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“...Procede dal Padre e dal Figlio...”

 

 

Lo Spirito Santo è Dio. Questa Terza Persona della Santissima Trinità non ha, dunque, come del resto anche il Figlio, un inizio nel tempo; ma è da sempre. Dal Padre procede l’amore verso il Figlio, e dal Figlio procede l’amore verso il Padre: è l’amore che unisce le Divine Persone del Padre e del Figlio. Poiché Dio ama in modo perfetto, questo Amore è perfetto. Ma cosa vi è di perfetto se non Dio? Dunque questo Amore è Dio, quello che noi chiamiamo Spirito Santo, Terza Persona della Trinità che è un solo Dio. Questa eccelsa verità che i Padri ci tramandano, emerge direttamente dalla Sacra Scrittura, e sostanzia il secondo articolo del nostro antico Credo. L’unico elemento che non ritroviamo nel testo originario del Simbolo, è il cosiddetto “filioque” (“e dal Figlio”). Leggiamo infatti così: ex patre [filioque] procedentem”. Tale aggiunta, che Roma ammise nella versione liturgica latina nel 1014, fu in particolare contestata dalla Chiesa Ortodossa, anche se essa non fu certo l’unica causa del Grande Scisma d’Oriente avvenuto nel 1054. Ma come avvenne esattamente la storia di questo inserimento? La sequenza è questa: l’antichissimo Simbolo degli Apostoli riportava solo l’espressione “Credo nello Spirito Santo”. Nel 325 il Simbolo di Nicea proclamava pertanto: “Crediamo nello Spirito Santo”. Successivamente, il primo Concilio di Costantinopoli, nel 381, aggiunse “ex Patre procedentem”: un’aggiunta più che lecita perché desunta direttamente dal Vangelo (Gv 15,26). Nel quinto secolo già circolavano, però, professioni di fede che definivano lo Spirito Santo “procedente dal Padre e dal Figlio”, come l’autorevole Simbolo Atanasiano, chiamato così perché attribuito a Sant’Atanasio (295-373), arcivescovo d’Alessandria d’Egitto. Anche antichi Padri quali San Basilio vescovo e dottore della Chiesa (330-379), o San Gregorio Nazianzeno vescovo di Costantinopoli (329-390) si erano aperti alla teologia del filioque. Infine, nel 447, papa San Leone I, sulla base di queste antiche tradizioni, non solo latine ma anche alessandrine, affermò dogmaticamente il filioque (cfr CCC 247). Ed anche i successivi concili (Toledo nel 589; Aquileia nel 796; Aquisgrana nell’809) confessarono la teologia del filioque. E’ pertanto comprensibile il perché Roma abbia finito per accoglierlo nella liturgia latina nel 1014. Da allora, esso si diffuse in tutto l’Occidente, e fu accettato sia dai Latini sia dai Greci nei concili ecumenici di Lione (1274) e di Firenze (1439). Tuttavia, nel corso dei secoli furono innumerevoli le dispute su questo argomento, specie tra teologi cattolici ed ortodossi. Perché? Quale concezione dello Spirito Santo vi è dietro il filioque? La risposta la leggiamo negli atti del Concilio di Firenze del 1439: “Lo Spirito Santo ha la sua essenza e il suo essere sussistente ad un tempo dal Padre e dal Figlio e [...] procede eternamente dall'uno e dall'altro come da un solo principio e per una sola spirazione [...]. E poiché tutto quello che è del Padre, lo stesso Padre lo ha donato al suo unico Figlio generandolo, ad eccezione del suo essere Padre, anche questo procedere dello Spirito Santo a partire dal Figlio, lo riceve dall'eternità dal suo Padre che ha generato il Figlio stesso” (Denz.-Schönm., 1300-1301). Gli ortodossi usano il termine greco ekporeuomenon, che noi traduciamo con procedentem: il primo significa che lo Spirito Santo “trae la sua origine” dal Padre, il secondo è invece un termine più comune che non vuole significare altro che la comunicazione della divinità consostanziale del Padre sia allo Spirito Santo sia al Figlio (o, come dicono gli stessi ortodossi, “allo Spirito Santo attraverso il Figlio”). Ecco perché in latino è possibile estendere il procedentem anche al Figlio. Si tratta allora solo di una questione linguistica? Di fatto, quando la chiesa cattolica celebra il rito latino nella lingua greca, l’espressione “e dal figlio” non compare. “Dai tempi del Concilio Vaticano II si svolge un proficuo dialogo ecumenico, che sembra aver portato alla conclusione che la formula “Filioque” non costituisce un ostacolo essenziale al dialogo stesso e ai suoi sviluppi” (Giovanni Paolo II, Udienza Generale del 7 novembre 1990). Ai fini di operare la riunificazione completa coi fratelli di rito bizantino, il Pontificio Consiglio per la Promozione dell'Unità dei Cristiani, a poche settimane di distanza dal celebre incontro di Giovanni Paolo II col Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo I, avvenuto il 29 giugno 1995, ha presentato sull’Osservatore Romano del 13 settembre 1995 una lunga trattazione sulla questione, ove compare una nota molto forte:La chiesa cattolica riconosce il valore conciliare ed ecumenico, normativo e irrevocabile, quale espressione dell'unica fede comune della chiesa e di tutti i cristiani, del simbolo professato in greco dal II concilio ecumenico a Costantinopoli nel 381. In pratica viene ricostruita l’unità dei cristiani attorno al Simbolo niceno-costantinopolitano. Questo naturalmente non ha impedito al “filioque” di abitare ancora nella liturgia (per lo meno di rito romano e di rito ambrosiano), così come abitano le tante altre formule più o meno antiche delle professioni di fede (CCC 192). Molto serenamente, il Catechismo della Chiesa Cattolica, è giunto infatti a dichiarare una compatibilità fra le due formule: “Questa legittima complementarità, se non viene inasprita, non scalfisce l'identità della fede nella realtà del medesimo mistero confessato” (CCC 248).