DIFENDERE LA VERA FEDE

Beati coloro il cui cuore può spezzarsi / E conquistare la pace del perdono!

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    Caterina63
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    00 28/08/2009 00:27

    Storie di conversione: il personaggio «C33» di Oscar Wilde

    La gentilezza che spezza il cuore di pietra

    di Antonio Spadaro

    Qualcuno ricorderà L'Annuario del parroco, una bella raccolta di Testi e documenti di vita sacerdotale e di arte pastorale, curata al suo sorgere nel 1955 da don Giuseppe De Luca. In quelle pagine la vita sacerdotale veniva declinata con maestria con l'arte pastorale. La parola arte aveva il suo senso proprio e non era dunque solo una maschera dei termini, oggi più comuni, di tecnica o metodologia.


    Nel 1970, quando da sette anni l'Annuario era curato da don Giuseppe Badini, nella sezione "I pozzi delle anime" appare un brano dal titolo "Il posto di Cristo è veramente tra i poeti". Il suo autore è Oscar Fingal O'Flahertie Wills Wilde, noto più comunemente come Oscar Wilde (1854-1900). È un testo tratto da quella lettera che va sotto il nome di De profundis.

    Perché don Badini cita questa lettera del "pagano" Wilde tra le letture possibili di un buon sacerdote? Il De profundis, tra le più intense della produzione wildiana, è una lunga lettera a lord Alfred Douglas. Perché Wilde l'ha scritta? Per rispondere è necessario entrare almeno succintamente nella biografia dello scrittore. La vita di Wilde è definibile come "estetica", catturata dalla bellezza e dai suoi riflessi fascinosi.

    In fondo poi tutto, fino a un certo punto, andò bene nella sua esistenza: una brava e affettuosa moglie, due bambini, il successo. Ma non durò a lungo. L'affetto per la moglie era fin troppo spiritualizzato ed estetizzante per resistere. I luoghi dove il giovane Wilde, certe notti, si perdeva erano i bassifondi, dove andava alla ricerca di ragazzi sessualmente compiacenti. L'equilibrio creato non poteva durare a lungo e infatti si spezzò quando Wilde fece la conoscenza di lord Douglas. Quest'amicizia portò lo scrittore insieme all'esaltazione e alla rovina economica e morale. La parabola discendente giunse a portare Wilde in tribunale, giudicato e condannato per pederastia. Siamo nell'Inghilterra del 1895.

    Il mondo di Wilde, già uomo di successo, si capovolse. Gli anni di carcere furono durissimi, confortati solo da qualche lettura, e tra queste quella di Dante, del Nuovo Testamento, dei Pensieri di Pascal, della Vita di Gesù di Renan. In questo contesto Wilde scrisse il De profundis, che si configura come il grido stesso dell'anima che dall'abisso della disfatta cerca di risalire alla luce: "Dalla mia natura sono venuti fuori una selvaggia disperazione, un abbandono al dolore pietoso da guardare, furore terribile e impotente, amarezza e sdegno, angoscia che piangeva a gran voce, infelicità che non riusciva a trovare sfogo, dolore muto. (...) non potevo sopportare che (le mie sofferenze) fossero senza significato. Ora trovo, nascosto da qualche parte della mia natura, qualcosa che mi dice che niente al mondo è senza significato, e meno di tutto la sofferenza".

    Cosa è capace di trasformare il "dolore muto" nella "bellezza del dolore"? La risposta si può trovare in un'opera di Wilde forse meno nota eppure strordinaria: The Ballad of Reading's Gaol (La ballata del carcere di Reading), un poemetto di 109 sestine scritto dopo la scarcerazione. Scontata la sua pena, Wilde si rifugia a Berneval, un paesino della Francia. Lì comincia a comporre l'opera che uscì esattamente 110 anni fa, nel 1898, dapprima anonima: il suo nome apparirà solo nella settima edizione fino alla quale l'autore si celò sotto i numeri della sua matricola carceraria "C33". Il protagonista è un uomo, di cui non viene fatto il nome, che aveva ucciso la donna che amava e che la legge ha giustiziato. La Ballata si apre con l'immagine del condannato che cammina tra i carcerati con un triste abito grigio.

    In pochi tratti Wilde prosegue descrivendo tasselli e figure di vita carceraria, con straordinaria efficacia fino a descrivere quella

    "sete morbosa / Che ti insabbia la gola, prima / che il boia con i suoi guanti da giardiniere / Esca dalla porta imbottita / E ti leghi con tre corregge di cuoio, / Che la gola non provi sete mai più".

