00 27/10/2009 16:04
 

 

Giovanni 20,1-10: le tracce nel sepolcro di Gerusalemme e la Sindone di Torino

1- I testimoni di Gerusalemme

Giovanni 20,1-10 è l’unico racconto evangelico che descrive con cura la natura e la condizione dei teli trovati dagli apostoli all’interno del sepolcro la mattina seguente la Pasqua ebraica: il primo giorno della settimana ebraica, lo iòm rishòn, giorno riservato nel racconto della Creazione - nel primo libro della Bibbia - alla separazione della luce dalle tenebre, del giorno dalla notte, noi potremmo dire, della Vita dalla morte.

L’apostolo prediletto dal Signore, l’amato Giovanni, è il solo dei quattro evangelisti a parlare espressamente di sudario e di fasce senza confonderli con la sindone, quando fa riferimento ai teli che hanno avvolto il corpo di Cristo - dormiente nella morte per trentasei ore - all’interno del sepolcro gerosolimitano.

La nostra riflessione, filologica ed esegetica, del noto passo di Giovanni fa riferimento al rapporto teli-sepoltura-Sindone: le domande che cercheremo di porci, per comprendere meglio cosa sia avvenuto in quelle misteriose ore nel sepolcro più famoso di tutti i tempi, ci stimoleranno ad analizzare, momento dopo momento, versetto dopo versetto, i fatti accaduti e raccontati dal quarto evangelista in modo quasi didascalico.

Quali relazioni possiamo quindi intravedere tra gli oggetti del racconto di Giovanni e il Telo conservato attualmente a Torino, e che noi conosciamo - almeno da sette secoli - con il nome di Sacra Sindone?

Il tutto mirerà, se non a dimostrare, almeno a verificare le concordanze che intercorrono tra il racconto evangelico e il Sacro Lino, e affermare quindi sia la storicità dei vangeli - quanto alla descrizione di Giovanni, testimone oculare della visita al sepolcro - che la probabile autenticità della Sindone, quale testimone "muto, ma allo stesso tempo sorprendentemente eloquente"146, della risurrezione di Gesù Cristo.

Si pone quindi un problema di traduzione dal testo greco147 al linguaggio corrente: sarà nostro intento prendere in esame, per un confronto con il testo originale - la lingua greca - sia la Volgata Sisto-Clementina, redatta in lingua latina, che la Bibbia di Gerusalemme, tradotta dalla CEI in lingua italiana.

Proviamo pertanto a rivedere alcuni termini che, se tradotti diversamente, ovvero filologicamente più corretti, rendono i racconti più aderenti a quello che l’evangelista ha descritto e che dalla lettura delle traduzioni in lingua corrente non si evincerebbe immediatamente.

La latinizzazione prima e la lingua nazionale poi hanno contribuito da una parte a divulgare il messaggio della buona novella, dall’altra a creare necessari compromessi linguistici perché la comprensione del contenuto fosse veramente possibile a molti.

Questo processo però, non è avvenuto senza costi, a volte anche alti: ci si trova dinanzi a traduzioni le quali fanno immaginare avvenimenti a volte fantasiosi se non addirittura inesistenti rispetto a quanto scritto in lingua originale dall’autore sacro.

Iniziamo dalla lettura dei primi versetti della pericope del quarto evangelista e subito ci si accorge che siamo di fronte alla descrizione della tomba e di quanto in essa è rinvenuto dagli apostoli Giovanni e Pietro; i due discepoli arrivano al sepolcro correndo perché messi in allarme da Maria di Magdala che per prima vide la pietra circolare del sepolcro ribaltata rispetto alla posizione originaria, quella di chiusura, del giorno della avvenuta unzione e sepoltura di Gesù.

Dobbiamo subito ripetere, prima di proseguire nell’analisi del testo, che i sepolcri venivano tenuti aperti, per le visite dei parenti e degli amici del defunto, per tre giorni ininterrottamente, giorno e notte; il sepolcro di Gesù invece doveva restare chiuso dal vespro del venerdì fino a quello del sabato perché si festeggiava quel Sabato, in tutto Israele, la Pasqua, la più importante tra le festività dell’ebraismo. Il sepolcro di Gesù, quindi, sarebbe stato aperto alla visita dei parenti, secondo la Legge ebraica, soltanto dopo il vespro del Sabato; ecco perchè le donne si preoccupavano di chi dovesse rotolare la pietra sepolcrale per accedervi.

