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La provetta distratta miete vittime... BASTA CON LE BUGIE [SM=g1740730]


di Tommaso Scandroglio
21-11-2011
fonte: LaBussolaQuotidiana.it


La fecondazione artificiale è una roulette russa. Il più delle volte ci va di mezzo il figlio, altre volte anche la madre. Per il bambino concepito tramite Fivet gli ostacoli compaiono sin da subito: solo il 6% dei concepiti vedrà la luce. Ad esempio il Dipartimento della Salute inglese informa che per un bambino in braccio nato tramite Fivet vengono sacrificati 30 suoi fratellini. Dal 1991 ad oggi sono stati utilizzati 3milioni di embrioni per avere solo 100.000 nascite. Di quei tre milioni quasi la metà non è arrivato al traguardo del parto a causa delle procedure tecniche assai fallaci, l’altra metà è stata volutamente distrutta perché eccedente e circa 100.000 piccoli esseri umani sono stati invece usati per la ricerca come cavie (ovviamente anche questi non ce l’hanno fatta).

Ma anche una volta che l’embrione è uscito dalla provetta ed è stato impiantato in utero i guai per lui non sono finiti. Un articolo di “Human Reproduction Up Date” del 2002 ci informa infatti che un bambino su cinque muore o poco prima o poco dopo la nascita. Una cifra che è quattro volte superiore alle gravidanze naturali.

Scampato al rischio di morte perinatale, però la Fivet lascia in eredità ai suoi figli non pochi problemi. Uno studio belga condotto su quasi 3.000 casi rivela che il 30% dei bambini nati da provetta è prematuro e nel 25% dei casi necessita di cure intensive. I difetti genetici poi si presentano nel 21-37% dei casi: una frequenza fin a quattro volte superiore per certe patologie rispetto ai nati in modo naturale.

Se sommiamo tutti questi rischi ed altri che per brevità qui non possiamo indicare, il 56% dei bambini nati da fecondazione artificiale presenta o potrà presentare in futuro delle patologie anche molto serie (Hansen “Il rischio di maggiori difetti congeniti dopo ICSI e FIVET”, “New England Journal of Medicine” 2003).

Anche per le donne la Fivet non è una passeggiata. La stimolazione ovarica può provocare distensione addominale, ciste ovariche, ingrossamento abnorme delle ovaie, nausea, vomito e diarrea, accumulo di trasudato nel peritoneo e nella zona della pleura, alterazione della respirazione, ipercoagulazione (che può causare trombi), patologie neurotiche, cancro al seno e all’utero e persino la morte (Nygren in “Human Reproduction” 2001; Schenker-Ezra in “Fertility and Sterility” 1994). Se si scampa a tutto ciò c’è la forte frustrazione psicologica di aver affrontato un calvario fisico assai stressante e come contropartita non riuscire nemmeno a stringere a sé il bambino così tanto desiderato. Infatti, secondo l’Istituto Superiore della Sanità, solo il 15-20% delle coppie riesce ad avere un figlio tramite Fivet.

Forse è anche per questo che ad esempio in Inghilterra sono cresciuti i compensi per le “donatrici” di ovuli (che ora sarebbe meglio chiamare “venditrici di ovuli”): da 250 a 750 sterline (da 290 a 870 euro). Ovuli che serviranno a quelle coppie in cui la donna per sue patologie o perché troppo in là negli anni non riesce a concepire. L’incremento della diaria alle “donatrici” è proprio motivato dal fatto che la stimolazione ovarica è assai dannosa e quindi l’incentivo economico dovrebbe invogliare le giovani donne a farsi mungere a favore di coppie sterili o infertili.

Dunque le tecniche di Fivet sono assai fallaci perché poco efficaci, spesso letali per il nascituro o comunque dannose per la sua salute e per quella della madre. Un farmaco qualsiasi che presentasse tutti questi inconvenienti non solo sarebbe stato ritirato dal mercato da tempo, ma non sarebbe mai riuscito ad arrivare in farmacia. Ma laddove non riesce ad arrivare la scienza, arriva l’ideologia.

A tutto ciò si aggiunge quello che di recente ha comunicato la Human Fertilisation Embryology Authority (HFEA), massima autorità inglese in fatto di fecondazione artificiale. Nelle cliniche inglesi nel 2010 si sono compiuti 564 errori nelle procedure. Un numero triplo rispetto al 2007. E non errori di poco conto: inoculazione dello sperma sbagliato negli ovociti, distruzione accidentale degli embrioni e impianto di questi in uteri sbagliati.

