemente scoperte dall’umanità.
E’ qui che appaiono chiari i gravi difetti del metodo cartesiano, che, oltre a concepire un dubbio irragionevole circa la verità dei sensi, pretende presuntuosamente di dispensarci dal prender atto delle verità già scoperte da chi ci ha preceduto e quindi viene a minare il principio di autorità, con gravissimo pregiudizio per la possibilità stessa di una fede religiosa.
Da qui allora l’importanza non solo dello studio e della riflessione personale, ma anche dell’educazione, della scuola e della cultura. Ed è importante la fiducia nell’autorità di chi conosce e sa più di noi. E’ qui che si inserisce la questione della fede religiosa in generale e della fede cristiana in particolare. Se è ragionevole accettare l’autorità fallibile degli uomini, tanto più sarà ragionevole accogliere l’autorità infallibile di Dio, che ci parla per mezzo del Magistero della Chiesa.
Per questo, abbracciando la fede, la ragione allarga all’infinito i suoi orizzonti, rendendosi partecipe della verità stessa del Pensiero di Dio. Nel recepire la verità di fede, l’intelletto non è necessitato nel suo giudizio dall’evidenza dell’oggetto, come avviene nella scienza, ma è determinato a dare il suo assenso dalla volontà, mossa dalla grazia, perché il soggetto, persuaso dagli argomenti e segni di credibilità del predicatore evangelico o di Dio stesso, giudica bene ed anzi doveroso aderire alla Verità divina, anche se essa trascende la verità razionale.
Similmente a quanto avviene sul piano naturale, la fede, che è conoscenza del bene sul piano soprannaturale, spinge la carità a cercare questo bene. Avviene anche qui qualcosa di simile al piano naturale: la ricerca della verità divina è mossa dalla carità, quella che Agostino chiama caritas veritatis.
Per quanto riguarda la questione dell’uso della carità nella comunicazione della verità, occorre tener presente che la verità va sempre detta con carità, benchè in certe circostanze la stessa carità richieda il modo della severità. La carità non è vera, se non è illuminata e mossa dalla verità. Ma d’altra parte, la semplice conoscenza della verità non genera necessariamente la carità, ma occorre un ulteriore atto di volontà per mettere in pratica la verità conosciuta.
Il livello più alto della verità cristiana in questa vita è dato dalla verità della contemplazione mistica, per la quale l’intelletto illuminato dalla fede e la volontà infiammata dal fervore della carità – quello che S.Caterina chiamava “ardentissimo desiderio” – in forza della mozione del dono della sapienza, gustano ineffabilmente l’azione della grazia, che fa sentire la presenza di Dio nell’anima, in preparazione alla beata visione del cielo.

[1] Summa Theologiae, I, q.16,a.6.
[2] Summa Theologiae, I, q.16, a.7.
[3]Quaestio disputata De Veritate, q.1, a.1.
[4] Summa Theologiae, I, q.16, a.1.
[5] Ibid., a.3.
[6] Cf J.Maritain, Sept leçons sur l’ȇtre et les premiers principes de la raison spéculative, Téqui, Paris 1934.

www.youtube.com/watch?v=XhIRHK_XQGE





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[Modificato da Caterina63 24/10/2016 11:24]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)