Tornando al testo evangelico, la prima considerazione da farsi è relativa ai tre verbi che descrivono il vedere dei tre protagonisti del racconto giovanneo: Maria di Magdala, Giovanni e Pietro; essi sono tradotti in italiano, seguendo la traduzione latina, con il generico vide, mentre, come vedremo, dall’analisi filologica, sono lemmi che descrivono verbi diversissimi tra loro; intendono cioè esprimere le differenti sfumature del vedere, dando origine così alle relative implicanze sulla descrizione degli oggetti visti da loro.

Nel versetto 1 il verbo greco (blépei), traduce il termine scorge e non un semplice vide: Maria di Magdala si recò al sepolcro quando "era ancora buio" per visitare il corpo di Gesù e rendergli omaggio, come il rito funerario giudaico prevedeva: bruciare gli aromi nel sepolcro e ungere la salma - esternamente, cioè sopra ai lini -, e la pietra sepolcrale.

Il venerdì pomeriggio precedente la vigilia della Pasqua, all’ora del vespro, cioè allo spuntare della terza stella, ogni attività doveva cessare per dare inizio alle preghiere e al riposo: come già detto, la prima stella era il segno che il giorno stava per giungere al termine, la seconda stella preludeva al nuovo giorno, la terza ed ultima inaugurava il giorno seguente, e nel caso del venerdì, preannunciava il sabato: incominciava la festa più importante per il popolo ebraico, anticipata dalla Preparazione dei Giudei (Lc 23,54).

La donna, recandosi verso la tomba, scorge da lontano che la pietra è stata ribaltata e, impaurita, corre a chiamare Pietro, temendo per la cattiva sorte toccata al corpo del Signore: "Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto", (v 2).

Il verbo scorgere riferisce perfettamente l’impossibilità, da parte di Maria, di raggiungere particolari circa la descrizione del sepolcro e di quanto era accaduto nei suoi pressi, perché ancora buio, e rende l’idea del suo stato d’animo agitato, perché presa da timore per eventuali manomissioni avvenute nella tomba a discapito del corpo del Signore; le è mancata la calma per osservare cosa fosse veramente accaduto.

Nel versetto 5 il verbo greco usato è parakýpsas blépei,  dal verbo parakýpto, che vuol significare un gesto simile a quello di chi si affaccia da un finestrino di un treno in corsa e protende il capo a guardare in avanti: dunque è da rendersi meglio con "data una sbirciata / un’occhiata, scorge"; le traduzioni invece portano un semplice e solo "chinatosi, vide", senza aggiungere la qualità del vedere, e cioè per dare una sbirciata, uno sguardo fugace, impreciso148.

Giovanni quindi, dopo aver sbirciato, non entra nel sepolcro, aspetta il capo degli Apostoli, Pietro, arrivato successivamente presso la tomba perché più lento, nella corsa, del giovane discepolo.

Cosa scorge Giovanni senza però entrare nel sepolcro, quindi dall’esterno149? Questa pericope è molto importante e risolutrice di alcuni problemi posti sul percorso della nostra indagine; viene descritta cioè la posizione delle fasce, tà othónia, viste all’interno del sepolcro: mentre nel versetto 6 il participio predicativo segue il sostantivo qui il participio precede il nome: scorge distendersi i teli150.

È evidente l’intento dell’autore, ossia il voler sottolineare il verbo rispetto agli oggetti e cioè che i teli si stanno distendendo: blépei keímena tà othónia (v 5); l’azione dello stendersi, dell’afflosciarsi dei teli è vista quindi dall’apostolo Giovanni, privilegio che il Signore ha concesso soltanto a lui, forse come premio per la fedeltà a chi non l’ha abbandonato neanche nel momento più grave: Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Clèofa, Maria di Magdala e il discepolo che egli amava (Gv 19,25).

