00 03/07/2010 00:53
Un accumulo tranquillizzante e illusorio

L'inganno dell'avarizia


Pubblichiamo in anteprima ampi stralci di uno degli articoli del numero in uscita della rivista "La Civiltà Cattolica".

di Giovanni Cucci


La riflessione di tutti i tempi ha riconosciuto il fascino che il denaro esercita su chi lo possiede e ancora di più su chi non lo possiede, dando origine al vizio noto come avarizia. Aristotele raccomanda di essere liberali circa i beni materiali, cioè di vivere il giusto mezzo, badando a che essi rimangano strumenti che consentono di vivere, mentre attaccarsi a essi è segno di ingiustizia:  "Poiché l'uomo ingiusto è un uomo che desidera avere di più, egli avrà a che fare con i beni:  non con tutti, ma con quelli cui sono relativi la buona sorte e la cattiva, i quali sono sempre beni in senso assoluto, ma non sempre per qualcuno. Gli uomini li chiedono nelle loro preghiere e li perseguono; ma si deve pregare che quelli che sono beni in senso assoluto lo siano anche per noi, e scegliere quelli che sono beni per noi".

Il pericolo dell'attaccamento alle cose è un tema molto presente nella Bibbia:  "Non affannarti per accumulare ricchezze, sii intelligente e rinuncia. Su di esse volano i tuoi occhi ma già non ci sono più:  perché mettono ali come aquila e volano verso il cielo" (Proverbi, 23, 4-5); "Non confidare nelle tue ricchezze e non dire "Basto a me stesso"" (Siracide, 5, 1); "L'insonnia del ricco consuma il corpo, i suoi affanni gli tolgono il sonno" (Siracide, 31, 1).

Per san Tommaso si tratta di una deriva presente anche negli altri vizi capitali, perché mostra l'elemento comune dell' "appetito disordinato", proteso verso ogni possibile bene, senza che sia presente una reale necessità. La ragione "formale" che fa dell'avarizia un vizio non è tanto mostrare un interesse speciale per il denaro e le cose in genere, ma che esse assumano un valore simbolico spropositato, divenendo sinonimo di stima, pace, sicurezza, potere.

Non si può certamente sostenere che l'avarizia sia un vizio attualmente biasimato, anzi una società che cerca di trasformare ogni tipo di avvenimento in valutazione monetaria - tale è in sostanza l'andamento della Borsa - difficilmente potrebbe stigmatizzare l'avarizia. Oscar Wilde lo aveva riconosciuto più di un secolo fa con il solito tagliente humour:  "Al giorno d'oggi i giovani credono che il denaro sia tutto. È solo quando diventano più vecchi che sanno che è così".

Questo generale consenso nei confronti di "sua maestà il denaro" si nota anche dallo spazio che i media dedicano a coloro che vengono impropriamente chiamati vip, posti al vertice di imprese, banche, istituti:  essi sembrano diventati i nuovi sacerdoti del tempio in cui si celebra il culto dell'uomo moderno. Quando queste persone vengono intervistate o descritte in qualche articolo, raramente è mostrata l'altra faccia della medaglia, cioè il prezzo pagato per tutto questo, non solo in termini di compromessi, ma soprattutto circa le persone, spesso i più deboli, che hanno fatto le spese di questa vittoriosa ascesa, trovandosi economicamente rovinati.

Anche lo sviluppo storico della società europea ha indubbiamente contribuito al formarsi di questa mentalità, nient'affatto ovvia e scontata:  si ricordi, ad esempio, la sorpresa degli esploratori dei secoli scorsi nel notare l'assenza di avidità presso molti popoli, ingiustamente definiti "primitivi". Tale confronto tuttavia non ha minimamente messo in discussione le convinzioni dell'uomo europeo in proposito:  se, a partire da Cartesio, ha cominciato a dubitare di tutto, il denaro non ha mai conosciuto questa rivisitazione critica propria della modernità, non è mai stato attraversato da perplessità di alcun genere. Riprendendo Cartesio, la moneta potrebbe anzi essere qualificata come una delle poche "idee chiare e distinte" che si impongono con la loro evidenza.

Come nota con acume Péguy: 
"Per la prima volta nella storia del mondo il denaro è solo davanti a Dio.
Ha raccolto in sé tutto quanto c'era di velenoso nel temporale e adesso è fatta. Per non si sa quale aberrazione di meccanismo, per uno svisamento, per un disordine, per un mostruoso impazzimento della meccanica, quello che doveva servire soltanto allo scambio ha completamente invaso il valore da scambiare. Non bisogna, dunque, dire solamente che nel mondo moderno la scala dei valori è stata capovolta. Bisogna dire che è stata annientata dacché l'apparato di misura, di scambio e di valutazione ha invaso tutto il valore che esso doveva servire a misurare, scambiare, valutare. Lo strumento è diventato la materia, l'oggetto e il modo".

Questa mentalità, che di fatto ammira chi si arricchisce a qualunque costo anche se in apparenza lo condanna - ma forse alla base di ciò si trova un altro vizio, l'invidia - può trovare una conferma nelle difficoltà giuridiche di valutare la gravità di tali azioni.
Si nota infatti una certa macchinosa fatica a riconoscere e, di conseguenza, a punire in modo appropriato chi si impossessa del denaro altrui in modo sofisticato, calpestando con la massima tranquillità la fiducia di ignari clienti e risparmiatori pur di ricavarne vantaggi, con conseguenze disastrosesu scala planetaria, come si può notare dall'attuale  crisi economica.

