00 02/08/2011 09:00

Somalia catastrofe che non ha paragoni.





Gheddo: catastrofe che non ha paragoni




C’è la crisi economica, in Italia, è vero. Ci sono troppe emergenze nel mondo ed è facile distrarsi, è vero anche questo. «Ma io mi rivolgo ai cristiani: a persone che non hanno diritto di distrarsi». Padre Piero Gheddo, missionario del Pime, nella sua vita le ha viste da vicino le «troppe emergenze» che piagano il mondo, e più volte in passato ha toccato con mano anche la miseria che annienta la Somalia.

Come tenere desta l’opinione pubblica di fronte a una tragedia che non può più aspettare?
Io faccio leva su noi cristiani, a partire da me stesso. Quando vedo situazioni apocalittiche come quella della Somalia, mi metto in gioco con la mia fede. La mia fede in Cristo che cosa vale, se non mi sento chiamato in causa di fronte a catastrofi simili? Dopo, in un secondo momento, vedremo che cosa fare, ma il primo passaggio è non restare indifferenti. Noi cristiani non siamo spettatori seduti davanti alla tivù a dire «poveretti» e poi cambiare canale: un fatto del genere chiama la mia umanità, il mio senso di fratellanza con tutti i popoli.

Che cosa è urgente che i nostri giovani capiscano?
Che noi siamo i privilegiati dell’umanità. Che tutti vorrebbero vivere come noi, in un Paese in cui sono garantiti il benessere, lo sviluppo, la libertà. Che il più povero che vive in Italia è comunque ricco di fronte alle vere carestie. Che l’abisso tra la nostra crisi economica e la Somalia che muore è spaventoso.

E non solo la Somalia: sono tante le nazioni allo stremo.
No, ai livelli della Somalia non c’è nessuno. Stiamo assistendo all’apocalisse di un popolo. Facciamo le dovute proporzioni: sarebbe come se in Italia, dove siamo 65 milioni, 25 milioni di abitanti stessero morendo denutriti. Gesù ci ha comandato «il vostro superfluo datelo ai poveri», non era un modo di dire, dobbiamo farlo, e il nostro superfluo è un’enormità. Non ci accontentiamo mai, aspiriamo ad avere sempre di più. Ecco, è dicendo queste cose che si svegliano le coscienze.

La gente ha paura che i soldi e gli aiuti non arrivino a chi ha bisogno, ma restino nelle maglie delle grandi agenzie internazionali o dei dittatori locali. In Somalia c’è il rischio shabaab, i violenti guerriglieri islamici...
Bisogna affidarsi alle persone giuste. In Somalia operano ong italiane validissime, come ad esempio "Agire", e la stessa Caritas. Sono molto ammirato da questi volontari che, non so come, sono riusciti a entrare a Mogadiscio. Hanno grande coraggio, in passato proprio in Somalia ne ho visti di torturati e uccisi. I volontari in genere sono rispettati, persino dagli shabaab, perché anche loro hanno bisogno. Il pericolo non è mai escluso, è vero, ma chi va in missione lo mette in conto. Quanto alle grandi agenzie dell’Onu, è vero che sprecano molto e pagano profumatamente i loro dipendenti in giro per il mondo, ma i tanti volontari delle ong, invece, mettono a rischio la loro vita gratuitamente o al massimo con lo stretto necessario per un rimborso spese. E ancora di più si donano i missionari.

Nei luoghi in cui il cristianesimo ha messo radici, lo sviluppo è evidente, altrove invece il cammino dei popoli è frenato.
In quasi tutti i Paesi islamici, pur ricchi di risorse, i problemi sono forti, questo è evidente. Ci sono radici culturali e religiose che bloccano lo sviluppo, e non occorre pensare ai taleban, basta guardare all’Egitto di Mubarak. A proposito di questa domanda, però, voglio tornare al discorso degli aiuti: il cristiano ha insita in sé la buona volontà di salvare l’uomo, basti vedere l’abnegazione dei missionari nel mondo e pensare che solo in Africa oggi operano settemila italiani tra preti e suore, fratelli e laici. Anche le Ong sono quasi tutte di ispirazione cristiana, e questo dimostra come la coscienza del popolo italiano sia profondamente cattolica e il forte senso di solidarietà passi in concreto attraverso la vita delle parrocchie e dei movimenti. In quest’ottica va letta la grande colletta nazionale istituita dalla Cei per il 18 settembre, quando in tutte le chiese d’Italia verranno raccolte offerte per il popolo somalo.

