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COME SI MUORE

La sedazione, il senso del dolore e la morte cristiana

VITA E BIOETICA 20-01-2018

Dopo la morte di Marina Ripa di Meana, avvenuta senza spiegazioni precise sulla sua condizione, si è generata una confusione fra eutanasia e sedazione profonda, mentre in casa cattolica si è aperto un interessante dibattito tra doloristi e non doloristi. Posizioni entrambe sbagliate: ecco cosa dice la Chiesa sul senso del dolore e il dovere della cura cristiani. Mentre in una intervista il dottor Bulla, esperto di cure palliative, spiega quando è lecito effettuare la sedazione.


COME MUORE UN CRISTIANO: ACCETTARE DI SOFFRIRE OPPURE NO?

COS'È LA SEDAZIONE PROFONDA E QUANDO SI PUO' PRATICARE


  CONFORMARSI A GESU'  Fine vita cristiano


Semplificando ed estremizzando, i primi rifiutano sempre e comunque qualsiasi forma di sedazione perché negli ultimi istanti di vita occorre conservare lucidità e perché in tal modo ci si conforma maggiormente all’esempio di Cristo in croce, ed invece i secondi accettano sempre e comunque qualsiasi forma di sedazione perché il dolore degrada la dignità umana ed esiste il dovere morale di lenire le sofferenze. Chi ha ragione?

In questi termini nessuno. Proviamo a capirci qualcosa. Il dolore fisico ha una sua utilità, perché è un campanello di allarme che l’organismo fa suonare per segnalare che qualcosa non va. Ma il dolore intacca anche la salute psicologica. Ora l’uomo ha il dovere morale di tutelare la propria salute e quindi anche di lenire il dolore. Ma come ogni dovere affermativo è contingente, ossia non deve essere rispettato sempre e comunque. Quale è il criterio allora per decidere se si deve in quel particolare frangente soffrire oppure no? È dato dal criterio di proporzionalità, cioè di efficacia etica. In altri termini l’uomo deve compiere quell’azione che gli promette il maggior bene (posto che tale azione non costituisca un atto intrinsecamente malvagio). Infatti tutti siamo chiamati alla perfezione. 

Applichiamo quanto sin qui detto al caso del sig. Rossi, paziente moribondo che soffre molto. Su costui ad esempio gravano alcuni obblighi morali: deve occuparsi ancora di gravosi impegni di famiglia e di alcuni affari importantissimi, deve rappacificarsi con un parente con cui da anni è in conflitto, sente l’esigenza di prepararsi spiritualmente per ricevere in modo conveniente l’assoluzione nella confessione e di affrontare la morte con lucidità e, dato che per un cattolico è doveroso dal punto di vista delle fede conformare la propria vita a Cristo, grava su di lui anche il dovere di realizzare questa imitatio Christi persino in punto di morte, conservando un certo grado di vigilanza che invece alcune terapie antalgiche potrebbero intaccare. Di contro il sig. Rossi ha anche il dovere morale di curare la propria salute, tra cui c’è anche la cura del dolore. Quali tra questi doveri prevale dato che sono tutti doveri affermativi e dunque obblighi che non devono essere adempiuti sempre e comunque? Nel rispetto del principio di proporzione o di maggior efficacia etica, prevalgono i doveri che hanno un contenuto di bene maggiore. In breve nel conflitto tra doveri prevalgono i doveri più importanti perché ci rendono più perfetti. E dunque la cura del dolore che porta all’obnubilamento delle facoltà razionali deve essere posposta rispetto ad alcuni gravi doveri familiari ed economici, al dovere di carità verso gli altri, alla salvezza della propria anima, alla sequela di Cristo, tutti doveri che comportano il pieno possesso delle proprie facoltà intellettive.