Il versetto 8 infatti così termina: il discepolo che era giunto per primo al sepolcro vi entra solo dopo che lo ha fatto Pietro, e facendo memoria di ciò che aveva sbirciato dall’esterno appena arrivato sul luogo - cioè lo stendersi dei teli - e la condizione dei teli visti nello stato successivo, dall’interno della tomba - i teli completamente distesi su se stessi - dice, nel raccontare l’esperienza che aveva egli stesso fatto: "vide e credette" (Gv 20,8); Giovanni infatti fa di questo vedere un vedere con i propri occhi, utilizzando per questa ulteriore sfumatura il verbo greco (oráo).

L’altro verbo da prendere in esame è teoréi, teoréi tà otónia, presente al sesto versetto della pericope. Il vedere di Pietro è in verità un osservare, un guardare con molta attenzione, più che un vedere generico, superficiale, leggero - così infatti è tradotto dai dizionari di lingua greca.

Il principe degli Apostoli dopo quell’osservazione, attenta e scrupolosa della condizione dei teli, cerca di capire quello che invece Giovanni aveva già compreso: Pietro non era stato presente durante lo svolgimento della sepoltura di Gesù, ma quello che ha osservato gli è sufficiente a destargli meraviglia, stupore.

L’evangelista Luca disegna molto bene lo stato d’animo con il quale Pietro esce dal sepolcro dopo l’esperienza dell’osservare: "E tornò a casa pieno di stupore per l’accaduto" (24,12).

I tre verbi sono quindi paradigmatici di un cammino di fede, cominciato dagli Apostoli e poi comunicato a noi, in quell’esperienza che l’umanità imparerà a chiamare Chiesa; prima l’autore descrive il vedere di Giovanni con il verbo blépei, cioè un vedere appena accennato, frettoloso, incerto: comincia cioè il cammino di fede del singolo fedele.

Poi il verbo teoréi, cioè l’osservare, il meditare, il soffermarsi e se vogliamo, anche il meravigliarsi di ciò che è accaduto; è lo stadio successivo ma non ancora definitivo.

Il terzo verbo, eiden, è il vedere che porta alla fede certa, il vedere con i propri occhi, l’esperienza che porta alla certezza di ciò che si credeva precedentemente e che ora è invece evidente; in greco è espresso con il verbo epìsteusen, cioè ciò che è scientifico, certo, manifesto.

Così dunque si è immaginato nei secoli successivi l’itinerario di fede, tanto caro a molti Padri della Chiesa: dallo stadio degli incipienti a quello dei progredienti per giungere a quello definitivo dei perfetti151.

2- Giovanni, dopo avere visto, credette.

Continuando l’analisi del testo passiamo al termine bende, othónia, cioè all’oggetto del vedere dei due apostoli; dobbiamo subito dire che questo lemma ha molti significati nella lingua greca: innanzitutto è il diminutivo del sostantivo othóne e quindi significa pezza, pannilino, fascia152; ma anche tessuto, panno di lino, vela, tela, veste di lino e tunica leggera.

Il vocabolario Bonazzi153 invece traduce il sostantivo plurale othónia con fasce per avvolgere i cadaveri, a nostro avviso più aderente alla dinamica del racconto stesso; anche il Vocabolario Greco-Italiano dello Schenkl154, traduce il lemma in bende con le quali gli ebrei solevano avvolgere i cadaveri155.

Gli othónia, quindi, sono bende o fasce? Proviamo a determinare l’esatta traduzione della parola prendendo in esame il passo del vangelo di Giovanni quando descrive la risurrezione di Lazzaro, 11,44: "Il morto uscì, con i piedi e le mani avvolti in bende, e il volto coperto da un sudario. Gesù disse loro: scioglietelo e lasciatelo andare".

Il sostantivo usato qui, in greco è keiríai, cioè bende. Il testo greco, a differenza della traduzione in italiano, utilizza il verbo dedemènos, che traduce il verbo legare e non avvolgere.

Infatti grazie all’uso delle bende è stato possibile legare le mani e i piedi di Lazzaro, come la Volgata Sisto-Clementina riporta: "Et statim prodiit qui fuerat mortuus, ligatus pedes et manus".

