00 18/10/2010 19:05
La Chiesa e la questione risorgimentale italiana
 di Antonio Socci

La «rivoluzione italiana» del «risorgimento» fu un’«impresa coloniale» sabauda condotta da una élite liberale avversa alla Chiesa e al Papa. Antonio Socci fa l’elenco degli orrori e dei danni le cui conseguenze ancor oggi patiamo.

[Da AA.VV., Processi alla Chiesa. Mistificazione e apologia, Piemme, Casale Monferrato 1994, pp. 409-434]

    La leggenda nera che vuole la Chiesa Cattolica come una potenza oscurantista, reazionaria e nemica della libertà degli uomini e dei popoli ha un capitolo tutto italiano: si tratta del cosiddetto Risorgimento e della posizione della Santa Sede nelle vicende dell’unificazione italiana del secolo scorso.
    L’argomento ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro: noi — in queste pagine — ci limiteremo solo ad enunciare alcuni dei fatti storici trascurati.

In principio fu il federalismo

    Nel secolo scorso, il più lucido fra i pensatori degli anni Trenta e Quaranta e senz’altro Carlo Cattaneo, storico, economista, politico. Cattaneo, che è la mente del Politecnico, non immaginava davvero, né avrebbe mai voluto, Milano come prefettura di Torino. Scrive Antonio Gramsci: «Il federalismo di Ferrari-Cattaneo fu l’impostazione politico-storica delle contraddizioni esistenti tra il Piemonte e la Lombardia. La Lombardia non voleva essere annessa, come una provincia, al Piemonte: era più progredita, intellettualmente, politicamente, economicamente, del Piemonte. Aveva fatto, con forze e mezzi propri, la sua rivoluzione democratica con le Cinque giornate: era, forse, più italiana del Piemonte, nel senso che rappresentava l’Italia meglio del Piemonte […]. Perché» si chiede dunque Gramsci «accusare il federalismo di aver ritardato il moto nazionale e unitario?» (1).
    Non solo Cattaneo fu il più lucido e affascinante sostenitore della via federalista per l’Italia, ma, nel 1848, giunse addirittura a delineare gli Stati Uniti d’Europa con un anticipo sui tempi della storia che avrebbe evitato, di per sé, due guerre mondiali nel vecchio continente e varie tragedie connesse.
    Se la confederazione europea poteva essere, allora, un sogno, per l’Italia invece il federalismo sembrava la via più naturale e incruenta dell’unificazione. Un’Italia divisa fino ad allora in diversi stati. Si erano già fatti i primi passi: nel novembre 1847 era stato stipulato un accordo doganale fra Piemonte, Toscana e Stato Pontificio che faceva concretamente intravedere ai diversi popoli della penisola una prospettiva federale. Qualcosa di analogo allo Zollverein delle regioni germaniche, ma, se vogliamo, anche al mercato comune europeo attuale. Come oggi sarebbe impensabile una Europa politicamente unita attraverso una guerra di conquista di uno dei suoi stati a danno degli altri, conquistati ed annessi con la forza, così — fino al 1848 — nessuno avrebbe mai potuto gabellare una conquista piemontese della penisola come l’unità d’Italia. Ma è quello che avvenne.
    «La lega doganale» osserva Gramsci «promossa da Cesare Balbo e stretta a Torino il 3 novembre 1847 dai tre rappresentanti del Piemonte, della Toscana e dello Stato pontificio, doveva preludere alla costituzione della Confederazione politica che poi fu disdetta dallo stesso Balbo, facendo abortire anche la lega doganale. La Confederazione era desiderata dagli stati italiani, i reazionari piemontesi (fra cui il Balbo) credendo ormai assicurata l’espansione territoriale del Piemonte, non volevano pregiudicarla con legami che l’avrebbero ostacolata» (2).
    Ma come la Chiesa, il papa e lo Stato pontificio si trovarono a vivere gli avvenimenti di quegli anni?
    Il 16 giugno 1846 il cardinale Giovanni Maria Mastai Ferretti viene eletto papa e prende il nome di Pio IX. Ha fama di liberale e sostenitore della causa nazionale italiana. Appena eletto concede un’amnistia che scatena gli entusiasmi di tutti. Fra l’altro riconosce anche la libertà di stampa, precedendo Leopoldo II di Toscana e Carlo Alberto di Savoia.
    Massimo D’Azeglio e Marco Minghetti, nella loro cosiddetta Epistula ad Romanos proclamano: «Un tale uomo ha fatto più per l’Italia in due mesi, che non hanno fatto in venti anni tutti gli Italiani insieme». Pio IX chiama inoltre al governo dello Stato Pontificio un tecnico di fama europea, un politico liberale, Pellegrino Rossi (in passato perfino coinvolto in cospirazioni democratiche).
    Papa Mastai, come sovrano temporale, lavora assiduamente attorno al progetto di unità federale. Suo delegato alle trattative è Corboli-Bussi, ma egli conta soprattutto sul delegato piemontese, Antonio Rosmini, che aveva in animo di creare cardinale e — nel caso fosse stata realizzata la federazione — di chiamare ad alte cariche presso la Santa Sede. Intanto però a Torino cade il ministero Casati-Gioia-Ricci ed il nuovo governo non rinnova le credenziali a Rosmini. Già nel 1845 fra Carlo Alberto e Massimo D’Azeglio aveva cominciato a prender forma un progetto espansionistico che, in via preliminare, esigeva il naufragio dell’unica realistica via per l’unificazione d’Italia, quella federalista. A Roma gli eventi precipitano. Pellegrino Rossi viene assassinato da radicali estremisti, scoppia la rivoluzione, il papa deve fuggire.