Ma facciamo il caso che il dolore sia così acuto che porti il sig. Rossi al deliquio persistente, ossia alla perdita più o meno marcata della lucidità di pensiero. Ecco allora che la sedazione del dolore sarebbe necessaria, anche nel caso in cui si arrivasse alla perdita di coscienza perché, sempre rifacendoci al principio di proporzione, è meglio essere incoscienti senza soffrire che soffrendo. Oppure facciamo l’ipotesi in cui il sig. Rossi prevedesse che, all’aumentare del dolore, perderà le staffe, diventerà insopportabile, correndo addirittura il rischio di inveire contro il Signore e dunque di morire non in grazia di Dio. La dottrina cattolica suggerisce con forza di tenersi lontano dalle tentazioni, ossia dalle occasioni di compiere il male. Sarebbe quindi opportuno che il sig. Rossi chieda la sedazione, anche se ciò gli procurerà la perdita di coscienza, per evitare che possa compiere il male. In modo più analitico potremmo dire che la mancanza di fortezza nell’affrontare il dolore non solo non gli permetterà di soddisfare alcuni doveri familiari e spirituali di alto pregio, ma potrebbe spingerlo a compiere alcuni atti malvagi. Meglio sedare.

Mutatis mutandis, santa Teresina di Lisieux raccontò nel suo Storia di un’animache una volta, in monastero, presa da rabbia profonda verso una sua consorella che le aveva fatto un torto e sapendo che non sarebbe riuscita a domarsi in quella precisa circostanza, decise di farsi sbollire la stizza rifugiandosi lontano da lei sulle scale del convento. Se sai che il nemico è più forte di te, meglio non affrontarlo viso a viso. Tornando al sig. Rossi, caso analogo all’esempio appena indicato sarebbe quello in cui, non perdendo di lucidità, le cure palliative potrebbero aiutarlo a vivere più serenamente gli ultimi istanti di vita e quindi potrebbero facilitarlo nell’ essere più vicino a Cristo, seppur non nella dimensione della sofferenza fisica, ma – per ipotesi – in quella psicologica permettendogli di fare un bilancio sereno della propria vita che potrebbe portarlo alla contrizione di cuore, meditando sulle sofferenze di Cristo, della Chiesa e dei fratelli, etc. La compressione del dolore in alcuni casi agevola una condotta cristiana più che l’accettazione in toto della sofferenza.

Altro caso in cui prevale il dovere di lenire il dolore è quello in cui la sofferenza è insopportabile. Il brocardo latino, che anche Tommaso D’Aquino rammenta spesso nelle sue opere, “ad impossibilia nemo tenetur” (alle cose impossibili nessun è tenuto) si può applicare anche al dolore impossibile da tollerare: in queste ipotesi non c’è il dovere morale di soffrire proprio perché non si può comandare un’azione impossibile da compiere. Troviamo queste considerazioni condensate in modo adamantino nel documento Iura et bona della Congregazione per la dottrina della fede, le cui argomentazioni verranno poi riprese in modo quasi identico nell’Evangelium vitae al n. 65. Si inizia indicando il vertice di perfezione a cui siamo chiamati, la sequela di Cristo fin sul Golgota perché anche le nostre sofferenze, se unite alle sue, possono acquistare potere salvifico per noi e per altri: “Secondo la dottrina cristiana, però, il dolore, soprattutto quello degli ultimi momenti di vita, assume un significato particolare nel piano salvifico di Dio; è infatti una partecipazione alla Passione di Cristo ed è unione al sacrificio redentore, che Egli ha offerto in ossequio alla volontà del Padre. Non deve dunque meravigliare se alcuni cristiani desiderano moderare l’uso degli analgesici, per accettare volontariamente almeno una parte delle loro sofferenze e associarsi così in maniera cosciente alle sofferenze di Cristo crocifisso” (III).