I sostenitori della Fivet diranno che la validità delle tecniche di riproduzione in laboratorio non possono essere messe in discussione, perché in questi casi si tratta con piena evidenza del famigerato errore umano. Ma l’obiezione è infondata. Questi errori sono figli legittimi della provetta almeno per due ragioni. La prima: Dio Padre, o per gli aficionados del pensiero laico Madre Natura, ha stabilito che si nasca dall’abbraccio amoroso tra un uomo e una donna. Ora togliere il concepimento dal talamo è snaturarlo perché si affida questo momento delicatissimo e tutti gli altri momenti successivi alle rozze mani di noi uomini. Mani che al confronto delle leggi sapientissime che regolano la fertilità non possono che rimanere maldestre anche nel caso in cui fossero protette da guanti in lattice come quelle dei tecnici di laboratorio plurilaureati e iperpsecializzati.

Gli errori grossolani di cui sopra sono poi l’esito necessario ed inevitabile delle tecniche di fecondazione artificiale anche perché tali procedure reificano il concepito, trattandolo come un prodotto, come una merce. Ciò che nasce in una provetta di vetro e poi viene messo in un freezer e che è tanto piccolo che per vederlo lo devo mettere sotto un microscopio, come può essere uno di noi, un uomo? Chi opera nel settore allora è pervasivamente impregnato da questo approccio verso il bimbo in provetta. E dunque, nella testa del personale tecnico che manipola l’embrione, questi è solo materiale organico non una persona di statura minutissima. E’ chiaro allora che l’attenzione scema.

Infine a ciò si aggiunge la mole impressionante di embrioni “stoccati”, numero così rilevante che comporta una squalificazione del valore di ogni singolo nascituro. Ciò a voler dire che tra tanti embrioni manipolati e tra tanti che non ce la fanno, uno che viene distrutto per errore o che viene concepito con il seme non del suo genitore naturale ma di un terzo, non fa poi più di tanto problema.

Semmai l’inconveniente provocherà imbarazzo per una questione di forma. Cioè si condannerà la distrazione per mancanza di serietà professionale del tecnico di laboratorio, e non perchè a causa di quella distrazione una persona è stata uccisa o crescerà non con i suoi genitori biologici. Insomma varrà più la deontologia medica che l’etica umana.


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 «Mio padre si chiama donatore»


di Raffaella Frullone


«Ho passato anni della mia infanzia a fantasticare su di lui. Costruivo castelli sulle poche cose che sapevo: capelli biondi, occhi azzurri, laureato. Giorni frenetici e notti insonni passate a immaginare il suo carattere, le sue passioni. “Forse era un musicista, come me”, mi dicevo, “forse era un’artista squattrinato, per questo l’ha fatto,  aveva bisogno di soldi”. Poi ho scoperto che il donatore numero 81 era un professionista affermato, un medico che si definisce credente. Il mio padre biologico».

24 anni, newyorkese, Alana Stewart è quello che in gergo tecnico si chiama a donor-conceived adult, ossia un adulto concepito da donatore. La sua è una delle vicende raccontate nel documentario Anonymous father’s day (giornata del padre anonimo) che per la prima volta dà voce a un popolo che ogni anno nei soli Stati Uniti conta dai 30mila ai 60mila nuovi nati. Tanti sono infatti i bimbi che vengono al mondo grazie alla donazione di sperma da parte di padri rigidamente protetti dal più totale anonimato.

Prodotto da Jennifer Lahl, già direttrice di Eggsploitation (sul tema della donazione di ovuli), e presidente del Center for Bioethics and Culture Network di San Francisco, il documentario, disponibile on line in lingua inglese, offre una panoramica inquietante su un’industria globale senza traccia che sta timidamente venendo allo scoperto grazie ad internet. Mai come in questi anni infatti, proliferano blog, siti e social network attraverso i quali i figli di padre donatore cercano tracce delle proprie origini, si incontrano tra “fratelli”(un donatore può arrivare ad aver generato anche 150 volte), tentano di dare un volto e un nome ad un padre del quale conoscono soltanto il codice identificativo, l’area in cui il seme è stato “distribuito”, il lasso di tempo in cui l’attività di donazione è proseguita.

I 60 minuti del film ospitano il contributo di Elizabeth Marquardt, direttore del Center for Marriage and Families at the Institute for American Values, curatrice del rapporto FamilyScholars.org e coautrice, insieme a Norval D. Guenn e Karen Clark, dello studio My Daddy’s Name is Donor, ovvero “Mio papà si chiama donatore”, condotto su un campione di 485 adulti di età compresa tra 18 e 45 anni con lo scopo di effettuare un primo monitoraggio su una generazione di persone concepite in risposta ad un irrefrenabile desiderio di maternità e poi abbandonate al loro destino.