Una coscienza cristiana che fa parte, volenti o nolenti, delle nostre radici e che quindi si riverbera anche nella mentalità degli italiani non credenti. Non è vero?
Certamente sì, almeno finora. Perché da qualche tempo la crisi morale sta cambiando le cose, le famiglie non ci sono più, si dissolvono, i genitori non educano, e così questo patrimonio morale, prima solido, oggi è a rischio e va assolutamente recuperato: la nostra capacità di essere solidali e metterci in gioco per la vita degli altri passa proprio da qui.
Lucia Bellaspiga


fonte: Avvenire

Come contribuire:
La carestia del Corno d’Africa e l’afflusso di profughi in Kenya sono una sfida per la Chiesa africana.
«Soprattutto sono una opportunità – spiega il cardinale John Njue, arcivescovo di Nairobi – per mostrare la nostra vicinanza ai sofferenti. Non lasciamo le responsabilità ai governi, dobbiamo stendere la mano e condividere il poco che abbiamo».

Njue ieri era a Roma per incontrare i vertici di Caritas italiana e definire una operazione umanitaria con la rete Caritas internazionale di 20 milioni di euro.

Caritas Kenya sta intanto distribuendo generi di prima necessità alle centinaia di migliaia di profughi ammassati dentro e fuori il megacampo di Dadaab. «La situazione è preoccupante – conferma il presidente della Conferenza episcopale kenyana– perché dai Paesi vicini stanno arrivando molte persone. Tramite la Caritas abbiamo lanciato una raccolta fondi».

Intanto prosegue la raccolta di offerte di C
aritas italiana a sostegno degli interventi.
Si possono inviare al conto corrente postale 347013
specificando la causale “Carestia Corno d’Africa 2011”.


Oppure sui conti bancari:
UniCredit, via Taranto 49, Roma - Iban: IT 88 U 02008 05206 000011063119
Banca Prossima, via Aurelia 796, Roma - Iban: IT 06 A 03359 01600 100000012474
Intesa Sanpaolo, via Aurelia 396/A, Roma - Iban: IT 95 M 03069 05098 100000005384
Banca Popolare Etica, via Parigi 17, Roma - Iban: IT 29 U 05018 03200 000000011113

E infine con CartaSi e Diners telefonando allo 06 66177001 in orario d’ufficio.


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L'arcivescovo Antonio Maria Vegliò sulla drammatica situazione nei Paesi del Corno d'Africa

Disumano restare indifferenti

La responsabilità di tutti per trovare una soluzione efficace e rapida alla crisi

 

di MARIO PONZI

"Non c'è peggior sordo di chi non voglia ascoltare e non c'è peggior cieco di chi non voglia vedere". Tornano d'attualità le parole di questi antichi proverbi della saggezza popolare, dinnanzi alle troppe esitazioni della comunità internazionale nell'intervenire efficacemente per risolvere la drammatica situazione nei Paesi del Corno d'Africa, denunciata dall'arcivescovo Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, in questa intervista al nostro giornale. Si sta agendo troppo tardi, dice, e non c'è nessuno che dia l'impressione di "voler veramente entrare nella situazione" per cercare una soluzione. "Anche gli aiuti umanitari finiscono troppo spesso nella rete della lotta intestina che insanguina il Paese e non giungono alla popolazione bisognosa". Più che mai urgente appare una responsabile "mediazione internazionale".

Una mediazione che il Papa ha invocato domenica scorsa all'Angelus, ricordando che il Vangelo vieta l'indifferenza davanti a chi ha fame e sete. Può inquadrare queste parole nella realtà della situazione in quei Paesi?


Il Vangelo con i suoi insegnamenti è sempre connesso con gli eventi della società. L'indifferenza è assolutamente contraria ai principi del Vangelo, che ci chiede di seguire l'esempio e gli insegnamenti di Gesù Cristo, che invita a praticare la giustizia e amare la pietà. Il dramma della Somalia è davanti agli occhi di tutti. Per mesi la comunità internazionale - e di fatto chiunque seguisse la situazione - sapeva ciò che sarebbe poi accaduto, cioè che l'avvento di una diffusa carestia avrebbe causato gravi danni alle famiglie, il venti per cento delle quali oggi si trova a dover affrontare un'estrema riduzione dei beni alimentari, con livelli di acuta malnutrizione superiori al trenta per cento. Un dramma in cui l'indice di mortalità è di oltre due persone al giorno ogni diecimila. E la maggior parte sono bambini. Anche prima della carestia, la situazione era drammatica per quelli sotto i cinque anni nei campi di rifugiati, per via del nutrimento insufficiente, al di sopra del livello di emergenza.