Segue poi la precisazione che tale dovere di soffrire non è assoluto, ma relativo: “Non sarebbe, tuttavia, prudente imporre come norma generale un determinato comportamento eroico. Al contrario, la prudenza umana e cristiana suggerisce per la maggior parte degli ammalati l’uso dei medicinali che siano atti a lenire o a sopprimere il dolore, anche se ne possano derivare come effetti secondari torpore o minore lucidità”. E dunque il dovere di conformarsi a Cristo è assoluto, da rispettarsi sempre, ma per alcuni significherà bere l’amaro calice della sofferenza fino all’ultima goccia, per altri invece significherà spegnersi più serenamente. Gli Apostoli morirono tutti martiri, eccetto Giovanni.

Da ultimo si ricorda il principio di proporzione, principio cardine per comprendere quale tra i diversi doveri morali e di fede debba prevalere, vale a dire se è doveroso o meno soffrire: “Gli analgesici che producono negli ammalati la perdita della coscienza, meritano invece una particolare considerazione. È molto importante, infatti, che gli uomini non solo possano soddisfare ai loro doveri morali e alle loro obbligazioni familiari, ma anche e soprattutto che possano prepararsi con piena coscienza all’incontro con il Cristo. Perciò Pio XII ammonisce che "non è lecito privare il moribondo della coscienza di sé senza grave motivo" (Pio XII, Allocutio, die 24 febr. 1957)” (ib.). Dunque se su un piatto della bilancia abbiamo la perdita di coscienza e dell’altro abbiamo l’impossibilità di soddisfare ad alcuni doveri familiari e spirituale è doveroso rimanere vigili - perché tali obblighi pesano maggiormente dell’obbligo di lenire la sofferenza - eccetto per gravi motivi ossia se l’effetto negativo della perdita di coscienza è superato, ad esempio, dall’effetto positivo di evitare occasioni per compiere il male o se soffrire meno ci permette di vivere più cristianamente gli ultimi istanti di vita. 
Il principio di proporzione è poi richiamato anche nel caso in cui la sedazione non solo farà perdere coscienza al paziente ma gli abbrevierà la vita: “L’uso intensivo di analgesici non è esente da difficoltà, poiché il fenomeno dell’assuefazione di solito obbliga ad aumentare le dosi per mantenerne l’efficacia. Conviene ricordare una dichiarazione di Pio XII, la quale conserva ancora tutta la sua validità.

Ad un gruppo di medici che gli avevano posto la seguente domanda: "La soppressione del dolore e della coscienza per mezzo dei narcotici... è permessa dalla religione e dalla morale al medico e al paziente (anche all’avvicinarsi della morte e se si prevede che l’uso dei narcotici abbrevierà la vita)?", il Papa rispose: "Se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali: Sì" (Pio XII, Allocutio, die 24 febr. 1957). In questo caso, infatti, è chiaro che la morte non è voluta o ricercata in alcun modo, benché se ne corra il rischio per una ragionevole causa: si intende semplicemente lenire il dolore in maniera efficace, usando allo scopo quegli analgesici di cui la medicina dispone” (Ib.).

Sotto altra ma equipollente prospettiva il dilemma “soffrire sì, soffrire no” può essere validamente risolto, caso per caso, applicando il principio del duplice effetto (lo stesso che Pio XII aveva applicato al caso appena citato): lenire il dolore è azione buona, non si cerca ma si tollera la perdita di coscienza e quindi l’impossibilità di adempiere ad alcuni doveri, tali ultimi effetti negativi non producono l’effetto positivo della diminuzione del dolore, si deve versare in stato di necessità e – aspetto che nelle ipotesi descritte è qui centrale – l’effetto positivo della mancanza di sofferenza deve prevalere sugli altri effetti negativi. È su quest’ultimo punto che occorrerà verificare, caso per caso, la reale proporzione tra effetti negativi e positivi.

In sintesi spetterà alla virtù della prudenza del paziente comprendere qual è, date alcune circostanze, il maggior bene possibile, ossia quali doveri affermativi prevarranno rispetto ad altri doveri affermativi, quali beni morali peseranno maggiormente. Il medesimo principio di compiere il bene si declinerà allora in modalità differenti perché si rispetterà il principio di proporzione/efficacia etica e quindi per alcuni prevarranno alcuni doveri a prezzo di grandi sofferenze, per altri il dovere di lenire il dolore a prezzo della perdita di coscienza. 



