00 09/11/2010 17:45

Il passo della lettera  riportato nel post precedente è qui postato ora integralmente:



Lettera a un seminarista

di Andrea Maniglia

CITTA’ DEL VATICANO -

"[…] Tuttavia, io sento in me altre vocazioni, sento la vocazione del guerriero, del sacerdote, dell’apostolo, del dottore, del martire … Sento la vocazione del sacerdote. Con quale amore, Gesù, ti porterei nelle mie mani quando, alla mia voce, discenderesti dal Cielo! Con quale amore ti darei alle anime! Ma, pur desiderando di essere sacerdote, ammiro e invidio l’umiltà di San Francesco d’Assisi, e sento la vocazione d’imitarlo, rifiutando la dignità sublime del sacerdozio" (Santa Teresa di Lisieux, Storia di un anima). Spesso mi capita che per articoli, approfondimenti e studio personale, riprenda in mano vecchi e nuovi libri che trattano della spiritualità sacerdotale. Mi accorgo che sull’argomento non c’è che l’imbarazzo della scelta! Dai libri che parlano del sacerdote, a vere e proprie "guide" che ne delineano il profilo umano, culturale e psicologico. Da riflessioni di alti prelati a studi di luminari illustri. Sul prete si è scritto sempre e tanto. E per fortuna, visto che in questo preciso momento storico è la persona più studiata e analizzata. Purtroppo, poco si è scritto su colui che si prepara a essere prete: sul seminarista neppure una riga, mai! Poiché molti, allora, han cercato di parlare del sacro ministero, ho deciso anch’io, da chiamato al presbiterato, di scrivere per te, seminarista, questa lettera, perché possiamo, insieme, comprendere maggiormente quello a cui siamo stati chiamati e che ci prepariamo a ricevere per mezzo dell’imposizione delle mani e della preghiera della Chiesa. Sembra, comunque, bizzarro che un seminarista azzardi a stilare una lettera ad un suo "collega". Non sono degno di scriverti, infatti, questa missiva di carattere umano e spirituale. Lo faccio, quindi, malgrado la mia incapacità e la mia ignoranza, per l’amore che porto alla nostra chiamata e alla nostra futura missione. Sento nel cuore la necessità di parlarti da amico ma ancor più da fratello. Sì, fratello! Giacché condividiamo non solo la stessa figliolanza divina ma anche la stessa chiamata a essere "padri", poiché rigenereremo quotidianamente la comunità cristiana, con la parola e i Sacramenti, alla vita nuova di Colui che ci ha chiamato a servirlo nei suoi fratelli. Dio, nella sua grande sollecitudine paterna, ci darà una grazia straordinariamente preziosa: essere pastori e guide del suo popolo!

Chiamati a essere Santi

“Mettiamo dunque in pratica la volontà del Padre, ascoltiamo il Logos e imbeviamoci del salvifico stile di vita del nostro Salvatore, noi fanciulli del Padre buono e pupilli del buon Pedagogo. Ungiamoci con il sempre fresco e incorrotto crisma che dà serenità e profumo, adoperandoci fin da quaggiù a vivere una vita celeste, tramite cui divinizzarci: prendiamo lo stile di vita del Signore e seguiamo le orme di Dio. A lui solo dobbiamo rivolgere lo sguardo, poiché egli si prende cura di come la vita dell’uomo possa diventare più sana. Ma egli ci dispone anche a una vita autosufficiente, sgombra di cose superflue; per prepararci alla vita eterna beata, ci dispone ad una vita di pellegrini, facile da condurre e facile da lasciare, insegnandoci che ognuno di noi è per se stesso la propria cassa delle provviste”.

(da Il Pedagogo, Clemente Alessandrino). Spesso, sicuramente avrai ripetuto nel tuo cuore: "Devo diventare un prete santo!" Come è vero! Come è straordinariamente vero! Sì, dobbiamo essere santi, altrimenti le sue pecorelle ci sfuggiranno e in gran numero si perderanno! Le parole e le opere di un prete santo colpiscono, commuovono, trafiggono in modo insolito le anime e le rinnovano in modo straordinario. Nella quotidiana pastorale la scienza è un aiuto, i talenti sono necessari, ma senza la santità saremo più o meno “bronzo che risuona e cembalo che tintinna (I Cor. 13,1)”. Nonostante la scienza e i talenti, cerchiamo di essere prima di tutto uomini di preghiera! Uomini che si fidano di Dio, che viaggiano nel mondo in un clima di fiducia completa e totale in Colui che può ogni cosa! Una volta, il Servo di Dio Papa Paolo VI scrisse al giornalista e scrittore Giuseppe Prezzolini per chiedergli un consiglio su come "entrare in dialogo con i lontani". Ebbe questa risposta: "Gli uomini di Chiesa devono essere buoni e mirare a uno scopo soltanto: creare uomini buoni. Non c’è nulla che attiri come la bontà, perché di nulla noi increduli siamo tanto privi. Di gente intelligente il mondo è pieno, quel che ci manca è la gente buona. Formarla è il compito della Chiesa: per riattrarre gli uomini al Vangelo, tutto il resto è secondario". Prezzolini parla degli uomini di Chiesa come di "gente buona"; io aggiungerei accanto al termine ‘buona’, la parola santa. Gente buona e santa! Che profumi di Vangelo! Che profumi di Cristo! "Il mondo contemporaneo - ha segnalato Paolo VI - ha bisogno non solo di maestri ma anche di testimoni". Ha bisogno di testimoni santi! Il cuore dell’uomo oggi necessita di profeti e di testimoni forti e credibili che annuncino Cristo e il suo Vangelo per dare senso pieno all'esistenza. Santità e apostolato, dunque, camminano insieme! Sicché se manca una o l’altro ne risentono entrambi. Per essere santi però urge necessariamente essere umili.
 