Sta dicendo che tutto era prevedibile, dunque evitabile o almento contenibile nei suoi effetti?


Per rispondere a questa domanda cito quanto ebbe a dire la responsabile della Fao per le operazioni di emergenza in Africa, la signora Amaral, informata della crisi causata dalla siccità in quella regione fin dal mese di novembre 2010, dopo la mancata stagione delle piogge. Nel momento in cui le Nazioni Unite dichiararono ufficialmente lo stato di carestia per il Corno d'Africa disse: "Quando al giorno d'oggi, nel ventunesimo secolo, viene dichiarata una situazione di carestia, dovremmo considerarlo immorale". Non basta che i Paesi donatori diano soldi per un aiuto immediato quando il dramma è ormai esploso. C'è bisogno di un investimento a lungo termine per aiutare gli agricoltori a resistere alla siccità. Esiste l'obbligo morale di assistere coloro che non possono più prendersi cura di sé, siano essi a Roma, dove incontriamo i senzatetto, o più lontano in Somalia, in Etiopia o in Kenya.

Cosa può fare la comunità internazionale, secondo lei?


Intanto impegnarsi per fare tornare la pace in Somalia. È una questione imprescindibile, anche per far sì che gli aiuti umanitari servano realmente al sostegno della popolazione. E poi impegnarsi in un'opera di maggiore solidarietà. I rifugiati residenti da tempo nei campi di Dadaab, in Kenya, per esempio, aiutano con il poco che hanno, incoraggiati a condividere: "Se hai due magliette danne una. Se hai due paia di scarpe danne uno". Tale esempio e il passaparola hanno ispirato la diaspora somala che ha spinto i commercianti emigrati a Nairobi e la comunità dei rifugiati negli Stati Uniti ad aprire una raccolta di fondi. Inoltre, le comunità dei rifugiati della Somalia nel mondo intero si stanno attivando per far giungere altri aiuti.

Ritiene sufficiente l'impegno messo in campo dalla comunità internazionale, considerando, soprattutto per la situazione in Somalia, che esiste quella sorta di economia parallela che si sviluppa proprio intorno agli aiuti umanitari in un Paese dominato dai clan?


Certamente si sta agendo tardi, forse troppo tardi. Purtroppo questo è legato alla storia complicata della Somalia. Per tanti anni questo Paese è rimasto senza Governo. Molti tentativi sono stati fatti per portare la pace, almeno tredici anche molto seri. Il Governo ad interim pare non funzioni e diversi gruppi islamici continuano a combattere con ulteriori violenze e spargimento di sangue. Ricordiamo che nel 1991 molti aiuti alimentari furono saccheggiati da diverse fazioni militari. Non possiamo neanche dimenticare gli eventi traumatici del 1993, quando i corpi dei soldati furono trascinati per le vie di Mogadiscio. Questi fatti sono sufficienti per capire il motivo per cui nessuno voglia veramente entrare nella situazione.

Anche nella pastorale i problemi non mancano. Soprattutto i giovani preoccupano. Del resto, proprio in Somalia, la nuova generazione è maturata in un costante situazione di guerra civile. Cosa si può fare per aiutarli a capire che per realizzarsi non serve imbracciare un mitra?


Questa è una domanda alla quale dare una risposta è molto difficile. So che in diverse diocesi (come per esempio nella Repubblica Democratica del Congo, in Sierra Leone e Liberia) sono stati organizzati corsi di integrazione per i giovani ex combattenti prima di reinserirli nella società e nella propria famiglia. Una delle fasi principali di questo cammino è la riconciliazione. Questo facilita l'integrazione. Inoltre, viene offerta loro la possibilità di andare a scuola o di ricevere una formazione professionale. Purtroppo - ribadisco - tutto ciò si è realizzato solo dopo i conflitti. A volte sono i più giovani a decidere di scappare verso altre realtà o a lasciare il proprio Paese richiedendo asilo. Per evitare che siano reclutati con la forza, si potrebbe cominciare a fare in modo che quelle persone che cercano di arruolarli siano fermate e perseguite penalmente. Lo consente il Protocollo Opzionale alla Convenzione sui diritti del fanciullo, sul coinvolgimento dei minori nei conflitti armati. Esso vieta la partecipazione diretta di bambini e adolescenti sotto i diciotto anni nelle guerre. C'è poi da considerare il fatto che i giovani si uniscono ai gruppi armati per sopravvivere dal momento che la famiglia e le strutture sociali ed economiche sono crollate.