    In pochi mesi si passa dalle acclamazioni per il papa «liberale» e sostenitore della causa italiana alla fuga dello stesso Pio IX da Roma. Com’è possibile? «La situazione precipita e si svolge in quattro tappe fatali: 10 febbraio Motu proprio “Benedite, Gran Dio, l’Italia”; 29 aprile Allocuzione Non semel contro la guerra all’Austria; 15 novembre uccisione di Pellegrino Rossi; 24 novembre fuga a Gaeta» (3).
    Già prima, i gruppi repubblicani e settari si erano inseriti nell’euforia popolare per il papa e avevano preso ad esaltarlo ipocritamente cercando di usarne l’immagine per i loro scopi e soprattutto cercando di trascinare la Santa Sede in una guerra contro l’Austria (4) che mai il papa avrebbe potuto fare (peraltro l’Austria aveva già minacciato uno scisma se si fosse trovata in guerra contro un esercito mandato dal papa). Il papa manifestava a Carlo Alberto la sua netta volontà di sottrarsi a questa strumentalizzazione politica: «Qui dagli esaltati si vuole assolutamente che io pronunci la parola — guerra — cosa che non debbo fare. […] Dico che il papa non fa la guerra a nessuno, ma nel tempo stesso non può impedire che il desiderio ardente della nazionalità italiana non spinga oltre i confini le truppe comandate dal general Durando. Dico infine che rinuncio francamente ai progetti seduttori dei repubblicani che vorrebbero fare dell’Italia una Repubblica sola con il papa alla testa. Dico di rinunciarvi perché dannosi immensamente all’Italia e perché la S. Sede non ha intenzione e non l’ebbe mai di dilatare i suoi temporali domini, ma quelli bensì del Regno di Gesù Cristo» (5).
    In questo documento Pio IX si spinge fino al limite estremo in cui era possibile spingersi ad un Successore di Pietro: la disponibilità a chiudere un occhio su ciò che le truppe dello Stato pontificio avessero eventualmente deciso autonomamente. Eppure si accusò Pio IX di tradimento, accollando a Roma il peso della sconfitta. Secondo Gramsci la responsabilità fu piuttosto del governo piemontese: «Essi furono di un’astuzia meschina, essi furono la causa del ritirarsi degli eserciti degli altri Stati italiani, napoletani e romani, per aver troppo presto mostrato di volere l’espansione piemontese e non una confederazione italiana» (6).
    Da questo momento in poi nasce la leggenda nera su Pio IX. Non solo la leggenda nera della storiografia liberale...
    «Più strano ancora, per me» osserva padre Guido Sommavilla sj «è che interpretino ormai in questo quadro l’Ottocento anche storici cattolici, monsignori e gesuiti oltre che laici (Jemolo, Jedin, Martina, Aubert), occupandosi di papi [...] e soprattutto di Pio IX (ritenuto) “papa santo, ma pessimo politico”».
    Il papa, dunque, avrebbe sbagliato a non cedere subito e su tutto «ai liberali che si comportavano a quel modo, pronti ad uccidere i migliori politici suoi amici (Pellegrino Rossi, Moreno, Leu) e saltargli addosso se non si arrendeva a discrezione (Repubblica romana) e a porre sotto sequestro i beni e le proprietà della Chiesa ovunque arrivavano al potere, ignominiosamente poi mercanteggiandoli?».
    E perché avrebbe dovuto cedere? «Proprio perché Pio IX era intelligente, capiva bene che in tutti quei sequestri (o regali eventualmente) erano i poveri a perderci: i poveri contadini... e i poveri semplicemente, ai quali, allora, soltanto la Chiesa pensava, anche con i redditi di quei benefici. Magari intuiva pure che quelle terre incamerate e vendute ci avrebbero rimesso in senso perfino ecologico, con l’insensato sfruttamento che Stato e borghesi ne avrebbero fatto, a cominciare dal patrimonio boschivo» (7). Nel marzo 1929 La Civiltà cattolica così rievoca le posizioni: «Cominciando da Pio IX, fino al più semplice prete di contado, l’unità italiana non era avversata da nessuno. Si potrebbe anche dimostrare perentoriamente che all’invito di Pio IX, nel 1848, per una lega italiana e per l’unione politica dell’Italia, chi si oppose fu il solo ministero piemontese. Il clero italiano, e ciò è da porsi fuori da ogni dubbio per chi non voglia negare la luce meridiana, non s’oppose all’unità, ma la voleva in modo diverso in quanto all’esecuzione. Questa era l’idea di Pio IX, dell’alta gerarchia, dei cardinali e dello stesso antico partito conservatore piemontese (Solaro della Margherita, nda)». 

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ontinua.............
 
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)