L’atteggiamento giusto, a parer mio, è quello del patriarca Abramo che dinnanzi alla potenza di Dio si riconosce "polvere e cenere" (Gen. 18,27). Dobbiamo sentirci infinitamente piccoli, infinitamente bisognosi della tenerezza di Dio, che è attento al giglio e al passero campestre (Matteo 6,25-34). "Quando io dico: Signore io credo - affermava Giovanni Paolo I, nell’Udienza Generale del 6 settembre 1978 - non mi vergogno di sentirmi come un bambino davanti alla mamma". Ritenersi piccoli, semplici, insufficienti e bisognosi, come il lucignolo fumigante e la canna chinata, dell’Amore di Dio! Dobbiamo essere santi come Lui è Santo (Esodo 11, 45)! Sforzandoci di essere santi, nelle difficoltà del quotidiano, contageremo quanti ci stanno accanto. Guardiamo al Curato d’Ars che il Santo Padre Benedetto XVI ha proposto come modello presbiterale. Egli, con la santità e la preghiera sincera, fiduciosa e fedele, ha convertito un popolo di "lontani". Cerchiamo di essere modello per tutti! Modello di carità operosa, che non cerca il proprio interesse ma che si impegna e sforza per il trionfo del Regno di Dio. Incorporati in Cristo, per mezzo del Battesimo e dell’Ordine Sacro, viviamo oggi e domani, poi, la santità cristiana, "la quale prima ancora che un compito e uno scopo, è un dono e uno stato". Vivendo pienamente la nostra personale chiamata alla santità, potremo "annunziare la Parola, insistere in ogni occasione opportuna e non opportuna, ammonire, rimproverare, esortare con ogni magnanimità e dottrina" il popolo che, il nostro Vescovo, ci vorrà affidare, il quale guardando all’integrità e alla nostra irreprensibilità, seguirà saggiamente i nostri piccoli-grandi consigli e le nostre direttive. Non dimentichiamo mai, nella preghiera, di dire al Signore: "Fammi santo! Fammi diventare come tu desideri!".

Ripetiamolo sempre al Signore, la santità non è opera nostra ma dello Spirito di Dio, è un lasciarsi fare dalla grazia che germina e intensifica in noi la vita di Dio, per essere ‘santi e immacolati’ (Ef 1,4) e vivere ‘come si conviene ai santi’ (Ef 5,3; Col 3,12). E quando per l’umana stanchezza l’annuncio dell’Evangelo e il ministero apparirà pesante, guardiamo al Cuore Sacratissimo di Gesù e rinnoviamo dinnanzi a Esso le promesse fatte il giorno della nostra ordinazione nelle mani del Vescovo. "Il Sacerdozio è l'amore del cuore di Gesù", soleva affermare il Santo Curato d’Ars. Il Suo Cuore, fornace ardente di Carità e bontà infinita, non tarderà a consolare i nostri cuori di uomini, cristiani e presbiteri. Ricorda: noi viviamo che una sola volta e non restiamo quaggiù: siamo pellegrini e viandanti protesi alla ricompensa per le nostre fatiche. La nostra meta sarà quella del riposo. Il riposo in Lui, nel Suo Cuore che ci "ha scelti prima della creazione del mondo" (Ef 1,4). "Un buon pastore, un pastore secondo il cuore di Cristo - ripeteva San Giovanni Maria Vianney - è il più grande tesoro che il buon Dio possa accordare ad una parrocchia e uno dei doni più preziosi della misericordia divina". Facciamoci santi! Cerchiamo di essere oggi stesso santi per l`ampiezza, la lunghezza, l`altezza e la profondità della nostra chiamata! Abbiamo numerosi modelli di vita santa: Luigi Gonzaga, Giovanni Bosco, Alfonso Maria de’ Liguori, Padre Pio e un infinita schiera di uomini che hanno scelto di essere presbiteri spendendosi tutti per il bene della Chiesa e delle anime!

"Dopo Dio - continua il Santo Curato d’Ars - il sacerdote è tutto!... Lui stesso non si capirà bene che in cielo". I pastori di oggi devono ritrovare il senso e la bellezza del loro apostolato. Essere nel mondo presenza efficace della Parola fatta carne, che si fa vicinissima, raggiungendo i suoi destinatari, cioè gli affaticati, gli ultimi, i derelitti e i poveri. Un prete santo come Gesù, buon samaritano, "viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza! (Prefazio comune VIII)". Proprio al samaritano presentato da Luca nel capitolo 10 del suo Vangelo, deve ispirarsi ogni sacerdote. Lo chiede ogni uomo della terra! "Il samaritano è figura di Cristo, della sua carità compassionevole, espressione efficace della bontà misericordiosa del nostro Dio che nel farsi prossimo del Figlio ha visitato e redento il suo popolo". Ecco che l’amore per Cristo, seppure imperfetto per la nostra fragile condizione, ci spingerà a diventare pane per il bisogno del fratello. Il nostro amore e la nostra totale fedeltà sarà ripagata dal Cuore di Cristo, il quale apparendo a Santa Margherita Maria Alacoque, rassicurò la santa suora che ci avrebbe dato il dono di toccare i cuori più induriti. Chiamati alla santità! "Mihi vivere Christus est." Dobbiamo essere interiormente un altro Cristo e apparire esteriormente come un altro Cristo davanti agli uomini; il che vuol dire non essere preti qualunque ma preti santi!