    Wilde percepisce il pianto, la "guancia che trema", la preghiera "a labbra di creta" mai fuori dallo sguardo altrui. Viene il giorno dell'esecuzione della sentenza e l'autore riflette: "Come navi a bufera spinte / Incrociammo le rotte: / Segno o parola non facemmo, / Nulla c'era da dire; / Non la santa notte incontrammo, / Ma di vergogna il giorno".

    Non la santità aveva segnato il loro incontro, ma la vergogna, ciascuno nella sua cella, nel suo "inferno separato: il mondo ci aveva espulsi dal suo cuore, / E Dio dalla Sua cura".

    Il senso dell'abbandono vince la riflessione e le immagini luminose perché ci si scopre presi dalla "ferrea tagliola" del peccato, trapassati dalla sua spada "fino all'elsa avvelenata". L

    a preghiera accompagna queste emozioni di tristezza e di angoscia ("Tutta notte pregammo inginocchiati").

    L'orologio della prigione "Trafisse l'aria tremante" e "Al gancio di trave annerita / L'unta corda vedemmo, / La preghiera si udì che il laccio / In stridìo strangolò". Il cadavere, nudo e incatenato, "avvolto in un lenzuolo di fiamma", è ceduto alla calce che lo divora.

    Quel pezzo di terra sarà interdetto alla semina perché sconsacrato. Resterà sterile e spoglio perché in carcere pensano "che un cuore di assassino corromperebbe / Anche i loro semi innocenti". Ecco il "dolore muto", espressione di una condanna senza appello.

    Ma a questo punto il grido di Wilde è incontenibile nel suo sdegno: "Non è vero! La terra di Dio è gentile", pietosa, migliore più di quanto la mente dell'uomo possa sapere o immaginare: "La rosa rossa potrebbe fiorirvi / più rossa ancora e più bianca la bianca".

    La Grazia ha percorsi insondabili e si manifesta proprio dove l'angoscia divora il cuore e il senso del peccato sembra non lasciar respiro.

    Alla "dolce aria di Dio", al raggio del suo sole potrebbe venire "Dalla bocca una rosa rossa! / Una bianca dal cuore!". Infatti "chi può dire per quali strane vie / Cristo porta alla luce la Sua volontà?".

    La via della Grazia può essere strana, insolita, ma viene comunicata dal fatto che "il Figlio di Dio è morto per tutti".

    La "strana via" parte dalla Croce di Cristo, davanti alla quale la sofferenza senza senso e il "dolore muto" diventano grido di appello prima e poi di stupore per la salvezza che ricorda da vicino ciò che sant'Ignazio scrive nei suoi Esercizi Spirituali, dopo aver proposto la meditazione sul peccato: "Grido di stupore con profonda commozione, considerando che (...) la terra non si sia aperta per inghiottirmi, creando nuovi inferni per tormentarmi in essi per sempre" (n. 60).

    Si ha la netta percezione che la "gentilezza" della "terra di Dio" sia icona, immagine viva della salvezza. Le leggi di Dio, quelle eterne, sono come la terra: gentili, clementi, buone a tal punto che spezzano il cuore di pietra.

    E questa frattura è la porta attraverso la quale Cristo può entrare nella vita di un uomo. Nessuna durezza può sbarrargli il passo: "Ogni cuore umano che si spezza / In cella o cortile di carcere, / È come l'anfora spezzata che rese / Il suo tesoro al Signore, / E colmò la casa del sudicio lebbroso / Del profumo del più prezioso nardo". Anche se di pietra, il cuore spezzato dalla Grazia è come l'anfora di nardo che nel Vangelo appare infranta per profumare i piedi di Cristo. [SM=g1740734]

    E questo profumo stilla da un cuore di peccatore, anche da quello di un omicida. Allora, esclama Wilde, "Beati coloro il cui cuore può spezzarsi / E conquistare la pace del perdono!".

    Anzi, "Se non per il cuore spezzato / Come entrerebbe Cristo?".

    Il cuore spezzato è una condizione perché il vangelo e il perdono non scorrano via come su una superficie impermeabile. Il carcere può diventare luogo di salvezza perché a contatto con il Cristo, la bruttura del peccato è tolta, e la "bellezza del dolore" si rivela.

