00 06/09/2011 21:33
Fu la schiavitù a determinare il singolare rapporto tra "otia" e "negotia" nell'antichità

Quando lavorare stancava


 

di UMBERTO BROCCOLI

Appuntamenti, agende affollate, riunioni, ore piccole su testi e relazioni, colazioni di affari, fanno parte a buon diritto della mentalità dell'uomo moderno sul lavoro. Quante volte avrete sentito dire o avrete detto: "il lavoro gratifica", "lavorare è bello", oppure "il lavoro nobilita l'uomo".

Quante volte ci siamo trovati a sperare in giornate fatte di quarantotto ore per tenere dietro alle nostre attività, lavorando freneticamente per avere un mese all'anno di ferie, durante le quali - con gli stessi ritmi - ci si impone di riposare corpo e mente parlando di lavoro sotto gli ombrelloni e mettendo in mostra sulla riva del mare costumi da bagno e posizioni sociali acquisite.

Ecco, tutto questo appartiene alla nostra cultura moderna, poiché in antico l'ideale delle classi dominanti era il non far nulla.
Nel mondo greco-romano, per esempio, qualsiasi lavoro manuale era ritenuto indegno per qualsiasi uomo libero.

Senofonte, lo scrittore greco dell'Anabasi, nel IV secolo prima dell'era cristiana sentenziava: "I mestieri che vengono chiamati artigianali sono screditati ed è del tutto naturale che nelle città siano tenuti in grande disprezzo. Rovinano il corpo degli operai che li esercitano e di coloro che li dirigono obbligandoli a una vita sedentaria, seduti nell'oscurità dei laboratori, talora persino a trascorrere tutta la giornata accanto al fuoco".

Il messaggio è fin troppo evidente: lavorare stanca. E stanca non solo gli operai, ma anche chi dirige i lavori, prigioniero a sua volta dei ritmi dati ai sistemi produttivi.
Il lavoro rovina il corpo, ma distrugge anche lo spirito: su questo Senofonte è ancor più chiaro: "Poiché in tal modo i corpi si indeboliscono - prosegue, circostanziando, lo scrittore - anche le anime diventano più fiacche. Cosa ancor più grave, questi mestieri chiamati artigianali, non lasciano alcun tempo libero per occuparsi degli amici e della città, e così costoro offrono ben misere relazioni agli amici e sono ben miseri difensori della patria". (Senofonte, Economico, IV, 2).

È una vera e propria intolleranza a qualsiasi attività lavorativa, considerata invalidante in senso assoluto. Ma c'è di più. Ognuno di noi, oggi, se lavora per qualcuno pretende giustamente di essere compensato in ragione di ciò che ha fatto. In antico, invece, essere pagato da altri per lavori svolti, indicava un rapporto di sudditanza, una rinuncia alla libertà personale.

Il concetto è chiarissimo in Cicerone, nome altrettanto noto nel panorama della letteratura antica: "Sono indegni di un uomo libero e vili i guadagni di tutti i mercenarii, da cui si compra la fatica e non l'arte: in essi il pagamento è infatti un pegno di servitù". Un concetto portato al paradosso, sempre da Cicerone, nel momento in cui sostiene con toni ultimativi che: "Tutti gli artigiani praticano mestieri vili né può esservi qualcosa di buono in un laboratorio" (Cicerone, De officiis, I, 150).

Nessun tipo di lavoro, o quasi, si salva nei giudizi aristocratici dell'uomo antico. I grandi commercianti si sporcavano comunque le mani e legavano le loro ricchezze ai viaggi delle navi, tanto cariche di merci, quanto insicure: i piccoli commercianti non esercitavano una attività così diversa da quella degli artigiani, ritenuta sordida in ambedue i casi. Comprare e vendere beni immobili, se da una parte lasciava le mani apparentemente pulite, dall'altra si avvicinava troppo alla speculazione: qualcuno di voi ricorderà il disprezzo degli scrittori per uomini potenti, arricchiti comprando e vendendo palazzi e terreni distrutti da incendi.

Probabilmente ci si chiederà il perché di questa repulsione per il lavoro che rende tanto differenti noi da loro, noi moderni, da loro antichi. Il mondo di allora - non dimentichiamo - faceva largo uso di schiavi: lo schiavo era uno strumento, lo schiavo assicurava la manodopera, allo schiavo venivano affidati compiti gravosissimi senza alcuna contropartita poiché era uno dei tanti mezzi necessari alla produzione. Lo schiavo di allora può essere paragonato a una nostra macchina, automobile o mezzo industriale. E come a nessuno di noi verrebbe in mente di trasportare sulle spalle una famiglia da Roma a Napoli, impiegando il minor tempo possibile da casello a casello, così all'uomo antico non poteva venire in mente di svolgere attività vicine a quelle di stretta competenza degli schiavi.
Vero è che finora abbiamo parlato solamente delle classi più elevate e non conosciamo molto il rapporto col lavoro delle altre classi. Possiamo individuare, però, una tendenza generale a risparmiare se stessi in prospettiva di una vita passata negli otia.

Di tanto in tanto troviamo nelle epigrafi il ricordo del lavoro svolto dalla gente comune. Spesso le lastre delle tombe ci hanno conservato memoria di molti artigiani. E chissà quali erano i sapori dei cibi cucinati dall'optimus cocus autoelogiatosi così sulla sua lapide. E chissà se mai quell'optimus cocus si sarà rivolto al negotiator celeberrimus suariae et pecuariae, un altrettanto illustre sconosciuto, commerciante di carne porcina e ovina. E chissà quanto avranno aspettato i cittadini di quel tempo per aver riparato un tubo dell'acqua da quell'artigiano che si fece fare la tomba dichiarando testualmente: "I più grandi artigiani lo hanno sempre detto maestro. Nessuno fu più preparato di lui, nessuno poté superarlo, lui che sapeva costruire apparecchi idraulici e tubature".



(©L'Osservatore Romano 7 settembre 2011)

Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)