Come aiutarli?


L'unica possibilità è quella di dar loro una speranza. E poi favorire lo sviluppo. Lo sviluppo è un'altra parola per la pace. C'è piuttosto da chiedersi fino a che punto la comunità internazionale sia veramente pronta a intervenire in situazioni complicate come in Somalia.

La situazione porta naturalmente molti a scegliere la fuga. E così inizia il confronto con un altro dramma. Come giudica la discriminazione che tante volte si manifesta in Europa nell'accoglienza di profughi dell'Africa subsahariana piuttosto che nei confronti di quelli dell'Africa del Nord?


Effettivamente non si può negare che un atteggiamento di maggior chiusura si è creato nei confronti dei richiedenti asilo, dei rifugiati e dei migranti. Questo contraddice l'atteggiamento che l'Europa aveva mostrato per decenni dopo la seconda guerra mondiale, quando centinaia di migliaia di profughi furono ammessi e integrati nella società. Durante quel tempo, soluzioni innovative erano state sviluppate e messe in atto. L'idea era di dare una speranza e un futuro ai rifugiati, facendoli uscire dai campi profughi. Possiamo anche ricordare che in un altro periodo della storia europea, negli anni Trenta, i profughi tedeschi non vennero accolti. Infatti, come in una partita di ping pong, nessun Paese era disposto a ospitarli. Poiché non si fornì alcuna soluzione, essi dovettero sopravvivere facendo ogni tipo di lavoro, senza avere i documenti necessari. Ciò portò, nel 1935, alle dimissioni di MacDonald, alto commissario per i rifugiati provenienti dalla Germania. L'Europa dovrebbe prendere atto che la propria società sta invecchiando e riconoscere di conseguenza che c'è bisogno di manodopera. L'insediamento dei rifugiati potrebbe essere una delle possibilità per dare nuovi stimoli ed energia alla collettività. L'Unione europea dovrebbe sviluppare opportunità per i rifugiati che sono un bene per i diversi Paesi. Al tempo stesso, fornirebbe risposte concrete ai bisogni di tanti che nei campi profughi rimangono anche dai cinque ai venti anni. Lì il tempo sembra essersi fermato, in spazi molto ridotti e senza potersi valere di alcun diritto, come quello al lavoro. Le iniziative dell'Unione europea darebbero loro speranze e opportunità, una sorta di salva-vita per il futuro dell'individuo e delle famiglie. La loro situazione e il loro arrivo nei Paesi di destinazione sono più volte strumentalizzati da diversi gruppi, anche politici, nella società. Il razzismo e la discriminazione sono sempre un ostacolo alle buone relazioni tra le persone e le nazioni, e molte volte generano conflitti interni e internazionali.

Per concludere, quali iniziative intende prendere il suo dicastero per aiutare le popolazioni del Corno d'Africa?


Il nostro Pontificio Consiglio segue con attenzione l'impegno delle Chiese locali nell'adempimento del compito pastorale. Altri dicasteri si occupano delle emergenze. Il Pontificio Consiglio Cor Unum si è fatto latore del sostegno del Papa. La Chiesa locale e diverse organizzazioni cattoliche sono attive per aiutare quanti hanno urgente bisogno di assistenza nel tempo breve, con una prospettiva a lungo termine. La fase di emergenza dovrà continuare per un certo tempo, dato che nei prossimi mesi si prevede un ulteriore deterioramento della situazione in Somalia, Kenya ed Etiopia. Bisogna prendere atto che in tutto il mondo vi sono situazioni di necessità, di fronte alle quali ci si sente impotenti per il fatto di non essere in grado di intervenire adeguatamente. Data la drammaticità della situazione occorrerebbe non meno di un miliardo di dollari solo per l'emergenza. Questo ci fa sentire non all'altezza. Bisogna comunque offrire solidarietà per non far morire di fame interi popoli. Non si può quindi rimanere indifferenti di fronte a questi eventi scioccanti. Si può salvare la vita di un bambino con un dollaro al giorno. Dovremmo attivarci e dare solidarietà. Ognuno nel suo piccolo potrebbe contribuire con una donazione. Se in questo periodo di vacanze usciamo per andare a bere o a mangiare un boccone, cerchiamo di dare anche qualcosa, offriamo "un turno" di lavoro per la Somalia. E poi c'è bisogno urgente dell'intervento reale e concreto della comunità internazionale che punti a uno sviluppo sostenibile e che ponga un freno all'aumento generalizzato dei prezzi dei generi alimentari. Un discorso a parte meriterebbe la stabilità della Somalia. E tornano alla mente le parole del Papa: "È vietato essere indifferenti davanti alla tragedia degli affamati e assetati!".
Questo ispira oggi l'azione del nostro Pontificio Consiglio che intende dare eco a queste parole di solidarietà verso i popoli che stanno vivendo un'immane tragedia. In un prossimo futuro il dicastero invierà un suo rappresentante per visitare quelle popolazioni martoriate e portare direttamente il conforto della Chiesa e del Papa.