    Ecco la conclusione e la risposta alla domanda che ponevamo all'inizio: il dolore "bello" è quello proveniente dalla commozione stupita che si ritrovano coloro il cui cuore è stato spezzato dalla gentilezza di Dio. Ecco "il centro motore dell'arte di Wilde": "L'uomo non può arrivare al cuor divino se non attraverso quel senso di separazione e di perdita che si chiama peccato" (

    James Joyce).

     

    FONTE: preticattolici.it

     

    [SM=g1740722]


    Fraternamente CaterinaLD

    "Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
    (fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
    Maestro dell’Ordine)
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    00 06/12/2010 23:36

    E anche il Senatore comunista disse: “Non farmi tentare, ma dai una bella legnata al maligno”

    Sull’onda della questione del Padre Nostro riapparsa di recente, ecco l’insolita testimonianza di uno storico senatore comunista toscano, Luciano Mencaraglia, già sindaco di Siena, morto nel 2001 dopo aver ricevuto i Sacramenti.

    di Marcello Cristofani della Magione* – “Per tutta la vita ho cercato Dio con la mia ragione: alla fine mi sono dovuto arrendere all’irrazionale”; questa cavalleresca resa è di Luciano Mencaraglia che è ha incontrato il Dio tanto cercato e desiderato alle tre del mattino di venerdì 24 Agosto, dedicato all’Apostolo San Bartolomeo; il segno della Croce sulla fronte, dopo quella del Sacerdote con l’Olio degli Infermi per l’Estrema Unzione, Luciano Mencaraglia l’ha ricevuto dalla moglie e dai giovani Templari presenti che per affetto lo chiamavano “zio” e che egli aveva adottato come nipoti; e con l’Estrema Unzione l’assoluzione da tutti i peccati e l’Indulgenza Plenaria in “articulo mortis”; come in un romanzo di Bruce Marshall.

    La straordinaria intesa tra un comunista ortodosso e i cattolici tradizionalisti (scandalosa anche oggi per alcuni comunisti e per i cattolici monoconciliari) era nata il 4 Ottobre 1984 per la prima visita di Luciano Mencaraglia alla Magione: i festeggiamenti per i miei primi 25 anni di Capo Scout prevedevano, tra le tante iniziative, anche una mostra delle incisioni e degli smalti su rame di Leopoldo Ferruzzi, anche lui comunista DOC pesantemente contestato dai suoi per la decisione di accogliere l’invito della mostra da noi; del resto era presente anche il Sindaco, Marcello Gentilini, e il concerto per il mio giubileo l’avrebbe tenuto la pianista Myriam Omodeo Donadoni; era intervenuto un altro grande della recente storia senese, Mons. Mario Jsmaele Castellano, che aveva portato il telegramma del Papa per fare da pendent a quello del Re Umberto II; grandi feste, grandi uomini.

    In quel tardo pomeriggio di San Francesco arrivò anche il Professor Mencaraglia, allora solo Presidente dell’Ente provinciale per il Turismo, ma con la fama intatta di uomo di spicco del comunismo internazionale; l’attesa era stata lunga e i giovani, Cavalieri e Scouts, avevano cominciato energicamente a tirar di pallone.

    Il Presidente scese dall’auto, notò la contesa sportiva e rimase in attesa di una pallonata che lo avrebbe fatto ruzzolare lungo la ripida discesa che porta alla Chiesa; invece, il pallone fu prontamente bloccato e l’ospite venne salutato da un corale “buonasera”; l’”amichevole” riprese solo dopo che l’ospite aveva conquistato una postazione più sicura; Luciano Mencaraglia esclamò “Questo è un altro mondo!”: era cominciato il feeling.

    Con le iniziative culturali con le quali l’Ente del Turismo lanciò nel mondo lo splendido complesso monumentale della Magione, le quali raggiunsero l’apice nel Convegno del Maggio 1987 sulla storia e il mito dei Templari, Luciano Mencaraglia cominciò a frequentare sempre più spesso la fiorente comunità templare con il gusto del gregoriano, del latino e delle cose fatte bene, fino al passaggio, legittimato dall’Indulto papale e dalla condiscendenza arcivescovile, al rito antico, quello tridentino. Credo che se la vecchia liturgia aveva fin da subito conquistato il cuore, la mente e l’anima di tutti alla Magione – dai più piccoli ai più grandi anche non scolarizzati nel latino – per il Professor Mencaraglia fu la riscoperta del fascino di una trascendenza e di una spiritualità che forse solo il rito antico riesce a comunicare, con quel senso del mistero di una celebrazione che rimane inspiegabile; avevamo notato i suoi segni di Croce durante la Messa e le risposte al latino rotondo e semplice della Chiesa; d’altra parte un Senatore del suo partito, venuto a conoscenza della frequentazione dei Cavalieri della Magione, lo aveva avvertito: “Sono pericolosi”.