Chiamati a esser poveri

Guai ai ricchi perché hanno le loro soddisfazioni su questa terra. Beati pauperes! Come è dolce la bocca del Cristo Maestro quando proclama beata l’umana e spirituale povertà. Abbiamo scelto di essere tutto del più povero dei poveri che per amore nostro si spogliò della divinità e si fece ultimo. Abbiamo scelto di conformarci a Colui che non aveva neppure una pietra dove posare il capo. Abbiamo scelto la povertà eppure come è difficile viverla! Il decreto Conciliare ‘Presbyterorum Ordinis’ al numero17 rammenta che i sacerdoti "vivendo in mezzo al mondo devono però avere sempre presente che essi non appartengono al mondo". Con l’ordine sacro non saremo più del mondo ma con lo sguardo rivolto verso il cielo lavoreremo come collaboratori dell’ unica Parola, per la salvezza delle anime. La povertà unita imprescindibilmente all’umiltà diventa santità di vita. Santità di vita capace di spalancare le porte del Paradiso. Questo, però, non è invito che il Cristo rivolge solo ai suoi eletti ma a ogni buon Cristiano. Ogni uomo, infatti è oggetto di un amore grande, anzi direi smisurato da parte di Dio maggiore di quello che ha una mamma per il frutto del suo seno. Un amore, quello di Dio, che non ha rifiutato di salire sul patibolo della croce; un amore, direi, semplice e povero che non possiede nulla ma che dona e ridona, crea e ricrea! Ecco perché, caro amico, dobbiamo sentire nel cuore l’esigenza di essere poveri! Vivere quella povertà evangelica che non è mancanza di ogni bene di questa terra ma distacco che permette di averli e non sentirsene condizionati. Solo così, a parer mio, nessuno resterà scandalizzato e non indurremo i fratelli più poveri ad allontanarsi. Mi piace però leggere quella della povertà come "promessa di appartenere solo a Dio" e come forma di abbandono fiducioso nella Sua divina Provvidenza.

Sforzandoci, nell’umano limite, di vivere la povertà dettata dal Cristo impareremo ad avere "occhi per vedere le necessità e le sofferenze dei fratelli (Preghiera Eucaristica V/c)". Vivere la povertà non è facile; lo diventa se lo si compie in un clima di completa dedizione a Dio e ai fratelli. Parlando della povertà, sovviene repentina alla mente la figura di Francesco d’Assisi. Il suo messaggio è più attuale che mai. Se ancora oggi, nel mondo, si prega e si canta con le parole di Francesco, è proprio per la radicalità della risposta data all’invito di Cristo a essere poveri. Conosci anche tu, certamente, la sua storia. Mi piace sottolineare quanto Dante Alighieri afferma magistralmente nell’undicesimo canto del Paradiso: "A' frati suoi, sì com' a giuste rede, raccomandò la donna sua più cara, e comandò che l'amassero a fede". Raccomandò l’amore a sorella povertà, strada maestra che conduce all’incontro reale col Risorto! Cerchiamo di essere poveri per essere ricchi di Gesù! Amiamo! Amiamo continuamente e senza stancarci mai, essendo per tutti amici, fratelli e padri! Saremo tabernacoli viventi della sua presenza. Vivendo quotidianamente il grande comandamento dell'Amore saremo lievito di unione nella comunità. ''La strada che ci riconduce alla vera ricchezza ormai passa attraverso la pasqua della povertà. Camminiamo così alla sequela di Cristo, che da ricco che era si è fatto povero per arricchirci per mezzo della sua povertà. Dio guida i poveri secondo giustizia e insegna loro le sue vie. Sapendo questo, potremo accettare di perdere tutto per guadagnare Cristo. La nostra povertà non è più una teoria, né una pratica e neppure un ideale, ma un volto: Dio, per noi, si è fatto povero in Cristo Gesù. Nella contemplazione del suo Volto comprenderemo il vero senso del mistero di povertà''. Cerchiamo di essere poveri non solo delle cose materiali, ma sopratutto di quelle spirituali, abbandonati volontariamente alla volontà di Dio. ''La povertà materiale è facile. La povertà per solidarietà ci riesce faticosa. La povertà affettiva è sempre dolorosa. La povertà spirituale crocefigge''.