(©L'Osservatore Romano 5 agosto 2011)



Come contribuire:
La carestia del Corno d’Africa e l’afflusso di profughi in Kenya sono una sfida per la Chiesa africana.
«Soprattutto sono una opportunità – spiega il cardinale John Njue, arcivescovo di Nairobi – per mostrare la nostra vicinanza ai sofferenti. Non lasciamo le responsabilità ai governi, dobbiamo stendere la mano e condividere il poco che abbiamo».

Njue ieri era a Roma per incontrare i vertici di Caritas italiana e definire una operazione umanitaria con la rete Caritas internazionale di 20 milioni di euro.

Caritas Kenya sta intanto distribuendo generi di prima necessità alle centinaia di migliaia di profughi ammassati dentro e fuori il megacampo di Dadaab. «La situazione è preoccupante – conferma il presidente della Conferenza episcopale kenyana– perché dai Paesi vicini stanno arrivando molte persone. Tramite la Caritas abbiamo lanciato una raccolta fondi».

Intanto prosegue la raccolta di offerte di C
aritas italiana a sostegno degli interventi.
Si possono inviare al conto corrente postale 347013
specificando la causale “Carestia Corno d’Africa 2011”.


Oppure sui conti bancari:
UniCredit, via Taranto 49, Roma - Iban: IT 88 U 02008 05206 000011063119
Banca Prossima, via Aurelia 796, Roma - Iban: IT 06 A 03359 01600 100000012474
Intesa Sanpaolo, via Aurelia 396/A, Roma - Iban: IT 95 M 03069 05098 100000005384
Banca Popolare Etica, via Parigi 17, Roma - Iban: IT 29 U 05018 03200 000000011113

E infine con CartaSi e Diners telefonando allo 06 66177001 in orario d’ufficio.

Nuovi aiuti del Papa per le popolazioni del Corno d'Africa

Una solidarietà che non conosce soste


 

di MARIO PONZI

Un sostanzioso aiuto. Così monsignor Giampietro Dal Toso, segretario del Pontificio Consiglio Cor Unum, ha definito la somma di denaro che il dicastero ha inviato giovedì mattina, 11 agosto, in alcune diocesi del Corno d'Africa a nome del Papa. "È il segno - dice il segretario in questa intervista rilasciata al nostro giornale - della particolare attenzione con la quale Benedetto XVI segue la drammatica situazione della regione e della sua sollecitudine per le martoriate popolazioni". Un segnale forte anche per la comunità internazionale. È di questi giorni la notizia sulla convocazione di conferenze sotto varie denominazioni per studiare quali forme di intervento adottare. E questo è senz'altro positivo poiché testimonia "la presenza della comunità mondiale". Ma intanto la gente muore e dunque c'è bisogno di interventi immediati. Così come c'è bisogno di pianificare progetti di "sviluppo che possano garantire il futuro delle nuove generazioni" e allontanare per sempre "lo spettro della fame nel mondo".

L'emergenza nel Corno d'Africa non sembra aver fine. È proprio impossibile trovare soluzioni efficaci?


La situazione non ha ancora trovato una soluzione, anche perché oggettivamente è il risultato di una serie di problematiche, che si condizionano a vicenda. Da una parte c'è il problema della siccità, che ha ingenerato la carestia. Dall'altra il conflitto in Somalia che ha provocato l'esodo di migliaia di persone verso territori già provati. Ci sono rifugiati, che si muovono dalla propria patria verso Paesi vicini, e ci sono sfollati interni. Ci vorrà dunque molto tempo prima che un fenomeno di questo genere trovi soluzione. Parliamo in ogni caso di circa 4.500.000 di persone in necessità in Etiopia e di quasi 4 milioni in Kenya. Si devono aggiungere poi i numeri della Somalia e, anche se contenuti, di Gibuti.

