00 09/02/2014 00:54

 


foibe


 


La domanda che torna, nel Giorno del ricordo delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, è in fondo sempre la stessa: com’è stato possibile? Perché ci è voluto oltre mezzo secolo perché l’Italia si decidesse a ricordare i propri morti, così crudelmente massacrati? D’accordo le divisioni e le divergenze ma le vittime, almeno quelle, non meriterebbero lo stesso rispetto, specialmente se innocenti? Tanto più che buona parte dei crimini commessi da Tito e dai suoi erano arcinoti da decenni: il Grido dell’Istria del 28 marzo 1946, per esempio, ne riferiva in prima pagina. Per non parlare degli italiani portati via con la famigerata corriera della morte e poi ritrovati nelle foibe: su Il Piccolo di Triesteera raccontato tutto per filo e per segno già il 15 ottobre 1943. Eppure delle foibe per tanto, troppo tempo è proibito parlare e lo rimane tutt’ora come dimostrano l’isolamento culturale ai danni dello scrittore Carlo Sgorlon (1930-2009), reo di parlarne nei suoi romanzi, alle contestazioni a Simone Cristicchi, colpevole, nello spettacolo “Magazzino 18”, di rievocare l’esodo istriano del ‘47.


 


Una simile, sistematica censura, a mio avviso, ha almeno tre spiegazioni. La prima riguarda la capacità storicamente fenomenale della sinistra italiana di alternare il ritornello dei “compagni che sbagliano” alla negazione di ogni responsabilità. Gli esempi clamorosi, a questo proposito, si sprecano: da Giangiacomo Feltrinelli (1926-1972) – morto mentre stava piazzando esplosivo e per sette anni dalla morte santificato come vittima delle “stragi di Stato” – a Giorgio Bocca (1920-2011), che nel 1975 sosteneva che l’esistenza delle Brigate Rosse fosse una favola e che in realtà fossero nere; dall’orribile rogo di Primavalle – che Lotta Continua descrisse come messinscena («La provocazione fascista oltre ogni limite arriva al punto di uccidere i suoi stessi figli») – al rapimento del giudice Mario Sossi ad opera dei brigatisti, che dei giornali spacciarono per un’operazione dei servizi segreti per propagandare in senso antidivorzista al campagna referendaria allora in corso.


 


Il livello, per capirci, era questo. Non c’è quindi da stupirsi dell’imbarazzo che tutt’ora serpeggia in non pochi ambienti di sinistra allorquando si parla di foibe. La seconda spiegazione del prolungato silenzio sulle vittime che oggi ricordiamo si riassume in una data: 28 giugno 1948. In quel giorno, infatti, il maresciallo Tito ruppe con Stalin guadagnandosi non poche simpatie anche nel mondo atlantico e la Dc, uscita vittoriosa dalle elezioni del 18 aprile, non si prese troppo a cuore la memoria degli infoibati. C’è poi da dire – come ricorda Vespa – che «il governo iugoslavo, giocando d’anticipo, aveva chiesto l’estradizione per crimini di guerra di parecchi ufficiali dell’esercito italiano», richieste che «non furono mai prese in considerazione, ma in cambio si rinunciò alla resa dei conti sulle foibe. Fu un prezzo altissimo» (Storia d’Italia, Mondadori 2007, pp. 159-160).


 


Inoltre si aggiunga – come terza ragione dell’odiosa censura sulle foibe – l’incapacità culturale della destra italiana di incidere, di anteporre il bisogno di comunicazione alla permanenza nei propri circoli. Va però detto che detta incapacità è stata ed è anche l’esito di una ghettizzazione per molti versi imposta, come dimostra il fatto che il solo voler commemorare le vittime dei crimini di Tito, ancora oggi, attiri il sospetto di essere nostalgici del Ventennio. Quando finalmente riusciremo, come Paese, ad andare oltre; quando capiremo che i morti innocenti non sono né di destra né sinistra, ma appartengono alla comune civiltà calpestata dalla barbarie, probabilmente la ricorrenza del Giorno del ricordo sarà meno decisiva di quanto non sia oggi. Ma fino a quel giorno servirà avere il coraggio di unirsi e pregare perché mai più si ripetano simili orrori. E che mai più, soprattutto, si ripeta la vergogna – per certi versi ancora peggiore – di un silenzio omertoso e colpevole. Il silenzio di chi ha paura di parlare, e di chi ha paura della verità.



di Giuliano Guzzo: Foibe il ricordo negato


Giorno del ricordo per le vittime delle foibe. Una pagina storica cancellata per 60 anni



A dieci anni dalla sua istituzione in Italia si celebra lunedì 10 febbraio, la solennità del Giorno del ricordo delle vittime delle foibe e dell'esodo giuliano dalmata, provocate tra il 1943 e il 1945 dalla furia dei partigiani comunisti jugoslavi di Tito. Una pagina storica cancellata per sessant’anni e ancora poco conosciuta. Almeno diecimila gli infoibati accertati, trecentocinquantamila gli esuli italiani. Secondo i parenti delle vittime oggi il rischio è che dal negazionismo si passi al riduzionismo, ovvero alla svalutazione della reale portata di questa tragedia. Paolo Ondarza:RealAudioMP3 