Amiamo il popolo santo di Dio, trasformandoci per ogni uomo in pane spezzato! Formiamo un cuore grande sicché ognuno possa riposarvi gettandovi le difficoltà dell'umano vivere. Offriamole al Padre. Nella Celebrazione Eucaristica riponiamole sulla patena con il pane che il ministro sacro presenta all’Eterno sacerdote, al Pontefice della nuova ed eterna alleanza. Gettiamo tutto nel Cuore di colui che è amore crocefisso per amore. Cerchiamo di avere un ''cuore di carne'' che si intenerisca, comprenda, tenga conto delle realtà e sappia che gli uomini sono esseri sensibili e non puri spiriti. Anche nei casi più difficoltosi non disperiamo. ''Per quanto ostinati possano essere i peccatori - dice San Francesco di Sales -, non disperiamo di aiutarli e di essere loro utili''. L'uomo ha bisogno di amore, l'uomo ha sete di Dio! Apriamo i tesori racchiusi nel Cuore di Cristo e riversiamoli all'uomo desideroso di Dio! La preghiera fiduciosa sarà il nostro sostegno! Preghiamo per quanti pregano per la nostra vocazione; sono tante le anime, nella Chiesa, che mosse da zelo e vivo amore offrono preci e sacrifici perché il padrone continui a mandare fedeli collaboratori alla sua messe (Luca 10,1-4). È, infatti, largamente diffusa, nelle comunità parrocchiali e nei piccoli cenacoli di preghiera famigliari, la prassi di pregare per il seminario, cuore pulsante della diocesi: è tra le sue mura, appunto, che lo Spirito Santo scrive le più belle pagine di santità! Amiamo la nostra comunità! In essa sbocciano i propositi di carità che spuntano nella preghiera. Non possiamo amare Dio che non vediamo se non amiamo il fratello che vediamo, tocchiamo, con il quale parliamo e al quale affidiamo i nostri desideri più intimi. Saremo immagine riflessa dell’amore che si respira in Paradiso! Apriamo il cuore al bisogno! Apriamo così la nostra vita al Dolce Viandante in cerca d’amore che sta alla porta e bussa! La nostra vita sarà soave melodia d’amore.

Chiamati a esser obbedienti

''[…] Mostra l’obbedienza che scaccia l’amore alla contesa, odiata da Dio e da quelli che lo amano. Tieni stretta l’obbedienza, che fa salire fino al cielo e rende simili al Figlio di Dio quelli che l’acquistano''. (Epistolario 251, San Barsanufio di Gaza). ''Il modello perfetto dell'obbedienza è nel mistero della Trinità. Fra Padre, Figlio e Spirito Santo, tutto è ascolto, accoglienza e dono. Da questa totale dipendenza nasce la suprema libertà; dal rispetto della loro diversità sorge la perfetta comunione. [...] L'obbedienza non è invenzione degli uomini ma l'espressione stessa dell'essere di Dio. Attraverso di essa, Egli non ci vuole indurre in un rapporto di dipendenza, di sottomissione, e nemmeno di pacificazione,ma in un libero rapporto di amore''. L'obbedienza diviene uno dei punti importanti nella vita del presbitero, sia esso diocesano o religioso. Una obbedienza che non è, dunque, esercizio passivo della propria volontà, (perinde ac cadaver, "[ben disciplinati] come un cadavere"). Ma che diventa risposta libera e generosa all'invito del Redentore il quale ricordava ai suoi discepoli : ''Chi ascolta voi, ascolta me! (Luca 10,16)''. ''L'obbedienza ci donerà la gioia e la pace. L'obbedienza non ci rimpicciolisce, ma ci fa crescere, non ci restringe ma ci dilata''. Per essere uomini obbedienti bisogna essere umili. Come la santità, anche l'obbedienza è unita strettamente all'umiltà. Cerchiamo di essere obbedienti. Anzitutto al Sacro Magistero. Fedeli al nostro Vescovo, nelle cui mani dobbiamo rinnovare questa promessa. Fedeli al Santo Padre. Nelle sue mani il Cristo Risorto diede le Chiavi del Regno. Egli - come ci ricorda Santa Caterina da Siena, a seguito di una visione - è il dolce Cristo in Terra. Amiamo il Papa. Amiamo il suo insegnamento e restiamo attenti alla sua parola.

In senso profondo e affettuoso, direi quasi di ripetere ogni giorno, come faccio io, ''Santità, Le voglio bene!''. Impariamo a metterci in ascolto di quanti il Signore ha costituito, ''con la varietà dei doni e dei carismi'', suoi vicari. Essi non annunciano una dottrina personale, ma quella del Cristo! San Paolo ci ricorda che: ''La fede viene da ciò che si ascolta, e ciò che si ascolta viene dalla parola di Cristo (Romani 10,17)''. Da sempre il Magistero e il Santo Padre sono stati oggetto di derisione e offese! Da Lutero a Voltaire, patrono dei laicisti ed anticlericali. Da Voltaire a Napoleone, modello dei persecutori, il quale ha imprigionato, umiliato e deportato il Papa. Da Bonaparte, che dall’alto della roccia di Sant’Elena contemplando a lungo il mare, il cielo e pensando al suo Impero andato in frantumi, esclamò: "I popoli passano! I troni crollano! La Chiesa resta!", a quanti ancora oggi minacciano il Sacro Magistero. La Chiesa! La nostra Sposa diletta resterà per sempre, perché non è opera di uomini ma di Cristo Dio! E anche se essa appare poco santa, racchiude nel suo cuore la forza della salvezza, l’unica in grado di cambiare questo mondo! Ripetiamo con San Luigi Orione: "Il Papa! Ecco il nostro Credo e l’unico Credo della nostra vita". Caro confratello nella chiamata, il messaggio di salvezza che ci sforziamo di annunciare non è nostro, lo abbiamo ricevuto dalla Santa Tradizione, annunciamolo pertanto con fedeltà e amore! San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, afferma: ''Vi ho trasmesso quello che anch'io ho ricevuto''.

