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Alcuni esegeti hanno affermato che la sepoltura di Cristo con il corpo insanguinato è da ascriversi alla fretta perché sopraggiunta la Pasqua, motivo sufficiente per avvolgere il corpo senza le prescrizioni rituali in uso.

Vedremo nel capitolo dedicato alla sepoltura giudaica come questa tesi sia errata: il tempo che Giuseppe di Arimatea e Nicodemo hanno avuto per onorare la sepoltura di Gesù è stato più che sufficiente.

Infatti la sepoltura che hanno operato sul corpo di Gesù è in perfetta linea con le procedure precettistiche: non dimentichiamo che i due giudei erano componenti del Sinedrio, la massima istituzione presente in Israele quanto ad ortodossia e soprattutto ad ortoprassia.

Questo secondo documento, l’apocrifo di Pietro, non prova dunque la relazione tra il contenuto del testo e la Sindone di Torino, ma è senz’altro una pista importante per rintracciare elementi, sia pur minimi, della presenza dei teli funerari di Cristo all’interno dei racconti, prima orali e poi scritti, delle comunità cristiane primitive.

Il Ciclo di Pilato, redatto in testo greco, è in buona parte una sorta di accusa verso i giudei per la condanna a morte di Gesù e la sollevazione delle responsabilità di Pilato che, in alcuni documenti, lo si fa anche convertire al cristianesimo facendolo divenire addirittura martire e santo23 .

Interessanti sono i racconti riportati nell’apocrifo riguardanti l’interrogatorio del procuratore romano Pilato alle guardie del sepolcro di Cristo e l’arresto di Giuseppe di Arimatea, prima imprigionato dai Giudei per aver dato sepoltura al Signore, e poi liberato dal Cristo risorto e condotto quindi al sepolcro. Qui Giuseppe vede i teli distesi e soltanto allora comprende con chiarezza chi fosse il suo Liberatore24 .

Un altro brano, utile al nostro scopo, è tratto dal Ciclo di Pilato, nel capitolo morte di Pilato al paragrafo 2, nel quale viene riportato il dialogo tra il messo di Tiberio Cesare, l’imperatore e la Veronica: la storia è molto simile a quella che si svilupperà anche in Siria con la leggenda del re Abgar.

Quello che però è importante sottolineare è la risposta della Veronica al messo imperiale Volusiano quando le chiese informazioni su Gesù, il Dottore che guariva la infermità con l’uso della sola parola: "quando il mio Signore andava in giro predicando, poiché io soffrivo troppo a rimanere privata della sua presenza, volli farmene dipingere il ritratto, di modo che, quando fossi priva della sua persona, mi offrisse almeno conforto la vista della sua immagine. Ma mentre portavo una tela ad un pittore, perché la dipingesse, il mio Signore mi venne incontro e mi domandò dove andavo. Io gli confessai il motivo per cui mi ero messa in cammino ed egli allora mi chiese il panno e me lo restituì segnato dall’impronta del suo venerabile volto"25.

Il racconto prosegue con il viaggio della Veronica a Roma e la condanna a morte di Pilato, il quale, sentendo la notizia, ovvero il comando dalla bocca dell’imperatore di morire di morte infamante così come egli aveva fatto con Gesù, si uccise con il suo stesso pugnale.

Questa ulteriore fonte, sia pur fantasiosa, non solo per il racconto in sé, ma anche per i personaggi intervenuti - ricordiamo che la Veronica non è un personaggio ritenuto storico, del resto il suo stesso nome, vera icona, lo fa immaginare - ci fornisce prove in merito a tradizioni di immagini, di teli, di sudari raffiguranti il volto di Cristo che se non hanno dirette implicanze con la Sindone di Torino, fanno però riflettere sulla provenienza di tali tradizioni.

Anche il Vangelo di Gamaliele, apocrifo etiopico del IV-V secolo d.C. parla dei lini sepolcrali di Gesù, ma con un altro epilogo: i teli a motivo del litigio tra Erode e Pilato sono elevati in cielo26.

Il Medio Oriente dunque è l’area geografica dalla quale ci pervengono le prime notizie riguardanti la presenza del telo sindonico in età antica.

Dobbiamo però dire che l’oggetto da noi chiamato almeno da settecento anni con il termine Sindone, nel corso dei secoli ha avuto diversi lemmi: uno di questi è stato senz’altro quello di immagine di Edessa; infatti la città che fa convergere più testimonianze sulla presenza di una immagine non fatta da mano d’uomo, in greco detta achiropita27, è appunto l’antica città anatolica, oggi chiamata Urfa, centro importante della attuale Turchia meridionale.