    Era iniziato un cammino punteggiato da incontri e colloqui, discussioni e approfondimenti, episodi e avvenimenti: la sua casa di Carpineto ci ha ricevuti con l’Arcivescovo Castellano o con Suor Chiara Elisabetta, monaca di clausura di passaggio da noi al termine di una esperienza di eremitaggio, o con Don Michele Simoulin, Superiore per l’Italia della Fraternità Sacerdotale “San Pio X” (l’istituzione di Mons. Lefebvre) o, fuori, con il Vescovo di Prato Gastone Simoni; tutte le volte l’ospite – al corrente della sua posizione politica – usciva dall’incontro scosso dalla sua fede inconscia e dalla sua profonda cultura religiosa innestata in una vastissima cultura umanistica.

    Venivamo apostrofati con “Cattolici, non vi siete dimenticati di qualcosa?” se osavamo sederci a tavola senza aver pregato; o toglieva il saluto al “nipote” adottivo che aveva osato irridere il Vangelo citando il “Vangelo secondo Giobbe”, libercolo di qualche anno fa.

    E’ del 1995 l’esegesi linguistica della frase del Pater Noster “et ne nos inducas in tentationem sed libera nos a malo” dandone l’interpretazione contro i dubbi di una cattiva traduzione.

    Mancava l’ultimo anello che avrebbe chiuso il cerchio di questa ricerca di Dio, quell’anello che i Cavalieri Templari considerano la loro prima arma, la spada più tagliente: la recita del Rosario.

    Luciano Mencaraglia negli ultimi tempi lo recitava regolarmente insieme alla moglie, annullando, anzi, sublimando in questa preghiera, disprezzata dai cosiddetti intellettuali laici ed ecclesiastici, il suo straordinario “cursus” culturale, iniziato con la laurea a 17 anni in lettere antiche alla Scuola Normale Superiore di Pisa, allievo di Concetto Marchesi (dalla Normale inviato, quindi, a Colonia sul Reno per specializzarsi in filologia su un testo attribuito ad Ippocrate) e la carriera politica che lo ha visto Senatore del PCI, Sindaco di Siena, Presidente dell’Amministrazione Provinciale ma sopratutto Segretario del Movimento internazionale per la pace; quest’ultimo impegno lo porterà in tutto il mondo ed in particolare nelle zone calde come il Vietnam e la Cambogia incontrando, tra gli altri, Ho Chi Min e a lavorare per lo stesso scopo con Giorgio La Pira.

    Arrendendosi con i suoi 87 anni Luciano Mencaraglia pare fare suo il salmo della Messa “Ad Deum qui laetificat juventutem meam”.


    – per telefax –

    Mercoledì 22 Novembre 1995, ore 14,13

    Marcello,

    il quesito che mi hai posto è proprio bizantino. Messi bene i piedi per terra sono arrivato a questa opinione:

    1. Non è facile arrivare dall’aramaico, attraversando l’ebraico, il greco e il latino, a responsabilizzare la dizione italiana.
    2. E’ una vecchia storia: già il buon Eusebio da Cesarea, citando una fonte più vecchia di lui, parlando del testo di Matteo, ci dice che già Matteo li aveva “tradotti dall’aramaico in ebraico, e poi ciascuno li interpretò come ne fu capace”. Autorizzando così anche il povero me a dire la mia opinione.
    3. il nostro NE, come il suo prevedibile riscontro greco può avere un significato meramente augurale, come UT. Solo che UT e UTINAM vogliono augurarsi che una cosa non succeda. Quindi: fa in modo di non mettermi davanti alla tentazione.
    4. Però, in più c’è il SED, che è un bel MA INVECE, in quanto segue una frase o appello negativo: quindi “Fa che io non incorra mai nella tentazione, e INVECE liberami dal MALE o dal MALIGNO, comunque strettamente contrapposto alla TENTAZIONE.
    5. Quindi in italiano di tutti i giorni: “liberaci dal male in modo che non si pensi nemmeno che si possa essere indotti in tentazione”.

