00 03/01/2012 21:53

Il Papa e la storia

di LUCETTA SCARAFFIA

"La questione centrale, sottesa alle scelte da compiere, sta ancora una volta nel tipo di rapporto che la Chiesa di Roma intende stabilire con la storia: sta, per dire più precisamente, nel suo modo di pensarsi nella storia: riconosce di farne pienamente parte, come ne fa parte il Vangelo cui si richiama, o se ne sottrae, perché portatrice, intangibile dalle contingenze umane, di un messaggio che ha saputo mantenere inviolato e inalterato nel corso di duemila anni?". [SM=g1740729]

Con queste parole lo storico Giovanni Miccoli sintetizza il suo lungo discorso critico nei confronti di Benedetto XVI nel recente volume La Chiesa dell'anticoncilio. I tradizionalisti alla riconquista di Roma (Laterza). Una requisitoria, la sua, fondata sulla consultazione di una massa di testi e documenti e che si basa su una lettura del concilio Vaticano II come momento di rottura di un secolare immobilismo.


Con il concilio, finalmente, la Chiesa si sarebbe messa al passo con la storia, accogliendo in quegli anni la modernità. Secondo lo studioso, quindi, la Chiesa avrebbe accettato di ridiscutere tutta la sua cultura e tutta la sua tradizione alla luce di quel cambiamento radicale che ha segnato le società occidentali del XIX e XX secolo.

L'accento sulla mancata attenzione alla storia e sul rifiuto di prenderla in considerazione da parte di Benedetto XVI - che, proprio a causa di questa presunta rimozione, viene accusato da Miccoli di rifuggire dalle distinzioni e quindi di indulgere a una "semplificazione banalizzante" - costituisce infatti l'asse portante di questo libro.

Stupisce in uno storico di vaglia - il quale, come si deduce dalle note, ha letto almeno qualche opera di Ratzinger - l'assoluta incapacità di riconoscere che il teologo oggi Papa ha sempre rivelato una straordinaria attenzione per gli aspetti storici di questioni e problemi; cercando sempre, poi, anche nei suoi interventi, di offrire un'interpretazione storica del momento che stiamo vivendo ricca di richiami all'attualità e alle sue trasformazioni. [SM=g1740721] 

Parlare di ricerca della verità e accusare il pensiero contemporaneo di relativismo non significa certo negare la storia. Significa piuttosto dare della storia un'interpretazione che non piace all'autore del libro, ma questa è cosa ben diversa.

Per Miccoli la storia sembra identificarsi soltanto con quella degli anni sessanta, cioè con la temperie culturale che è stata il contesto del Vaticano II e dei suoi documenti. [SM=g1740729] Come se tutto ciò che è successo dopo - l'applicazione cioè di quei testi, ma anche il fallimento delle utopie della modernità allora predicate nella società, nonché l'emergere di nuovi gravi problemi, quali le questioni bioetiche - non fosse anch'esso storia, e non meritasse oggi attenzione e critica. E, di conseguenza, non sollecitasse uno sguardo diverso sul concilio, diverso da quello dei suoi contemporanei. Uno sguardo storico, appunto.

Così come storico è lo sguardo da portare sulle fratture e sulle opposizioni nate negli anni del Vaticano II. Il fatto che sia passato mezzo secolo da quei tempi significa ovviamente che se ne può tentare un bilancio differente, che utilizza quali elementi di giudizio non solo proclamazioni teoriche, necessariamente datate, ma anche il comportamento degli oppositori nei decenni successivi.