Importanti storici, tra cui Ian Wilson, hanno sostenuto tale tesi, avvalorata sempre più dal contributo di altre scienze sindonologiche le quali ormai, quasi all’unanimità, si esprimono per l’antichità e l’autenticità del Telo, rafforzando sempre più l’identificazione del Mandylion di Edessa con la Sindone di Torino28.

La Sindone e i teli custoditi inizialmente dagli Apostoli, dai discepoli e dalla primitiva comunità cristiana, dopo l’ultimazione delle persecuzioni da parte di Roma potrebbe essere venuta alla luce insieme ai cristiani stessi usciti anch’essi dalle catacombe.

Naturalmente per le ragioni che vedremo - di natura teologica, storica, linguistica e liturgica -, la sindone ha avuto nel corso dei secoli differenti significati29, sia durante la permanenza in Oriente che in quella d’Occidente: i teli del sepolcro, l’immagine di Edessa, il Mandylion, la Sindone.

Fatta questa doverosa parentesi possiamo ritornare ad occuparci dell’immagine di Edessa: la tradizione dell’immagine non fatta da mano d’uomo, così come fra poco vedremo, è molto antica.

È una tradizione che sintetizza la confluenza di diverse redazioni, sia popolari che storiche, le quali presentano una poliedricità di contenuti, apparentemente in contraddizione tra loro.

È nel corso del II secolo d.C. che l’immagine viene trasferita probabilmente da Gerusalemme alla città di Edessa, ma, per comprendere bene i passaggi di tali spostamenti, è bene far parlare le fonti.

Innanzitutto cominciamo dalla Storia Ecclesiastica scritta da Eusebio di Cesarea nel 325 d.C., nella quale si narra che il re di Edessa dell’epoca di Cristo, Abgar V, detto Oukhama il nero, vissuto tra il 9 a.C. e il 46 d.C., chiese aiuto al Signore perché gravemente malato; egli infatti, avendo saputo dell’esistenza di un certo Gesù di Nazareth, chiamato il Cristo, operatore di miracoli e guarigioni, mandò in Palestina un suo inviato per chiedergli la grazia di visitarlo.

Gesù però, pur declinando l’invito, non rimandò a mani vuote il messo, ma gli diede una lettera da far recapitare al re Abgar. Il contenuto dell’epistola però è trattato da altre fonti, citate successivamente in questo stesso capitolo.

È da evidenziare il fatto che Eusebio non parla di un ritratto, di una immagine, ma di una lettera, forse per la sua nota avversione al culto delle immagini; ma su questo aspetto del problema iconoclastico torneremo ancora.

Anche il vescovo di Gerusalemme Cirillo, in una delle sue Catechesi Mistagogiche, composte nel 355, fa riferimento, in una omelia pasquale, al lenzuolo funebre di Cristo quale fatto probante della avvenuta resurrezione del Signore: "Vera la morte di Cristo, vera la separazione della sua anima dal suo corpo, vera anche la sepoltura del suo santo corpo avvolto in un candido lenzuolo"30.

Ma ancora più efficace è la descrizione che il vescovo gerosolimitano fa durante un’altra omelia, tenuta nel 348 durante una celebrazione eucaristica nella nuova chiesa del Santo Sepolcro, dove concretamente i cristiani appena usciti dalla clandestinità - e per questo potevano ostendere le proprie reliquie compreso il compromettente lenzuolo funerario di Cristo - potevano osservare il luogo del sepolcro e la pietra sepolcrale adagiata lì in mezzo a loro: "Molti sono i testimoni della risurrezione... la roccia del sepolcro, che accolse Cristo, e la pietra che resisterà in faccia ai giudei; questa, infatti, ha visto il Signore, pietra che allora fu rovesciata e rende testimonianza della risurrezione giacendo fino al giorno d’oggi; gli angeli di Dio, presenti, che fecero testimonianza per la risurrezione dell’Unigenito; Pietro, Giovanni e Tommaso, insieme agli altri Apostoli, dei quali alcuni accorsero al sepolcro; i lini della sepoltura, coi quali fu prima avvolto, che videro giacere dopo la risurrezione; altri palparono le sue mani e i suoi piedi e contemplarono i segni dei chiodi; e le fasce sepolcrali e il sudario che lasciò risorgendo... Lo stesso luogo, ancora sotto i nostri occhi, e questa Basilica edificata dall’imperatore Costantino, di felice memoria, spinto dall’amore di Cristo, che ammiri così ornata"31.