Sono gli anni a cavallo del 1945, l’Italia lentamente prova a rialzarsi dopo la fine della seconda guerra mondiale, ma a Trieste è l’inizio di un incubo. Nella città e nell’Istria controllata dai partigiani comunisti jugoslavi di Tito i cittadini subiscono torture, deportazioni o vengono uccise. Sono innocenti, colpevoli solo di essere italiani o anticomunisti. Moltissimi di loro vengono gettati vivi dentro le foibe, voragini naturali disseminate sull'altipiano del Carso. In massa fuggono dalle terre di Istria e Dalmazia cacciati dalla furia comunista. Una tragedia italiana ancora poco conosciuta e per sessant’anni cancellata dai libri di storia. Solo dal 2004, in memoria delle vittime della foibe, dell’esodo giuliano-dalmata e delle vicende del confine orientale, l’Italia istituisce ogni 10 febbraio la solennità nazionale e civile del 'Giorno del Ricordo'. Carla Isabella Elena Cace, esule di terza generazione, autrice del libro “Foibe ed Esodo. L’Italia negata. La tragedia giuliano-dalmata a dieci anni dall’istituzione del “Giorno del Ricordo” edito da Pagine, membro dell’“Associazione Nazionale Dalmata” e del “Comitato 10 febbraio”:


R. – Sono esule di terza generazione, nipote di Manlio Cace, un patriota che visse primo e secondo esodo. Mio nonno ha raccolto diverso materiale fotografico dei campi di concentramento titini, dove erano detenuti tantissimi italiani.

D. – Ci aiuta a ricostruire, anche attraverso la testimonianza di suo nonno, l’orrore di quegli anni?

R. – Io faccio sempre un paragone: è come se nel Lazio di colpo si dicesse a tutti i “guardate, voi d’ora in poi siete tedeschi! Dovete parlare tedesco. Cambiamo le scritte di tutti i negozi. Se voi non fate questo o verrete uccisi oppure vivrete nel terrore”. Questo è avvenuto in una regione che, a tutti gli effetti, era una regione d’Italia. Le fasi degli “infoibamenti” sono due: ’43 e ’45. Quelli del ’43 ancora con la guerra in corso e quelli del ’45 a guerra finita. In quest’ultimo caso si parla, quindi, di crimini contro l’umanità e non crimini di guerra. Tutte le persone rappresentative, tutti coloro che rappresentavano lo Stato italiano - sindaci, dipendenti comunali, parroci, intellettuali, medici e quant’altro - erano i primi ad essere ricercati e perseguitati, perché svolgevano un ruolo di collante della collettività. Senza processi o con processi farsa del cosiddetto Tribunale del Popolo, venivano presi, torturati molto spesso e poi gettati in queste cavità carsiche, caverne verticali, precipizi - le foibe - affinché sparisse proprio tutto di loro. Venivano distrutti anche i loro documenti.

D. – E colpisce anche il sadismo con cui venivano gettati nelle foibe...

R. – Solitamente, per risparmiare le pallottole, venivano legati a gruppi di dieci con fili di ferro, gli uni agli altri, sempre nudi, perché gli si toglieva tutto - gli abiti e la dignità – e si sparava al primo: questo col peso morto praticamente trascinava nella foiba le persone vive, che magari morivano anche dopo due o tre giorni. Nel libro ho anche pubblicato l’unico documento di una perizia medico-legale, condotta su una serie di corpi recuperati dalle foibe. Si capisce che queste persone sono morte anche dopo due o tre giorni con le ossa rotte, nudi, di dolore, dentro questi abissi.

D. – Anche in ragione della profondità di queste cavità, è stato difficile poi quantificare il numero delle vittime...

R. – Assolutamente. Consideriamo intanto che un’analisi è stata fatta solo sulle foibe sul territorio italiano, che sono comunque una piccola percentuale rispetto a tutte quelle che sono disseminate sul territorio croato e sloveno e sulle quali ancora non è stato condotto – e penso mai lo sarà – alcun tipo di indagine. 

D. – Quest’anno ricorrono i 10 anni dalla istituzione, nel 2004, del giorno del ricordo...

R. – Certamente l’istituzionalizzazione di un giorno per ricordare queste vittime ha squarciato tanti veli. E’ chiaro, però, che in 10 anni non si può compensare il silenzio di 60 anni. E poi recentemente si avverte una minore attenzione. Basti pensare anche ai tagli del sindaco Marino a Roma ai “viaggi del ricordo” alla foiba di Basovizza, che è stato un segno, secondo me, molto negativo, considerando che ci troviamo nell’anno di celebrazione del decennale della legge e che siamo la capitale d’Italia e quindi abbiamo anche un dovere simbolico, di traino. Il rischio è quello di passare dal negazionismo al riduzionismo del fenomeno.

D. – 60 anni di silenzio, perché?

R. – Perché noi abbiamo perso la guerra, la situazione era difficile e sicuramente la Jugoslavia di Tito era una realtà strategica, che faceva da cuscinetto tra Occidente ed Urss. Diciamo quindi che si è sacrificata, per gli interessi internazionali, la dignità dei nostri morti. C’era poi anche il discorso ideologico, comunque, del partito comunista, che non ha mai voluto accettare questi eccidi, perché la liberazione non poteva portare ad aberrazioni. E invece i partigiani comunisti di Tito hanno compiuto l’eccidio più grande della storia della nazione, dopo l’unità d’Italia.




Testo proveniente dalla pagina http://it.radiovaticana.va/news/2014/02/08/giorno_del_ricordo_per_le_vittime_delle_foibe._una_pagina_storica/it1-771513 
del sito Radio Vaticana 




[Modificato da Caterina63 10/02/2014 09:55]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)