    ——————

    Allora mi dirai: perchè lo ha messo DOPO? E io credo: per enfatizzare (lo è anche nel canto) la conclusione del Pater Noster.

    L’ammissione di tentabilità del pover uomo precede la conclusione della preghiera al Padre. E questo qualunque sia il bizantino disposto a duellare per stabilire se il NE è augurale, finale, o consecutivo.

    P.S. E poi mi viene in mente anche un’altra pezza d’appoggio:

    Nel latino latino, quello dei cosiddetti “classici” c’è questo uso CAESAR FECIT PONTEM (= Cesare fece costruire un ponte). Hai visto mai che “Ne nos inducas”, nell’orecchio di un latino vivo, non ancora entrato nei libri e nell’inferno delle grammatiche, avrebbe proprio significato: “Non farmi tentare, ma dai una bella legnata al maligno?

    ———-

    Perdona la grafia, che è quella che la vista ormai mi permette: E se ti rispondo per FAX, perchè il discorso era lungo. Comunque

    FAX TIBI

    Luciano

    *Il Conte dom Marcello A. Cristofani della Magione è il Gran Maestro dell’Ordine della Milizia del Tempio che ha sede nel Castello della Magione di Poggibonsi, diocesi di Siena. I Poveri Cavalieri di Cristo, quasi 150 in tutto il mondo, sono a oggi l’unica realtà cavalleresca liberamente ispiratasi ai Templari che non rivendica alcuna rifondazione dell’antico Ordine di stampo neo-templarista, ed anche per questo è canonicamente riconosciuta dalle LL. Ecc.ze  gli Arcivescovi di Siena e gode delle Sacre Indulgenze della Santa Sede. www.ordo-militiae-templi.org


    Fraternamente CaterinaLD

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    00 07/12/2010 22:10

    "Storia di Cristo", testimone di una conversione


    Ripubblicato da Vallecchi il testo che segnò la conversione di Giovanni Papini


    di Antonio Gaspari 

    ROMA, martedì, 15 aprile 2008 (ZENIT.org).- Papa Benedetto XVI, nel suo "Gesù di Nazaret", lo ha definito uno dei "libri più entusiasmanti" che siano mai stati scritti sulla figura del Cristo.

    Pubblicata per la prima volta nel 1921 e più volte ristampata fino all'ottava edizione del 1985, la "Storia di Cristo" scritta da Giovanni Papini (Vallecchi pp. 448; 20,00 Euro) è considerata il "libro della redenzione" dello scrittore più irriverente del Novecento italiano. 

    Il testo ha avuto sin dall'inizio un successo planetario, tanto da essere tradotto in venticinque lingue, tra cui il cinese, il giapponese, l'arabo e perfino l'esperanto. L'editore Vallecchi ha deciso di ripubblicarlo per la qualità e l'attualità che il tema della "Storia di Cristo" ha assunto nei tempi moderni.

    La ripubblicazione del libro riporta anche alla storia dello scrittore Giovanni Papini (1881-1956), una persona intelligente, acuta, brillante, tormentata sia nella buona che nella cattiva sorte. 

    I suoi tormenti si riflettono già nella composizione familiare: il padre Luigi, garibaldino anticlericale, e la mamma Erminia Cardini, che lo fece battezzare di nascosto dal padre. 

    Maestro e bibliotecario, si fece apprezzare presto per la sua vena di scrittore capace e sagace. Insieme a letterati e filosofi del suo tempo fondò e diresse diverse riviste e scrisse decine di libri.

    Fu candidato al Nobel ma non lo vinse a causa della sua militanza politica, Fu un ateo feroce, processato per oltraggio alla religione; per questo, destò enorme clamore quando si convertì al cristianesimo. 

    Seguace del nichilismo, arrivò all'apice della sua avversione al cristianesimo con "Le memorie d'Iddio" (1912), in cui scrisse "Uomini: diventate atei tutti, fatevi atei subito!"e "Dio esiste solo perché gli uomini credono in Lui, e alla morte dell'ultimo credente anch'Egli scomparirà".

    Dopo la conversione, avvenuta nel 1921, Giovanni Papini piangeva al pensiero di aver scritto un simile libro e incaricò la figlia Viola di ricercare tutte le copie ancora esistenti e di bruciarle. 