Noto è anche il contributo della pellegrina e monaca Eteria, donna che veniva a piedi dall’Occidente, la quale in visita a Edessa nel 384, nel suo famoso Diario, annota che il vescovo della città, facendole visitare i luoghi più importanti, la conduce anche alla porta cosiddetta dei Bastioni, attraverso la quale, secoli prima, secondo la leggenda, era entrato l’archivista del re Hannan con in mano la lettera di Gesù.

Eteria, a differenza di altre fonti - esclusa quella di Eusebio - non fa alcun cenno a immagini, forse per l’impossibilità, da parte delle comunità cristiane, ad ostendere immagini sacre, perché interessate da persecuzioni locali32.

Sant’Epifanio di Salamis o Salaminia (315-403), nel 393, nell’Epistola indirizzata al vescovo di Gerusalemme Giovanni, gli comunica che in un pellegrinaggio verso la località di Bethel, a quindici chilometri a nord della città santa, trovò appesa all’ingresso di una piccola chiesa di Anablathà l’immagine di Cristo su un velo.

Lo stesso san Gerolamo (+ 420) nel De Viris illustribus o anche chiamato De scriptoribus ecclesiasticis, fonte del 428, fa un riferimento esplicito alla Sindone citando il vangelo degli ebrei: "Il Signore avendo dato il telo funebre (sindinem) al servo del sacerdote, andò da Giacomo e gli apparve"33.

Un’altra tradizione è invece fondata sulla Dottrina di Addai, - forse una deformazione del nome dell’apostolo Giuda Taddeo -, la quale sarebbe stata collocata tra la fine del IV secolo e la metà del VI, epoca dell’assedio della città di Edessa per mano del re persiano Cosroe avvenuto nel 544 d.C34.

Il documento, di composizione siriaca, racconta che il re Abgar inviò il suo archivista e pittore Hannan da Gesù; questi fece ritorno ad Edessa con un’immagine del Cristo dipinta da lui stesso e con una lettera nella quale veniva promessa, da parte del Messia, l’incolumità della città contro l’assedio dei nemici, incolumità che manca nel contenuto della lettera riportato da Eusebio di Cesarea e per questo più breve oltre che più antica; lo storico di Cesarea, inoltre, non fa alcun riferimento all’immagine di Gesù.

Durante l’assedio persiano alla città nel 544, fu trovato, da parte dell’esercito di Edessa, un pezzo di stoffa all’interno del muro che sovrasta la porta dei Bastioni, sulla quale era raffigurata un’immagine detta miracolosa e non fatta da mano d’uomo; si pensava fosse il volto di Cristo.

Da qui il potere dato alla stoffa di aver contribuito a respingere gli assalitori persiani: è la tradizione che fa di quest’immagine il palladio della città35.

Nel 525 il fiume Daisan inonda la città di Edessa : a darci memoria di tale sciagura è Procopio di Cesarea (527-565), importante storico bizantino, nell’opera La guerra dei Persiani, nel capitolo II.

Nel racconto però Procopio non fa alcun riferimento all’immagine sacra, pur descrivendo l’avvenuto fallimento dell’assalto da parte del re Cosroe: questo è stato sventato, a suo dire, dietro compenso da parte del governo edesseno al re persiano, ottenendo così anche la relativa promessa di non ri-aggressione; nessun cenno alla difesa della città dato dal potere della stoffa miracolosa.

Questo silenzio sull’immagine del volto di Cristo impressa sulla stoffa in qualità di palladio della città, metterebbe in discussione la veridicità del racconto di Evagrio lo Scolastico, il quale ha riportato, all’incirca mezzo secolo dopo Procopio, lo stesso evento storico; oppure pone le basi per la dimostrazione che il contenuto della lettera sia stato alterato cioè modificato nella seconda parte, quella che riguarda appunto la promessa di incolumità della città.

Come si diceva prima, in occasione dell’aggiunta posteriore fatta alla lettera di Abgar, anche qui è accaduta probabilmente la stessa cosa.

È dunque questa, una leggenda che ha voluto vedere nell’immagine non fatta da mano d’uomo anche una protezione militare per la città cappadoce36.

Molti monumenti furono danneggiati nell’occasione dell’alluvione sopraddetta e Giustiniano (527-565), il futuro imperatore della grande riforma dell’Impero, mise mano alla ristrutturazione e alla ricostruzione della città.

Tra i lavori di ripristino non fu esentata la chiesa di Santa Sofia, la ecclesia maior dei cristiani calcedonesi. È infatti in quella occasione che venne ritrovata l’immagine in oggetto.

A lavori terminati le si diede un posto nell’abside laterale di destra della Basilica, dove fu opportunamente conservata, ma per molti anni celata alla vista dei fedeli37.