Questo è il nostro compito: annunciare ''quello che abbiamo ricevuto'' senza aggiunte personali. Nella concretezza della vita, tuttavia, è duro obbedire. Obbedire anzitutto ai comandi di Dio e poi a quelli dell’autorità. "I comandamenti - diceva Papa Luciani - sono un po' più difficili, qualche volta tanto difficili da osservare; ma Dio ce li ha dati non per capriccio, non per suo interesse, bensì unicamente per interesse nostro". Spesso, per tutti i cristiani, c’è tanta difficoltà a mettere in pratica i comandamenti del buon Dio! Il Cardinale Francis Arinze parla - nel suo libro sul sacerdozio - dei quattro amori che devono essere presenti nella vita del presbitero o comunque, perché no, di quanti si preparano a esserlo. L'amore per Gesù Cristo. Amore, questo, che deve contraddistinguere la vita e lo stile di un ministro di Dio. Altro amore è quello per la Chiesa, Corpo mistico del Redentore Risorto. Sottolinea il Cardinal Arinze, nelle sue riflessioni, a tal proposito, che ''fra tutti coloro che devono amare la Chiesa, il primo deve essere il sacerdote. L'amore per il Santo Padre e per il Vescovo diocesano, la fedele cooperazione con loro e con i loro collaboratoti nel ministero, sono i modi per dimostrare la fede nel mistero della Chiesa''. Un mistero che si manifesta in maniera straordinariamente evidente nella celebrazione dei Sacramenti e in particolar modo in quello della Celebrazione Eucaristica. Essa, come ci ricordano i Padri del Vaticano II, è ''il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutto il suo vigore” (SC 10). Il sacerdote deve necessariamente celebrare i sacri riti secondo le indicazioni della Chiesa, ''anziché seguire piuttosto idee personali o modificare i riti stabiliti a seconda della propria fertile immaginazione o propensione creativa''. Essere attenti nelle celebrazioni, eseguire fedelmente quanto la sapienza della Chiesa ha consegnato a noi nella sua millenaria storia; consapevoli che per mezzo di quelle parole si attua e manifesta il mistero salvifico di Dio Padre, Dio Figlio e Dio Spirito Santo!

L'obbedienza, a parer mio, passa anche attraverso queste piccole semplici cose, che però ci fanno gustare e assaporare il mistero e la ricchezza che è nascosta nel cuore della Chiesa. Sforziamoci di vivere, perciò, con amore e fedeltà alla Chiesa il momento in cui, all'uomo bisognoso di Dio, doneremo la grazia dei Sacramenti. Da qui nascerà un amore straordinario per la Chiesa. Per quella Chiesa che ci ha generati a vita nuova in Cristo e che ci consacrerà suoi ministri. San Cipriano, nell' opera ‘De Catholicae unitate ecclesiae’, dichiara che non si può avere Dio per Padre se non si riconosce la Chiesa come Madre. Sì! Carissimo, la Chiesa ci è Madre, è noi, futuri sacerdoti, nel suo Cuore dobbiamo essere quel fuoco inestinguibile che arde: ''Nel cuore della Chiesa, noi dobbiamo essere l'Amore!''. Essere amore, questa è la vocazione del presbitero! Amore che dona e che si dona, che ''offre Cristo a Dio Padre ma impara anche a offrire se stesso in Cristo, per Cristo e con Cristo!''. Impariamo, pertanto, a essere uomini di missione. Sacerdoti per la Chiesa sparsa nel mondo! Nascerà dall'amore alla Chiesa un amore per il celibato che, come ci ricorda il Santo Padre nel documento ‘Sacramentum caritatis’, se ''vissuto con maturità, letizia e dedizione è una grandissima benedizione per la Chiesa e per la stessa società''. Amiamo il nostro celibato; amiamo questa ''ferita'' che portiamo per amore del Vergine e del Casto. La verginità, se vissuta all’ombra della Croce, farà di noi testimoni silenziosi e forti di Gesù Risorto. ''Nel cuore di questo mondo frammentato, in cui il peccato ha sconvolto l’armonia, ha macchiato la primitiva bellezza'', la nostra scelta sia riflesso dell’amore Trinitario. Saremo nel mondo profumo di Cristo!

Maria

Il Cardinal Arinze, nelle sue riflessioni sul presbiterato, evidenziava la presenza necessaria, nella vita del sacerdote, di un amore particolare per la Vergine Santa. Da sempre la tradizione della Chiesa e la pietà popolare hanno additato Maria Santissima come la Regina del Clero e degli Apostoli. Essere innamorati di Maria, rimarca lo stesso Cardinal Arinze, ''non è affatto una questione di sentimentalismo''. A parer mio, essere devoti di Maria è una questione prettamente spirituale che senza dubbio ha riverberi nel quotidiano e nel reale. Sapere in cielo una mamma presente e amorevole è sostengo nei momenti di particolare sofferenza. Amare Maria è un dovere! Falla conoscere è una missione. Far conoscere al mondo il Cuore Immacolato della Vergine è la missione del presbitero. Far conoscere il cuore della mamma celeste è la nostra missione. Un cuore attento che attende, premuroso, vigile, che sovviene ai bisogni di coloro che ''fanno quello che il Maestro dirà'' (Gv 2,5). Portare le anime a Gesù, portarle per mezzo di Maria e della Sua potente intercessione. ''L'amore per la beata Vergine - scrive il Cardinal Arinze - è dunque uno degli autentici amori del presbitero; non solo è raccomandato, ma il sacerdote non può permettersi di farne a meno''. Maria ci svela il criterio della nostra chiamata. Maria dovrebbe essere così intima al cuore del sacerdote e di ogni fedele cristiano perché Lei svela le modalità della nostra chiamata: Dio prende i semplici, i poveri dalla povere delle loro occupazioni e li costituisce ministri.
 