Il versetto 44 si chiude con un interessante particolare: "il Signore comanda di sciogliere le bende dal corpo di Lazzaro e di lasciarlo quindi andare"; le fasce, infatti, non si sciolgono.

Se questa traduzione del termine greco con la parola bende va bene per Lazzaro, non è corretta per la sepoltura di Cristo: qui non siamo di fronte a bende, ma a fasce; il corpo non si può avvolgere con delle bende, ma con qualcosa di più largo, adatto inoltre al versamento dei profumi, per trattenerli contro la putrefazione del corpo (cfr Gv 20,40), e in uso quindi per le sepolture degli uccisi con spargimento di sangue, così come la ritualità giudaica prevedeva156.

In aiuto, per comprendere la relazione tra i due tipi differenti di avvolgimento dei lini sepolcrali, quelli di Lazzaro e quelli utilizzati per Gesù, ci viene il vangelo apocrifo detto dei Dodici Apostoli, o anche chiamato degli Ebioniti157.

In questo scritto non si fa riferimento alle tecniche di sepoltura riservate a Gesù; è narrato soltanto l’episodio di Tommaso che incredulo davanti al Signore risorto tocca le ferite del suo corpo.

La fonte giudeo-cristiana descrive però con minuzie di particolari i lini utilizzati per la sepoltura di Lazzaro: Gesù rivolgendosi a Tommaso gli dice: "Vieni, ti farò vedere le mani di Lazzaro, legate da fasce (bende) e involte in lenzuoli".

Infatti Lazzaro, quando viene chiamato da Gesù, esce dal sepolcro; se fosse stato avvolto completamente in una sindone non avrebbe potuto farlo: l’uso delle bende, per quanto legate intorno alle caviglie, gli permetteva la deambulazione.

Altro aspetto che dobbiamo prendere in considerazione è la terminologia particolare usata da Giovanni nel descrivere la qualità merceologica degli oggetti descritti: egli precisa e, se vogliamo, contrappone, il termine bende a quello di sudario; il sudario è comunque una tela come lo sono le bende e le fasce.

Perché allora egli ci tiene a precisare le differenze? Se infatti il corpo di Cristo fosse stato stretto da bende in alcuni punti, queste, essendo di ridotte dimensioni, avrebbero messo in evidenza la Sindone, cosa di cui Giovanni non parla.

Giovanni infatti non dice che le bende e la Sindone erano distese e il sudario no, ma fa solo riferimento alle bende, cioè alle fasce, così come abbiamo sostituito. La Sindone infatti è completamente nascosta dalle fasce e per questo non è menzionata nella riflessione che fanno i due evangelisti nel sepolcro: Giovanni, a differenza dei sinottici, non la descrive nel racconto.

Facciamo notare che in tutte e due le descrizioni, sia in quella della sepoltura, Gv 11,38-42, che in quella della tomba trovata vuota - ma gli apostoli trovano le tele, non il nulla - , Gv 20, 1-10, il testimone dei fatti e delle relative descrizioni è sempre Giovanni; questo particolare, di non secondaria importanza, mette in relazione i due racconti apparentemente separati tra loro: il ricordo dell’apostolo relativo ai due momenti, quello iniziale e quello finale, la deposizione e la risurrezione del corpo di Gesù, faranno dire a Giovanni: per questo vide e credette158.

Passiamo ad analizzare un altro termine: il verbo keímena, il participio di keímai. In latino corrisponde al verbo jaceo, cioè giacere, essere disteso. La Volgata traduce con il termine posita, dal verbo ponere cioè mettere giù.

Come è facilmente intuibile le fasce non sono per terra così come è tradotto in lingua italiana, ma distese, cioè non cambiano luogo dalla posizione iniziale, si afflosciano soltanto su se stesse, senza manomissioni, senza che siano svolte.

Ciò che aveva scorto Giovanni diviene per Pietro e lo stesso Giovanni, certezza: le fasce si sono adagiate su se stesse, determinando l’osservazione e la contemplazione del principe degli Apostoli.

E siamo giunti finalmente al sudario, altro oggetto importante per la nostra ricerca e ricostruzione del testo.