Tali testimonianze sono riscontrabili in diverse fonti; ci soffermeremo soltanto su alcune di queste, le due più importanti.

Incominceremo da quella dello storico greco Evagrio lo Scolastico (fine VI secolo), chiamato così in quanto giurista, il primo a documentarci l’esistenza di quest’immagine non fatta da mano d’uomo38 per passare poi all’Inno siriaco che dà per scontata l’esistenza e la conoscenza dell’immagine di Cristo achiropita39.

Evagrio descrive nella sua Storia Ecclesiastica, (IV, 27), l’assedio avvenuto nella città di Edessa nel 544 da parte del re persiano Cosroe I Nirhirvan, sventato però dall’immagine che Cristo aveva inviato ad Abgar.

Notiamo come per Evagrio l’esistenza dell’immagine e del relativo culto è accertata ad Edessa già prima dell’assedio40; la stoffa è chiamata da lui Mandylion, anche se non si trova la parola acheiropoiètos, ma, in sua sostituzione, theoteuctos, cioè opera di Dio, non confermata però da Procopio di Cesarea, nella sua La guerra dei Persiani, II: egli si limita a riportare che la fiducia degli abitanti di Edessa si fondava sulla lettera e più precisamente sulla promessa di incolumità. Dell’immagine non dice nulla, non per questo dobbiamo necessariamente concludere che non era a conoscenza della sua esistenza.

L’Inno liturgico, invece, in un suo noto passo così recita: "Il suo marmo è simile all’immagine che-non da-mani (non fatta da mano d’uomo) e le sue pareti ne sono armoniosamente rivestite. E per il suo splendore tutto pulito e tutto bianco, esso raccoglie in sé la luce"41.

Come si nota immediatamente dalla lettura del canto siamo di fronte alla descrizione della cattedrale di Edessa e tra le bellezze della stessa enumera anche l’immagine non fatta da mano d’uomo.

Dagli scritti di Procopio di Cesarea, di Evagrio lo Scolastico e dell’Inno liturgico si evincono almeno due fatti importanti: nel VI secolo ad Edessa già si conosceva una immagine non fatta da mano d’uomo e la protezione dalla città, dalla lettera era passata all’immagine, cioè al Mandylion42.

Del VI secolo è anche il prezioso documento intitolato Acta Thaddei, un rifacimento della Dottrina di Addai, più antica di almeno due secoli: il messaggero del re Abgar doveva ritrarre il volto del Cristo in modo perfetto, ma non ci riuscì. Il Signore allora decise di aiutarlo asciugandosi il volto su di un telo: "...Anania partì e dopo aver dato la lettera guardava attentamente Cristo e non riusciva a coglierlo. Ma lui che conosce i cuori se ne accorse e chiese il necessario per lavarsi; gli fu dato un telo piegato quattro volte. Dopo essersi lavato si asciugò il volto. Poiché la sua immagine si era impressa sul telo (sindon), lo diede ad Anania incaricandolo di portare un messaggio orale al suo padrone. Questi ricevendo il proprio inviato si prosternò e venerò l’immagine; egli fu guarito allora dalla sua malattia"43.

Parte da qui la tradizione dell’immagine avvenuta mediante l’applicazione del telo sul viso.

La stoffa che ha impresso l’immagine del volto di Cristo è stata chiamata tetradiplon, cioè piegata quattro volte doppio, ma anche Mandylion, cioè fazzoletto o asciugamani in lingua greca, ma etimologicamente proveniente dall’area semita.

La formazione degli Atti di Taddeo  viene collocata tra il VII e l’VIII secolo, nel periodo cioè compreso tra l’invasione persiana e l’inizio della famosa controversia sul culto delle immagini al tempo dell’imperatore romano d’Oriente, Leone III44.

Gli Atti di Taddeo sono una fonte importante per comprendere le relazioni tra quanto descritto e la Sindone di Torino: il re Abgar incarica il messo Hannan a ritrarre l’aspetto di Cristo, la sua statura (elikìa), la capigliatura, e tutto il resto "tutte le sue membra". Quando Anania cominciò a ritrarre il volto di Gesù, questi chiese di lavarsi e gli fu dato un tetràdiplon. Quando si fu lavato, Gesù asciugò la sua persona e consegnò ad Anania l’immagine impressa sulla Sindone (en tei sindòni)45.

Taddeo l’apostolo arrivò nella città di Edessa solo dopo l’Ascensione di Gesù, dove predicò e organizzò la comunità ecclesiale. La sua permanenza nella città anatolica durò cinque anni dopo i quali partì per Beyrouth dove qualche tempo dopo morì.

È importante dire che soltanto in questo documento appare la parola greca tetràdiplon, almeno in forma non derivata.

