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Consiglia  Messaggio 1 di 1 nella discussione 
Da: Soprannome MSN°Teofilo  (Messaggio originale)Inviato: 01/04/2003 20.45
 La chiesa e' attenta ai lavoratori
"Un secchiello e una paletta, arnesi per il gioco dei bambini in un mare di sabbia mentre un castello turrito, forte, adatto alla difesa, si sta sgretolando". Appeso alle porte della chiesa, il manifesto della Giornata della Solidarietà di quest'anno (10 febbraio 2002) esprime un tema quanto mai attuale: "Flessibilità e precarietà del lavoro, oggi". E' immagine del mondo del lavoro? Ridotto ad un castello abbandonato che si fa precario nel vento e nella pioggia?

La frase accanto: "Signore, rafforza per noi l'opera delle nostre mani" (salmo 90) ci ricorda la fragilità di ciò che facciamo e il bisogno della stabilità. Da circa una decina d'anni, prima in sordina e poi velocemente, per i motivi più diversi: sostenibilità della concorrenza, la globalizzazione, l'efficienza, le ristrutturazioni delle aziende, il lavoro flessibile è dilagato nel nostro territorio seguendo il nuovo tempo e le esigenze del mercato. Molti lo enfatizzano, segno di una nuova stagione. Le parole d'ordine delle aziende, e tutte rigorosamente in inglese, vanno dalla "ristrutturazione" ("reengineering") al ridimensionamento(«downsizing»), per passare alla produzione personalizzata e pronta su commissione senza transitare dal magazzino ("just in time") alla struttura "degerarchizzata" in cui tutti sono responsabili di tutta l'azienda ma nessuno risponde di persona.

Questa strada è possibile per i forti, per gli intraprendenti, per i giovani, per quelli che sanno lottare, per quelli dotati, per chi è attrezzato e ha alle spalle cultura, risorse intellettuali, salute, età. Anzi, per i giovani e per il lavoro d'ingresso la flessibilità può essere anche interessante e persino auspicabile: obbliga a misurarsi, stimola alla creatività.

Ma, diciamolo subito, pagano gli ultimi arrivati, gli anziani (nel lavoro), le donne, le persone senza molta capacità, cultura, elasticità mentale. Per una larga fascia di persone tale flessibilità rischia di fare più vittime che conquistatori. Qui si parla allora di precarietà, tanto più che in Italia siamo ancora a un analfabetismo di ritorno. Il messaggio onnipresente dice che la flessibilità è inevitabile: lo richiedono la produzione,la globalizzazione, la concorrenza, il mercato. Quindi bisogna adattare ripetutamente l'organizzazione della propria esistenza - nell'arco della vita, dell'anno, sovente persino del mese o della settimana - alle esigenze mutevoli della o delle organizzazioni produttive che la occupano, private o pubbliche che siano". (L. Gallino). Si parla di "flessibilità quantitativa" e di "flessibilità qualitativa". E insieme continua imperterrito, in Italia, il "lavoro nero", valutato per 5 milioni sui circa 20 milioni di lavoratori.

Mentre si garantisce che la disoccupazione può diminuire, si affaccia la prospettiva spezzettata, polverizzata della insicurezza e sulle spalle delle famiglie e delle persone ricadono le conseguenze del cambiamento. Si vive la fatica del "sentirsi insicuri, instabili, temporanei, soggetti a revoca, senza garanzia di durata, fugaci e brevi". Persino la competenza non garantisce un lavoro quando le aziende, occupando nicchie di mercato, si debbono adattare alla vita breve della domanda (nei tessuti, della moda, come nelle componenti meccaniche). E se un buon lavoratore viene ancora tenuto stretto dalla dirigenza, difficilmente si vedrà salvato se la sua azienda si è ristrutturata, si è assottigliata o è stata venduta a qualche concorrente. Facilmente chi ha superato quarant'anni viene allontanato dal lavoro.

In tal modo non si possono fare previsioni o progetti né a lunga, né a breve durata riguardo al futuro, né a livello professionale e neppure a livello esistenziale e familiare (mutuo/famiglia), non si accumula alcuna significativa esperienza professionale trasferibile con successo da un datore di lavoro a un altro, non si stringono rapporti con persone e quindi risultano temporanei, provvisori e perciò insignificanti sul lungo periodo. Il "basta con il lungo termine" è un principio che corrode la fiducia, la lealtà e la dedizione reciproca eppure diventa slogan. I rapporti con l'azienda, provvisoria, in attesa del compratore più capace di fare profitto, risultano deboli. Se l'elemento di scambio non è più la produzione ma l'azienda stessa, anche le smagliature con la famiglia si approfondiscono poiché i rapporti diventano superficiali ed effimeri, soprattutto nell'educare i propri figli ai valori. A quali valori si può educare se la famiglia non sa mettere in risalto se non l'importanza delle virtù "camaleontiche" della nuova economia e non riesce a riproporre l'affidabilità, la dedizione e tensione verso uno scopo (tutte virtù a lungo termine)?

Ci sono sempre più problemi con la propria storia di lavoro ma tali problemi non hanno spessore; così non si crea una "narrazione". Sulla propria vita lavorativa non c'è un racconto di vittorie, di resistenze, di solidarietà che cambiano le cose, di significati duraturi. Così anche la Parola di Dio resta muta ed emigra in altri luoghi, riprendendo difficilmente una sua lettura quotidiana.

Se la flessibilità premia i forti, i giovani, i creativi, aumenta la disuguaglianza con stipendi sempre più al ribasso e allora diventa legittima la domanda: "A quali modelli vogliamo confrontarci e quali perseguire? Che fine sta facendo lo Stato sociale?

Con il lavoro c'è il bisogno della casa che incide per 2/3 di un reddito. Si parla di formazioni professionali ma verso quali direzioni? Per cercare un'occupazione, dove troviamo l'incrocio della domanda-offerta, oggi frammentata?".

La Comunità Cristiana deve essere cosciente della trasformazione della realtà sociale e lavorativa e si deve far carico della fatica, per condividere insieme la strada di ciascuno. La Giornata della Solidarietà vorrebbe sostenere e accompagnare questi itinerari.