Il versetto 7 così comincia: kaì tò sudárion, "e il sudario". Il sudario, come si vede nel racconto di Lazzaro, veniva usato per asciugare il viso appunto dal sudore, poco usato però, quanto ad impiego, nel rito funerario ebraico.

Nel Nuovo Testamento il termine greco soudárion è usato quattro volte: due nel vangelo di Giovanni, Gv 11,44, la risurrezione di Lazzaro, e in Gv 20,2, la risurrezione di Gesù; una sola volta nel vangelo di Luca, 19,20, nota come la parabola delle mine o dei talenti, e negli Atti degli Apostoli, 19,12.

La Bibbia di Gerusalemme riporta per la risurrezione di Gesù la traduzione di soudárion in sudario, nei tre passi citati, con il termine fazzoletto. Perché? Il sudario infatti era un fazzoletto, non un telo per l’uso funerario.

Non si deve fare confusione tra sudario e sindone, cioè tra fazzoletto e panno mortuario, equivoco non del tutto sventato soprattutto tra molti esegeti e storici, i quali hanno anche immaginato una similitudine tra i due termini.

Il sudario è un fazzolettone di tela di forma quadrata o rettangolare, più o meno di 60-80 centimetri per lato; la Sindone è un lenzuolo funerario di dimensioni molto più ampie, tali da contenere frontalmente e dorsalmente un corpo umano. Se Giovanni non parla della sindone è perché non la vede in quanto è completamente avvolta dalle fasce, forse tre, e dal sudario posto esternamente sul capo.

Il versetto infatti prosegue: "che gli era stato posto sul capo". Giuseppe di Arimatea ha fasciato il corpo di Cristo fino al collo, sul capo poi ha messo il sudario, forse per non lasciare gli unguenti esposti all’aria senza protezione; naturalmente il sudario aveva la stessa funzione delle fasce e cioè quella di avvolgere il capo di Cristo già avvolto dalla Sindone così come tutto il corpo159.

I sinottici parlano di un totale avvolgimento, corpo e capo, Giovanni invece dice che al di sopra della Sindone c’era il sudario che avvolgeva il capo.

Infatti egli utilizza il verbo avvolgere, entylísso, usato anche da Matteo e Luca per indicare l’atto dell’avvolgere la Sindone intorno al corpo di Cristo; l’Apostolo infatti esprime letteralmente "che era sul capo di lui", rafforzando il luogo e la posizione del sudario.

Alcuni esegeti ritengono che il sudario in oggetto menzionato da Giovanni fosse quello interno, la mentoniera; questa dall’interno, a risurrezione avvenuta, avrebbe contribuito alla sollevazione di quella parte del lino che avvolgeva il capo, mentre tutto il resto era afflosciato; ma Giovanni a nostro parere non poteva descrivere un oggetto che non vedeva, quindi siamo certi che il sudario era posto esternamente alla Sindone stessa.

Come era posizionato il sudario? La CEI traduce "non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte". Il testo greco non dice che le fasce si trovavano per terra, ma soltanto che il sudario non era disteso con le fasce: il participio è stato erroneamente tradotto con piegato invece che con avvolto, facendolo derivare dal sostantivo entyle; questo termine corrisponde alla parola coperta, e questa, è noto, serve per avvolgere; il Rocci traduce il termine con avvolgere, involgere, ravvolgere.

Per quanto riguarda l’avverbio korìs, questo è tradotto separatamente, in disparte: infatti in latino è detto sed separatim involutum, cioè "ma separatamente avvolto", oltre che differentemente, al contrario. Poiché Giovanni vuole descrivere l’opposizione, è bene tradurre con al contrario, rafforzato dal fatto che l’avverbio è posto tra l’avversativo e il verbo: non disteso ma al contrario avvolto. È messa in evidenza la differente posizione delle tele, ma non il luogo differente.

Infatti rispetto al luogo così la pericope prosegue: eis héna tópon, in un luogo; anche qui si sono formate due scuole: quelli che traducono nello stesso luogo, esattamente al suo posto, nella medesima posizione, e quelli che traducono invece, a nostro parere forzando il testo originale, in un luogo a parte, in un altro posto.