Nelle Cronache di Agapios si fa riferimento all’immagine dipinta su una tavoletta quadrata; forte è la relazione tra il termine greco tetràdiplon e quello semita del lemma quattro o quadrato: mrb (merebà). Infatti lo stesso Pseudo-Costantino parla di Abgar che aveva fatto fissare l’immagine sopra una tavola ornata d’oro46.

Si descrive un grande rettangolo in mezzo al quale si vede la sola testa del Cristo47; il restante rettangolo invece è coperto da una griglia di losanghe, mentre ai bordi dell’immagine appaiono delle frange di tessuto. Il tessuto era quindi piegato in più parti, precisamente in otto, da qui il termine tetradiplon.

Altro elemento da mettere in evidenza continuando l’analisi della fonte greca, è quello relativo al fatto che non si parla di un dipinto, dunque dell’utilizzo di colori per produrre l’immagine impressasi sul telo, ma di un volto impresso sulla stoffa con una sostanza liquida; si pensa sia il sudore come dicono del resto anche gli Atti di Taddeo.

Altra fonte, questa volta siriaca, certamente di non secondaria importanza, è il Tractatus, del II-III secolo d.C., tradotto in latino nell’aprile del 769 dall’archiatra48 Smira in occasione del sinodo lateranense, convocato da Stefano III, Papa dal 768 al 772.

Il testo è conservato nell’Università di Leiden in Olanda, catalogato come Vossianus Latinus, un manoscritto latino del X secolo.

Secondo il Tractatus, l’impronta dell’uomo sul Mandylion è totale, frontale e dorsale: "porta impresso, oltre al viso, tutto il corpo...perché si distese sul lenzuolo".

La fonte siriaca descrive inoltre la metamorfosi dell’immagine della figura di Cristo durante l’arco della giornata di Pasqua: questa si trasformava con il mutare delle ore: "prima il Cristo appariva come infante, poi bambino, quindi adolescente ed infine adulto, nella pienezza dell’età in cui il Figlio di Dio, venendo alla Passione, sopportò il terribile supplizio della croce per il peso dei nostri peccati. Questo racconto è spesse volte messo in relazione, dagli studiosi del vangelo apocrifo Atti di Giovanni; il documento, redatto nel II secolo, descrive che il Signore appare agli Apostoli ora anziano e ora bambino"49.

Ultima fonte di questo periodo è l’Epistola del sinodo di Gerusalemme50, anch’essa di provenienza siriaca, ma di ambiente religioso melkita, è redatta in Gerusalemme durante il santo sinodo della Pasqua dell’anno 836.

La fonte gerosolimitana fornisce importanti elementi quanto alla identificazione del Mandylion qui descritto con la Sindone di Torino: "ma lo stesso Signore e Salvatore dell’universo, quando ancora conversava sulla terra, impresse su un sudario l’impronta della sua santa effige (morphè). Quando vi deterse con le sue stesse mani il sudore (hidòta) del suo volto immacolato, subito vi rimase impressa, per la sua divina potenza, l’impronta (charakter) della sua santa effige, cioè tutti i suoi tratti distintivi come mediante colori (hos en chròmasi tisi) in virtù del suo divino potere, conservando somigliantissimo il suo divino sembiante col prodigio operato sul sudario. Ciò poté avvenire per la bontà del nostro Salvatore Gesù Cristo il quale apparve in terra e conversò con gli uomini. Questo sudario, venerato e figurato, il Signore stesso Nostro Salvatore lo ha inviato per mano del santo Taddeo apostolo ad un certo Abgar, toparca della città di Edessa. Questi, come se mediante questo, fissasse al presente come in uno specchio (hos enoptrizòmenos) colui che glielo aveva inviato, compreso da estatico stupore riceve, con fede inconcussa, il santo battesimo"51.

Il documento mette in evidenza un aspetto importantissimo ed originalissimo rispetto agli altri finora qui elencati: la descrizione dell’immagine come se questa fosse in uno specchio, cioè, come diremmo noi oggi, impressa come un negativo fotografico: il verbo greco usato, enoptrìzomai, tradotto in latino intueor velut in speculo, indica una inversione dell’immagine, dal positivo al negativo.

Anche in quest’ultimo caso la relazione con l’impronta sindonica, anch’essa impressionata in negativo, credo sia evidentissima; il proiettare il nostro sguardo sul telo e vedere Cristo come se fosse in uno specchio è il segno più evidente che ci si trova davanti ad una descrizione speciale.

Il linguaggio di quel tempo poteva soltanto così definire l’effetto al negativo altrimenti indescrivibile.