INTERVISTA

"Cos'è la sedazione profonda e quando si può praticare"

Claudio Bulla, medico internista esperto di cure palliative, spiega quando la sedazione profonda è etica, in quale momento normalmente viene effettuata e con quale fine, al di fuori del quale non va contemplata, come quando lo scopo è provocare la morte.

Che cos’è precisamente la sedazione profonda? 
In genere si parla di sedazione palliativa. E’un atto di cura che consiste nel diminuire o togliere la coscienza ad un malato, con il suo consenso, quando la sofferenza non può più essere controllata dalle migliori cure disponibili. Può essere temporanea o continuativa, parziale oppure completa, cioè profonda. La prima si effettua quando, ad esempio, in un momento della giornata un sintomo della malattia del paziente è molto intenso e i farmaci non riescono a controllarlo, in questo caso si domanda al malato se vuole dormire, almeno la notte o qualche ora durante il giorno. Talora al risveglio il sintomo può essere più tollerabile. Se invece il sintomo è veramente refrattario è opportuno iniziare una sedazione permanente in cui la coscienza viene tolta in maniera continuativa fino al decesso naturale. 

Quanto può durare una sedazione profonda, ossia quando i sintomi di una malattia diventano intollerabili e incontrollabili?
La letteratura parla di un intervallo che va da un giorno a 13 giorni dall’inizio della sedazione fino alla morte. Ma nella mia esperienza questo tipo di sedazione si applica quasi sempre nelle ultime ore di vita. I sintomi sono intollerabili quando il paziente non ne porta più il peso nonostante tutti i migliori tentativi terapeutici di alleviarli.

Come giudica l'utilizzo della sedazione profonda quando non è necessaria al controllo del sintomo?

Ci sono linee guida pubblicate dalla Società Italiana di Cure Palliative: dicono che è necessario informare e raccogliere il consenso del paziente. La sedazione profonda è necessaria solo quando esiste un sintomo intollerabile che non risponde nemmeno alle migliori terapie sintomatiche. Diversamente non è possibile effettuarla, anzi è eticamente sbagliato perché la coscienza è un bene indispensabile della persona, anche alla fine della vita, un momento in cui molte persone hanno paura di morire e desiderano poter mantenere un contatto con la vita che resta e con i propri cari. 

Pio XII disse che era lecito sopprimere i dolori con l'uso dei narcotici “se non esistono altri mezzi e se, nelle date circostanze, ciò non impedisce l’adempimento di altri doveri religiosi e morali”, riferendosi “unicamente” alla volontà di “evitare al paziente dolori insopportabili”.
Il sintomo per sua definizione è soggettivo. Ci sono delle scale di valutazione che cercano di definire l’entità mediante scale numeriche, ma in buona parte è solo il paziente che ci può dire il livello di sofferenza che patisce. Il problema è comprendere la percezione che il paziente ha del dolore: un disturbo che a me pare di modesta entità può essere percepito molto intenso dal malato. È vero anche il contrario, un sintomo che a me sembra insostenibile può non esserlo per il malato. Ricordo una giovane signora che negli ultimi cinque, sei giorni prima di morire presentava un vomito incoercibile causato da un’occlusione intestinale, il sintomo era refrattario e le migliori terapie somministrate non erano in grado di controllarlo. Pensavo fosse una situazione insopportabile, ma lei mi disse che non voleva perdere la coscienza e preferiva mantenere quel grave disagio pur di poter continuare a comunicare con la figlia e con le amiche. Fu una situazione imbarazzante anche per l’équipe di cura: alcuni di noi avrebbero voluto non rispettare queste disposizioni della signora e procedere alla sedazione senza il suo consenso.


