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Il mistero della redenzione dal «Convivio»
alla «Divina Commedia» (passando per san Tommaso)

Come si rimargina la ferita dell'origine


di Giovanni Di Giannatale
Dante e la redenzione. Il poeta esprime alcune considerazioni sul tema sia nelle opere minori sia nella Commedia, rielaborando e mediando la dottrina di san Tommaso immagini suggestive
.

Per inquadrare il suo pensiero, occorre partire dal Convivio, in cui, riflettendo sull'incarnazione del Verbo, dichiara che questa fu stabilita da Dio per riconciliare a sé la natura umana, privata dei doni soprannaturali e vulnerata nei doni naturali, a causa del peccato originale:  "Volendo l'incommensurabile bontà divina l'umana natura a sé riconformare che per lo peccato de la prevaricazione del primo uomo da Dio era partita e disformata, eletto fu in quell'altissimo e congiuntissimo consistorio divino della Trinità che il Figliuolo di Dio in terra discendesse a far questa concordia" (iv, 5, 3).

In questo passo Dante sviluppa due concetti teologici:  la redenzione come libero atto di amore e di misericordia di Dio; l'incarnazione del Verbo come soddisfazione adeguata all'atto da riparare.


Dante, non a caso, parla di "elezione", cioè di scelta, del Dio uno e trino, ritenendo perciò, in linea con la dogmatica tomistica, che egli non fosse in nessun modo costretto a redimere gli uomini (sant'Atanasio, fondandosi sulla Lettera agli Efesini parlava apertamente di gratuità della redenzione).
 
Così insegna il Dottore Angelico, dopo aver utilizzato ex ratione il quarto libro della Metafisica di Aristotele sulla molteplice accezione del termine anankàion (necessarium):  Et sic manifestum est quod non fuit necessarium Christum pati:  neque ex parte Dei, neque ex parte hominis (Tommaso d'Aquino, Summa theologiae, iii, quaestio 46, 1).

La passione di Cristo è stata tuttavia necessaria in quanto il peccato originale, commesso dai progenitori era così grave, che poteva essere compensato solo con un atto infinito di riparazione, cioè solo da una persona divina (perciò Tommaso - in Summa theologiae, iii, quaestio 1, 1 - parla di necessitas congruentiae, necessità indotta dalla convenienza/ adeguazione del "riparante" alla natura da riparare:  Unde manifestum est quod conveniens fuit Deum incarnari).

Dante riprende gli argomenti esposti nel citato passo del Convivio nel sesto e nel settimo canto del Paradiso. Nel primo connota l'opera della redenzione come "vendetta del peccato antico":  la passione, morte e resurrezione di Cristo è intesa come la "giusta punizione" richiesta dal peccato originale, nel senso che giusta fu la morte di Cristo sulla croce, come giusta fu, nell'imprescrutabile disegno di Dio, l'esecuzione della pena da parte dell'Impero romano, nella persona del legato imperiale, Ponzio Pilato.

Sul punto Dante ritiene che, nel piano provvidenziale di Dio, la condanna di Gesù fu un atto di onore per l'Impero romano, al quale Dio ha concesso la "gloria di far vendetta alla sua ira" (Paradiso, vi, 90), cioè di  "soddisfare  la  giusta  ira  di  Dio per colpa di Adamo con la giusta punizione di quella colpa".
Addirittura, esercitando un ardito artificio logico, il poeta arriva a sostenere che il peccato di Adamo non sarebbe  stato  punito  attraverso Cristo, se la giurisdizione imperiale non fosse stata legittima secondo il volere divino:  Si romanum imperium de iure non fuit, peccatum Adae in Cristo non fuit punitum (De monarchia, ii, 12, 1-5).

Tornando al canto settimo, Dante, attraverso la lectio magistralis di Beatrice, che rivendica a sé l'"infallibile avviso", spiega perché la punizione inflitta a Cristo con il supplizio della croce è da considerarsi giusta. Utilizzando la subtilitas della teologia scolastica, che faceva leva sulle distinzioni, Dante così dichiara:  "La pena dunque che la croce porse, / s'alla natura assunta si misura, / nulla già mai sì giustamente morse; / e così nulla fu di tanta ingiura, / guardando alla persona che sofferse, / in che era contratta tal natura" (Paradiso, vii, 40-45).

Il poeta invita a distinguere la "natura umana" assunta dal Verbo e la "natura divina" della seconda Persona:  la pena della croce e la morte che ne conseguì furono giuste e convenienti alla gravità della colpa, se si considera la natura umana; furono, invece, inique (di tanta ingiura), se si considera la "natura divina" di Cristo ("guardando alla persona che sofferse/ in che era contratta tal natura").


(©L'Osservatore Romano - 11 luglio 2010)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)