Quando Pietro negli Atti 12,17 dice che "uscì e si incamminò verso un altro luogo", l’autore utilizza il termine héteron per indicare il lemma altro; perché dunque qui non ha usato lo stesso termine: eis héteron tópon? La Volgata infatti traduce il passo degli Atti: In alium locum.

L’aggettivo numerale heîs, sorretto dalla preposizione eis, prende il significato di stesso, medesimo. Infatti sempre la Volgata traduce con in unum locum, cioè nella stessa posizione, nello stesso luogo160.

Il sudario dunque sarebbe rimasto nella medesima posizione, o nello stesso luogo, mentre le fasce avevano cambiato posizione perché distese.

Giovanni infatti non nomina nessun altro luogo certo, non dicendo chiaramente dove fosse posizionato il sudario; ciò significa che rimane nello stesso posto di quello iniziale e non altrove; il sostantivo topos infatti è tradotto dal Rocci con il termine luogo ma anche posizione.

Soffermandoci ancora una volta sul numerale heis, notiamo che altri numerali quali mìa e hèn sono tradotti dal Bonazzi con il termine unico: il sudario, al contrario delle fasce, era avvolto in una posizione unica, nel senso di singolare, eccezionale, irripetibile; invece di essere disteso sulla pietra sepolcrale con le fasce, era rialzato ed avvolto; una sfida alla legge di gravità161.

Pietro dunque vede le fasce distese sulla pietra sepolcrale senza effrazioni o manomissioni; il sudario, al contrario, come se ancora avvolgesse il capo di Cristo, probabilmente anche per l’improvviso asciugarsi degli aromi dovuto all’effetto della risurrezione; Luca infatti tratteggia lo stato d’animo dell’Apostolo dopo l’esperienza straordinaria avvenuta nel sepolcro: "e se ne tornò meravigliandosi tra sé per l’accaduto" (Lc 24,12).

Se a questo aggiungessimo anche l’ulteriore concordanza tra il racconto evangelico della crocifissione e la relativa posizione del capo - lievemente spostata in avanti rispetto al corpo - con l’immagine del corpo impressa sulla Sindone, il disegno diventerebbe completo. La distanza che riscontriamo sul Telo sindonico tra la rima buccale e l’articolazione sternoclavicolare è ridotta perchè il corpo esanime di Gesù crocifisso si trovava già nello stato del rigor mortis. Le coincidenze, come si nota, sono veramente molte.

Dopo l’esame al radiocarbonio del 1988 la Sindone fu datata in un intervallo di tempo compreso tra il 1260 e il 1390 d.C.; sappiamo però che la datazione medievale non è stata confermata, perché errata: non si è tenuto conto, da un punto di vista metodologico, delle norme di pulitura dei campioni analizzati.

Sull’antichità e sull’autenticità della Sindone sono intervenute oltre trenta scienze, le quali, quasi all’unanimità, concordano sul fatto che il Telo di Torino è il lenzuolo che ha avvolto il corpo di Cristo: le fonti liturgiche e storiche, l’esegesi, la filologia, l’iconografia, la palinologia, la numismatica, la merceologia, l’informatica, la sfragistica, la medicina, la fotografia, ecc.

E allora, come si è formata l’immagine giallognola, raffigurante il corpo di un uomo martoriato, sulla Sacra Sindone - così come i racconti della Passione ci descrivono della persona di Gesù - di cui la scienza a tutt’oggi non riesce a comprendere la natura, tanto meno a riprodurla?

Possiamo tentare una risposta, naturalmente coraggiosa, ma non fantasiosa: la causa dell’impressione dell’immagine del corpo di Cristo sul Lenzuolo è da ricercarsi intorno all’avvenuta risurrezione del corpo del Signore; un’esplosione di energia, di luce e di calore, forte e delicata nello stesso momento, che ha lasciato sul Telo l’orma santa di Dio162.

Concludiamo con una traduzione del vangelo di Giovanni più confacente ai termini greci dell’originale e che ci aiuta a mettere in relazione la Sindone di Torino con i teli trovati dagli apostoli nel sepolcro gerosolimitano, quella mattina di primavera del 9 aprile dell’anno 30 d.C.

"Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi per dare una sbirciata, vide le fasce distendersi, ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva, entrò nel sepolcro e osservò attentamente le fasce giacenti, distese e il sudario che era stato posto sul capo, non disteso come le fasce, ma differentemente ancora avvolto allo stesso posto. Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette".

Citiamo un Salmo che racchiude in poche parole quanto detto fin qui, a sottolineare sia la misericordia di Dio nei confronti degli uomini che la sua ostinata fedeltà a non abbandonare l’uomo in nessuno dei suoi stati di infermità; è il 111 (110), che ai versetti 4-5 così recita: "Ha lasciato un ricordo dei suoi prodigi: pietà e tenerezza è il Signore. Egli dà il cibo a chi lo teme, si ricorda sempre della sua alleanza".

La Sacra Sindone in definitiva è il ricordo che Cristo ha lasciato di sé all’umanità, perché continuasse la sua Presenza tra gli uomini, non solo in modo autorevole e ordinario nella Chiesa e nei sacramenti, ma anche in una immagine, lui che è l’immagine del Padre e l’Emmanuele, il Dio-con-noi.

Note del VI Capitolo

146 Cfr Discorso di Giovanni Paolo II in occasione della visita a Torino, nel 1980.

147 La fonte presa in considerazione è il Nuovo Testamento. Greco e Italiano, a cura di A. MERK e G. BARBAGLIO, Bologna 1993.

148 Cfr GINO ZANINOTTO, Giovanni 20, 1-8. Giovanni testimone oculare della risurrezione di Gesù?, <Sindon>, n. s. 1 (1989), p. 151.

149 Cfr UMBERTO FASOLA, Studi e scoperte archeologiche relative alla Sindone, Atti del II Convegno Nazionale di Sindonologia, Bologna 1981.

150 Cfr GAETANO INTRIGILLO, Indagine nel sepolcro vuoto. "Venite a vedere il luogo dove era deposto", p. 19-23, Udine 1996 ; PERSILI, Sulle tracce del Cristo risorto. Con Pietro e Giovanni testimoni oculari, p 144-145, Tivoli 1988; Cfr ZANINOTTO, Giovanni.

151 Cfr ZANINOTTO, Giovanni, p.151-152.

152 Cfr GHIBERTI, La sepoltura, p. 38-47.

153 Cfr B. BONAZZI, Dizionario Greco-Italiano, Napoli 1907; L. ROCCI, Vocabolario Greco-Italiano, Roma 1979.

154 Cfr C. SCHENKL, Vocabolario Greco-Italiano, Vienna 1964.

155 Cfr PERSILI, Sulle tracce, p. 141.

156 Cfr il Codice della Legge giudaica Kitzur Shulchan Aruk, in BONNIE B. LAVOIE et al., The body of Jesus was not washed according to the Jewish burial custom, <Sindon> XXIII (1981), q. 30, p. 19-29.

157 Sono una setta giudeo-cristiana di stretta osservanza della legge mosaica i quali ritenevano che Gesù fosse semplicemente un profeta. Il termine ebionita in lingua ebraica significa povero.

158 Cfr INTRIGILLO, p. 14-16.

159 Cfr ZANINOTTO, p. 155-156.

160 Cfr PERSILI, Sulle tracce, p. 149-152.

161 Il professor GRAMAGLIA ritiene, invece, che tutte le versioni siriache del quarto Vangelo intendevano che i panni funerari di Gesù sono dei teli che avvolgevano il corpo legandolo e fasciandolo. Non si tratterebbe dunque di un lungo lenzuolo posto sotto il cadavere e ripiegato all’altezza della testa per ricoprirlo sulla parte superiore. Cfr dell’autore, I panni funerari nella tomba di Gesù (Gv 20, 1-10), <Approfondimento Sindone>, Anno II, vol. 2 (1988), p. 49-72.

162 Sul complesso rapporto tra scienza e fede e la controversia tra i concetti di "reliquia" o "icona", cfr BRUNO MAGGIONI, Sulla Sindone, in <La Rivista del clero italiano>, gennaio 1989, p. 1-4.