Come lo fu per Maria, lo è stato anche per noi! Dio ci ha scelto nella nostra miseria e noi non abbiamo potuto non rispondere dinnanzi a tanto amore, ripetendo le parole della prima chiamata: ''L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva''. Santa Teresa di Lisieux espresse, nei suoi appunti spirituali, il desiderio di aver voluto essere sacerdote per parlare della beata Vergine. Spesso, nei sermoni, si delineava di Maria ''una vita fantastica''. La Santa di Lisieux sottolineava che Maria non bisogna presentarla ''inaccessibile, ma invece bisogna farla vedere imitabile, farne scoprire le virtù e dire che viveva di fede come noi''. Dopo aver ascoltato le prediche di alcuni sacerdoti, lamentava il fatto che questi facessero di Maria una donna lontana, una donna da ammirare piuttosto che imitare. Invece no, essa è la donna del quotidiano, vicina più cha mai alle necessità degli uomini. Se, dunque, lei, la Madre del Figlio di Dio, ha a cuore le sorti dell’umano genere, quanto più non avrà a cuore la vita, il ministero e la missione di quanti hanno consacrato la loro vita per il Vangelo? Affidiamoci a Maria, consegniamo al suo cuore di Madre le nostre ''gioie e le speranze, le tristezze e le angosce'' insieme a quelle ''degli uomini d'oggi, dei poveri, soprattutto, e di tutti coloro che soffrono'' (GAUDIUM ET SPES1). Essa non resterà sorda al grido dei figli. Sia sempre benedetto il nome santissimo di Maria'', giubilo al cuore, miele alla bocca, melodia all’orecchio''.

La grandezza della nostra chiamata

La mia esperienza vocazionale mi ha concesso la straordinaria opportunità di toccare con mano la veridicità delle parole del grande maestro e dottore della Chiesa, Agostino: ''Ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non riposa in te'' (Conf. 1,1). In questo mondo che vuole sradicare le radici cristiane che per secoli lo hanno alimentato, c’è un forte desiderio d’Infinito, d’eternità.''Eppure - diceva il convertito Giovanni Papini -, dopo tanta dilapidazione di tempo e d’ingegno, Cristo non è ancora espulso dalla terra. La sua memoria è dappertutto. Sui muri delle Chiese e delle scuole, sulle cime dei campanili, dei tabernacoli e dei monti, a capo dei letti e sopra le tombe, milioni di croci rammentano la morte del Crocefisso. Raschiate gli affreschi delle Chiese, portate via i quadri dagli altari e dalle case, e la vita di Cristo riempie i musei e le gallerie. Buttate nel fuoco i messali, breviari e eucològi, e ritroverete il suo nome e le sue parole in tutti i libri di letteratura. Perfino le bestemmie sono un involontario ricordo della sua presenza. Cesare ha fatto, ai suoi tempi, più rumore di Gesù: e Platone insegnava più scienza di Cristo. Ancora oggi se ne ragiona del primo e del secondo; ma chi si accalora per Cesare o contro Cesare? E dove sono oggi i platonisti e gli antiplatonisti? Cristo, invece, è sempre vivo in noi. C’è ancora chi lo ama e chi lo odia. C’è una passione per la passione di Cristo e una per la sua distruzione. E l’accanirsi di tanti contro di Lui dice che non è ancora morto''. No! Cristo non è morto ma vive e opera nel cuore di quanti hanno scelto di incarnare il suo insegnamento nelle vicende lieti e tristi della vita.

Noi, del resto, carissimo amico, non abbiamo scelto un ideale, un motto o una teorica, fredda, distaccata filosofia. Noi abbiamo scelto Cristo: l’unico grande rivoluzionario della storia! ''Amore, amore che sì m’hai ferito, altro che amore non posso gridare; altro non posso che te abbracciare; amore, amore, forte m’hai rapito, lo cor sempre se spande per amare; per te voglio pasmare, amor ch’io teco sia, amor per cortesia famme morir d’amore'' (Laude, Jacopone da Todi). Desidero, carissimo amico e fratello, aggiungere, prima della conclusione, una riflessione al brano dell’Evangelo di Giovanni 21,1-19, che per me è consolazione nei momenti di sconforto e gaudio in quelli di speciale letizia. In esso mi piace soffermarmi quando l’umano vuole colloquiare col divino. ‘In quel tempo, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così: si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli. Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma quella notte non presero nulla. Quando già era l'alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù. Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No». Allora egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non riuscivano più a tirarla su per la grande quantità di pesci. Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «È il Signore!». Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si strinse la veste attorno ai fianchi, perché era svestito, e si gettò in mare. Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: non erano infatti lontani da terra se non un centinaio di metri. Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane. Disse loro Gesù: «Portate un po' del pesce che avete preso ora».

Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di 153 grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si squarciò. Gesù disse loro: «Venite a mangiare». E nessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», perché sapevano bene che era il Signore. Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede loro, e così pure il pesce. Era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risorto dai morti. Quand'ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo, per la seconda volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi ami?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pascola le mie pecore». Gli disse per la terza volta: «Simone, figlio di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli domandasse: «Mi vuoi bene?», e gli disse: «Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene». Gli rispose Gesù: «Pasci le mie pecore. In verità, in verità io ti dico: quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi». Questo disse per indicare con quale morte egli avrebbe glorificato Dio. E, detto questo, aggiunse: «Seguimi»’. Il narratore definisce questa la terza volta che Cristo Gesù appare a suoi Apostoli. Dopo la resurrezione, infatti, Gesù restò 40 giorni sulla terra e dimorò parecchie volte con i suoi amici. "Abitava e pranzava con loro e permetteva di essere esaminato e toccato con scrupolo e curiosità da quelli ch’erano ancora erano stretti dal dubbio, a tal fine entrava dai discepoli attraverso porte chiuse, insufflava lo Spirito Santo e, elargita la luce dell’intelligenza, spiegava i punti oscuri delle Sacre Scritture; e d’altra parte egli stesso indicava la ferita al fianco, i fori dei chiodi e tutti i segni della Passione ancora recente" (Leone Magno, Lettera Dogmatica a Flaviano). Il capitolo 21, però, non bisogna considerarlo come continuazione del capitolo 20; esso è certamente aggiunta posteriore, ed è questa l'ipotesi più accreditata, di qualche membro della scuola di Giovanni.
 
C'è da domandarsi sulle motivazioni che spingono il narratore ad aggiungere al capitolo 20 il presente epilogo. L’intento, profondamente ecclesiale, vuole far avvicinare le comunità giovannee a quelle petrine. Il testo ha un ruolo ecclesiale: vuole recuperare il ruolo dell’Apostolo Pietro senza, però, mettere in discussione l’autorità del discepolo prediletto, che nel brano evangelico è stato presentato come un testimone privilegiato. Il presente brano può certamente essere ricollegato con il brano della pesca miracolosa narratoci dall’evangelista Luca (5,1-11). In entrambi possiamo cogliere alcuni punti di concordanza: 1) L’autorità petrina 2) La pesca miracolosa 3) Lo stupore-gaudio 4) La sequela. L’affermazione di Pietro riportataci al versetto 3: "Io vado a pescare!", sembra voler significare un ritorno alla quotidianità dopo i tragici eventi che hanno sconvolto la vita degli Apostoli. Una quotidianità infruttuosa, quella che vivono gli Apostoli, lontani come sono dal loro Maestro! Tutto, però, si stravolge quando al versetto 6 l’Evangelista riporta le parole di un tale che dalla battigia contemplava gli forzi inutili di quegli uomini. "Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete!". Ancora una volta agli Apostoli è chiesta la fiducia, la completa e totale fiducia in Colui che tutto può! L’invito del misterioso uomo fece riecheggiare nelle orecchie del discepolo prediletto le dolci parole del Maestro (Luca 5,4). È Lui, si dissero pieni di stupore: Dominus est, ὁ Κύριός ἐστιν. L’emozione e i sentimenti che riaffiorarono nel cuore di Pietro all’udire queste parole, furono sicuramente tanti! Si vestì e si gettò in mare; gesto un po’ insolito! Giunti a riva, calarono le reti stracolme di 153 grossi pesci. Il numero 153 è un numero simbolico. Molti hanno cercato di dare delle interpretazioni: San Girolamo pensa che esso è simbolo dell’universalità, in quanto nel I secolo, 153 erano le specie di pesci conosciute.

Sant’Agostino pensa sia simbolo della pienezza, come somma di tutti i numeri da 1 a 17. Cirillo d’Alessandria ritiene sia il simbolo della Chiesa, 100 come numero dei pagani, 50 del resto di Israele e 3 la Trinità. Possiamo dare, al numero, una lettura sicuramente di tipo ecclesiale. La rete che non si rompe (versetto 11) rappresenta la Chiesa che accoglie tutti gli uomini e come Madre premurosa si prende cura di essi. Non avevano coraggio di chiedergli: "Chi sei?". Sapevano che quello era il Crocefisso Risorto; "scientes quia Dominus est". Quando ebbero finito di condividere il pranzo, Gesù domanda a Pietro: "Simone di Giovanni, mi ami tu più di costoro? Σίμων Ἰωάννοʋ ἀγαπᾷς με πλέον τούτων - Σίμων Ἰωάννοʋ φιλεῖς με". Con queste parole inizia lo straordinario colloquio tra il Pastore e l’umile agnello di Galilea, il semplice pescatore che a Cesarèa di Filippi lo definì il Cristo (Marco 8,29). Pietro, il primo Papa, colui che nonostante i limiti è divenuto la pietra su cui si fonda la Chiesa. Le tre domande del Risorto si contrappongono alle tre negazioni di Pietro; ricordiamo, purtroppo, come l’Apostolo negò per ben tre volte dinnanzi alla portinaia di conoscere il Redentore. Nel famoso colloquio, che esalta la dolcezza del Maestro, Gesù scende ancora una volta al livello dell’uomo. Egli si accontenta non di un amore totale ma diremo parziale da parte dell’Apostolo. È qui che si inserisce il famoso gioco tra ἀγαπᾷς (amare) e (voler bene) φιλεῖς. Gesù, per ora, si accontenta di un semplice ‘ti voglio bene’, nella consapevolezza che Pietro darà la vita per Lui. Per ora, il Cristo Risorto affida all’Apostolo il delicato e gravoso compito di pascere il gregge (agnelli e pecore madri). Lui, il primo Papa, conduce per mano, nel mare della storia, il popolo santo di Dio. Dopo aver preannunciato il suo martirio (testimonianza di fedele amore verso Gesù!), il Risorto aggiunge: "Seguimi, sequere me, ἀκολούθει μοι". Quel ‘seguimi’ può essere collegato con il ‘seguimi’ della chiamata dell’Apostolo sulle rive del lago di Gennèsaret, come personale riconferma alla chiamata divina e con il brano evangelico di Giovanni 12,26 nel quale Gesù afferma che dove è Lui, là sarà anche il suo servitore.