Anche se con il termine "avarizia" si intende propriamente l'attaccamento alle cose in genere, di fatto essa è stata considerata dalla riflessione letteraria e filosofica per lo più nella sua accezione specifica di philargyrìa, "amore per l'argento", riconoscendo nel denaro l'elemento rappresentativo di tutto quello che può essere utile e servire in ogni circostanza.
Chi ha riflettuto su questo vizio nota che non è il bisogno a muovere l'avaro ma il potere; egli spera che con l'accumulo potrà disporre come vuole della propria vita, scacciando l'ansia dell'insicurezza e della dipendenza dagli altri, mettendosi al riparo dai capricci della fortuna, dalle possibili calamità stagionali e, in ultima analisi, anche da Dio.

E con il tempo tale vizio acceca e rende capaci delle cose più orribili pur di aumentare la propria ricchezza. L'avarizia risulta perciò estremamente difficile da estirpare, perché penetra con soavità nel profondo del cuore umano, generando altre cattive disposizioni. È questa sua dinamica ramificata a renderla un vizio capitale.

Questa è una delle ragioni per cui, secondo san Tommaso, l'avarizia è un male molto difficile da guarire, "a causa della condizione del soggetto, poiché la vita umana è continuamente esposta alla mancanza, ma ogni mancanza spinge all'avarizia:  per questo, infatti, si ricercano i beni temporali, affinché sia portato rimedio alla mancanza della vita presente".

Bosch raffigura l'avarizia nelle vesti di un giudice corrotto che sembra ascoltare un contadino che gli chiede giustizia, ma tutta l'attenzione è concentrata nella sua mano sinistra che si appresta a ricevere una pesante borsa di monete per emettere una sentenza addomesticata.

Le considerazioni fin qui svolte mostrano come l'avarizia non consista essenzialmente nel fatto di possedere molti beni e nemmeno di per sé è sinonimo di ricchezza; è piuttosto la brama e l'avidità di possesso che indurisce il cuore e conduce alla presunzione di autosufficienza. Questa è la ragione per cui è stata strettamente associata alla superbia, all'invidia - perché vorrebbe possedere i beni degli altri - all'ira, qualora si perdano gli agognati beni o non risulti possibile conseguirli. Si tratta dunque di un vizio essenzialmente affettivo e spirituale:  "Rivolto al superfluo, il desiderio dell'avaro non può che essere infinito, ma, nella misura in cui è infinito, è anche necessariamente frustrato, poiché le ricchezze, quali e quante che siano, sono sempre comunque finite".

Da qui l'aspetto religioso dell'avarizia, perché il denaro fornisce l'illusione di essere onnipotenti:  per sua natura consente un'autosufficienza che nessun altro oggetto potrebbe fornire. Per Péguy esso è l'unica alternativa veramente atea a Dio, perché dà l'illusione di poter ottenere tutto, poiché ogni realtà può essere trasformata in denaro, che a sua volta consente di entrare in possesso di ogni cosa. Marx, analizzando la mentalità capitalista frutto della rivoluzione industriale, ha notato con acume e incisività il suo carattere essenzialmente religioso, cioè di consacrazione di tutto il proprio essere a una realtà considerata come assoluta, superiore a ogni altra.

Il denaro è il nuovo dio, il centro dell'universo capace di far girare attorno a sé ogni cosa, con esso ci si può sentire onnipotenti. L'avarizia, poiché non riguarda un bisogno del corpo, né tende a un piacere a esso proprio, ricerca una soddisfazione di tipo affettivo ma insieme impalpabile, legata all'immaginazione. Questo carattere spirituale dell'avarizia è ben mostrato dal suo oggetto basilare, il denaro, che ha in sé una componente essenzialmente simbolica, di rimando ad altro:  è un semplice pezzo di carta, ma consente l'accesso ad altre cose, fornendo in tal modo onori e considerazioni.

L'avarizia appare così come una forma mondana di consacrazione a un idolo, qualcosa cui si è disposti a offrire tutta la propria vita, sacrificando per esso anzitutto la propria libertà e dignità. In questo vizio si nota una situazione capovolta anche a proposito della pratica di mortificazione e penitenza; l'avaro si impone un'ascesi in vista del futuro, centellinando il presente invece di viverlo. Dante mostra questo carattere peculiare mediante uno schizzo folgorante; nel canto vii dell'Inferno sottolinea che gli avari risorgeranno con il pugno chiuso, a simboleggiare la loro maniera di approccio alla vita, agli altri e ai beni, che si è ormai cristallizzata per sempre. Per Dante, sono il gruppo più numeroso che si trova all'inferno:  "Qui vidi gente più che altrove troppa" nota con sarcasmo.

C'è un legame stretto tra avarizia e solitudine:  l'avaro si trova a suo agio soltanto in compagnia delle cose, l'unica realtà di cui può fidarsi. L'avaro si è fossilizzato, diventando una cosa sola con le ricchezze accumulate, assumendo la medesima fissità impersonale delle cose; il che è come dire che è già morto, come un faraone sepolto nella sua piramide.


(©L'Osservatore Romano - 3 luglio 2010)
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)