«Il 67% degli intervistati ha affermato di sentirsi perso dal momento in cui ha appreso di essere figlio di donatore – afferma la Marquardt – e di voler conoscere il proprio padre biologico. Il 70% ha ammesso di trascorrere molto tempo fantasticando sulla vita e le abitudini del donatore e di non riuscire a darsi pace. Tra i dati registriamo poi una stretta correlazione tra il ricorso al padre donatore e il fallimento delle unioni matrimoniali».

«Quello a cui siamo abituati a pensare quando si parla di donazione di sperma, o anche di ovuli, è come aiutare le persone ad avere un bambino, – spiega Jennifer Lahl, che da anni studia gli effetti delle tecniche di procreazione assistita – mai riflettiamo sulle prospettive di determinate scelte, dei diritti, dei desideri delle aspettative del nascituro. Cosa succede ad un ragazzo quando scopre che il papà che l’ha cresciuto non è il suo padre biologico? Cosa succede ad una donna quando l’anziana madre scoperchia il baule del passato e scombina le carte che sono sempre state in tavola? Come si rapporta ad un bambino un "padre acquisito"? Quale è “l’impatto etico” dei donatori di sperma sui loro figli? ».

Per rispondere a domande come queste il documentario ha scelto di raccontare la storia di Alana Stewart, che gestisce il sito anonymousus.org attraverso il quale raccoglie e riporta le storie di chi, come lei, ad un certo punto, ha scoperto di non avere più radici.

«Avevo 5 anni, era un giorno come un altro, mi stavo preparando per andare a scuola, quando mia mamma mi ha detto che ero figlia di un donatore. Così, semplicemente. Ero confusa, ma sicuramente ho subito dato un nome a quello strano senso di estraneità che da sempre percepivo nei confronti di papà. Ho una sorella di 2 anni più grande e mia madre quel giorno mi ha spiegato che lei invece era stata adottata. Qualche anno dopo i miei genitori si sono separati e mia madre ha concepito naturalmente il suo terzo figlio con un nuovo compagno. Ho visto mia madre crescere tre “tipologie biologiche di figli” e le differenze, certamente involontarie, nel suo rapporto con noi. Ho visto l’unico padre che conoscevo chiedere, dopo il divorzio, la paternità della mia sorella maggiore e non la mia. Sentiva più sua la figlia adottata, rispetto a me».

Nonostante gli occhi, a tratti velati di lacrime, Alana racconta la sua storia con distacco, come se quello che dice le appartenesse fino ad un certo punto, come se per mettersi al riparo da uno smarrimento ancora maggiore si fosse rifugiata nelle sue poche certezze. Il senso di estraneità e smarrimento  accomuna la sua vicenda a quella di tanti altri, tra i quali  Barry Stevens che nel documentario racconta di aver saputo soltanto alla morte del padre, la verità “biologica” sul suo concepimento. «Suona strano ma è come se io avessi sempre sentito una forma di distacco nei suoi confronti e mia sorella provava la stessa identica cosa. Come se in famiglia ci fosse sempre stato un segreto e noi due ne fossimo tenuti all’oscuro. Era alienante, mi sentivo perennemente incerto».

La crisi di identità e il senso di confusione percepiti dai figli di donatori rientra in quello che viene chiamato genealogical bewilderment, ovvero “smarrimento geneologico”. Spiega la regista: «Il bambino sente insieme curiosità e confusione rispetto a chi appartiene, alla sua identità, alle sue radici, al suo posto nella famiglia. Lo si vede nei bambini adottati, che chiedono di sapere dei loro genitori biologici, e ancor più succede nei bimbi nati da donatore, per i quali la ricerca del padre è resa ancor più difficile dalla protezione della privacy di chi dona, da parte delle cliniche».

«Mi sembra assurdo che gli ospedali trattengano così tante informazioni sui donatori e non si preoccupino dei diritti di chi nasce – osserva Barry Stevens. – Ci vogliono convincere che un padre donatore non sia altro che una persona disposta ad aiutare chi non riesce ad avere figli, una prassi ordinaria. Non considerano che abbiamo tutti una grande domanda di senso nel cuore che ci porta a domandare: chi sono? Da dove vengo? Ci ripetono è una cosa normale, che non c’è nulla di male. Eppure qualcosa non torna...».

 

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[Modificato da Caterina63 09/12/2011 15:52]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)