La storia che secondo Miccoli dovrebbe entrare nei discorsi del Papa è sempre quella passata, e più precisamente quella che si svolgeva durante il concilio e ne influenzava ovviamente le decisioni; come se soltanto gli avvenimenti che piacciono e che si condividono siano meritevoli di essere considerati storici. Gli altri devono essere archiviati come resistenze, opposizioni, immobilismi.
Si tratta di una concezione della storia perlomeno discutibile, di cui è portatore non solo Miccoli, ma altri storici della Chiesa e in particolare del Vaticano II, i quali in questo modo arrivano facilmente a concludere ciò che a loro preme di più: che cioè i tradizionalisti - con il Papa in testa - sarebbero alla riconquista della Chiesa
. [SM=g1740721] 


Ma perché il modo di riflettere di Benedetto XVI, chiaramente espresso nei suoi libri e nei suoi interventi, e quindi accessibile a chiunque cerchi seriamente di capire, troppo spesso non viene letto nella sua originalità e novità? Perché ogni cosa che egli dice deve per forza rientrare nei logori schemi dei progressisti e dei conservatori, che in fondo erano stati già messi in crisi dallo stesso Papa del concilio, Paolo VI, con la pubblicazione dell'Humanae vitae?

È come se la schematicità della visione politica del nostro tempo facesse velo a una vera e libera interpretazione - che naturalmente può essere anche critica - di questo pontificato che, in qualsiasi modo lo si voglia giudicare, si sta rivelando sempre più sorprendente e interessante. Gli storici ci metteranno cento anni per capirlo? Speriamo di no.



(©L'Osservatore Romano 4 gennaio 2012)

[SM=g1740771] studiate, studiate, studiate, cari critici, altrimenti tacete!!


Ottimo anche il commento dal BlogRaffaella
Il Papa e la storia. Lucetta Scaraffia risponde a tono ed in modo straordinariamente pungente all'autore dell'ennesimo libro contro Benedetto XVI

[SM=g1740733]


CAPPELLA PAPALE

MISSA PRO ELIGENDO ROMANO PONTIFICE

OMELIA DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER
DECANO DEL COLLEGIO CARDINALIZIO

Patriarcale Basilica di San Pietro
Lunedì 18 aprile 2005

 

Is 61, 1 - 3a. 6a. 8b - 9
Ef 4, 11 - 16
Gv 15, 9 - 17

In quest’ora di grande responsabilità, ascoltiamo con particolare attenzione quanto il Signore ci dice con le sue stesse parole. Dalle tre letture vorrei scegliere solo qualche passo, che ci riguarda direttamente in un momento come questo.

La prima lettura offre un ritratto profetico della figura del Messia – un ritratto che riceve tutto il suo significato dal momento in cui Gesù legge questo testo nella sinagoga di Nazareth, quando dice: “Oggi si è adempiuta questa scrittura” (Lc 4, 21). Al centro del testo profetico troviamo una parola che – almeno a prima vista – appare contraddittoria. Il Messia, parlando di sé, dice di essere mandato “a promulgare l’anno di misericordia del Signore, un giorno di vendetta per il nostro Dio.” (Is 61, 2). Ascoltiamo, con gioia, l’annuncio dell’anno di misericordia: la misericordia divina pone un limite al male - ci ha detto il Santo Padre. Gesù Cristo è la misericordia divina in persona: incontrare Cristo significa incontrare la misericordia di Dio. Il mandato di Cristo è divenuto mandato nostro attraverso l’unzione sacerdotale; siamo chiamati a promulgare – non solo a parole ma con la vita, e con i segni efficaci dei sacramenti, “l’anno di misericordia del Signore”. Ma cosa vuol dire Isaia quando annuncia il “giorno della vendetta per il nostro Dio”? Gesù, a Nazareth, nella sua lettura del testo profetico, non ha pronunciato queste parole – ha concluso annunciando l’anno della misericordia. É stato forse questo il motivo dello scandalo realizzatosi dopo la sua predica? Non lo sappiamo. In ogni caso il Signore ha offerto il suo commento autentico a queste parole con la morte di croce. “Egli portò i nostri peccati nel suo corpo sul legno della croce…”, dice San Pietro (1 Pt 2, 24). E San Paolo scrive ai Galati: “Cristo ci ha riscattati dalla maledizione della legge, diventando lui stesso maledizione per noi, come sta scritto: Maledetto chi pende dal legno, perché in Cristo Gesù la benedizione di Abramo passasse alle genti e noi ricevessimo la promessa dello Spirito mediante la fede” (Gal 3, 13s).

