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DOSSIER DA AVVENIRE

3 Marzo 2010

1 - ANDREA RICCARDI

I credenti che fecero l’impresa

I cattolici e l’Unità d’Italia/1: Come il processo di unificazione è stato influenzato dalla Chiesa, e viceversa.
«Per il centenario dell’Unità d’Italia del 1961, mio padre mi portò a Torino: ricordo i musei, l’esaltazione del Risorgimento, la monorotaia che attraversava lo spazio espositivo. Ma ricordo soprattutto il clima di un Paese che guardava al futuro. E futuro in quegli anni significava sviluppo e lavoro per tutti. Cinquant’anni dopo, ho la sensazione che l’Italia abbia un po’ perso l’attitudine a guardare lontano». Andrea Riccardi, professore di Storia contemporanea alla terza università di Roma e fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ritiene che le celebrazioni per il 150° anniversario della nascita dello Stato italiano dovrebbero costituire l’occasione per una riflessione «con categorie nuove non solo sul passato, ma sull’oggi e sul domani» del nostro Paese.

Professor Riccardi, c’è chi ritiene che i mali italiani siano tutti legati a nodi irrisolti lasciati dal Risorgimento e dall’Italia post-unitaria. Lei che ne pensa?
«Io non concordo con la tesi di chi spiega tutto individuando una sorta di peccato d’origine. Sarebbe troppo facile, la storia è più complessa. Non bisogna dimenticare che il nostro Paese che ha avuto sempre una cultura unitaria italiana – anche se a livello di <+corsivo>élites<+tondo> – molto prima del processo d’unità. I 150 anni di storia italiana non riguardano solo il Risorgimento. Ci sono state due guerre mondiali, il fascismo, la ricostruzione. E l’ultimo mezzo secolo è la stagione del boom economico, della Repubblica, sono, se vogliamo, gli anni democristiani. È facile discutere di Garibaldi, Pio IX, Mazzini e Cavour. Più difficile, ma sicuramente più fruttuoso per capire l’Italia di oggi, affrontare una serie di buchi neri della nostra storia più recente: dal fascismo fino alla stagione di Tangentopoli e oltre. Una stagione complessa, discussa e discutibile, ma anche una storia ricca di dignità».

Uno dei capitoli irrisolti del Risorgimento fu la questione cattolica.
«Ludovico Montini, il fratello di Paolo VI, mi raccontò l’amara esperienza dei giovani cattolici durante la Grande Guerra: ora, dicevano, ci hanno visto combattere e non potranno più dire che non siamo italiani. In quella frase si intuiva la condizione di divorzio fra il movimento cattolico e la Nazione, dovuto all’irrisolto problema dell’indipendenza del Papa, alla breccia di Porta Pia, eccetera. Nonostante la politica anticlericale dei governi unitari, con il passare degli anni la maggior parte dei cattolici italiani non contestò l’Italia unita, ma chiese semmai il riconoscimento dei diritti e dello spazio del papa. Molta acqua è passata sotto i ponti: basti pensare che nel 1919 don Luigi Sturzo fondava un partito nazionale d’ispirazione cristiana. In anni più recenti, non posso dimenticare che il cardinale Giovanni Battista Montini, in occasione del centenario dell’Italia unita, disse che era stata la Provvidenza a far finire la fase del potere temporale. Mentre Giovanni Paolo II lanciò, nel marzo 1994, in un momento in cui sembrarono prevalere spinte secessioniste, la "Grande preghiera per l’Italia"».

Si può sostenere che l’unità d’Italia abbia favorito la nascita di un cattolicesimo nazionale?
«Le diocesi italiane prima dell’unità erano dei mondi a parte. Basti pensare al Regno borbonico, dove – come notò Gabriele De Rosa – ci fu una sorta di barriera nei confronti del Concilio di Trento. O al mondo toscano o a quello piemontese, permeato di elementi di gallicanesimo. L’unificazione nazionale diventa un momento di unità anche per la Chiesa: si formano l’Opera dei Congressi, l’Azione cattolica; i salesiani dal Piemonte si diffondono nel Mezzogiorno; i rogazionisti fanno il cammino inverso. La stessa Conferenza episcopale italiana, voluta da Pio XII e rafforzata da Paolo VI, nasce dall’idea, maturata negli anni post-unitari, di una Chiesa italiana. E, dopo quasi sessant’anni dalla sua fondazione, la Cei sta ad attestare non solo la nascita e l’affermazione di un cattolicesimo italiano, ma anche di un episcopato che vuole vivere nella nazione, condividendone la storia complessa e i momenti difficili».

La questione meridionale sembra però essere un problema che ci trasciniamo dai tempi di Cavour a oggi…
«Il dibattito sul meridione è stato caratterizzato da due teorie opposte: da una parte si parlò di annessione del Sud, dall’altra ci fu la polemica sulla crescente meridionalizzazione delle classi dirigenti. C’era del vero in entrambi le affermazioni, ma complessivamente credo si possa dire che oggi, nonostante la presenza di leghe settentrionali e movimenti meridionali, il Paese sia più unito di qualche decennio fa. Riproporre pertanto nel Duemila l’antica categoria della contrapposizione Nord-Sud, credo sia un errore di prospettiva. Non perché non vi siano divari, ma perché la carta geografica, così come la si vedeva mezzo secolo fa, va aggiornata. Intanto, non esiste un Mezzogiorno, ma diversi Mezzogiorni: non sfugge a nessuno che la situazione sociale e culturale in Sicilia sia diversa da quella della Puglia o della Campania. Poi le grandi città stanno via via perdendo una caratterizzazione regionale netta e, infine, l’Italia da terra di emigrazione è diventata terra di accoglienza».

C’è l’annosa questione della scarsa propensione al senso civico, rispetto agli altri europei, dei nostro connazionali. Gli italiani sono ancora da fare?
«Sono note le polemiche sul familismo italiano, la scarsa attitudine al senso dello Stato, la presenza del cattolicesimo che, a differenza dei Paesi protestanti, avrebbe educato poco all’etica della responsabilità. Sono discorsi complessi. Credo che, in estrema sintesi, si possa dire questo: per una serie di fattori, gli italiani non saranno mai, in quanto a senso dello Stato, come i popoli scandinavi. Ma in Italia si è sviluppata una rete comunitaria, locale e familiare che ha supplito alle carenze pubbliche in nome di una solidarietà concreta: pensiamo solo alla diffusione del volontariato. C’è stata a questo riguardo la polemica, che mi ha un po’ infastidito, sui "bamboccioni", ovvero sui ragazzi che in Italia compiono gli studi universitari continuando ad abitare nella casa dei genitori. Ma dove sta scritto che sia meglio che questi ragazzi usufruiscano dei servizi dello Stato piuttosto che della propria famiglia?».

Giovanni Grasso


[Modificato da Caterina63 28/03/2010 21:27]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)