Se la coscienza è un bene fondamentale della persona, quale altro bene oggettivo da tutelare giustifica la possibilità di sacrificarla?
Un sintomo refrattario grave che genera una sofferenza intollerabile a giudizio della persona che muore. Le faccio un altro esempio: la mancanza del respiro genera un’angoscia enorme nei malati. Quando i comuni rimedi utilizzati (morfina, cortisone, ansiolitici) non bastano a togliere il sintomo e l'angoscia che esso provoca, è doveroso proporre al malato la sedazione. Il bene oggettivo da tutelare è il dovere di alleviare le pene di un sofferente. Essa ha quindi questo fine unico, che ha poi come conseguenza la perdita della coscienza senza accelerare la morte che avverrà naturalmente. Dai dati presenti in letteratura questo trattamento si applica a circa il 20 per cento delle persone che muoiono, in genere nell’imminenza della morte stessa.

La sedazione profonda può essere usata anche per accelerare la morte? Se sì come?
Se l’organismo della persona non dà segni di una morte imminente, e magari la prognosi di sopravvivenza è oltre le tre-sei settimane (esistono scale di valutazione prognostica in cure palliative), effettuare la sedazione profonda, magari sospendendo l'idratazione e l'alimentazione, è un atto moralmente illecito che accelera la morte. 

È possibile usare una sedazione profonda per accelerare la morte senza privare la persona dell'alimentazione dell'idratazione?
Ripeto, la finalità della sedazione non è quella di provocare la morte ma di curare la sofferenza. La morte può essere accelerata se viene utilizzato un dosaggio dei farmaci sedativi sproporzionato alla necessità di diminuire o abolire il sintomo. È chiaro che se il fine del medico è solo di controllare il sintomo è difficile che si ecceda volontariamente nell’aumentare il dosaggio del farmaco.

È etico usare la sedazione dopo aver tolto, come accadde nel caso di Welby, il respiratore?
E’etico sedare il paziente che in assenza di ventilazione meccanica muore in stato di gravissima sofferenza. Altra questione è l’opportunità di cessare volontariamente la ventilazione artificiale lontano dall’imminenza della morte. Tutti i miei pazienti con il ventilatore sono morti con la ventilazione in funzione, staccata dopo la morte o negli ultimi minuti di vita. Non ci sono casi in cui il ventilatore è così fastidioso da dire “stacchiamolo perché fa più male che bene al paziente”. A quanto compresi dalla stampa, quella di Welby fu una scelta non determinata dal fatto che la respirazione meccanica fosse più dannosa che utile al suo benessere fisico.

Cosa pensa della legge sulle Dat?
In un recente passato ho subito delle contestazioni perché pubblicamente avevo affermato che molte volte i medici sedano i malati senza aver ottenuto il loro consenso e per questo fui chiamato in giudizio presso l'ordine dei medici della mia provincia. Le raccomandazioni delle società scientifiche di cure palliative dicono che la sedazione va discussa con il paziente. Questa legge insiste molto sulla necessità di un consenso informato. Nonostante questo ho anche una certa impressione che nel tentativo di evitare forme di accanimento terapeutico si apra piuttosto la strada a possibili soluzioni rinunciatarie, di possibile abbandono terapeutico, richiesto dal malato e acconsentito dal medico. Niente a che vedere con la filosofia delle cure palliative che si preoccupano invece di offrire ai malati la possibilità di terminare la propria vita in modo naturale, con minor sofferenza possibile e salvaguardando il valore della relazione tra chi cura e chi viene curato. Con questa legge si voleva abolire il cosiddetto “paternalismo” medico affermando l’autodeterminazione della persona malata, ma il rischio è quello di invertire l’asimmetria tra i due soggetti. La legge apre la possibilità infatti che il malato imponga al medico cosa possa fare e cosa non possa, senza appello. Non per niente il termine originale “dichiarazioni” è stata sostituita con “disposizioni”, molto più coercitiva sul comportamento del medico. Non per niente la legge non prevede neppure l’obiezione di coscienza da parte del curante.





[Modificato da Caterina63 20/01/2018 08:47]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)