La misericordia di Cristo non è una grazia a buon mercato, non suppone la banalizzazione del male. Cristo porta nel suo corpo e sulla sua anima tutto il peso del male, tutta la sua forza distruttiva. Egli brucia e trasforma il male nella sofferenza, nel fuoco del suo amore sofferente. Il giorno della vendetta e l’anno della misericordia coincidono nel mistero pasquale, nel Cristo morto e risorto. Questa è la vendetta di Dio: egli stesso, nella persona del Figlio, soffre per noi. Quanto più siamo toccati dalla misericordia del Signore, tanto più entriamo in solidarietà con la sua sofferenza – diveniamo disponibili a completare nella nostra carne “quello che manca ai patimenti di Cristo” (Col 1, 24).

Passiamo alla seconda lettura, alla lettera agli Efesini. Qui si tratta in sostanza di tre cose: in primo luogo, dei ministeri e dei carismi nella Chiesa, come doni del Signore risorto ed asceso al cielo; quindi, della maturazione della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, come condizione e contenuto dell’unità nel corpo di Cristo; ed, infine, della comune partecipazione alla crescita del corpo di Cristo, cioè della trasformazione del mondo nella comunione col Signore.

Soffermiamoci solo su due punti. Il primo è il cammino verso “la maturità di Cristo”; così dice, un po’ semplificando, il testo italiano. Più precisamente dovremmo, secondo il testo greco, parlare della “misura della pienezza di Cristo”, cui siamo chiamati ad arrivare per essere realmente adulti nella fede. Non dovremmo rimanere fanciulli nella fede, in stato di minorità. E in che cosa consiste l’essere fanciulli nella fede? Risponde San Paolo: significa essere “sballottati dalle onde e portati qua e là da qualsiasi vento di dottrina…” (Ef 4, 14). Una descrizione molto attuale!

Quanti venti di dottrina abbiamo conosciuto in questi ultimi decenni, quante correnti ideologiche, quante mode del pensiero... La piccola barca del pensiero di molti cristiani è stata non di rado agitata da queste onde - gettata da un estremo all’altro: dal marxismo al liberalismo, fino al libertinismo; dal collettivismo all’individualismo radicale; dall’ateismo ad un vago misticismo religioso; dall’agnosticismo al sincretismo e così via. Ogni giorno nascono nuove sette e si realizza quanto dice San Paolo sull’inganno degli uomini, sull’astuzia che tende a trarre nell’errore (cf Ef 4, 14). Avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni. Si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie.

Noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. É lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. É quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede - solo la fede - che crea unità e si realizza nella carità. San Paolo ci offre a questo proposito – in contrasto con le continue peripezie di coloro che sono come fanciulli sballottati dalle onde – una bella parola: fare la verità nella carità, come formula fondamentale dell’esistenza cristiana. In Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna” (1 Cor 13, 1).

Veniamo ora al Vangelo, dalla cui ricchezza vorrei estrarre solo due piccole osservazioni. Il Signore ci rivolge queste meravigliose parole: “Non vi chiamo più servi… ma vi ho chiamato amici” (Gv 15, 15). Tante volte sentiamo di essere - come è vero - soltanto servi inutili (cf Lc17, 10). E, ciò nonostante, il Signore ci chiama amici, ci fa suoi amici, ci dona la sua amicizia. Il Signore definisce l’amicizia in un duplice modo. Non ci sono segreti tra amici: Cristo ci dice tutto quanto ascolta dal Padre; ci dona la sua piena fiducia e, con la fiducia, anche la conoscenza. Ci rivela il suo volto, il suo cuore. Ci mostra la sua tenerezza per noi, il suo amore appassionato che va fino alla follia della croce. Si affida a noi, ci dà il potere di parlare con il suo io: “questo è il mio corpo...”, “io ti assolvo...”. Affida il suo corpo, la Chiesa, a noi. Affida alle nostre deboli menti, alle nostre deboli mani la sua verità – il mistero del Dio Padre, Figlio e Spirito Santo; il mistero del Dio che “ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito” (Gv 3, 16). Ci ha reso suoi amici – e noi come rispondiamo?