Cristo è passato dalla Croce e, dunque, anche i suoi collaboratori per regnare con lui devono necessariamente passare dalla croce. "Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere" (Gv 21,25). Questo ultimo versetto sostiene e rafforza la nostra debole fede e speranza: quella escatologica che vedrà l’umano genere finalmente raccolto attorno all’unico grande Pastore. "Lo Spirito e la sposa dicono: «Vieni!» (Ap 22,17)". Questo è un brano dolcissimo, che racchiude un mistero straordinariamente bello: quello di un Dio che, per solo amore, prende i piccoli e i semplici dal fango delle loro occupazioni e li costituisce suoi collaboratori. Seguire il Maestro non è cosa di poco conto; è, invece, un impegno quotidianamente fedele che ci invita a testimoniarlo Risorto e vivo nel mondo.

Conclusione

''O sacerdos! Tu quis es? ... Nihil et omnia!''. Chi sei, dunque, o sacerdote? Niente e tutto! Qualche tempo fa mi capitò tra le mani un libro che raccoglieva alcune riflessioni di Padre Mario Venturini, che fu ''sacerdote con la vocazione di salvare i sacerdoti''. Desidero, tra le tante raccolte nel libro, presentartene una che mi ha colpito ed entusiasmato particolarmente. ''Veramente amico del Sacerdote è Cristo. Sì, nostro amico, a noi intimissimo, di noi amatissimo; amico prodigo di beni celesti, paziente, longanime, pieno di bontà e di misericordia. Non può forse dire il Sacerdote: ''Jesus meus et omnia?''. Che cos'ha infatti il Sacerdote, se non Gesù? E senza Gesù, che cos'è il Sacerdote? Che Gesù sia l'amico del Sacerdote, è un grande mistero d'amore! Ma che il Sacerdote sia l'amico di Gesù, è una sublime e inaudita degnazione di Lui e incomparabile gloria nostra! Il mondo va dicendo - e non solo il mondo! - che la vita del Sacerdote è un deserto, che il suo cuore è quasi coartato, perché non può godere a buon diritto degli affetti e delle gioie di una famiglia sua. O stoltezza! Non un deserto, ma un Paradiso di delizie è la vita sacerdotale - pur unita alla Croce - perché Cristo Signore è il nostro Paradiso; non un cuore coartato noi abbiamo, ma un cuore dilatato dalla grazia sacerdotale, dilatato come il mondo, dilatato come il Cuore di Gesù, perché in realtà il cuore del Sacerdote è il Cuore di Cristo. Infatti i veri amici hanno un cuore solo, poiché una sola è la loro volontà''. Parole profonde, che Padre Venturini nei suoi sermoni proponeva alla riflessione dei fedeli.

Senza Cristo, il prete non è nulla! Se nella vita del sacerdote viene meno l'intima unione col Cuore Sacratissimo, viene meno il fine della sua stessa missione: portare anime alla salvezza! Una vita santa, quella che il prete deve cercare. Una vita di completa e totale donazione a Dio, che lo ha chiamato alla sublimità del ministero, e ai fratelli che aspettano le grazie di quel ministero! Diceva San Giuseppe Cafasso: ''Ci vuole nientemeno che un'eternità per ringraziare il Signore di averci fatti sacerdoti!''. ''O sacerdos! Tu quis es? ... Nihil et omnia!''.

Carissimo amico e fratello, ho voluto inviarti questa lettera spirituale, io che sono l'ultimo dei chiamati, l'ultima indegna e insufficiente persona che Dio, nella Sua amabilissima bontà, poteva scegliere per questo compito così tanto alto e gravoso! Mi accorgo, però, che Egli, chiamandomi a essere prete, ha fatto la cosa più bella per cui non terminerò mai di ringraziarlo. Quello che ho scritto in questa lettera è rivolto anzitutto a me, che mi preparo, nello studio e nella preghiera, a essere sacerdote misericordioso e fedele! Ho voluto indirizzare questi pensieri a te che condividi con me questa medesima chiamata, come fraterna esortazione a fare sempre e meglio, per rendere questa nostra amata Chiesa ancor più bella! ''Madre de' Santi, immagine della città superna. Del Sangue incorruttibile conservatrice eterna (La Pentecoste, Manzoni )''. Ritengo di aver omesso il più e di aver detto male ciò, che magari, più semplicemente si poteva dire molto meglio.

C’è un personale incoraggiamento, malgrado: fondamentale non è che uno scriva del prete o sul prete, ma che molti, come i preti, scelgano di servire il Risorto nel volto quotidiano dei fratelli. E, coincidenza, nonostante tutto, questo avviene ancora nel mondo e in questa nostra amata Chiesa. Ti affido al Sacratissimo Cuore di Gesù, modello e stile per ogni chiamato. Ora pro me ut saluetur anima mea de inferno!

*Seminarista


                                    seminarista


Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)