    È stata la figlia a raccontare che il padre, rattristato e pentito, un giorno le disse: "Viola, mi fido soltanto di te. Mi son fatto rendere da Vallecchi tutti i volumi delle 'Memorie d'Iddio': bruciali tutti, che non ne resti nemmeno una copia!".

    Papini annunciò la sua conversione religiosa pubblicando la "Storia di Cristo", che si rivelò un grande successo editoriale, non solo italiano. 

    Nella "Storia di Cristo", lo scrittore toscano narra con passione la vita di Gesù e respinge le critiche di coloro che si dicono "spiriti liberi" e che vorrebbero "assassinare una seconda volta Gesù".

    Scritto come se fosse ieri, Papini respinge le tesi di coloro che parlano del Vangelo come di una leggenda, criticando chi descrive Gesù come un "negromante" o un "arruffapopoli". Va anche contro coloro che descrivono il Cristo come un "mito creato ai tempi d'Augusto e di Tiberio", o quelli che parlano di Gesù come un "precursore di Rousseau e della divina Democrazia". 

    In riferimento alla sua vita, nell'introduzione alla "Storia di Cristo" Papini scrive: "l'autore di questo libro ne scrisse un altro, anni fa, per raccontare la malinconica vita d'un uomo che volle, un momento, diventar Dio". "Ora, nella maturità degli anni e della coscienza, ha tentato di scrivere la vita di un Dio che si fece uomo".

    Il Cardinale Ennio Antonelli, Arcivescovo di Firenze, introduce questa riedizione del capolavoro papiniano spiegando il percorso doloroso di ricerca di Dio dello scrittore toscano. 

    "Che questa Storia di Cristo non sia vuota retorica - afferma l'Arcivescovo di Firenze - lo conferma la forte testimonianza di fede che l'autore ha dato nella fase finale della sua vita".

    Tre anni prima di morire, rileva il Cardinale Antonelli, "Papini fu colpito da una terribile paralisi progressiva che lo privò dell'uso delle gambe e delle braccia e poi persino della parola". 

    "Allora - spiega il porporato - dal suo cuore di credente uscì un famoso testo, 'La felicità dell'infelice', in cui risplende la sua serenità, fondata sulla fiducia in Dio".

    "Quella di Papini", conclude l'Arcivescovo di Firenze, "è un'avventura umana significativa e appassionante".


    Fraternamente CaterinaLD

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    00 07/02/2016 19:01

      Quando.... non tutto ciò che è male, nuoce....



    Ashton è una ragazza di 26 anni di Londra, vivace allegra, come tante. Tanta voglia di vivere, sfrenata, serena nella sua giovinezza. Con tutta "una vita davanti" il primo pensiero è dunque divertirsi, godersela. E così fra il lavoro di giorno, la notte naturalmente non si dorme, ci si diverte nelle discoteche. E poi i viaggi in Croazia, Ibiza, mari e monti, discoteche, e discoteche, le piace ballare, bere gin tonic.
    Nessun altro pensiero, la vita va avanti così, fino a quando, di ritorno da un viaggio in cui, ovviamente, si è divertita ed ha ballato, iniziano i dolori alle gambe....
    Non ci pensa, ha ballato molto, porta i tacchi a spillo, naturale dover soffrire di qualche inconveniente o fastidio.
    Ma il dolore aumenta fino ad impedirle di stare in piedi e così decide di andare a fare un controllo medico....
    E scopre di avere un rarissimo cancro del sangue....
    Dalla discoteca precipita all'improvviso nella chiemio e in una battaglia che la ferma completamente....
    però Ashton è molto determinata e affronta la terapia con coraggio, anche se questo le comporta la perdita dei capelli e dice
    "Oggi ho cambiato abitudini. Mi sono trasferita nell'isola di Wight e conduco una vita tranquilla. Forse il cancro mi ha salvato. Solo ora comincio a vedere la mia vita da una prospettiva che prima non vedevo, tutta presa come ero al puro divertimento.
    Sì, combatterò fino alla fine, perchè questa è la più grande battaglia per cui vale la pena combattere: vivere. Tutto sommato, forse, devo dire grazie a questa malattia, mi ha dato uno scossone, mi ha svegliata, paradossalmente mi ha ridato un motivo per vivere davvero".




     

    Fraternamente CaterinaLD

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