È sufficiente quello che sta facendo la comunità internazionale?


Credo che la cosa più importante, al di là di quanto si sta facendo, sia non abbassare la guardia, soprattutto non farlo quando magari sarà finito l'effetto emotivo. Alcuni dei Paesi coinvolti trascinano da anni crisi umanitarie e politiche che hanno costretto all'azione le Nazioni Unite, le sue agenzie e anche alcuni governi. Anche attualmente la presenza della comunità internazionale è garantita, ma, lo ripeto mi sembra che l'attenzione debba essere tenuta desta, perché attualmente è la crisi finanziaria a occupare la maggior parte dell'informazione. Ma in questi Paesi, e in tanti altri nel mondo, c'è gente che muore di fame e nel terzo millennio è inammissibile.

Qual è l'azione della Chiesa per aiutare queste popolazioni?


Il Papa è stato tra i primi a sottolineare la gravità della situazione nell'Angelus del 17 luglio scorso. Ha ribadito la necessità di intervenire per difendere e sostenere una popolazione tanto provata. Dopo un primo aiuto per la Somalia, in questi giorni viene inviato un aiuto a suo nome tramite Cor Unum a 5 diocesi del Kenya e a 6 diocesi dell'Etiopia che stanno affrontando l'emergenza umanitaria con i pochi mezzi che hanno a disposizione. In proposito è bene dire che l'azione delle istituzioni della Chiesa in questa crisi si colloca a diversi livelli. Quello più diretto è l'accoglienza e il sostegno alla popolazione per le sue necessità immediate. Questo lavoro è svolto in particolare in via diretta dalle diocesi e dalle comunità locali, nonostante l'esiguità dei loro mezzi. Ma voglio sottolineare come queste Chiese in Africa abbiano reagito immediatamente e generosamente ai diversi bisogni.

E per il futuro?


Ci sono dei programmi più articolati, elaborati da Caritas Internationalis in collaborazione con le maggiori Caritas. Sono in via di definizione e comportano un impegno economico di alcuni milioni di dollari. Poi ci sono gli interventi di tanti organismi cattolici di minori proporzioni, che sono tuttavia presenti nei luoghi dell'emergenza. Infine non dobbiamo dimenticare i tanti cattolici che offrono del loro denaro, ma anche la loro preghiera, per i loro fratelli in necessità nel Corno d'Africa. A noi giungono quotidianamente attestazioni di vicinanza verso chi sta soffrendo questa grave crisi.

Come giudica la gente l'impegno della Chiesa?


La presenza della Chiesa in queste regioni non si limita all'immediatezza dettata dall'emergenza o dai bisogni primari. La sua è una presenza permanente nel tempo. Sarà forse per questo che essa gode della fiducia della popolazione. E poi non si fa nulla senza la partecipazione dei destinatari stessi del sostegno. Normalmente infatti i nostri programmi di aiuto sono realizzati in collaborazione con le autorità civili.

Quali sono le esigenze primarie alle quali fa riferimento?


A parte le questioni sociali strutturali, direi che la priorità è sempre dettata dalle situazioni contingenti. Dai rapporti che ci arrivano, posso dire che in questa fase dobbiamo pensare all'essenziale: cibo, acqua, kit sanitari, accoglienza nei campi di raccolta e di assistenza. Restando ai Paesi del Corno d'Africa il bisogno primario è senza dubbio l'assistenza a chi soffre letteralmente per la fame provocata dalla carestia dovuta alla siccità. È il vero dramma da affrontare in questo momento per soccorrere la popolazione locale.

Quando secondo lei si potrà tirare un sospiro di sollievo?


Impossibile fare previsioni. Le posso solo dire che siamo fiduciosi che la collaborazione di tanti e l'attenzione delle autorità internazionali potranno contribuire ad alleviare tanta sofferenza. La Chiesa, come sempre, fa e continuerà a fare la sua parte in maniera attiva. Siamo nelle mani del Signore.



(©L'Osservatore Romano 12 agosto 2011)

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[Modificato da Caterina63 11/08/2011 17:55]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)