Il secondo elemento, con cui Gesù definisce l’amicizia, è la comunione delle volontà. “Idem velle – idem nolle”, era anche per i Romani la definizione di amicizia. “Voi siete miei amici, se fate ciò che io vi comando” (Gv 15, 14). L’amicizia con Cristo coincide con quanto esprime la terza domanda del Padre nostro: “Sia fatta la tua volontà come in cielo così in terra”. Nell’ora del Getsemani Gesù ha trasformato la nostra volontà umana ribelle in volontà conforme ed unita alla volontà divina. Ha sofferto tutto il dramma della nostra autonomia – e proprio portando la nostra volontà nelle mani di Dio, ci dona la vera libertà: “Non come voglio io, ma come vuoi tu” (Mt 21, 39). In questa comunione delle volontà si realizza la nostra redenzione: essere amici di Gesù, diventare amici di Dio. Quanto più amiamo Gesù, quanto più lo conosciamo, tanto più cresce la nostra vera libertà, cresce la gioia di essere redenti. Grazie Gesù, per la tua amicizia!

L’altro elemento del Vangelo - cui volevo accennare - è il discorso di Gesù sul portare frutto: “Vi ho costituito perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga” (Gv 15, 16). Appare qui il dinamismo dell’esistenza del cristiano, dell’apostolo: vi ho costituito perché andiate… Dobbiamo essere animati da una santa inquietudine: l’inquietudine di portare a tutti il dono della fede, dell’amicizia con Cristo. In verità, l’amore, l’amicizia di Dio ci è stata data perché arrivi anche agli altri. Abbiamo ricevuto la fede per donarla ad altri – siamo sacerdoti per servire altri. E dobbiamo portare un frutto che rimanga. Tutti gli uomini vogliono lasciare una traccia che rimanga. Ma che cosa rimane? Il denaro no. Anche gli edifici non rimangono; i libri nemmeno. Dopo un certo tempo, più o meno lungo, tutte queste cose scompaiono. L’unica cosa, che rimane in eterno, è l’anima umana, l’uomo creato da Dio per l’eternità. Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane – l’amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l’anima alla gioia del Signore. Allora andiamo e preghiamo il Signore, perché ci aiuti a portare frutto, un frutto che rimane. Solo così la terra viene cambiata da valle di lacrime in giardino di Dio.

Ritorniamo infine, ancora una volta, alla lettera agli Efesini. La lettera dice - con le parole del Salmo 68 - che Cristo, ascendendo in cielo, “ha distribuito doni agli uomini” (Ef 4, 8). Il vincitore distribuisce doni. E questi doni sono apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri. Il nostro ministero è un dono di Cristo agli uomini, per costruire il suo corpo – il mondo nuovo. Viviamo il nostro ministero così, come dono di Cristo agli uomini! Ma in questa ora, soprattutto, preghiamo con insistenza il Signore, perché dopo il grande dono di Papa Giovanni Paolo II, ci doni di nuovo un pastore secondo il suo cuore, un pastore che ci guidi alla conoscenza di Cristo, al suo amore, alla vera gioia. Amen.



[Modificato da Caterina63 09/02/2016 19:59]
Fraternamente CaterinaLD

"Siamo mendicanti e chiediamo agli altri anche le loro idee, come la staffetta della posta che riceve il documento dalle mani di uno e poi corre per darlo ad un altro. Faccio una timida parafrasi delle parole di chi ci ha preceduto nel cammino della fede, per annunciarle ad altri."
(fr. Carlos Alfonso Azpiroz Costa OP
Maestro dell’Ordine)